domenica 23 dicembre 2012

Che ne è?




Indice

1. Momenti che non sono più
2. Precarietà e permanenza
3. L’apparente mancanza di significato di ciò che accade
4. Storie senza storia ma nel tempo
5. L’ambiguità del concetto di “significato”
Conclusioni





1. Momenti che non sono più

A volte, al semaforo, mi capita di prendere coscienza del fatto che “sto aspettando il verde”. Mi rendo conto di essere lì e di aspettare un particolare evento che però non si verifica, perché il rosso permane. Ho in mente di muovermi e di arrivare a quella curva con i palazzi, ma sono intrappolato nella temporanea eternità del rosso che esclude il mio movimento. Potrei essere là, ma sono ancora qui. Fermo. Costretto a restare. Perso nell’immobilità. Poi scatta il verde e sono in movimento. Ho già ingranato la terza marcia. In quarta sto raggiungendo quei palazzi. Ora, quella "eternità del rosso” che mi bloccava, all’improvviso è scomparsa ed è addirittura diventata “impossibile”. Non c’è più, non può più esserci, fino alla fine del mondo. Cancellata per sempre. Se facessi un largo giro e tornassi allo stesso stupido semaforo e trovassi un altro stupido rosso, non tornerei a fare quell’esperienza, perché sarei irrimediabilmente inserito in un’altra realtà, in un’altra contingenza della storia dell’universo. Sono già arrivato alla curva dei palazzi e quella sosta forzata in cui attendevo un futuro che ora è il mio presente, è diventata storia, è memoria, non è più nulla, se non nella mia coscienza. Forse esiste solo nella mia coscienza perché, probabilmente, tutte le altre persone che erano “oppresse” come me dal “rosso-che-permaneva” non stanno pensando, ora, né di essersi liberate dal rosso, né di essere definitivamente impossibilitate a tornare “là”.

Che ne è di quella prigionia, di quella liberazione e di quel non poter tornare indietro? E che ne sarà di quel mio pensiero quando non sarà più nella mia coscienza perché  penserò ad altro? E che ne sarà di quell’avventura bizzarra quando io non ci sarò più? A poco servirebbe rispondere che ora questo fatto è scritto, è letto da molte persone e quindi è “dato”, perché “esiste socialmente”. No. Quel fatto non “esiste” nemmeno per me, dato che in me esiste solo la memoria del fatto. E non esiste per gli altri, perché gli altri, pur essendo stati accuratamente informati, sono alle prese con la loro (privatissima e “irriducibile”) rielaborazione  di quel mio fatto (descritto con le limitazioni e le distorsioni della mia narrazione e recepito con altre limitazioni e distorsioni soggettive).

I fatti, quindi, cessano e la coscienza dei fatti non si trasmette e nemmeno permane nel soggetto “originario”, perché tale soggetto cambia e continuerà a cambiare, per poi scomparire. Non solo la mia avventura al semaforo è già scomparsa, ma anche la traccia che permane nella mia “mente” è labile. E scomparirà definitivamente quando scomparirò io. A quel punto scomparirà tutto l’universo in cui mi agitavo, perché permarrà solo un universo ben diverso, oggettivo, che non mi includerà più.

La precarietà e la finitezza identificabili in questo banale evento della storia del mondo e della mia storia personale, caratterizzano in fondo tutte le nostre vite e tutti i momenti ben più “significativi” di una semplice attesa ad uno stupido semaforo piazzato in un incrocio qualsiasi di una delle tante città in un momento qualsiasi. C’è molto “di più”, per fortuna. Ci sono anche momenti in cui nasce un bambino o in cui si scolpiscono in un documento i diritti dell’uomo o in cui si osserva la grazia di un sorriso o in cui una poesia coglie la limpidezza di quel sorriso. C’è molto di più. Un “di più” comunque immediatamente annullato dall’istante successivo e destinato a permanere solo per un po', in qualche modo, nelle coscienze labili di esseri che trascorrono i loro attimi in un mondo temporaneo.


2. Precarietà e permanenza

L’idea che “tutto scorra” tormenta da sempre i filosofi, così come l’idea che, in fondo, tutto “sia”. L’idea che tutto “ci sia e basta” allevia la pena generata dalla precarietà del nostro vagare nel mondo. Questa opposizione fra la precarietà del divenire e la certezza dell’essere ha dei risvolti oggettivi che sono esaminati dalle scienze, ma, nella sua versione radicalmente soggettiva, tale opposizione rinvia alla nostra irrimediabile limitatezza. Tale limitatezza è, essenzialmente, l’origine di tutte le limitatezze e del dolore. E’ solo un battito d’ali quel vago struggimento per l’impossibilità di far scattare il verde al semaforo e la successiva impossibilità di tornare nella precedente costrizione, ma è un battito d'ali anche la sensazione di esistere.

E’ ben poco il rimpianto per quel “permanere” infranto in un attimo dalla comparsa del verde, ma è tutt’altro che “poco” il rimpianto per chi non è più con noi. Carezze non più possibili e silenzi che erano densi di futuro, che ora sono solo incerte tracce di un passato scomparso. Le relazioni che si spezzano in seguito a contrasti incomprensibili, erano fragili fin dall'inizio e lasciano una sensazione di incompiutezza. Se si è onesti, lasciano la consapevolezza del loro “non essere” anche quando sembravano espressione di una reale intimità. C’è dell'altro, forse c'è di peggio o forse no. Carezze e silenzi che davano spessore alla reale esperienza di esistere e che, per una malattia o per un incidente, sono ora solo ricordi. Relazioni che forse avrebbero superato la prova del tempo, ma che la morte ha trasformato in una pura memoria soggettiva. Non è facile stabilire se sia più dolorosa la perdita di una relazione sfiorita perché nemmeno iniziata “davvero” o la perdita di un’intimità veramente vissuta e non più percepibile perché annullata dalla morte. Che ne è delle relazioni che sembravano “presenti” ma non erano tali? E che ne è di quelle che erano presenti, ma non sono più presenti solo perché “non sono” più?

Viviamo nella gioia di esserci e in qualche misura di “essere con”, ma anche nel dolore del “non ancora”, del “non davvero” e del “non più”. E’ chiaro che la domanda delle domande, la domanda filosofica per eccellenza, relativa alla provvisorietà di ciò che è o al permanere di ciò che è, in fondo, rinvia alla domanda sul dolore. Il dolore del non ancora, il dolore del limite, il dolore del non più.

Il dolore non è un privilegio degli esseri umani. Patiscono anche i pettirossi e i leoni. Ma non lo sanno. Alcuni animali qualcosa sanno di ciò che hanno perso, ma non possiamo avere un’idea precisa di cosa sappiano del proprio patire. Gli elefanti celebrano i loro defunti, ma non possiamo dare per scontato che al dolore di una perdita corrisponda anche la dolorosa consapevolezza di provare dolore, e quindi la compassione per sé. In ogni caso noi umani abbiamo la possibilità di provare compassione per il nostro dolore ed anche per quello di altre persone o di altri animali. Tale possibilità è un privilegio a cui in genere, purtroppo, rinunciamo, preferendo non sapere ciò che “da qualche parte” sappiamo. Spesso allontaniamo dalla nostra coscienza qualche doloroso “non ancora”, qualche doloroso limite, qualche doloroso “non più”. La rinuncia alla consapevolezza a volte è un’operazione intenzionale e consapevole (“Basta, parliamo di cose più allegre!”) e altre volte è un'operazione intenzionale ma non consapevole (“Certo che dispiace anche a me, ma dobbiamo farcene una ragione!”). Nel primo caso cerchiamo deliberatamente una distrazione, mentre nel secondo caso ci siamo già distratti e dichiariamo un dolore non più sentito o non completamente sentito, mentre inventiamo la “necessità” di occuparci di altro nell’ordine delle cose. Le “cose”, però continuano ad essere quelle che sono e non sono in ordine. Anzi, sono nel loro ordine, ma non nel nostro ordine.

Sono molti i modi in cui possiamo distrarci dalla realtà e, prima di tutto, dal dolore della realtà. Se non lo facciamo, però, finiamo per chiederci “che ne è?” del non vissuto, di ciò che è stato vissuto “solo in qualche modo” e di ciò che è “perso”. Dobbiamo tener presente, in ogni caso, che l’espressione “che ne è?”, oltre che generica, è ambigua. Cosa facciamo reclamando il “che ne è?” di ciò che, appunto, non è? L’ambiguità è profonda, perché di ciò che non è, non può “esserne” nulla. Qualcosa accade e ci riempie di gioia. Qualcosa accade e ci spezza il cuore. Accade ciò che accade. Accade anche il fatto di sentire gioia o dolore. Accade anche la consapevolezza di sentire ciò che sentiamo e di volere "di più". In ogni caso, il “di più” non è necessariamente “qualcosa” che non abbiamo “ancora”: tale “di più” potrebbe realizzarsi, ma potrebbe anche non realizzarsi.


3. L’apparente mancanza di significato di ciò che accade

Le vite sono inquietanti quando trasudano bellezza, consapevolezza, sentimenti comprensibili e poi “non sono più”. Mi sembrano ancora più inquietanti quando cessano senza essere sbocciate. Che ne è di tutte le vite incompiute per il poco tempo a disposizione e di quelle incompiute nonostante il tempo a disposizione? E che dire delle persone che fanno del male e continuano a farlo senza nemmeno accorgersene? O delle persone che fanno del male e si sentono in diritto di farlo oppure si sentono in colpa senza però fermarsi, perché non hanno alcuna consapevolezza dei veri motivi della loro distruttività? E che poi scompaiono senza aver conosciuto la gioia di donare un sorriso. E che dire delle persone anziane che, limitate nei movimenti e nell’autonomia, si lamentano di “non poter più fare nulla” e che in realtà non hanno mai fatto nulla per passione, per amore, per la voglia di lasciare il mondo in condizioni migliori di di quelle in cui lo avevano  trovato?

Poco conta se restiamo fermi un minuto al semaforo, o restiamo fermi un’ora in un ingorgo o decenni in un’ostinata mancanza di intimità: in ogni caso, tutto “sarà stato” e resterà “memoria”. Fino a quando anche la memoria verrà spenta da un altro attimo. Gli unici cambiamenti indolori sono quelli che avvengono nella realtà “oggettiva” che non include la consapevolezza del fatto che “tutto scorre”: i sassi sono indifferenti al tempo e non soffrono. La “nostra” realtà, quella della inevitabile soggettività cosciente, è intrisa di dolore, sia quando l’appagamento continua ad essere rinviato, sia quando ciò che è non è davvero come vorremmo, sia quando la mancanza è definitiva. E’ intrisa di dolore anche quando l’appagamento è “dato”, ma è conosciuto come un evento che sarà risucchiato nel passato e cederà il posto ad altri eventi.

Nella loro coscienza incompiuta, i bambini sono privilegiati rispetto ai sassi, alla gran parte degli animali ed anche rispetto agli umani adulti, perché possono “stare bene” senza aver coscienza della loro precarietà. Una buona poppata o un abbraccio sono “per sempre”, dato che il tempo non ha ancora fatto irruzione nella coscienza. Di fatto, pochi bambini crescono con questa basilare esperienza di sicurezza e di appagamento, ma tutti i bambini hanno almeno questa possibilità, negata irrimediabilmente agli adulti. Infatti gli adulti sono più coscienti dei bambini e sono costretti a collocare ogni appagamento nel regno del limite. La domanda delle domande riguarda, quindi, proprio gli adulti, collocati in una realtà intrinsecamente temporale che si impone alla loro consapevolezza ed esibisce i limiti  “inevitabili” e la morte.

Immaginiamo una storia sviluppata in un racconto o in un film. Si susseguono eventi, si compiono scelte e viene raggiunto un obiettivo. Ci sono difficoltà da superare, equivoci da chiarire, sfide da affrontare. Mettiamo il caso che la storia abbia una sufficiente complessità e che non si riduca ad una vicenda con i buoni e i cattivi o le disgrazie e le soluzioni. Si arriva comunque da qualche parte e proprio tale “parte” ci interessa. Alla fine siamo soddisfatti perché abbiamo potuto accompagnare un personaggio in un percorso comprensibile e accettabile, conserviamo la memoria sentita di lotte interiori o interpersonali condotte con dignità e determinazione, sentiamo di aver raggiunto un risultato, magari a caro prezzo, ma per cui valeva la pena restare in gioco. In genere le storie narrate non corrispondono a tutta una vita, ma ad un frammento di vita. Un frammento che è però adatto a rappresentare un'intera esistenza. Per questo motivo, quando riflettiamo sulla nostra vita reale o su quella di altre persone o su quella di un personaggio in una storia, cerchiamo di individuare il filo conduttore che può tenere assieme i pezzi dell’insieme. Se pensiamo ad una vita, infatti, non pensiamo all’acquisto di una bicicletta o al pagamento di una tassa, perché questi dettagli hanno un ruolo marginale rispetto a ciò che viene “costruito” nel tempo. In una vita ci si libera da qualcosa (una condizione penosa, un pregiudizio, un’ingiustizia, ecc.) e/o ci si impegna per qualcosa (una migliore intimità, una migliore consapevolezza, migliori rapporti sociali, ecc.). La storia di un avventuriero che prima di giungere a destinazione ha un infarto sembrerebbe uno scherzo. Eppure, molte storie reali di persone reali non sembrano "concluse" quando vengono interrotte per sempre dalla morte.


4. Storie senza storia ma nel tempo

Quando le persone parlano di sé, in genere raccontano storie prive di un filo conduttore, di un tema e di uno sviluppo. Raccontano le loro storie senza spiegare le loro azioni o "buttando là" delle spiegazioni che non spiegano nulla: “ho agito senza pensarci”, “ho fatto così perché lo fanno tutti”, “ero stato influenzato da Tizio o Caia”, “avrei voluto fare x, ma sono riuscito solo a fare y”, “è capitato”, ecc. Storie in cui le persone “si innamorano” ma non sanno perché, o creano grandi sofferenze in altre persone senza accorgersene o in cui stanno male in rapporti ai quali però si aggrappano con determinazione. Che ne è di tutte queste vite sbocciate e maturate senza consapevolezza, senza compassione, senza amore? Che ne è dei “caduti per la libertà” che hanno solo reso possibile una nuova tirannia? Che ne è dei venditori di sogni, di rabbia, di indignazione che mostrano una verità solo per tenerne nascosta un’altra? Che ne è di tutti gli intrecci fra varie vite che si basano su fraintendimenti, inganni, illusioni? E di tutte le “convinzioni” fatte proprie, ma non esaminate criticamente? E di tutte le emozioni incomprensibili che coprono emozioni che “ci sono”, ma non sono sentite, perché troppo scomode?

I cattolici in genere non hanno la più pallida idea del motivo per cui non sono induisti, e pure gli induisti in genere non si informano sulla teologia cattolica per essere certi di seguire la “vera” religione. I patrioti in genere non conoscono il motivo per cui non si sentono legati ad un’altra “patria” e se affermano di essere patrioti non riescono a spiegare il nesso fra un sentimento tanto forte e un evento casuale come quello di essere nati in un particolare luogo. Chi si sposa normalmente non si chiede se il matrimonio sia un’istituzione ragionevole. Chi fa figli in genere non capisce per quale motivo desideri tanto fare (o “avere”?) dei figli. Persino chi lavora non sa bene per quale motivo lavori. Le persone più consapevoli sanno di dover lavorare per sopravvivere, ma quelle che lavorano “per realizzarsi” sono già irrimediabilmente “perse”. Nemmeno chi aspetta tutto l’anno le vacanze è consapevole del motivo di tale attesa: le persone che sentono il “bisogno di staccare” dovrebbero ragionevolmente essere molto tristi negli altri undici mesi e le persone che non sono veramente tristi non dovrebbero scalpitare tanto per una banalissima vacanza. Che tipo di storia stanno costruendo tutte queste persone abituate ad aspettare qualcosa senza sapere cosa?

Forse è il caso di aprire una parentesi e prendere in considerazione un'obiezione secondo la quale ogni riflessione sulla totalità della nostra vita è frutto di un equivoco. Il filo conduttore di una vita potrebbe stare semplicemente nel vivere, nella sensazione "basilare" di essere vivi. Tale obiezione ha radici nel fatto indiscutibile che, indipendentemente dalla nostra consapevolezza di vivere, siamo "aggrappati" alla vita nella sua realtà più elementare. L'obiezione che sto prendendo in considerazione può essere formulata in questi termini: al di là di qualsiasi speculazione sul "filo conduttore" della vita, noi semplicemente viviamo e godiamo del semplice fatto di vivere. Il fatto di provare anche sentimenti intensi o aspirazioni più complesse di quelle di una tartaruga o di una lepre complica il quadro, ma non lo cambia. Possiamo anche soffrire, ma viviamo per vivere, cercando di non soffrire troppo e di provare buone sensazioni, per quanto è possibile.

Credo che questa obiezione non stia in piedi, nonostante la sua apparente solidità. E' verissimo che il semplice vivere sia attraente e solo per questo motivo possiamo provare gioia facendo una passeggiata. Tuttavia, mentre passeggiamo in un bosco, il "semplice" piacere di "esserci" si traduce sempre nel piacere di un buon dialogo interno o nell'orrore di un dialogo interno distruttivo. Anche il piacere sessuale è in fondo "semplice", ma è ben poca cosa se staccato dalla gioia dell'intimità e può essere un "semplice incubo" se è accompagnato da stati d'animo confusi. Il piacere di agire, fare, risolvere un problema è un piacere se orientato a costruire qualcosa, mentre è un tormento se orientato alla competizione e al potere. Quindi, sicuramente viviamo in quanto siamo essere viventi e ciò basta e avanza per sentirci coinvolti nella nostra vita, ma siamo troppo consapevoli della nostra "semplice" vita per vivere con la semplicità di un simpatico animaletto incosciente del tempo, senza rimpianti e senza progetti. Noi abbiamo un campo di possibilità che non dipende dal fatto elementare di essere vivi, ma dal nostro essere consapevoli di vivere e di vivere la "nostra" vita. Tale consapevolezza ci costringe ad interrogarci sull'insieme degli attimi che nel tempo delineano la nostra esistenza vissuta. Quindi, pur ritenendo ambigue le speculazioni sul "significato" della vita umana, considero ineludibile almeno la domanda sul significato che possiamo e vogliamo dare alla nostra vita.

Non viviamo per costruire una vita qualsiasi. Proprio nell'idea (realistica o poco realistica) di noi stessi, nei nostri scopi (razionali o irrazionali), nei nostri sentimenti (intensi, controllati, comprensibili o contorti) troviamo ciò che rende la nostra esistenza non solo un insieme di avvenimenti, ma anche e soprattutto un'avventura personale. Purtroppo le persone spesso vivono l'avventura della loro vita senza essere consapevoli di star vivendo un'avventura. Rinunciano a capire e a sentire ciò che stanno facendo attimo dopo attimo e decennio dopo decennio. In questi casi, che ne è dell'avventura di vivere se non se ne ha coscienza? Va detto pure che a volte le vite scorrono con intensità e sono accompagnate dalla meraviglia, dalla disperazione e dalla determinazione a costruire qualcosa. Purtroppo, anche le persone che  realizzano con passione le loro vite, inciampano, prima o poi, nel nulla del “non più”. E scoprono che il tempo è scaduto. Oppure amano davvero una persona, ma questa ha già esaurito il suo tempo. Nei film con i duelli, il vincente è anche il buono, ma in quanti duelli è stato più abile con la spada o con la pistola o con l’inganno chi buono non era? Inoltre, anche quando si vince una nobile battaglia il tempo sta già erodendo le fondamenta dei risultati ottenuti. In questo senso, non abbiamo nulla che sia davvero “nostro”.

Possiamo anche “giocare a scacchi con la morte” e guadagnare tempo, ma anche il tempo guadagnato scorre. In sintesi, la qualità della consapevolezza e del contatto rende la vita più o meno intensa, ma il tempo è spietato sia con chi ha sprecato le proprie occasioni, sia con chi le ha utilizzate. Il tempo, comunque, scorre e delimita il campo delle possibilità. Da qui la domanda ricorrente sul "significato" di questa battaglia con il tempo.


5. L’ambiguità del concetto di “significato”

Interrogarsi sul “significato” della vita, a mio parere, è come fare un colpo di stato mentale: ci si pone una domanda in modo ipnotico anziché in modo corretto. Ci si interroga su quale sia il senso, come se il senso fosse “lì, davanti a noi” e fosse solo da descrivere, mentre in realtà il senso è qualcosa che noi in qualche modo costruiamo. Nella realtà, semplicemente, “accadono” delle cose e tutto scorre, compresa la nostra vita. Quando cerchiamo il "senso" o il “significato” della nostra vita stiamo cercando di trovare una “risposta” ad un fatto. Le domande possono avere risposte (giuste o sbagliate), ma i fatti non hanno risposte: sono gioiosi o dolorosi. La domande sul significato di un'esistenza vissuta genera e rafforza l'illusione che un significato ci sia e che esso annulli il dolore della mancanza.

La morte non toglie senso alla nostra vita se abbiamo abbastanza compassione per noi stessi da collezionare attimi di contatto con il dolore generato da qualsiasi orrore e con la meraviglia generata dalla bellezza di ciò che è. Purtroppo, se non proviamo compassione per noi stessi, se non stabilizziamo un dialogo interno relativo alle nostre gioie e al nostro dolore, finiamo per avere solo due opzioni: o cerchiamo distrazioni e illusioni affannandoci in un vivere apparente, oppure inventiamo “significati” rassicuranti.

Le religioni vengono soprattutto utilizzate per dare o ottenere rassicurazioni relative alla precarietà dell'esistenza umana. Non è illogico ipotizzare che tutti i nostri anni vissuti costituiscano una semplice introduzione alla “vera” opera i cui capitoli verranno scritti dopo la nostra morte. Personalmente lo spero, anche se credo che un'eventuale trascendenza non possa essere quella descritta dalle varie religioni. Una trascendenza davvero trascendente non potrebbe essere un'immanenza più gratificante e dilatata di quella a noi nota. Quindi, pur non considerando irrazionale l'idea di una possibile trascendenza, trovo irrazionale qualsiasi concezione consolatoria (e quindi immanente) della trascendenza. Qui, nell’immanenza della nostra vita quotidiana, scandita dall’orologio che ci divora implacabilmente gli attimi, non possiamo ragionevolmente confondere la speranza con la conoscenza. D'altra parte, ponendosi come alternativa alle religioni rassicuranti e affermando il non-senso di ciò che “semplicemente accade”, il nichilismo pecca di arroganza, perché su ciò che non ci risulta comprensibile faremmo bene a tacere, seguendo un vecchio saggio consiglio; faremmo bene soprattutto a rispettare ciò che sentiamo, senza creare un distacco emotivo. Solo se evitiamo le rassicurazioni e il distacco possiamo capire e sentire.

La domanda relativa al significato della vita, oltre ad essere mal posta, distoglie l’attenzione da altre domande che invece possono avere delle risposte. Risposte provvisorie e limitate, ma ragionevoli e basate sui fatti. Le due domande fondamentali, ben distinte, che possono avere delle risposte ragionevoli sono le seguenti:

a) esiste un piano di realtà diverso da quello in cui trascorriamo il tempo della nostra esistenza?

b) indipendentemente da altri eventuali piani di realtà, come possiamo affrontare nel modo migliore ciò che accade nella realtà "data" (e soprattutto ciò che di doloroso accade)?

La prima domanda è di natura empirica e riguarda le scienze naturali e in particolare le scienze “di “confine” che studiano fenomeni "non ordinari" difficilmente comprensibili sulla base delle attuali conoscenze. La seconda è psicologica e riguarda il nostro progetto di vita, posto che con o senza un "dopo", questa è la nostra vita.

Le scienze empiriche, basate sulle osservazioni, non possono ovviamente includere “osservazioni non osservabili”, dato che la trascendenza (esistente o inesistente) non può, per definizione, essere oggetto di osservazione. Tuttavia, può essere oggetto di caute inferenze basate sui fatti osservabili. Io posso anche non vedere un bambino che mi tira una palla, ma se mi giunge una palla posso pensare che qualcuno stia giocando, come posso immaginare che il vento abbia spinto verso di me una palla. Le inferenze sui fatti sono ragionevoli anche se possono convivere con altre inferenze altrettanto ragionevoli. Gli studiosi dei fenomeni “di confine” o “paranormali” cercano, come tutti gli scienziati, di falsificare le “evidenze” e se riscontrano che per ipotetici fatti le prove sono scarse o sono deboli o addirittura sono state costruite con artifici, affermano che i “fatti” non sono fatti. Quando invece i fatti sembrano tali e le spiegazioni tradizionali non li spiegano, prendono in considerazione anche l'eventualità che spiegazioni “non tradizionali” possano essere ragionevoli. Le ricerche sul “paranormale” meriterebbero più attenzione. I temi che trattano sono importanti per tutti: i dati che esaminano sono disponibilii e, se sono controversi, lo sono in termini non paragonabili ai dissensi fra le scuole di filosofia o di teologia. Tuttavia, miliardi di persone aderiscono ciecamente a concezioni religiose basate su semplici tradizioni.

La seconda domanda riguarda il modo più ragionevole di convivere con la nostra incompiutezza e quindi con il dolore. La lampadina del dolore si accende appena il filo positivo del “vorrei” si associa al filo negativo del “non è possibile”. Ora, tale domanda (indipendente dalla fantasia di un "significato" dell'esistenza) può essere formulata in questi termini: cosa possiamo fare di fronte al dolore? Cosa possiamo fare quando il dolore è inevitabile? Cosa possiamo fare se rinunciamo a creare un distacco o ad inventare una rassicurazione? L'unica risposta ragionevole è questa: possiamo arrenderci alla realtà e convivere con quel dolore. La resa al dolore, però, non piace alla gente. Non piace ai letterati che continuano a scrivere romanzi e poesie su complicati “tormenti interiori” (ben diversi dal dolore e spacciati per reali sentimenti). Non piace ai filosofi che nobilitano le banali bugie psicologiche quotidiane speculando sul “senso” metafisico del dolore o facendo spallucce, in chiave nichilistica, come chi al bar dice che si accontenta di “vivere e basta”. Non piace nemmeno agli "specialisti della psiche" presi dal mito del "benessere psicologico".


Conclusioni

Il semplice “attaccamento alla vita” rende risoluti ma instabili, rende entusiasti ma inquieti. Ci aiuta a sopravvivere, ma non a vivere come persone coscienti di una storia in corso. Noi possiamo essere felici solo maneggiando (anche) il dolore. Non possiamo trovare alcun significato, ma possiamo rendere significante la nostra vita se la viviamo senza distacco, senza illusioni, senza negare il dolore che non possiamo sconfiggere. E abbracciando con passione e compassione i nostri simili. E creando con loro tutta la felicità possibile nella precarietà "data".

La ricerca della verità conduce alla verità di ciò che è e di ciò che manca. Noi stiamo continuamente “passando”. Siamo già “altro” da ciò che eravamo un minuto fa. Conserviamo la memoria di essere stati e la consapevolezza della nostra costante e irrimediabile precarietà. Una precarietà che può turbarci ad un banalissimo semaforo o che può farci sentire afflitti in situazioni delicate e terribili. L’adesione costante alla bellezza e all’orrore e la compassione per la nostra impossibilità di colmare ogni mancanza, crea l’unica felicità possibile: l’intimità con noi stessi e con chi amiamo, fino alla fine della nostra piccola ma immensa vita.