lunedì 17 dicembre 2018

Paura della leggerezza







Voglio fare alcune considerazioni sulla “pesantezza” o sulla “oppositività” delle persone che, secondo la definizione data da Wilhelm Reich, manifestano delle difese caratteriali di tipo “masochistico”. Esaminando queste ingombranti difese psicologiche credo di poter offrire un ulteriore esempio del fatto che il lavoro analitico non può essere concepito come una terapia. Gli organismi vengono curati perché se non funzionano normalmente sono “affetti” (colpiti) da qualcosa che disturba il funzionamento vitale, che è sano per definizione. Le società cambiano (non vengono curate) quando in esse prevale un progetto di cambiamento e anche le persone cambiano (non vengono curate) quando in esse prevale l'intenzione di accettare il dolore inevitabile e di realizzare la felicità possibile.

Nel linguaggio quotidiano si utilizza spesso il termine “masochismo” in senso offensivo, più che in senso descrittivo, per squalificare persone che sembra vogliano cercare guai o mantenere inutilmente rapporti frustranti. Inoltre, il masochismo caratteriale viene spesso confuso con i comportamenti sessuali masochistici e ancor più spesso gli atteggiamenti lamentosi masochistici vengono confusi (dagli psicoterapeuti) con manifestazioni di tipo depressivo. Wilhelm Reich è stato il primo studioso che ha offerto una definizione articolata delle difese psicologiche di tipo masochistico e che ha contestato radicalmente la concezione psicoanalitica della distruttività umana. Purtroppo il suo lavoro non è stato adeguatamente approfondito. L’espressione “masochismo caratteriale” non mi è mai piaciuta e parlerò preferibilmente di “paura della leggerezza” o di “oppositività” per chiarire che il “masochismo caratteriale” è un modo (difensivo) di costruire l’esistenza personale. In queste pagine riprendo, con aggiunte, tagli e correzioni un articolo già pubblicato sul mio sito nel 2002 e ripubblicato con alcune integrazioni nel mio blog nel 2010.

Respingendo l'ipotesi psicoanalitica di una pulsione di morte (Freud, 1920), che era speculativa e quindi teoricamente insostenibile ed epistemologicamente inconsistente, Wilhelm Reich ha dimostrato la possibilità di interpretare i comportamenti autodistruttivi e quindi anche gli atteggiamenti masochisti come difese psicologiche (Reich, 1945, cap. XI). I suoi allievi hanno proseguito le sue indagini sulle strutture caratteriali (Baker, 1969) ed altri studiosi hanno collocato tali idee in quadri teorici non identici, ma simili (Lowen, 1958; Boadella, 1987). Una linea di ricerca diversa, più attenta alle modalità di interazione che alle rigidità caratteriali, si è sviluppata con l'Analisi Transazionale (Berne, 1964). Da tali concezioni psicoterapeutiche risulta chiaro che il filo rosso da seguire per comprendere il carattere masochista, non è, quindi, la ricerca della sofferenza, ma proprio la ricerca del piacere: in certi casi, star male in modi controllati può essere vantaggioso se permette di non entrare in contatto con un dolore percepito come intollerabile.

Le storie delle persone con difese masochiste possono essere molto diverse. Storie di bambini costretti ad una precoce educazione sfinterica da madri molto rigide, o di bambini poco coccolati ma ipernutriti, o di bambini umiliati e svergognati per la loro esuberanza e la loro sessualità o di bambini costretti a soffocare l'espressione del loro dolore in presenza di una madre pienamente calata nel ruolo di vittima. In questi ed altri casi, i bambini imparano ad ingoiare un immenso "no!" (pericoloso perché rivolto ad un genitore comunque indispensabile) e imparano a fare del loro meglio per diventare ordinati, responsabili, protettivi. Tutto ciò genera una sensazione di oppressione che corrisponde ad una reale oppressione: quella che il bambino stesso attua per bloccare l'espressione della propria rabbia, del proprio bisogno, del proprio dolore. L'auto-oppressione si manifesta anche fisicamente come ipertonia muscolare massiccia e riguarda soprattutto i muscoli della gola (muscoli scaleni), quelli delle spalle e il diaframma. Tale stato di tensione si protrae nella vita adulta e si consolida come tendenza diffusa all'autocontrollo. Se in analisi si concepisce l'atteggiamento masochistico come "l'effetto" di una oppressione esterna, si entra nel gioco del cliente e si finisce inevitabilmente per solidarizzare col suo vittimismo ostacolando la comprensione del suo modo di  provocare gli altri, di generare e trattenere la rabbia, di evitare le richieste e di impedire l'espressione del dolore. Anche se le famiglie delle persone con atteggiamenti masochisti erano opprimenti, di fatto gratificavano e frustravano, sollecitando i figli ad irrigidirsi per mantenere qualcosa a cui non volevano rinunciare. Dopo dieci, venti o cinquant'anni, le persone inclini a tale autocontrollo, in situazioni difficili temono di "andar via" perché in tal caso dovrebbero affrontare un antico terrore di restare senza punti di riferimento. In situazioni particolarmente belle, invece, temono di lasciarsi andare al piacere, perché in tal caso dovrebbero negare l’antica svalutazione dei genitori secondo cui le persone felici “pensano solo a se stesse” e dovrebbero anche fidarsi di qualcuno e correre dei rischi in una relazione.

E’ necessario che l'analista sia abbastanza lucido da capire che la (pseudo)sofferenza esibita dal cliente “pesante” è l'effetto di un'auto-oppressione. Il lavoro analitico con queste persone si sviluppa prima di tutto chiarendo che stanno costruendo la loro sofferenza attuale e non la stanno "subendo". Se il cliente comprende di fare molte cose anche quando si sente vittima di oppressioni a cui “non riesce” a reagire, può stabilire un’alleanza con l’analista volta a liberare emozioni più profonde ed anche ad allentare le tensioni fisiche. Se, ad esempio, l'analista si appoggia con tutto il suo peso sulle spalle del cliente, facilmente il cliente non avverte subito l'esigenza di liberarsi dal peso dell'analista, ma "automaticamente" si pone in una posizione di resistenza, di sopportazione che può essere notata e analizzata. Paradossalmente egli non considera proprio la possibilità di liberarsi. Se interrogato in proposito avanza scuse del tipo "credevo che l'esercizio consistesse nel sostenere il tuo peso". In tal caso si deve sottolineare che questa è una delle tante ipotesi possibili ed è l'unica che gli è venuta in mente, ma forse non a caso, dato che fa la stessa cosa con le persone della sua famiglia, con cui non esegue alcun esercizio. Nella fase successiva del lavoro, invitando il cliente a liberarsi dal peso dell'analista si produce un senso di sollievo. In tal caso non si deve considerare "terapeutico" questo risultato, ma si deve invitare il cliente a riflettere sul fatto che egli evita sempre di raggiungere questo tipo di sensazione proprio accettando pesi (psicologici) che potrebbe evitare. Il lavoro fisico, in casi di questo genere, serve infatti a produrre una comprensione di ciò che il cliente fa (non solo sul piano fisico) e di ciò che il cliente di fatto evita; non serve a farlo "star bene" o ad "educarlo". Con un banale e forse anche buffo lavoro fisico di questo tipo si può favorire una certa consapevolezza del fatto che la persona in questione teme la "leggerezza", la "libertà", l'autoaffermazione, perché associa tali sensazioni ad antiche svalutazioni, ridicolizzazioni o colpevolizzazioni. Quindi, a rifiuti.

Poiché le persone “pesanti” tendono a sottolineare sempre ciò che le opprime per mantenere una situazione che è spiacevole, ma che sanno "sopportare", evitano accuratamente di comunicare cosa desiderano. Evitano anche di pensarci. L'espressione chiara di un desiderio conduce inevitabilmente a "che bello!" o "che peccato!", a seconda della risposta ottenuta, e ciò conduce a stati emotivi in cui comunque la persona non "gestisce" nulla: sente una dipendenza piacevole o spiacevole. In analisi occorre abituare i clienti ad essere consapevoli di provare dei desideri e di poterli esprimere e ciò richiede una certa insistenza da parte dell'analista. Se l'analista chiede "perché sei venuto qui oggi?", il cliente spesso risponde "perché dovevo rispettare l'appuntamento" e non "perché volevo lavorare su un dato problema"; se l'analista chiede "cosa vorresti? il cliente in genere risponde "non lo so" o comincia a descrivere le cose che non vuole. Occorre molta pazienza per aiutare questi clienti a dare risposte pertinenti. L'ostinazione a non concludere le cose avviate, a dimenticare ciò che si è chiarito nelle sedute migliori, a minimizzare i risultati positivi non deve portare l'analista ad irritarsi, ma a proseguire il lavoro, accettando il fatto che il cliente teme di cambiare il proprio modo di vivere. Tra l'altro il cliente tende proprio ad irritare l'analista, per poi cadere dalle nuvole e sentirsi vittima di un'incomprensione. Queste manovre vanno immediatamente “smontate” perché l’analista deve chiarire cosa il cliente tende a fare con tutti e non deve diventare l’ennesima persona di cui il cliente si lamenta.

Il lavoro sulle provocazioni, ovviamente non è finalizzato a far "pentire" i clienti, ma a far loro capire per cosa sono davvero arrabbiati, da quanto tempo e con chi. La sollecitazione ad ammettere o manifestare i desideri (ed anche a lavorare fisicamente assumendo posizioni di "richiesta" (come ad esempio il mantenimento delle braccia protese, o il "chiedere con gli occhi", o il gesto di "tirare a sé" il braccio dell'analista che si oppone) “scongelano” una (antica) emozione di dolore e di impotenza o un'apparentemente incomprensibile rabbia. In entrambi i casi occorre giungere al chiarimento dei vissuti non elaborati. L'espressione del dolore col pianto produce uno stato di leggerezza che il cliente non è abituato a sentire, ma questi, dopo aver sfiorato il dolore di una mancanza, tende ad attivare un pianto rabbioso per qualche immaginaria “ingiustizia” e anche tale “fuga nel pianto” va analizzata. Ovviamente dopo una seduta "illuminante" egli può ripresentarsi la volta successiva con il consueto senso di pesantezza e con una forte diffidenza per la possibilità di ottenere "risultati soddisfacenti". Tutto ciò è da mettere in conto e da gestire in modo lineare senza scoraggiamenti inutili, perché l’oppositività di questi clienti si manifesta anche nella squalificazione del lavoro svolto. Infatti il lavoro su tali atteggiamenti caratteriali va ripetuto finché il cliente non "mette assieme" tutti gli elementi cognitivi ed emotivi raccolti, in modo da poter ristrutturare tutto il suo modo di interpretare i rapporti con gli altri.

L’analista deve mettere in conto la possibilità di non riuscire a svolgere un lavoro accettabile: può essere determinato ad analizzare tutte le manovre difensive, ma se cerca di “sconfiggere" il cliente accetta inconsapevolmente la sua sfida e sarà sconfitto dall’oppositività passiva. I clienti “pesanti” in genere alternano espressioni di insoddisfazione per l’analisi “che non procede” e atteggiamenti di ammirazione (irrealistica) nei confronti dell'analista. Tale “adorazione” è una trappola che serve solo a far sentire “importante” l'analista per poi farlo sentire un vero incapace. In quest'ultimo gioco il cliente esprime una sorta di competizione sleale in cui, senza rischiare nulla, "vince sempre”. Infatti, le persone che si umiliano, si avviliscono e si svalutano, celano da qualche parte una profonda arroganza. L’atteggiamento lamentoso delle persone “pesanti” è, in fondo, una esibizione al negativo: serve a soddisfare impulsi esibizionistici nell'unica modalità tollerata da genitori frustranti e svalutanti.

Nella chiave di lettura reichiana il carattere masochista implica un blocco importante nella gola ed un altro nel bacino (posto che è presente anche una forte tensione diaframmatica). Nel lamento la persona ottiene una scarica della tensione (molto limitata) verso l'alto e nell'acme sessuale "controllato" ottiene una scarica (limitata) della tensione verso il basso. Spesso i clienti (soprattutto maschi) con forti atteggiamenti masochistici tendono ad aumentare l'eccitazione sessuale ed a scaricarla nell'acme mantenendo una forte contrazione delle gambe e del bacino, come se il piacere sessuale dovesse venir "spremuto" piuttosto che "espresso" o "liberato". Alberto Torre suggeriva, nei suoi seminari, di consigliare ai clienti di evitare quella ricerca parziale della scarica genitale nel sesso, di cercare un piacere sessuale legato alla tenerezza, di lasciarsi quindi "inondare" dall'eccitazione. In tal modo i clienti potevano anche attraversare un periodo di impotenza, ma una volta accettate le sensazioni profonde di eccitazione crescente, potevano poi tollerare anche la scarica involontaria e completa dell'orgasmo. Suggeriva anche di attribuire sempre, in termini espliciti, al cliente la responsabilità dei suoi cambiamenti e di sottolineare, in presenza di “miglioramenti”, la possibilità di “ricadute” e di nuove difficoltà da superare. Infatti, ogni reale collaborazione spaventa le persone “pesanti” e le spinge all’oppositività.

E’ indispensabile tener conto anche di un problema relazionale: le persone con un carattere masochistico sono persone noiose (anche se con tante qualità) e quindi il/la partner che le ha scelte presumibilmente trae dei vantaggi psicologici (illusori) da tali atteggiamenti lamentosi e dagli eventuali sintomi. Nel caso di cambiamenti profondi, il/la partner si troverà spiazzato/a e perderà il proprio tornaconto difensivo. E' importante, nel caso di una crisi nel rapporto sentimentale (dovuta proprio a significativi miglioramenti) aiutare la persona in analisi a capire che il/la partner sta incontrando alcune difficoltà e non è "l'oppressore" da “sopportare” o da combattere. Quando l'analisi arriva ad una ristrutturazione della "concezione della realtà" del cliente e ad alcuni cambiamenti significativi, questi si sente libero sia di rifiutare qualsiasi ricatto, sia di favorire incontri positivi. Se scopre la capacità di piangere (evitando quindi le "lagne" o le "crisi di pianto") per ciò che non può avere, e anche di opporsi in modo attivo a ciò che non vuole, si sente anche libero di dire dei "sì" e di correre i rischi che ogni slancio positivo comporta. In questa nuova condizione, la persona non ha più bisogno delle tensioni con cui alimentava e poi controllava il pianto e la rabbia. Affiorano sensazioni di leggerezza e diventano possibili relazioni soddisfacenti.

Altri cambiamenti possono riguardare il più ampio modo di essere nel mondo. A volte le persone con carattere masochistico, pur avendo buone capacità, "giocano male le loro carte" o "perdono le occasioni migliori" per evitare di occupare posizioni sociali gratificanti o di realizzare relazioni interpersonali appaganti. Spesso le persone con carattere masochista non concludono (magari con delle buone scuse) gli studi e si trovano a dover poi occupare posizioni lavorative non adatte alle loro capacità (consolandosi con l'idea di essere più capaci dei loro capi); oppure (con altre scuse) non si impegnano con un/una partner veramente desiderato/a e si legano ad una persona poco appagante. In altri casi fanno una buona carriera, ma poi riescono a rovinarla o distruggono senza ragioni un rapporto sentimentale soddisfacente. La paura di essere realisticamente felici e di perdere la possibilità di lamentarsi (e di  pretendere così una felicità “assoluta”) spesso è legata alla paura di star meglio di un genitore che ostentava la sofferenza per la brutta vita che "doveva sopportare". Se la persona si libera dal bisogno di sentirsi umiliata (e di reagire vittimisticamente con rabbia e sopportazione), può permettersi anche una razionale autoaffermazione, che non è competitività, ma rispetto per la propria vita.

La rabbia presente nel lamento masochistico è riconducibile ad una convinzione del tipo "ciò non è giusto", come in altre strutture caratteriali. La rabbia "espansiva" e "costruttiva" nelle situazioni in cui è ragionevole combattere rinvia, invece, ad una premessa del tutto diversa riassumibile nell'espressione "io non voglio tutto ciò". Nella rabbia non difensiva c'è una piena assunzione di responsabilità per un proprio rifiuto di qualcosa che non corrisponde ad aspettative irrinunciabili. Solo l'accettazione del dolore rende possibile la resa se una vittoria è impossibile e rende possibile la lotta se una vittoria è possibile. L'uscita dal binario della pesantezza e dell’oppositività rende le persone più inclini a soffrire in modo semplice e autentico nei momenti realmente dolorosi, ma le rende anche libere per quanto è possibile, di lottare costruttivamente, di impegnarsi con passione, di fare delle esperienze piacevoli e di godere con leggerezza e soddisfazione.

Il "carattere masochistico", come qualsiasi carattere "puro", non esiste. Si riscontrano differenze "quantitative", a seconda dell'intensità dell'atteggiamento difensivo in questione (per cui una persona gravemente masochistica può essere realmente insopportabile ed una persona lievemente masochistica può essere gradevole pur manifestando a volte momenti di chiusura); si riscontrano soprattutto differenze "qualitative", poiché le persone presentano un unico e personalissimo orizzonte esistenziale in cui rientra un complesso intreccio di atteggiamenti espressivi e difensivi, tra i quali possono avere un ruolo anche quelli masochistici.

Le situazioni problematiche delle persone sono sempre irriducibili a schemi. Nell'infanzia, i bambini che devono fronteggiare situazioni dolorose, assumono atteggiamenti difensivi che si traducono in qualcosa che è “struttura”, ma soprattutto progetto. Scelgono cosa sentire, come sentirlo, come percepirsi, come pensarsi, come mostrarsi, verso cosa orientarsi, cosa evitare e come evitarlo. Non si limitano a bloccare certi comportamenti, ma si proiettano in un certo modo verso gli altri, verso la vita, verso il futuro. L'osservazione degli atteggiamenti riconducibili alle difese caratteriali non deve quindi incasellare il cliente in una diagnosi, ma favorire un esame del suo modo di vivere. Credo, in altre parole, che il superamento della logica psicoterapeutica ed anche, quindi, della concezione caratterologica reichiana, renda possibile un approccio non oggettivante. Un atteggiamento masochistico può essere facilmente gestibile con un cliente che manifesta un discreto contatto con la realtà, mentre può essere molto difficile da affrontare con un cliente che usa anche altre difese più "antiche". Le domande fondamentali che in ogni caso l'analista si deve fare riguardano gli obiettivi che il cliente sta di fatto perseguendo e i vissuti dolorosi che sta evitando.

Le persone con tratti caratteriali masochistici o “impantanate” o "pesanti", hanno sia la capacità di limitare la loro vita, sia quella di esasperare le persone a loro vicine. Il concetto di oppositività chiarisce bene questa situazione. Ad esempio, una persona con sintomi o atteggiamenti caratteriali ossessivi, o una persona alcolista, o una persona ansiosa finisce inevitabilmente per creare disagi alle persone con cui convive, ma non ha l’obiettivo specifico di esasperare tali persone. Può, anzi sentirsi a volte sinceramente dispiaciuta per le frustrazioni che causa. Al contrario, la persona “impantanata” o “pesante” agisce in certi modi proprio per attivare la conflittualità e impedire l’intimità. Non ne è consapevole, ma persegue questo scopo con determinazione. La “paura della leggerezza”, infatti, equivale alla paura di una dipendenza manifestata e di una intimità espressa. Ci si può naturalmente chiedere perché mai le persone impantanate temano e ostacolino con tanta ostinazione dei rapporti armoniosi e soddisfacenti e la risposta è solo apparentemente “strana”: più l’armonia è realizzata, più si è vulnerabili, dato che se qualche frustrazione affiora in un rapporto accettato come prezioso, tali frustrazioni non vengono filtrate dalle difese. In altre parole, nei rapporti in cui l’intimità è realizzata o almeno cercata, un’eventuale frustrazione viene sentita intensamente, mentre, se la conflittualità è presente, le eventuali frustrazioni sono previste e possono essere interpretate come “prove” di qualche “ingiustizia”. In pratica, le persone impantanate si vanno a cercare i guai, ma sono preparate a gestirli con tutte le loro difese in funzione.

Lo sforzo di “star male” sentendosi vittime di circostanze ingiuste (sentendosi cioè forti perché “capaci di non cedere”) finisce per calamitare tutti gli aspetti della vita quotidiana, perché risulta (come in un lontano passato) una valida alternativa al dolore. Nell’infanzia, le persone “pesanti” sono state squalificate proprio dalle figure di accudimento, ma sono riuscite a non “sprofondare” nel dolore assumendo un atteggiamento di “sfida passiva” del tipo “mi piego ma non mi spezzo”. Anche con persone che oggi non hanno alcuna intenzione di "spezzarle", continuano a piegarsi (come se fossero vittime di una imposizione) reagendo con rabbia passiva e silenziosa, cioè con la determinazione a svalutare l’altra persona, per stare quindi idealmente “sopra”, pur nella sottomissione manifestata. Sia che vengano rispettate, sia che vengano realmente svalutate, subiscono con grande pazienza delle (immaginarie o reali) umiliazioni con l’intima soddisfazione di essere “migliori” dei loro (presunti o reali) persecutori, di sottomettersi “esteriormente”, ma non interiormente e di attendere la resa dei conti. L’idea fissa è che ciò che accade “non dovrebbe accadere”. Le persone oppositive dispongono, quindi, di un equilibrio personale compatto, anche se contorto. Smascherare una difesa caratteriale costituisce un lavoro (analitico) sicuramente “spietato”, ma rispettoso della persona. Non costituisce un attacco alla persona (anche se può essere frainteso in questo senso), perché sollecita la persona a liberarsi di una corazza inutile e disturbante. In ogni caso la differenza fra persona e carattere deve essere esplicitata per prevenire fraintendimenti.

La consapevolezza dell’intenzionalità difensiva è in genere scarsa o assente nelle persone, ma quelle “pesanti” si sono davvero “specializzate” nel negare la loro responsabilità in ciò che fanno. Quando comprendono la funzione difensiva (e quindi lo scopo) dei comportamenti che spiegavano come “incapacità a fare di meglio” restano davvero sbalordite, ma poi riconoscono che proprio l’accettazione della loro responsabilità rende possibili dei cambiamenti. Qualsiasi espediente rispettoso del cliente va bene per facilitare tale presa di coscienza. Uno di questi è far immaginare ai clienti che abitualmente scordano gli impegni presi cosa farebbero in una situazione estrema in cui la loro vita dipendesse da una maggiore attenzione. Immaginando tale situazione affermano che punterebbero tre sveglie, si scriverebbero dei biglietti, si farebbero nodi al fazzoletto e così via. Poi devono ammettere che, se in genere non usano tali espedienti, sono disponibili a scordare gli impegni. Anche il “mettere in fila i dati” ha un buon effetto: in seguito a domande mirate, le persone possono arrivare ad accettare osservazioni molto scomode. Ad esempio possono ammettere che tendono a litigare solo con il/la partner, che tendono a fare ritardi con i genitori ma non con alcuni amici, e così via. Finché si credono incapaci di fare o di non fare certe azioni non possono chiedersi a che scopo agiscono in un certo modo. Da quando ammettono una loro responsabilità possono svolgere un lavoro analitico sui vissuti dolorosi che evitano agendo in modi oppositivi ed esasperanti. Nell’infanzia queste persone hanno realmente subito i comportamenti distruttivi dei genitori, ma sono riuscite a dissociarsi dal vero dolore assumendo atteggiamenti vittimisti. Il vittimismo nei rapporti affettivamente significativi è una difesa psicologica e non un atteggiamento razionale, come quello assunto dalle reali vittime di una dittatura. Come ogni altra difesa, il vittimismo salva la vita nell’infanzia favorendo una dissociazione da un dolore ingestibile, ma permane anche nella vita adulta e produce limitazioni del tutto ingiustificate in situazioni molto diverse.

A differenza delle persone realmente obbedienti (che sono accondiscendenti nell’illusione di essere amate “dopo”), le persone “pesanti” dichiarano di obbedire e poi “sbagliano” o “dimenticano” qualcosa e finiscono per produrre gli stessi risultati della disobbedienza senza prendersene la responsabilità. A differenza delle persone apertamente rabbiose e ribelli, le persone “pesanti” evitano sempre di protestare apertamente, ma agiscono delle proteste “passive” o “indirette”. Non si limitano ad ingannare gli altri, ma ingannano anche loro stesse, dato che non sono coscienti della loro rabbia e della loro oppositività. Esasperando gli altri le persone “pesanti” si dichiarano, si sentono e si pensano come incapaci, ma più in profondità si sentono “moralmente superiori”. Si sentono trattate "ingiustamente" anche dopo aver frustrato gli altri. La cosa più difficile da smascherare e da far ammettere a queste persone è la loro logica di potere: hanno rinunciato a cercare l’amore (che rende felici ma anche vulnerabili) per un attaccamento morboso al piacere del potere. Un potere illusorio e nemmeno ammesso, ma “devastante”: il potere di non cedere mai e di esasperare le persone che potrebbero risultare deludenti. Questo piacere perverso è tale da dare una direzione ed uno scopo alla dimensione affettiva dell’intera esistenza personale.

Nei casi in cui il masochismo caratteriale, è associato ad altre dissociazioni e si manifesta anche nell'ambito specifico dell'erotismo, risulta del tutto incomprensibile se non viene ricondotto alle strategie caratteriali difensive. Le spiegazioni basate sull'idea di "pulsioni distruttive" sono arbitrarie e ingiustificabili. Infatti, i rituali erotici masochistici non sono piacevoli, ma consentono, grazie all'artificio della sottomissione, il "piacere rassicurante" di ottenere "qualcosa" senza sperimentare la responsabilità del desiderio. Nel sadismo, egualmente non piacevole il piacere rassicurante sta solo nell'esercitare un potere che nega i vissuti (reali e non accettati) di umiliazione. In questo senso, il sadomasochismo sessuale non è un disturbo sessuale, ma una sessualizzazione (rabbiosa) di un disturbo del contatto emotivo. Allo stesso modo, una rapina in banca o in un supermercato dipende dall'intenzione di rubare e non da un "problema" con le banche o con i supermercati. In ogni caso, qui voglio esaminare gli aspetti basilari delle difese masochistiche e non i fraintendimenti della sessuologia. Se i sintomi erotici sadomasichistici costituiscono gravi e relativamente rare manifestazioni del carattere masochista e di profonde dissociazioni, sono più comuni gli atteggiamenti oppositivi e vittimistici presenti nella comunicazione e anche nelle relazioni di coppia. Chi svaluta pretestuosamente il/la partner o "si incastra" con un/una partner realmente insopportabile, facilmente vive il sesso come un "dovere coniugale" e manifesta rifiuti o non partecipazione sul piano erotico, alimentando il lato distruttivo dell'altra persona (altrettanto inconsapevole della manipolazione in corso). Gli esiti a volte violenti di tali relazioni dipendono ovviamente non solo dalla distruttività del/della partner più incline a manifestazioni distruttive esplicite, ma anche dalla distruttività passiva dell'altra persona apparentemente irresponsabile di ciò che accade.

Solo dopo aver sopportato a lungo delle ingiustizie (reali o immaginarie), a volte, le persone “pesanti” sbottano, “si sfogano” o se ne vanno sbattendo le porte. Perché fanno tutto questo dopo essere state (in apparenza) tanto remissive? Perché non chiariscono le relazioni fin dall’inizio? Se interpellate rispondono che “non riuscivano” a sottrarsi, ad affermarsi, ad esprimersi. Rispondono in buona fede, perché non sono consapevoli di aver gestito tutto il gioco relazionale. Si ostinano a subire con rabbia per "sfogare" la rabbia (la “collera dei giusti”) in modi indiretti e a volte anche apertamente, ma in ritardo. Possono ritardare l’esplosione per mesi o anni, perché, comunque, non sono focalizzate su desideri reali e attuali, ma su una situazione immaginaria in cui “certe cose non dovrebbero accadere” e in cui loro "devono" (e riescono) a sopportare gli altri (svalutati). Ciò che non risulta facilmente comprensibile è lo scopo ed il vantaggio di tutta l’operazione, dato che questa strategia difensiva sembra solo un incubo. In realtà questa situazione non è vantaggiosa per ciò che produce, ma perché rende possibile una radicale dissociazione psicologica da vissuti dolorosi. Questo “gioco psicologico” va analizzato con molta comprensione per la sofferenza profonda (non sentita, né espressa), ma senza alcuna “comprensione” per la sofferenza finta che viene esibita.

Nella realtà “storica” di queste persone è presente sia il vissuto di essere amate, sia quello di essere respinte e svalutate. Conoscono quindi per esperienza che la dipendenza affettiva sentita, riconosciuta ed espressa le rende estremamente vulnerabili, perché le espone al dolore di essere respinte proprio mentre si trovano con le braccia protese. In genere queste persone scelgono dei/delle partner realmente frustranti, li/le sopportano con odio silenzioso. Non si sentono responsabili di aver scelto tali persone, di aver accuratamente evitato di separarsi da loro e di aver eventualmente espresso alla fine una rabbia “programmata” per motivi difensivi. Tale gioco non è mai stato chiarito a sufficienza. Solo Wilhelm Reich, Alexander Lowen ed Eric Berne hanno scritto cose interessanti in proposito. Tuttavia, normalmente il vittimismo non viene adeguatamente compreso e tale grave incomprensione caratterizza anche libri di successo in cui, ad esempio, si parla di donne che “amano troppo” (Norwood, 1985). In realtà tali donne non sopportano nulla per amore o per “troppo amore”, ma per una strategia infantile distruttiva che funziona come difesa “pesante” da vissuti realmente dolorosi (dell’infanzia). Tale gioco psicologico (difensivo) è parte integrante della struttura caratteriale masochistica, al punto che nei rari casi in cui le persone impantanate si innamorano “per sbaglio” di una persona rispettosa ed accogliente, si inventano delle umiliazioni inesistenti per portare avanti le stesse mosse dell’unico schema relazionale in cui si sentono al sicuro. Non a caso, le persone “impantanate” si sentono spesso “oppresse” persino dai figli, che non sono sicuramente delle “autorità” temibili.

Si devono distinguere i caratteri masochisti relativamente “puri” dalle strutture caratteriali in cui le difese masochistiche si intrecciano con altre, anche più gravi. Dobbiamo infatti tener presente che non solo le persone sono uniche nella loro bellezza, ma anche le strutture caratteriali sono uniche nella loro complessità. Sul piano dell’armatura muscolare ovviamente la “pesantezza” (collegata a severi blocchi alla gola, alle spalle, al diaframma ed alla pelvi) è tanto più difficile da trattare quanto più sono accentuati i blocchi dei segmenti superiori (soprattutto quello oculare). Alcune persone impantanate straparlano lamentandosi in continuazione con tutti e di tutto e altre persone invece sono più misurate e si lamentano fra sé e sé e solo occasionalmente manifestano la loro concezione vittimistica della vita. Alcune persone impantanate sono meticolose nello svolgimento dei loro compiti e si lamentano della fatica che fanno a sopportare la trascuratezza degli altri; altre invece tendono a far male le cose ed a lamentarsi delle critiche che inevitabilmente ricevono. Alcune persone impantanate sono abitualmente noiose, cupe, poco solari, ma altre persone sono invece estroverse e vivaci, salvo nei momenti e nei contesti in cui “trasudano vittimismo”. In genere le persone “pesanti” non piangono. In alcuni casi però sono molto inclini a piagnucolare rabbiosamente. In ogni caso chiamano “dolore” il sentimento rabbioso dell’indignazione, dell’insofferenza, del fastidio. Alcune persone ideologizzano le loro tendenze caratteriali esprimendo le loro “convinzioni” con una forte accentuazione “etica” (o sessista), ma, anche se non compiono queste acrobazie intellettuali, tendono a sentirsi “troppo buone”.

Quando esplode un conflitto (in genere per iniziativa di un’altra persona) e i rapporti diventano davvero tesi, le persone “pesanti”, paradossalmente, a volte si rilassano. Diventano più serene, disponibili, quasi allegre. Si sentono cioè soddisfatte (inconsapevolmente) di aver “raggiunto l’obiettivo”: se qualcuno si è infuriato o ha dichiarato una crisi nel rapporto, le persone “pesanti” diventano (realmente) più disponibili, dato che l’intimità profonda è ormai divenuta impossibile. In certe famiglie si stabilizza un clima di “collaborazione” dopo una crisi di questo tipo: il/la partner ha detto che tutto è finito e, se la convivenza prosegue (per i figli, per motivi economici o per altri motivi) senza alcuna passione, la persona “pesante” può collaborare maggiormente, proprio grazie alla “distanza” raggiunta. Può trovare un lavoro se non lo trovava, può aver cura di cose che prima trascurava, e così via. In ogni caso tali persone evitano di costruire una reale intimità. Raramente hanno grossi problemi sessuali, ma fanno sesso senza lasciarsi andare: cercano il “proprio” piacere (sempre un acme, mai un orgasmo) e non cercano di lasciarsi andare nell’abbraccio, oppure "sopportano" anche la sessualità. Se invece hanno problemi sessuali, fanno di tutto per mantenerli e poi “si sentono colpevoli” perché “non riescono” a soddisfare il/la partner: non hanno proprio in mente la possibilità di cercare il proprio piacere in sintonia con il/la partner. Vivono costantemente nell’idea di dover fare cose (che non riescono a fare) o di aver diritto a cose (che non cercano di ottenere). Non pensano di voler qualcosa e di potere o non poter ricevere ciò che desiderano e nemmeno sentono un reale desiderio di rendere felice l’altra persona. Pensano sempre in termini di obblighi. Mirano costantemente all’insoddisfazione, al senso di colpa o alla colpevolizzazione. Non conoscono il concetto di sincera gratitudine e di sincera disponibilità verso gli altri. Anzi, conoscono benissimo questi concetti, ma solo nelle relazioni che non sentono “pericolose”: capita a volte che sul lavoro siano persone efficientissime e che in casa “non riescano” mai a combinare nulla.

La sistematica ricerca di giustificazioni rende le persone “pesanti” poco collaborative in analisi: per tali persone, mettersi in discussione equivale a svalutarsi perché sono abituate a mettere in discussione gli altri e a “giustificarsi”. Il loro rapporto con le persone significative è sempre simile a quello di un bambino con un genitore incline a reprimere, deridere e imporre obblighi: obbediscono, ma lo fanno malvolentieri, o si ribellano, ma passivamente “per incapacità”. Nelle relazioni adulte sentono la necessità di mantenere un rapporto conflittuale di questo tipo perché nella loro infanzia è stato l’unico rapporto possibile e le alternative sarebbero state devastanti: la solitudine ed il vuoto. Quando chiesi ad una cliente perché con un uomo tanto insensibile, ottuso e violento avesse fatto ben due figli a distanza di otto anni, mi guardò stupita come se le avessi fatto una domanda incomprensibile. Aveva passato anni a “sopportare” e ora, con un altro uomo che aveva “difetti” di altro tipo (e meno “gravi”), stava comunque facendo la stessa cosa: evitava sia di accettarlo con i suoi limiti e di amarlo, sia di allontanarsene riconoscendo un’insoddisfazione insuperabile. Stava incollata in modo accusatorio a quella persona. Ogni tanto sbottava e poi tornava a “sopportare”. Un ragazzo che prolungava indefinitamente il suo corso di laurea, senza concluderlo e senza iniziare a lavorare, era consapevole di odiare i genitori (che “gli avevano rovinato l’infanzia”), ma era convinto di passare le sue giornate in modo inconcludente perché “incapace” di trovare “la forza di volontà” per studiare. Era un lettore incallito e studiava tutto tranne i libri necessari per dare esami.

Non è possibile aiutare tali persone ad uscire dal loro recinto senza mettere in discussione le loro convinzioni irrazionali di fondo. Sono convinte (senza ovviamente aver mai riflettuto su tale idea) di avere il diritto di essere amate. Restano stupite quando si accorgono di non saper giustificare tale convinzione. Le persone impantanate rimuginano costantemente su diritti e doveri senza mai accettare che la dimensione affettiva è uno spazio di libertà in cui tutto dipende dall’apertura interiore che può esserci o non esserci. Uno dei paradossi della “filosofia” delle persone pesanti riguarda il rapporto fra colpe e incapacità. Da un lato accusano gli altri di ciò che fanno, ma si giustificano sempre affermando di sbagliare “per incapacità”. Da un altro lato, dopo essersi “giustificate” con gli altri affermando la propria incapacità, si svalutano per tali presunte incapacità. Il nocciolo di tale filosofia sta in ciò che esclude e non nelle sciocchezze che afferma: esclude che a volte noi soffriamo perché gli altri non agiscono come vorremmo o non sentono ciò che vorremmo. Se le persone “impantanate” o “oppositive” arrivano a rinunciare al loro modo di pensare colpevolizzante o autocolpevolizzante accedono a sentimenti profondi ed alla sensazione di essere come “foglie al vento”. Proprio questa leggerezza ci rende persone: siamo persone perché siamo esseri sensibili, pieni di desideri e quindi esposti alle gratificazioni ed alle frustrazioni. Se accettiamo i nostri vissuti infantili, proviamo gioia e gratitudine per ciò che abbiamo ricevuto  e proviamo dolore per ciò che non abbiamo ricevuto. In entrambi i casi proviamo compassione nei nostri confronti e nei confronti degli altri.

In genere le persone “pesanti” sono tali anche sul piano fisico: struttura corporea massiccia, spalle incurvate e lieve (o marcato) sovrappeso. Alcune persone “pesanti” sono bulimiche, ma questo sintomo non è necessariamente presente nel quadro caratteriale in questione. Ho visto alcune persone molto “prese” da difese masochistiche, ma fisicamente tutt’altro che massicce e senza un marcato incurvamento delle spalle. In tali casi le difese masochistiche erano “subordinate” ad altre difese caratteriali. Le persone “pesanti” hanno bisogno di svolgere nelle sedute un lavoro fisico intenso per “percepire” la collera che tengono “sotto controllo” con la loro ipertonia muscolare, ma hanno prima di tutto bisogno di diffidare della loro “filosofia”, perché, finché ragionano in termini di colpe/diritti/doveri e di “capacità/incapacità”, non sono in alcun modo disponibili a collaborare e possono solo “sopportare anche tali esercizi” per dimostrarne l’inutilità degli sforzi dell'analista. Anche il senso di colpa non è presente solo nelle persone “pesanti” e compare anche in persone depresse o ossessive. Praticamente qualsiasi persona, anche relativamente equilibrata ogni tanto colpevolizza o si sente in colpa perché l’etica è culturalmente consolidata e costringe tutti (a partire dagli anni dell’infanzia) a svalutare/svalutarsi per non sentire la solitudine. Nelle persone “pesanti” l’idea della colpa è però molto radicata ed è legata a passività, inconcludenza, pretese silenziose e “incapacità”. Il “pantano” dei masochisti è una costellazione di atteggiamenti in cui la deresponsabilizzazione si unisce al senso di colpa e la colpevolizzazione degli altri è sistematica. L’accondiscendenza delle persone impantanate non è attuata con l’illusione di essere amate “dopo”, ma con la sensazione di non potersi sottrarre a un’imposizione, con la rabbia per l’oppressione “subìta” e con una gran voglia di ribellione.

Sia le persone depresse, sia quelle impantanate a volte esprimono il desiderio di morire alle persone care. Tuttavia, nella depressione di una certa gravità il suicidio è possibile come gesto di rabbia distruttiva nei confronti di una vita che non soddisfa dei bisogni sentiti confusamente, ma intensamente. Nel pantano, invece, le affermazioni riguardanti la “voglia” di morire servono più per esasperare gli interlocutori che per manifestare un’idea realmente presente. Ciò ovviamente non va preso alla lettera, dato che persone con un marcato carattere masochista possono anche attivare difese più profonde e più distruttive.

L’empatia è scarsa nelle persone pesanti come nelle persone con altre difese psicologiche, ma gli orali considerano gli altri come oggetti desiderati da cui “trarre nutrimento” (oppure negano con la contro-dipendenza qualsiasi coinvolgimento affettivo), mentre le persone “pesanti” considerano gli altri come dei genitori a cui opporsi. Le persone depresse, quindi vogliono “di più” (o fingono di non volere nulla), mentre quelle “pesanti” vogliono “ottenere giustizia” ed assumono un atteggiamento oppositivo. A differenza del carattere orale che in modi lievi o gravi protegge la persona da un vissuto di vuoto e di privazione, il carattere masochista protegge la persona da un vissuto di umiliazione e di svalutazione. La depressione è un atteggiamento di rifiuto della realtà percepita come intollerabile in quanto non appagante i bisogni elementari di appoggio, riconoscimento, accoglienza. Le persone con un carattere orale sprofondano in sintomatologie depressive quando falliscono nella loro negazione del vuoto. La persona depressa detesta (difensivamente) se stessa per mantenere l'idea che se fosse migliore otterrebbe quel che vuole, oppure detesta (difensivamente) il mondo perché privo di senso in quanto "inadempiente" (salvando così l'illusione che il mondo "dovrebbe" essere “appagante”). Nelle varianti psicotiche di questi atteggiamenti difensivi, si manifesta anche una negazione delle coordinate essenziali della realtà e quindi una totale negazione del valore di sé e del mondo oppure un altrettanto irrealistico senso di onnipotenza. Nelle forme lievi o gravi, la problematica orale rinvia ad una fase molto precoce dello sviluppo affettivo e le persone con caratteristiche difensive orali manifestano un senso basilare di fragilità. Le persone con caratteristiche difensive masochistiche, al contrario, non sono e non sembrano fragili e non cadono facilmente nella psicosi, anche se si difendono da vissuti dolorosi dell'infanzia in modi che possono essere più o meno accentuati e distruttivi. Le persone che presentano aspetti masochistici nei loro atteggiamenti difensivi rivelano una sicurezza di base relativa al valore della loro vita e della vita in generale, sono affidabili per molti aspetti e sono anche capaci di “dare” (magari in modo distorto e condizionato). Chiaramente soffrono,  ma soffrono in modo controllato perché comunque non hanno elaborato dei vissuti molto penosi con cui non vogliono entrare in contatto. Spesso gli atteggiamenti masochistici vengono confusi dai medici (ma anche dagli psicoterapeuti e dagli psichiatri) con quelli depressivi e ciò dà luogo a gravi errori sia nelle terapie farmacologiche, sia negli interventi psicologici.

Il senso di oppressione percepito dalle persone con difese masochistiche non va riferito ad oggettive forme di oppressione attuali o antiche, ma all'auto-oppressione (anche muscolare) che tali persone attuano) imponendosi il “pantano”, la “pesantezza” e la costante oppositività agli altri. Parlando di depressione e di atteggiamenti masochistici parliamo di due modalità difensive che per alcuni aspetti assomigliano alla tristezza, pur costituendo delle difese dalla tristezza. Sia nella depressione, sia nel "pantano masochistico" c'è quindi una (pseudo)sofferenza esibita che copre un dolore molto profondo. Nelle situazioni gratificanti della vita adulta, la persona depressa prende tutto senza sentirsi mai appagata e senza provare gratitudine, mentre la persona “pesante teme proprio la gratificazione, l'amore, l'accettazione perché tali esperienze la lasciano disarmata e disorientata. Per questo sono tipici dei masochisti due atteggiamenti apparentemente incomprensibili: la propensione a cacciarsi "ingenuamente" nei guai e la capacità di rovinare le belle occasioni. L'orale cerca l'amore e non sa che farsene, mentre il masochista crede di cercarlo mentre lo evita. Sul piano fisico le persone con carattere orale sembrano "molli"; hanno anche ipertonia muscolare localizzata (ad esempio nella bocca), ma fondamentalmente sono poco "toniche". Tendono per il loro aspetto a far tenerezza e a sollecitare atteggiamenti protettivi. Sul piano fisico le persone impantanate hanno masse muscolari molto sviluppate (ad esempio nella zona delle spalle e delle gambe) e tendono, per il loro aspetto, ad infondere sicurezza, perché sono comunque anche capaci di “dare”, almeno quando non sono impegnate a distruggere i rapporti.

Con un cliente, che chiamerò Renato, dopo almeno un paio d’anni di lavoro molto difficile, focalizzato sulla sua accondiscendenza e sulla sua rabbia silenziosa, feci un tentativo di lavorare fisicamente sulla tensione che avvertiva alla gola. Come era prevedibile egli suggerì di rinviare il lavoro, ma poi ammise di temere che il lavoro fisico potesse aggirare il suo controllo.
GF. Farò una lieve pressione su un punto probabilmente molto teso della gola. Appena intensificherò la pressione avvertirai dolore fisico e immediatamente dovrai urlare con tutto il fiato che hai e continuerai anche se io interromperò subito la pressione dolorosa. La pressione in quel punto facilita l’uscita della voce, ma appena urlerai smetterò di fare pressione per non causarti un inutile dolore.
R. OK, ci proverò.
GF. Non serve che ci provi. Occorre che tu lo faccia.
Più volte smette di urlare appena interrompo la pressione e gli ricordo che non deve interrompere l'urlo. Ad un certo punto lascia uscire un grido prolungato e molto forte che lo lascia un po' spiazzato, date le sue consuete "difficoltà" ad “esprimersi”. Dice di sentirsi “leggero, ma strano”. Non piange, ma sembra stia controllando un pianto molto profondo. Mi propongo quindi di arrivare a fargli almeno capire quanto sia stato determinato a irrigidirsi in un autocontrollo che lo faceva sentire oppresso ma forte.
GF. Chi vorresti qui, con te, a condividere il piacere di questa leggerezza?
R. Mia madre. Però lei non vorrebbe stare con me in questa situazione così delicata.
GF. Mi piacerebbe darti qualcosa che potesse compensare questa mancanza. Il mio affetto e la mia partecipazione vanno però all'unico Renato che conosco, cioè all'uomo. Niente può giungere al bambino che senti dentro, ma che non esiste più nella realtà e che non può quindi ricevere più nulla.
R. Lo so. Lo so. Mi abbraccia e si lascia andare ad un pianto lungo e profondo.

Con i clienti impantanati, pesanti e oppositivi, sedute come queste sono decisamente inconsuete. Se si verificano sono il risultato di un lavoro compiuto per lungo tempo su noiosi dettagli del loro modo di vivere. Spesso queste persone interrompono il lavoro appena si sentono meglio, ma in sedute di questo tipo capiscono davvero quanto si siano ostinati a soffocare i loro sentimenti. In ogni caso, a mio parere, sono preziose anche le sedute in cui non vengono toccate emozioni profonde. Il lavoro analitico in generale e quindi anche quello sulle difese masochistiche non è un insieme di sedute "epiche". Ogni elemento rilevante sul piano cognitivo e/o emotivo prepara la strada ad una ristrutturazione della visione della realtà e solo in certe occasioni le emozioni possono affiorare con tutta la loro intensità.

Una cliente che chiamerò Delia inizia la seduta riprendendo ciò che era stato sottolineato nell'incontro precedente.
D. Mi riconosco nella posizione di persona "piantata in terra", di cui avevamo parlato. Però non vedo alternative. Quando penso alla possibilità di dire sempre quel che penso o anche di provare qui, nella seduta, ad esprimere le cose che sento dentro … mi sembra di essere incapace. L'idea di urlare, poi, mi risulta inconcepibile.
GF. Se quando hai suonato il campanello del mio studio io non avessi risposto e se mi avessi visto dall'altra parte della strada che ti gridavo "Sto arrivando, puoi aspettarmi?", cosa avresti fatto?
D. Ti avrei risposto di sì.
GF. E come ti saresti fatta sentire in mezzo al traffico?
D. So dove vuoi arrivare. Avrei urlato "sì". Però …
GF. Dunque sei capace di urlare. Il problema vero è un altro: cosa senti o vedi dentro di te se pensi alla possibilità di urlare?
D. Se mi vedo urlare vedo mia madre che "tira su il muro". Non c'è più. E' lì, ma è assente, come se non ci fosse.
GF. E cosa ti dice con quel "muro".
D. Che non valgo niente [Le trema la voce e le si inumidiscono gli occhi].
GF. In quella scena c'è il tuo dolore. In momenti di quel tipo, da piccola, hai deciso di non “esporti” e anche, sul piano fisico, di non alzare la voce. Hai deciso così perché sentivi di non tollerare quella svalutazione e perché sentivi di tollerare il tuo autocontrollo. Obbedendo e considerandoti vittima di un ricatto ingiusto hai sentito di essere forte e di avere diritto a qualche "risarcimento". E ti sei affezionata a questa modesta, ma gratificante, sensazione di forza.
D. E' così.
GF. In quello stato d'animo da vittima, per quanto a disagio, senti di avere una capacità di gestire la situazione, di portarla avanti senza sorprese. Quel "pantano" ti opprime, ma ti rassicura. Puoi quindi cercare di riprodurre anche con me quel braccio di ferro. Io ti invito al lavoro fisico e tu resti buona e zitta. Mantieni la tua ribellione nella passività e nel trattenerti. Fai la brava venendo puntuale alle sedute, ma non me la dai mai vinta, come se io fossi il tuo nemico anziché una persona che lavora con te su tua richiesta.
D. D'accordo, potrei lavorare un'ora qui con te, colpendo con i pugni il materassino e urlando come una matta quello che voglio, ma non so nemmeno cosa voglio!
GF. Perché mi dici queste stupidaggini?
Il dialogo prosegue su questa linea. Delia mi dà risposte che sono provocazioni, prende tempo, esita, ascolta e riflette, fino alla fine dell'ora. Ad un certo punto sta per piangere, ma lascia uscire solo due lacrime, più per mostrarmi che “la metto in difficoltà” che per esprimere una vera sofferenza. Alla fine dell'ora non ha ceduto su nulla, ma ha almeno ammesso di essere ostinata e di fare un’opposizione che la fa sentire forte.

Queste sedute “noiose” e apparentemente inconcludenti, consentono ai clienti di fare, prima o poi, delle sedute “vere”, se il lavoro non viene interrotto. Infatti prima di riconoscere che cercano di manipolare gli altri devono comprendere che quando pensano di “non riuscire” a fare qualcosa stanno semplicemente evitando di fare qualcosa o che quando "non sanno cosa vorrebbero", stanno in realtà negando di desiderare ciò che potrebbero non ottenere. Questi piccoli passi consentono di riconoscere il loro ruolo attivo in situazioni “bloccate” e quindi di capire cosa desiderano, cosa temono e cosa evitano di sentire. Solo a quel punto possono accettare una collaborazione finalizzata all’esplorazione delle emozioni e in particolare del dolore mai accettato. Anche se è importante il lavoro fisico con le persone “pesanti” e oppositive, qualsiasi lavoro viene “sprecato” se prima il cliente non comprende il significato del lavoro analitico. A tale proposito devono essere chiarite in generale e in modo dettagliato alcune cose che per altri clienti possono risultare scontate: a) l’analisi dell’irrazionalità di un comportamento non equivale ad una svalutazione della persona, b) il cliente non “deve” fare nulla per l’analista ed è proprio l’analista che ha il compito di risultare utile, c) l’intenzionalità inconscia non è “la prova di una colpevolezza”, d) la collaborazione con l’analista non è una sottomissione, e) il riconoscimento dell’irrazionalità e della distruttività di certi atteggiamenti non è una sconfitta. Tutto ciò rende “pesante” il lavoro analitico sulla “pesantezza”, ma è necessario, perché se l’analista interpreta la “educata sottomissione” del cliente (o addirittura, in certi casi, l’atteggiamento “adorante” nei suoi confronti) come una disponibilità sincera alla collaborazione, finisce per veder presto demolito anche il lavoro più accurato sui contenuti portati dal cliente.

Quando le persone pesanti iniziano a cambiare descrivono con un umorismo davvero tagliente le loro tendenze. Fanno affermazioni “spietate” ma animate da una lucida benevolenza, che in precedenza avrebbero “subìto” come aggressioni offensive. Un cliente si è espresso così: “Stavo per attaccare la lagna, ma sono riuscito a tener ferma la lingua e ho capito che le cose stavano così e che solo accettando la situazione potevo tentare di modificarla”. In un altro momento ha detto “Mi è scappato un cenno di assenso, ma ho capito che dopo le genuflessioni sarei diventato Terminator. Ho quindi detto che non ero d’accordo e mi sono risparmiato di fare casino con una persona che non si meritava proprio il mio trattamento abituale”. Se arrivano a questo punto hanno incrinato il loro modo di pensarsi, di pensare agli altri e di interagire con gli altri; possono quindi iniziare a vivere con leggerezza e con intensità i momenti belli e quelli dolorosi. Infatti la loro pesantezza era concepita come espressione di sentimenti “profondi”, mentre in realtà impediva qualsiasi reale contatto emotivo. Con queste persone i risultati da me raggiunti sono stati spesso parziali o scadenti, ma, al di là di ciò, ho “toccato con mano” il vero problema che normalmente in psicoterapia non viene nemmeno inquadrato perché il “pantano” viene in genere interpretato dagli psicoterapeuti come un sintomo depressivo e le “lagne” sono recepite come espressioni di una reale sofferenza; con l'eccezione dei testi del filone reichiano e loweniano, mancano articoli e libri su tali questioni e tale “vuoto” di teoria genera fraintendimenti. Inoltre, l’incapacità dichiarata dalle persone impantanate e oppositive, purtroppo, si incastra perfettamente con la concezione “terapeutica” secondo cui i “pazienti” sono “affetti” da “patologie psichiche”, sono "incapaci" e "bisognosi di supporto psicologico".

Un cliente, che chiamerò Gianni era in una fase avanzata della sua analisi quando incontrò una ragazza, che chiamerò Anna. Fu un colpo di fulmine per entrambi, anche se io invitai Gianni a riflettere bene prima di prendere decisioni importanti, per via di alcune caratteristiche “pesanti” che in situazioni circoscritte Anna aveva già mostrato. Le liti sono sempre un segno di scarso amore, dato che la rabbia è appropriata solo nei confronti di estranei aggressivi. Se c’è una situazione difficile con una persona amata, la risposta emotiva appropriata è il dispiacere, il tentativo di superare gli ostacoli e al limite la consapevolezza della triste necessità di una separazione. La rabbia non ha mai senso in una relazione di coppia. Punto. Infatti, di fronte ad alcune evidenti provocazioni di Anna, a volte Gianni si mostrava infastidito, ma cercava sempre e comunque di chiarire le cose. Anna “non sopportava” questi tentativi di riavvicinamento ed anzi li bollava come manipolazioni volte a “piegarla”, e si arrabbiava ancora di più. Preferiva lasciar sbollire la rabbia e riprendere il rapporto senza aver chiarito nulla. Messa alle strette, a volte scoppiava in lacrime, si scusava e poneva termine al conflitto, ma in realtà non si metteva davvero in discussione. Gianni era turbato da questi scontri che si verificavano ogni tanto “senza veri motivi”, ma insisteva a dirmi che Anna, dopo ogni discussione, si scusava e quindi non aveva difese troppo profonde. Aveva qualche ragione quando affermava che comunque non avrebbe mai incontrato una compagna “perfetta” ed anche quando mi ricordava di considerarsi fortunato per il fatto che, a differenza di altre sue compagne, Anna riusciva a riconoscere le proprie chiusure dopo aver manifestato un atteggiamento difensivo. Io notavo che se Anna “si scusava” dimostrava un inutile “pentimento”, ma non una vera consapevolezza delle ragioni della propria oppositività, ma Gianni era molto coinvolto e sperava che i sentimenti profondi avrebbero prevalso sulle difese. Infatti, molti aspetti della relazione erano realmente appaganti. Interruppe il nostro lavoro nonostante io lo sconsigliassi. D’altra parte non potevo insistere più di tanto, perché effettivamente stava molto meglio di quando aveva iniziato l’analisi. Il lavoro sulle sue illusioni e sulla sua rabbia aveva reso Gianni capace di piangere con se stesso e di non pungolarsi più. Ora rischiava un ottimismo opposto: l’illusione di potersi adattare a tutto, dato che contava sulle proprie risorse e sulla propria compagnia. Rischiava cioè di “accontentarsi” dopo essere stato “incontentabile”. Doveva ancora trovare un equilibrio e, a mio avviso, Anna costituiva l’incastro “giusto” per questo suo ottimismo ben razionalizzato, ma comunque difensivo.

Dopo due anni, Gianni mi cercò per riprendere il lavoro. Continuava ad avere un buon rapporto con se stesso, non era “tornato indietro”, ma si trovava in una situazione difficile dopo essersi “incastrato” per bene con Anna, grazie alla (gradita) presenza di una figlia. Anna continuava a creare situazioni frustranti, a manifestare atteggiamenti vittimistici e a provocare “burrasche” decisamente ingiustificate. Piccole cose che guastavano l’armonia. Anna, pur sentendo affetto per Gianni e stimandolo molto, teneva più al proprio sogno di “non cedere” che alla felicità del suo compagno.

Gianni sentiva il bisogno di propri spazi in casa e tali spazi venivano sistematicamente occupati. Anna trattava tutti gli spazi comuni come se fossero propri. Poi era disponibilissima a cucinare per entrambi dei piatti impegnativi e prelibati. Tuttavia, Gianni non è una di quelle persone che in casa vogliono essere servite da donne-cameriere, ma una di quelle persone che a casa vuole sentirsi a casa, fare la propria parte e avere i propri spazi. Ovviamente, se Gianni fosse stato il classico maschio autoritario, Anna si sarebbe sottomessa a molte sue pretese per poi deluderlo in altri modi. Una sera Gianni le disse che non era felice. L’amava come il primo giorno, desiderava una vita con lei, ma non voleva più critiche pretestuose e liti ingiustificate. Inoltre era anche sconfortato perché negli ultimi tempi le discussioni non si erano più concluse con un pianto, delle scuse ed un abbraccio, ma si erano semplicemente stemperate. In pratica, solo lui continuava a piangere. Voleva quindi sapere se la relazione aveva basi solide o era destinata a procedere in quel modo. Lei non gli rispose. Lo lasciò “friggere” un po’, poi gli disse che non si era sentita accettata. Gianni non era felice con Anna, non voleva lasciare Anna perché la figlia aveva bisogno di entrambi e aveva davanti a sé gli anni della maturità guastati da una convivenza conflittuale. Se avesse riattivato le proprie difese caratteriali avrebbe squalificato Anna e favorito un divorzio bellicoso, ma non aveva proprio preso in considerazione questa possibilità. In questo si stava rispettando e quindi rispettava anche Anna.

Chiarimmo che aveva preteso troppo da sé. Che in fondo si era illuso di poter compensare con la propria “impeccabilità” i limiti di Anna. Che aveva anche sopravvalutato i sentimenti di Anna per lui. Anna non si preoccupava di renderlo felice ma di “vivere la propria vita” con lui. Di fronte al “rischio” del coinvolgimento, della dipendenza, del “tuffo” in un’intimità in cui lui sarebbe risultato davvero prezioso, lei aveva scelto di sentirsi “oppressa ma combattiva” e lo aveva più volte colpito al cuore. Anna non aveva fatto cose particolarmente gravi, ma cose che, in una persona lucida e sensibile come Gianni, avevano avuto effetti profondi. Mentre nei rapporti d’amore la “resa” al/alla partner è la parte più bella della relazione, perché implica vulnerabilità ma anche fiducia e gioia per l’intimità conquistata, nei rapporti “di potere” (costruiti a partire dalla paura di vissuti dolorosi), ciò che conta è sottomettere l’altra persona (nelle strutture caratteriali sadiche) o sperimentare una reale o immaginaria sottomissione (nelle strutture caratteriali masochiste). Gianni mi chiese: “Vorrei proprio sapere cosa ci guadagna a fare cose del genere”. Gli risposi che ci guadagnava solo "una bella dissociazione": evitava di sentire che sei l’unica persona al mondo che le ha voluto bene. Chiarii a Gianni che Anna aveva paura di sperimentare una buona intimità perché in una buona intimità si sarebbe nuovamente sentita “nelle mani” di qualcuno. Preferiva quindi mettere una distanza piuttosto che rischiare un rifiuto, non prevedibile, ma possibile. Gianni pianse a lungo e anche io mi resi conto che davvero non aveva alcuna possibilità di “toccare” il cuore di una donna capace di essere generosa e sensibile, ma spaventata proprio dall’intimità con lui. Il legame costituito dalla presenza della figlia, amatissima da entrambi, rendeva Gianni doppiamente addolorato: non solo per il rapporto irrecuperabile con Anna, ma per la necessità di convivere ancora con lei o di frequentarla anche dopo un’eventuale separazione.

Questi fatti rendono inevitabile una domanda: come fanno le persone impantanate o “pesanti” a sopportare la visione desolante della sofferenza che generano nei conviventi? Di fatto sono persone sensibili e capaci di rapporti empatici: possono ad esempio essere molto sollecite con gli anziani e intolleranti con il/la partner o molto disponibili verso gli animali e propense a massacrare “senza pietà” i figli. Come fanno a non sentire dispiacere per il dispiacere che creano? Credo che riescano a non essere empatiche proprio perché riescono a sentirsi vittime: classificano i loro interlocutori come oppressori e quindi come “oggetti” (da punire o da cui affrancarsi) e non come “soggetti” (e quindi esseri sensibili e vulnerabili). Le persone “pesanti”, si perdono nel loro “film” vittimistico e interrompono il contatto emotivo con le persone con cui costruiscono il loro gioco difensivo. Non “sentendole” come persone possono colpirle senza provare dispiacere. Dopo aver creato questa distorsione, possono anche mantenere la loro insensibilità di fronte ad evidenti segni di sofferenza: addirittura possono interpretare il dolore altrui come una manifestazione di vittimismo. In sintesi, per paura di una relazione calda, appagante, “leggera”, provocano conflitti, inventano soprusi inesistenti (o li sopportano pazientemente se tali soprusi sono effettivamente presenti), si lamentano definendosi “incapaci” di “liberarsi”, accumulano rabbia. agiscono vendette in modi passivi e ogni tanto esplodono con accuse e svalutazioni aperte (giustificandole con l’idea di aver “sopportato troppo”). Tali persone, se sono incalzate con i ragionamenti si chiudono maggiormente, se sono invitate a notare evidenti inadempienze “si giustificano”, se sono criticate piagnucolano e se sono apertamente contestate sopportano in attesa di sbottare. Non sono interessate a riflettere sugli scopi dei loro comportamenti. Tali persone non possono davvero cambiare fino a quando non capiscono di essere responsabili della situazione di cui si lamentano. Purtroppo osteggiano qualsiasi attribuzione di responsabilità perché percepiscono tale sollecitazione come una svalutazione.

Va notato che in genere, nonostante la violenza passiva agita dalle persone “impantanate”, i/le partner di queste persone in genere non sperimentano un profondo dolore nella relazione di coppia, dato che attivano a loro volta le loro difese caratteriali. L’esempio fatto in precedenza di Gianni e Anna è infatti abbastanza insolito, proprio perché Gianni non aveva scelto Anna per un “incastro caratteriale”, ma nella speranza (eccessiva) di poter condurre Anna su un piano di complicità e di intimità. Gianni aveva sottovalutato l’intensità delle difese di Anna, ma non era stato né insensibile ad esse, né “attratto” da esse. Molte persone sentono invece poco le frustrazioni dei/delle loro partner “pesanti” perché sentono poco in generale. Altre persone sentono poco tali frustrazioni perché si coinvolgono più in situazioni “esterne” (lavorative, amicali, o sociali) che nella relazione stessa. Altre persone reagiscono con rabbia e poi non ci pensano più. Altre persone “si adattano” pur di non sentirsi sole. Inoltre, alcune persone agiscono davvero le svalutazioni di cui vengono accusate e quindi mettono in conto di essere detestate pur di continuare ad agire in modi offensivi. In tutti questi casi, una relazione di coppia assurda viene sentita come una relazione normale.

Una buona percentuale di coppie è costituita da donne e uomini “pesanti”. In questi casi di “doppia pesantezza”, il marito non sta fuori di casa a corteggiare donne, ma passa le notti in ufficio e a casa si mostra “stanco”. La moglie si stanca ad aspettare il marito ed il marito si stanca a lavorare tanto. In questa “stanchezza generale”, i figli devono essere molto “responsabili” per non turbare l’equilibrio famigliare. Facilmente i figli vengono “sopportati” e repressi, oppure, se sono “troppo esuberanti”, vengono derisi e umiliati. Dopo essere stati accuditi con cura perché erano piccoli, vengono schiacciati perché si rifiutano di comportarsi “da grandi”. Hanno buone probabilità di sviluppare strutture caratteriali masochistiche. Non perché “contagiati”, ma perché profondamente respinti dopo essere stati accolti. Le persone con carattere masochistico (o “pesanti” o “impantanate”) non sono certamente le uniche ad evitare l’intimità, a provare emozioni irrazionali e a turbare la vita delle persone care. Ciò che caratterizza le persone “pesanti” è quella specifica strategia difensiva che ho ricapitolato sotto l’etichetta della “oppositività”. Tali persone possono sicuramente cambiare, ma solo capovolgendo con un lavoro analitico (non “psicoterapeutico”) il loro modo di (s)ragionare e quindi di sentire. Gradualmente possono comprendere la loro responsabilità nell’agire in un certo modo. Purtroppo, per cambiare “di un pelo” la loro vita, devono capovolgerla.

A mio parere il lavoro analitico sull'oppositività e sulla "pesantezza" si svolge in tre fasi. Nella prima, prevalentemente cognitiva, si costruisce un’alleanza fra cliente e analista basata sulla comprensione della strategia difensiva e del fatto che tale strategia protegge da vissuti di bisogno molto dolorosi. Quando i clienti hanno già fatto altre esperienze di psicoterapia, apprezzano l’analisi “spietata” della loro strategia difensiva, perché erano abituati a ricevere un “sostegno” inutile. L’analisi dell’intenzionalità difensiva consente infatti un’alleanza fra l’analista e la “parte” di queste persone che funziona su un piano razionale. Nella seconda fase (se ci si arriva), il cliente è disposto a collaborare e quindi l’analista può utilizzare delle tecniche orientate alla sperimentazione delle emozioni temute. In questa fase possono rivelarsi molto valide le tecniche corporee o l’EMDR (Schapiro, 1995) o le rappresentazioni di matrice gestaltica (Perls, 1973). Nella terza fase, si consolida una maggior apertura emotiva nelle relazioni quotidiane significative e il cliente passa dalla tendenza a “sentire le solite cose” alla disponibilità a sentire intensamente il dolore e la gioia. Ovviamente ognuna di queste tre fasi è soggetta a sabotaggi inconsapevoli da analizzare e ognuna di tali fasi mette il/la cliente in una posizione scomoda in cui deve decidere se restare nella propria “botte di ferro”, accontentandosi di quel po’ di sollievo ottenuto con il lavoro svolto sul piano cognitivo, o se rinunciare alle sue (finte) sicurezze per coinvolgersi nei rapporti interpersonali.





Bibliografia


E. F. Baker, 1969, L’uomo nella trappola, trad. it. Astrolabio, Roma, 1973
E. Berne, 1964, A che gioco giochiamo, trad. it. Bompiani, Milano, 1967 (rist.1974)
D. Boadella, 1987, Biosintesi, trad. it. Astrolabio, Roma, 1987
S. Freud, 1920, Al di là del principio del piacere, trad. it. in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino, 1977
A. Lowen, 1958, Il linguaggio del corpo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1978
R. Norwood, 1985, Donne che amano troppo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1989, rist. 2008
F. Perls, 1973, L'approccio della Gestalt, trad. it. Astrolabio, Roma, 1977
W. Reich, 1945, (ristampa ampliata, in lingua inglese, dello scritto del 1933), Analisi del carattere, trad. it. Sugar, Milano, 1973
F. Shapiro, 1995, EMDR-Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, trad. it. McGraw-Hill, Milano, 2000