lunedì 17 dicembre 2018

EMDR e lavoro analitico







L'EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è una tecnica psicoterapeutica che, nonostante la sua apparente semplicità, può produrre dei risultati notevoli (cfr. Shapiro, 1995; Shapiro-Forrest, 1997). La sua utilità è stata riconosciuta soprattutto nelle situazioni di emergenza, nel trattamento dei "disturbi post traumatici da stress" ed anche nel lavoro psicoterapeutico con i bambini (Greenwald, 1999). Costituisce anche uno strumento utilizzabile nell'ambito del lavoro analitico e, date le notevoli limitazioni del modo in cui la tecnica EMDR viene normalmente insegnata e applicata, a mio parere, solo nell’ambito del lavoro analitico essa può produrre risultati davvero significativi.

Francine Shapiro scoprì casualmente nel 1987 che certi movimenti oculari facilitavano l’integrazione e la rielaborazione di pensieri disturbanti e approfondì l'argomento fino a definire un protocollo di lavoro che è diventato l'intervento psicoterapeutico elettivo per il PTSD (Disturbo post traumatico da stress) e che attualmente, forse per la sua efficacia nel trattamento di molti disturbi dissociativi e per la sua stupefacente semplicità, costituisce l’oggetto di molte ricerche. Gli studi sull'argomento sono giustificati anche dal fatto che il successo pratico della tecnica non si accompagna ad un'altrettanto chiara spiegazione teorica. Sembra che tale intervento favorisca la capacità individuale di affrontare esperienze non integrate inducendo un funzionamento sinergico degli emisferi destro e sinistro del cervello e inducendo un'attività mentale simile a quella del sonno REM. Di fatto, in una sessione EMDR le persone riescono in molti casi a rivivere e a comprendere razionalmente situazioni originariamente recepite in modo frammentato e successivamente divenute il cardine di vari disturbi psicologici. La tecnica EMDR viene utilizzata per lavorare su un preciso tema disturbante ("target") di tipo traumatico individuando una convinzione negativa che il paziente ritiene di aver costruito reagendo a quell'esperienza. Le convinzioni negative su cui si lavora sono quelle che riguardano direttamente la persona ("non valgo nulla", "sono in pericolo", ecc.) e che in qualche misura sono divenute dei pregiudizi implicitamente attivi nella vita quotidiana. Si lavora con l'obiettivo che la persona giunga a sentire come "propria" una convinzione più ragionevole di quella di partenza (ad. es.: "valgo come le altre persone" o "posso affrontare eventuali pericoli", ecc.). All'inizio il paziente attribuisce alla convinzione negativa ed a quella positiva (che desidera sentire come propria) un punteggio in una scala soggettiva di valutazione riguardante l'intensità delle due convinzioni. Il lavoro si conclude quando la convinzione negativa ottiene un punteggio nullo e quella positiva un punteggio massimo. Si deve tener presente che le persone possono essere intellettualmente convinte di valere quanto gli altri anche se, di fatto, si sentono delle nullità. E' a questo livello (al livello del "sentire una convinzione") che si lavora con l'EMDR e, di fatto, la rielaborazione delle situazioni traumatiche fatta con le sollecitazione del terapeuta durante gli esercizi, porta spesso ad una modificazione dei punteggi inizialmente attribuiti alle due convinzioni.

La tecnica si articola in successivi esercizi brevi e molto semplici (ad es. seguire con gli occhi gli spostamenti a destra e a sinistra della mano del terapeuta) durante i quali il paziente non deve cercare né di rilassarsi, né di attivarsi mentalmente, ma deve lasciare che i pensieri fluiscano partendo dal target inizialmente individuato e, successivamente, dalle ultime sensazioni, idee o immagini emerse. Dopo ogni esercizio il paziente riferisce cosa ha pensato ed il terapeuta, di norma, non interviene e invita solo ad andare avanti col successivo esercizio. Riferisco questi approssimativi elementi informativi per sottolineare che il nocciolo dell'EMDR sta nella facilitazione di un lavoro mentale del paziente e non in una collaborazione fra terapeuta e paziente volta alla comprensione o all’approfondimento di vicende personali.

Ovviamente la tecnica EMDR prevede che il terapeuta prenda delle decisioni, uscendo dalla neutralità, in certe situazioni e che comunque decida quanto prolungare gli esercizi e se lavorare sul canale visivo o tattile o auditivo. In altre parole, una persona seduta davanti ad un metronomo che oscilla da destra a sinistra mentre pensa ai fatti propri non fa una seduta di EMDR. Quando il terapeuta considera "completata" una sequenza di esercizi, propone al soggetto di ripartire dal target iniziale e di avviare un altro ciclo. Il lavoro può essere ripreso nel corso di successive sedute e in qualche misura prosegue a casa, poiché spesso le persone notano che il lavoro fatto ha avuto degli strascichi emozionali o ha dato luogo a particolari riflessioni o ha fatto riaffiorare dei ricordi. Quando si giunge al punteggio ottimale, si eseguono alcuni controlli e si completa il lavoro con esercizi che dovrebbero "installare" la convinzione positiva. Queste operazioni vengono svolte in modo abbastanza ritualizzato, come tutto il lavoro EMDR e sono sempre condotte mentre il terapeuta sollecita l'attività dei due emisferi cerebrali con i consueti esercizi.

La tecnica è decisamente banale anche se la "passività" del terapeuta è solo apparente e per questo deve essere sconsigliata la pratica dell’EMDR a psicoterapeuti non esperti. Va comunque sottolineato il fatto che anche se la tecnica EMDR viene proposta come tecnica applicabile da terapeuti formatisi in qualsiasi scuola, tale tecnica è in certa misura dipendente da una concezione psicologica e psicoterapeutica cognitivista. Si consideri ad esempio che quando affiorano emozioni molto potenti i terapeuti sono invitati, se devono intervenire, a non "guidare" il cliente nella gestione del vissuto emotivo temuto, ma a sottolineare che esso è un aspetto del passato. Se la situazione emozionale non si placa, il terapeuta è invitato ad utilizzare tecniche di rilassamento, tra le quali quella del "posto sicuro" che, infatti, viene "preparata" prima dell'inizio del lavoro. In tale fase preparatoria si invita il cliente ad immaginare un luogo fisico, reale o immaginario, in cui egli si sente (o si è realmente sentito) in pace ed al sicuro e si procede con l'EMDR per "collegare" il cliente a tale "oasi" in modo che possa tornare là, in caso di necessità. Questo aspetto della tecnica EMDR costituisce a mio parere il suo punto più debole, anche se può avere una sua validità in psicoterapie di emergenza in cui il cliente fa solo alcune sedute, non ha esperienze analitiche precedenti e quindi non deve rischiare di star male dopo una seduta. Tale gestione delle emozioni rischia però di essere limitante in un lavoro approfondito.

L’uso di espedienti volti a “placare” eventuali emozioni intense è giustificato dal fatto che la tecnica EMDR viene insegnata in corsi relativamente brevi a psicoterapeuti formatisi in qualsiasi scuola, i quali, quindi, possono anche non avere alcuna familiarità con emozioni intense e non essere in grado di gestirle. D’altra parte, dato il collegamento fra EMDR e psicoterapia cognitivista, un lavoro approfondito sui vissuti emotivi non può essere adeguatamente teorizzato e nemmeno insegnato. L’utilizzazione del “posto sicuro” finalizzata a placare qualsiasi “tempesta emotiva” serve quindi a far agire con prudenza i terapeuti. L’estremo tecnicismo dell’EMDR rende particolarmente convincente l’idea che tale tecnica sia “terapeutica” e che si applichi come qualsiasi intervento medico volto a rendere “sano” un “paziente” affetto da una “malattia”. Chiarirò perché tale lettura dei fatti non è corretta né nel caso dell’EMDR, né nel caso delle tecniche psicoterapeutiche in generale, ma voglio prima chiarire meglio il quadro di riferimento nel quale si situa la teorizzazione dell’EMDR

EMDR significa “desensibilizzazione e rielaborazione attraverso movimenti oculari” (anche se in realtà la tecnica non riguarda solo l'induzione di certi movimenti oculari). La parola "desensibilizzazione" suona male per chi fa analisi, dato che rinvia ad una tecnica della terapia comportamentale in cui il paziente viene posto in stato di rilassamento muscolare e viene invitato ad immaginare situazioni per lui ansiogene in modo da associare l'evento temuto allo stato di rilassamento e ad "apprendere" modi non evitanti di reagire allo stimolo temuto. Suona male perché questa rozza psicoterapia assomiglia più ad un lavoro con i topi di un laboratorio che ad un lavoro con le persone. In tale prospettiva non ha spazio l’idea che la persona in questione abbia scelto (inconsciamente) di agire in modo irrazionale di fronte a certi stimoli e conta solo la modificazione di comportamenti disadattivi. In realtà l'intento dell'EMDR non è quello di desensibilizzare in modo artificioso le persone rispetto a certe situazioni, ma di "mettere in moto" un processo interno di “auto-guarigione”. A questo proposito Francine Shapiro si è espressa con chiarezza: "Questo processo di guarigione scaturiva dall'interno. Il mio ruolo era di guida, di agevolatore e testimone, ma non ero io a causare il mutamento nei miei soggetti" (Shapiro-Forrest, 1997, p. 37). L'idea di fondo quindi non è di condizionare un soggetto desensibilizzandolo, ma di favorire un funzionamento mentale ottimale. Per questo il termine desensibilizzazione viene associato a quello di rielaborazione e l'EMDR ha l'obiettivo di far superare la frammentazione con cui molte persone esposte ad una situazione traumatica recepiscono i vari aspetti della loro esperienza. La rielaborazione diventa quindi un'adattiva rivisitazione di esperienze difficili nel quadro di un adeguato esame di realtà.

Voglio sottolineare l'irriducibilità dell'EMDR a due approcci psicoterapeutici che solo superficialmente potrebbero essere ritenuti simili: l'associazione libera di tipo psicoanalitico ed il lavoro sugli occhi di matrice reichiana. Nell'associazione libera, il cliente fa associazioni e l'analista ascolta, annota, cerca un collegamento fra i pensieri che affiorano e chiude il lavoro fornendo un'interpretazione che dovrebbe produrre nel cliente un certo tipo di insight riguardante il materiale emerso. Al contrario, nell'EMDR l'interpretazione non ha spazio. Il cliente non "associa" per giungere con l'aiuto dell’analista ad un chiarimento di materiale inconscio, ma ricompone aspetti di esperienze che erano state recepite in modo frammentato. Il cliente, in altre parole non deve diventare consapevole di conflitti interni, ma deve recuperare e assemblare dei pezzi di vita che non ha “archiviato” in modo ottimale. Inoltre, l'EMDR non implica la concezione della mente e dell'inconscio che orientano le interpretazioni di tipo psicoanalitico e questa "neutralità", per chi, come me, non condivide le premesse teoriche della psicoanalisi, è ovviamente positiva.

Poiché l'EMDR prevalentemente si traduce nella sollecitazione di certi movimenti oculari, può erroneamente essere collegata al lavoro sugli occhi elaborato da Wilhelm Reich nel quadro dell’analisi del carattere e dello scioglimento dell’armatura muscolare (che include anche la muscolatura degli occhi). Pur considerandomi da molti anni distante dall'orizzonte (pseudo)teorico reichiano, continuo ad utilizzare tecniche corporee ed anche quelle relative al segmento oculare. Ritengo tuttora che siano valide, ma voglio sottolineare l'irriducibilità della tecnica EMDR al lavoro corporeo.

La logica del lavoro corporeo si sviluppa a partire dall’idea secondo cui le persone non si difendono dalle emozioni profonde solo concependo la realtà in modi riduttivi e comportandosi in modi irrazionali, ma anche alterando il tono muscolare in vari segmenti corporei deputati all'espressione emozionale (Reich, 1945). Così come le persone bloccano il diaframma o i muscoli respiratori del torace per "sentire di meno" o irrigidiscono le spalle in modi adatti ad offrire un'immagine di sé "forte", o “pesante”, possono anche congelare lo sguardo in espressioni spaventate, sfuggenti, fredde, "vuote", ecc. I muscoli estrinseci del bulbo oculare, se mantenuti in uno stato di tensione cronica, riducono sia la mobilità fisica degli occhi, sia la percezione e l'espressione di certe emozioni, incidendo sulla qualità e sull'intensità del contatto emotivo. Il lavoro sugli occhi nella terapia reichiana si svolge nello stesso quadro di riferimento del lavoro sugli altri segmenti dell'armatura, anche se ovviamente non può includere la pressione meccanica sui muscoli del segmento. Si sviluppa quindi principalmente con esercizi finalizzati a stancare certi muscoli fino ad indurne un rilassamento forzato ed a facilitare l'affioramento di vissuti “congelati” dalla persistenza del blocco. Lavorando sugli occhi, a volte, le persone entrano in contatto con intense emozioni (difensive o autentiche) e possono, se adeguatamente aiutate dall'analista, comprendere meglio cosa temono, evitano o confondono nelle loro relazioni interpersonali e nel loro dialogo interiore. La dottoressa Barbara Goldenberg ha introdotto il lavoro con una piccola fonte luminosa nel contesto degli esercizi sugli occhi, ampliando ed approfondendo la qualità dell'intervento sul blocco oculare (cfr. Baker, 1969, pp. 72-75).

E' curioso che uno degli esercizi sugli occhi, che pratico da molti anni, sia sostanzialmente identico a quello generalmente svolto nell'EMDR. Esso, come gli altri provoca a volte profonde emozioni, soprattutto di paura, e costituisce un buon espediente per mobilizzare gli occhi e affrontare vissuti non elaborati. Gli esercizi "reichiani" sono però assolutamente irriducibili a quelli dell'EMDR per la modalità del loro svolgimento e perché collocati in un diverso rapporto con il cliente. Gli esercizi della scuola reichiana hanno come scopo quello di stressare i muscoli estrinseci dell'occhio fino ad indurre un loro rilassamento forzato, e quindi devono durare almeno dieci minuti. Quelli dell'EMDR, avendo invece come scopo l'attivazione sinergica dei due emisferi cerebrali, durano molto meno, ovvero quel tanto che serve al cliente per lasciar affiorare un pensiero o una sensazione da comunicare poi al terapeuta. Qualsiasi tecnica ha un significato preciso nel quadro di un particolare rapporto interpersonale, caratterizzato da obiettivi condivisi. Nel caso degli esercizi sul segmento oculare, il cliente è invitato a seguire il movimento della punta di una matita o di una piccola fonte luminosa e ad accogliere le emozioni che può sperimentare. Nell'EMDR il cliente è invitato invece a focalizzarsi su una particolare scena traumatica ed a lasciare che la sua mente sviluppi una catena associativa mentre egli segue il movimento della mano dell'analista. In entrambi i casi il cliente non è passivizzato ed è invitato a lasciare che “affiori ciò che deve affiorare”, ma nel lavoro corporeo il cliente è sollecitato a "sentire" e ad esprimere, in seguito, ciò che affiora quando il blocco "cede"; è anche guidato dall'analista a realizzare un'espressione compiuta di ciò che ha sentito ed è aiutato dall'analista a chiarire ciò che può affiorare in modo confuso. Nell'EMDR, invece, il cliente è sollecitato a lasciare che ricordi ed emozioni relativi ad una specifica situazione emergano e si organizzino "naturalmente".

Ho praticato l'EMDR con persone in analisi che avevano già avuto l'opportunità di chiarire le loro strategie difensive, di toccare alcuni vissuti significativi e di attuare dei cambiamenti. Non ho quindi esperienza di sedute di EMDR con persone sconosciute, o in situazioni di emergenza, o con persone con traumi recenti. In ogni caso, le mie riflessioni non riguardano l'utilità (già documentata) dell'EMDR per disturbi psicologici post-traumatici, ma riguardano specificamente l'utilità dell'EMDR nell'ambito di un lavoro analitico. Ho notato che a volte i clienti che svolgono una seduta di EMDR nella fase avanzata o conclusiva del loro percorso, fanno un'esperienza abbastanza particolare (che io stesso ho fatto nel corso del mio training per sperimentare di persona -da “paziente”- la tecnica EMDR): non "scoprono" niente di nuovo, ma collegano armoniosamente e con un adeguato coinvolgimento emozionale esperienze recenti ed antiche, conoscenze acquisite ed emozioni significative. In questi casi il lavoro è una sorta di "lusso", ma costituisce un'esperienza valida. Con clienti collocabili "a metà strada" del loro percorso, ho notato che il lavoro svolto con la tecnica EMDR aveva spesso esiti positivi, anche se mi mantenevo nel ruolo "passivo" di "facilitatore" previsto dal protocollo di base. Ho però anche notato che in altri casi sono risultati necessari dei miei interventi attivi: a volte, infatti, i clienti entravano in circoli viziosi mentali o in stati emotivi difensivi da cui non uscivano da soli in tempi per me accettabili. In tali casi, ovviamente evitavo di “tranquillizzarli”, ma mi impegnavo ad analizzare ciò che avevano messo in moto.

Ho notato che lavorando con l'EMDR a volte affioravano ricordi plausibili che erano stati "accantonati" e a volte affioravano probabili pseudo-ricordi che comunque costituivano almeno una metafora interessante di qualcosa di pertinente da approfondire successivamente. Giustamente Francine Shapiro scrive: "i terapeuti non dovrebbero presumere che l'EMDR sia efficace con tutte le popolazioni cliniche" (p. 281). Non a caso, con clienti che hanno una consapevolezza molto limitata della loro dimensione emozionale, i trainer consigliano di rinviare un'eventuale utilizzazione dell'EMDR al momento in cui essi avranno acquisito un contatto emotivo sufficiente a rendere possibile la rielaborazione delle esperienze. Con circa venti clienti (sui trenta con i quali ho scelto di sperimentare la tecnica) il lavoro è stato decisamente utile. Credo quindi che, almeno in questi casi, esso sia stato svolto correttamente e, per quanto mi riguarda, ciò dimostra la basilare validità della tecnica. In queste esperienze, ho anche notato alcuni limiti negli effetti del lavoro che credo di poter considerare "costitutivi" della tecnica EMDR. Essa, quindi, come intervento "di emergenza" ha una sua validità e può produrre risultati che, rispetto alla situazione contingente, vanno considerati più che positivi; tuttavia nell'ambito di un percorso analitico, la tecnica EMDR va integrata con altri interventi.

Quello che sostengo è in sintonia con la tendenza (presente nell'EMDR) a concepire tale tecnica come una semplice tecnica ed è meno in sintonia con l'altra tendenza che considera l'EMDR come una sorta di filo conduttore di una psicoterapia. In quest'ultima prospettiva, "saltando di trauma in trauma" si pensa di realizzare un progetto psicoterapeutico organico. Considerando il percorso analitico come un lavoro finalizzato ad una ridecisione complessiva rispetto ad un intero progetto esistenziale, credo che le provocazioni e le interpretazioni dell’analista siano indispensabili per un superamento di atteggiamenti difensivi inconsci molto radicati. Ho notato che lavorando con la tecnica EMDR i punteggi attribuiti inizialmente dal cliente alla sua convinzione "negativa" ed alla convinzione "positiva" si modificano facilmente nella direzione auspicata. Questo è un fatto decisamente apprezzabile. Però il solo lavoro EMDR, affidato alla semplice "capacità autoriparativa della mente", non porta necessariamente a cambiamenti profondi, dato che in certi casi i clienti manifestano reazioni difensive proprio nel corso delle sedute. Una cliente, rivisitando con l'EMDR un'antica situazione traumatica, ha cominciato a sentire il bisogno di avere pace, di "riposare", di essere "tranquilla", di "non esserci", di morire, di suicidarsi. Non ho aspettato "fiduciosamente" che, dopo ben dieci minuti di caduta libera, la sua mente ingranasse una marcia bassa per risalire la china. Non ho nemmeno cercato di rilassarla o persuaderla a ragionare più costruttivamente, ma ho scelto di lavorare in altri modi: ho aiutato questa persona a capire che il suo desiderio di non esserci coincideva col desiderio di sua madre di non aver figli e ho chiarito che oltre ad essere un tentativo difensivo di “stare con la madre” il desiderio di non esserci non esprimeva il suo antico dolore, ma la sua rabbia rispetto ai ripetuti abbandoni e maltrattamenti. In casi di questo tipo, è indispensabile la ricerca del vecchio dolore, per chiarire che dopo molti anni esso è ancora presente, ma è tollerabile.

E' necessario sottolineare la distinzione fra i risultati della tecnica (valida) ed il quadro di riferimento teorico in cui essa è abitualmente inserita. L’EMDR può accrescere le potenzialità di una psicoterapia “minimalista” che a monte è pensata in termini riduttivi: poiché il progetto di lavoro degli psicoterapeuti è in genere limitato ai sintomi, una parziale ristrutturazione cognitiva di una particolare situazione o una modificazione di un particolare stato emotivo possono sembrare risultati notevoli. Se invece l’EMDR rientra in un percorso analitico costituisce un semplice strumento che, come altri, può avere una sua utilità all’interno di un lavoro molto articolato. Il lavoro su traumi significativi (più o meno gravi), necessita di un consolidamento nel tempo e dovrebbe consentire al cliente di elaborare in profondità (sia sul piano cognitivo, sia su quello emozionale) il dolore non accettato. L'elaborazione di un lutto richiede, infatti, del tempo. Ciò non significa che l'EMDR non contribuisca a tale processo: significa semplicemente che non può risparmiare al cliente la lunga e complessa esperienza dell’elaborazione del proprio dolore. Nel lavoro del lutto il cliente accetta un’antica mancanza di amore o di contatto o di appagamento tuttora dolorosa perché nel presente il bisogno di un accudimento genitoriale è ancora sentito. In tale lavoro, inoltre, l’accettazione di particolari vissuti diventa accettazione del dolore nell’intera esistenza personale.

Ci sono altre ragioni per intervenire nel corso di una seduta di EMDR o per sospendere il lavoro in corso e fare altre cose. Fra queste ragioni, si deve considerare il fatto che molte volte affiorano delle emozioni che non si sviluppano adeguatamente perché le tensioni muscolari croniche interrompono la respirazione, contrastano il rilassamento della gola e quindi bloccano i singhiozzi del pianto. Il lavoro fisico a quel punto è indispensabile. Ciò ovviamente presuppone che chi applica la tecnica sia in grado di capire quando un pianto è completo, e ciò è tutt'altro che scontato, almeno per gli psicoterapeuti che non hanno svolto un lavoro personale di tipo analitico. Inoltre a volte il cliente si lascia andare ad intense espressioni emotive che però sono difensive perché presentano sfumature di vittimismo, di pseudo-disperazione o di rabbia. In questi casi, se lo psicoterapeuta ha una formazione in Analisi Transazionale, Gestalt Therapy, o Analisi del carattere può cogliere la funzione difensiva e non espressiva di tali manifestazioni, ma se si è formato in psicosintesi, psicoterapia comportamentale e/o cognitiva o in psicoanalisi rischia di capire solo che il cliente "soffre tanto" o di ritenere che l'EMDR proceda benissimo.

Nel lavoro da me svolto con l'EMDR nessun cliente ha avuto un insight relativo alla propria strategia difensiva. Alcuni clienti hanno intuito di poter fare cose che evitavano di fare, ma non hanno scoperto le ragioni per cui non le avevano fatte. Alcuni clienti hanno pensato di aver agito in modo irrazionale, ma non hanno capito che in quelle situazioni avevano attuato una strategia difensiva. Questo non indica un "difetto" della tecnica EMDR, così come il fatto di non volare non indica nei leoni alcuna manchevolezza. Rende però necessari degli interventi non previsti da parte di chi applica l'EMDR in modo meccanico. Se uno psicoterapeuta pensa che certe cognizioni siano sbagliate ed altre siano giuste, può considerarsi soddisfatto quando un cliente scopre (da solo, con gli esercizi riguardanti i movimenti oculari) di poter interpretare una certa situazione in modo più razionale. Tuttavia il cambiamento profondo non consiste nella semplice correzione di un "errore", ma comporta la comprensione di una strategia di vita finalizzata all'evitamento del dolore.

Varie ricerche sottolineano l'importanza delle alterazioni della memoria che a volte si verificano nelle situazioni traumatiche: tali ricerche indicano che i ricordi vengono “immagazzinati” come frammenti sensoriali che hanno limitate componenti linguistiche. L'EMDR ha appunto come scopo principale quello di consentire alla persona di recuperare ricordi abbastanza integri e articolati e quindi tali da favorire un'adeguata elaborazione delle esperienze. Il lavoro sulle situazioni traumatiche svolto secondo la tecnica EMDR può avere effetti "a cascata" sulla personalità del cliente, ma tali effetti sono lasciati alla casualità del processo, non essendo ottenuti secondo la tipica logica dell'indagine che caratterizza un lavoro di tipo analitico. In questo senso, la tecnica EMDR può sbloccare delle situazioni anche gravi, provocando la remissione di sintomi disturbanti, ma non ha come oggetto la personalità del cliente e la comprensione della sua intenzionalità difensiva. La struttura difensiva di una persona è operante in genere prima che una situazione traumatica si verifichi ed anche quando i traumi si verificano nell'infanzia il soggetto cerca di proteggersi utilizzando difese già costruite. Da quando il bambino nasce comincia ad interagire con l'ambiente e comincia, purtroppo, anche a strutturare modalità difensive di interazione. Se, quindi, a otto o a dodici anni (o da adulto) subisce un trauma e sviluppa dei sintomi, reagisce in modi che hanno radici molto profonde e non in modi determinati dalla situazione traumatica. Per questo motivo è importante che la tecnica dell’EMDR sia applicata da chi può comprendere le difese psicologiche.

Francine Shapiro mostra nel resoconto di una seduta sia il valore che il limite della tecnica EMDR e, a mio parere, fornisce (senza volerlo) un elemento a favore dell'inserimento della tecnica in un lavoro di tipo analitico: "Una donna di mezza età non è in buoni rapporti con il padre e ha rifiutato per tutta la vita i suoi tentativi di avvicinamento. Al proprio terapeuta dice che siccome suo padre l'ha abbandonata quando era bambina ora lei non vuole avere niente a che fare con lui. Durante la seduta EMDR, però, le ritornano alla mente i particolari del giorno in cui lui andò via. Così si rende conto che era stata la madre a cacciare di casa suo padre; non era stato lui a volersene andare. Alcune testimonianze corroborano questa versione della storia, e così la donna si riconcilia felicemente con il padre. Quante persone soffrono perché sono rimaste vittime della fallibilità della loro memoria?" (Shapiro-Forrest, p. 248). Questo esempio evidenzia proprio i limiti dell’EMDR. L’applicazione della tecnica ha favorito la riconciliazione col padre lasciando assolutamente intatto il vero problema della cliente: la sua indisponibilità ad elaborare i lutti, la sua rabbia vittimistica e vendicativa, la sua tendenza a "capovolgere i ruoli" entrando in quello "genitoriale-rifiutante" per soffocare il vissuto di bambina rifiutata. Inoltre, senza una guida attenta, questa persona non ha chiarito se ha casualmente “dimenticato” che la madre aveva cacciato il padre o se (come è probabile) ha dimenticato quel fatto proprio per mantenere un legame terribile con la madre. L'uso della tecnica EMDR senza una teoria di riferimento adeguata porta, quindi, facilmente a trarre conclusioni semplicistiche come quella relativa alla “fallibilità della memoria”.

Anche se recentemente la psicoterapia ha riscoperto l'importanza delle situazioni traumatiche (che, dopo i primi anni della psicoanalisi erano stati posti in secondo piano rispetto all'idea della "conflittualità intrapsichica"), gli irrigidimenti caratteriali, i blocchi emotivi ed i sintomi non devono essere concepiti come effetti meccanici di una situazione traumatica, ma come costruzioni psicologiche attuate dalle persone (nei primi anni) in risposta a diffuse situazioni frustranti sul piano dei bisogni di accudimento, contatto e accettazione. I traumi specifici e gravi possono esserci ed essere importantissimi, ma le persone reagiscono ad essi con preesistenti modalità difensive. Tutte le ricerche (significative e sempre in evoluzione) sulla psicofisiologia del trauma trascurano un fatto fondamentale: al di là di quello che si può capire di ciò che accade nel cervello delle persone che subiscono traumi, quando uno stesso trauma è condiviso da più persone, alcune reagiscono in modo disadattivo o addirittura producendo un PTSD, mentre altre integrano l'esperienza brutta o terribile nel loro percorso esistenziale, con tutto il dolore che comporta. Viktor Frankl (1946), ad esempio, dopo essere stato prigioniero in un campo di concentramento nazista scrisse un libro sull'amore e proseguì la sua attività con impegno fino alla vecchiaia, mentre altre persone sviluppano gravi sintomi dopo aver subito un trauma davvero modesto. In altre parole, l'idea che un trauma sia la causa di un disturbo "post-traumatico" introduce un nesso causale quando sussiste solo un nesso temporale. Le emergenze richiedono giustamente trattamenti di emergenza: i medici in un campo di battaglia possono operare anche senza anestetici, antisettici appropriati o strumenti indispensabili in qualsiasi ospedale, ma non considerano quella situazione come ottimale. In psicoterapia, quindi, la riflessione teorica sui disturbi psicologici ed anche su quelli scatenati dai traumi dovrebbe essere più complessa di quella consentita da una logica causale-lineare.

Il modello dell'Elaborazione Accelerata dell'Informazione che la Shapiro ha suggerito come cornice teorica di riferimento per l'EMDR, oltre ad essere considerata come una semplice ipotesi dalla stessa studiosa (cfr. Shapiro, 1995, p. 30), non può diventare una vera teoria esplicativa (come lei auspica) in seguito agli sviluppi della neurofisiologia. Infatti, la neurofisiologia non può dare una risposta a problemi che sono da collocare al livello d'analisi della persona e non al livello d’analisi fisiologico. La neurofisiologia può far comprendere meglio ciò che si verifica nel cervello in varie situazioni, ma non può spiegare compiutamente l'agire personale. La stessa quantità di alcol produce in Tizio una sbronza allegra ed in Caio una sbronza orribile, dato che Tizio e Caio hanno due storie diverse assimilate in modi diversi. La complessità del loro modo di agire dopo l'assunzione di una certa quantità di alcol rende necessarie delle spiegazioni collocabili ad un livello d'analisi diverso da quello chimico. Gli esercizi dell'EMDR sono quindi molto importanti per un lavoro sulle dissociazioni, ma il cambiamento stabile e profondo che ci si aspetta deve essere focalizzato sulle difese psicologiche. Un singolo sintomo, a volte, può essere risolto in poche sedute (con l'EMDR o con qualsiasi tecnica), ma l'atteggiamento difensivo di cui il sintomo è solo un’espressione particolare, richiede un lavoro approfondito. Anche la psicoterapia corporea può favorire un rilassamento dei segmenti corporei irrigiditi o bloccati, ma serve a ben poco se l’analista non chiarisce le ragioni per cui le persone strutturano una particolare “armatura muscolare”.

Il metodo EMDR prevede, soprattutto in presenza di disturbi di una certa gravità, che l'operatore faccia "interventi cognitivi integrativi" per sbloccare la situazione se il cliente si trova in un circolo vizioso che ostacola la capacità "autoriparativa" della mente. Tale idea è sensata, ma gli interventi auspicabili in genere non sono quelli riconducibili al "Modello dell'Elaborazione Accelerata". Secondo tale modello, il materiale disfunzionale sarebbe in qualche modo bloccato in una rete neurale nella forma specifica della situazione traumatica. Tale modello (lineare-causale) trascura l'intenzionalità dei processi difensivi ed è dalla stessa Shapiro considerato una "metafora" (1995, p. 251). In tanti anni di lavoro mi sono abituato ad ascoltare frasi di questo tipo: "ora mi rendo conto del fatto che quando sono nelle situazioni in cui mi sentivo incapace o confuso o costretto a reagire in un certo modo, ho per un attimo la sensazione di poter prendere una strada o un'altra". Quando i clienti in analisi fanno osservazioni di questo tipo notano sempre che "la strada vecchia" li protegge da una sofferenza profonda, molto temuta e scoprono che "la strada nuova" non solo comporta una resa al dolore inevitabile, ma rende possibile anche una più profonda felicità. La logica "intenzionalista" che utilizzo come cornice teorica del lavoro analitico, quindi, consente di ordinare i fatti in modi ragionevoli e corroborati dai chiarimenti forniti dai clienti.

Proprio la limitatezza del quadro di riferimento concettuale dell'EMDR porta in certi casi a concepire come interventi validi degli interventi molto limitati. La Shapiro suggerisce ad esempio di rispondere ad una cliente che si sente colpevole per una violenza subita nell'infanzia con una frase di questo tipo: "Non capisco. Mi sta dicendo che una bambina di 5 anni può portare un adulto a violentarla?" (Shapiro, 1995, p. 265). Questo intervento è a mio avviso perfetto: mette in crisi la logica difensiva di una persona che preferisce sentirsi colpevole piuttosto che vulnerabile ed effettivamente vittima di un'aggressione. In poche incisive parole la Shapiro chiarisce alla sua cliente che, prendendosi delle responsabilità che non ha, evita il contatto con una sofferenza che, purtroppo, le appartiene e che oggi può accettare e superare. Allo stesso modo, la Shapiro interviene con empatia ed intelligenza nei casi in cui suggerisce ai clienti di approfondire l'espressione di emozioni provocate da un set di movimenti oculari, se i clienti manifestano il timore di esprimere tali emozioni. Tuttavia l'autrice fa questa osservazione: "La rabbia imprigionata per una vita può essere estremamente spaventosa per il paziente. Il terapeuta dovrà rassicurarlo che questa rabbia è semplicemente la manifestazione della rabbia infantile che è rimasta chiusa nel suo sistema nervoso" (Shapiro, 1995, p. 275). A parte il riferimento discutibile al sistema nervoso come "contenitore" della rabbia, l'autrice finisce per "togliere" ad una persona la responsabilità di una sua reazione emotiva e la possibilità di una ridecisione. La deresponsabilizzazione è rassicurante nell'immediato, ma non produce cambiamenti reali. Non lavoro mai con i miei clienti affermando che i loro sensi di colpa sono causati dalla loro nevrosi, così come ad esempio si fa a volte nella terapia comportamentale e cognitiva con pazienti "affetti" da disturbo ossessivo compulsivo (cfr. Dèttore, 1998, p. 170). Affronto il senso di colpa chiarendo che esso costituisce sempre una difesa che protegge dal dolore. Noi siamo responsabili (non “colpevoli”) di ciò che facciamo e delle risposte emotive che diamo a certe situazioni e in analisi abbiamo bisogno di riconoscere come "nostre" le nostre emozioni, sia quelle ragionevoli, sia quelle difensive, per cambiare il nostro rapporto con gli altri e con la vita. Saltare il passaggio dell'assunzione di responsabilità personale riduce la possibilità di cambiamenti profondi. Dire ad un cliente che un'emozione non è una risposta "scelta dalla persona" ma che è "solo il paesaggio che scorre" mentre la persona "è sul treno" (Shapiro, 1995, p. 275) forse abbrevia il lavoro psicoterapeutico, ma toglie “spessore” a tale lavoro. Se non si è costretti da fatti contingenti (ad es. il poco tempo disponibile in una situazione di emergenza), l'intervento ottimale deve essere finalizzato alla comprensione della strategia difensiva del cliente e delle nuove scelte di vita che questi può fare.

Negli ultimi anni si è consolidata una tendenza, tutt’altro che marginale nel variegato mondo delle “psicoterapie”, contraddistinta dall’idea che l’unico modo di arginare il fenomeno (tragico) delle psicoterapie “inutili” sia quello di ridurre l’attività psicoterapeutica ad un insieme di procedure standardizzate di “provata efficacia”. Questa tendenza prende il nome di "movimento EST" (ove la sigla sta per Empirically Supported Treatment) o di "approccio evidence based" alla psicoterapia (cfr. Lyddon-Jones Jr, 2001). Drew Westen (2004) ha evidenziato le debolezze metodologiche dei presupposti che stanno alla base delle psicoterapie “evidence based”, e i dati riportati dagli stessi sostenitori di tali psicoterapie mostrano che in realtà i risultati documentati non sono poi così strepitosi. Tuttavia, oltre ad essere discutibile nelle sue premesse, tale impostazione è superficiale. Comporta infatti una rinuncia pregiudiziale a qualsiasi tentativo di collegare un particolare disturbo psicologico alla personalità, alla storia ed al progetto di vita di chi manifesta tale disturbo. Comporta quindi una rinuncia (razionalizzata ma non razionale) a toccare e scalfire le modalità difensive personali di cui un particolare disturbo è semplicemente l’aspetto più visibile, ma non certo quello più significativo. Nel nuovo, ma già complesso, universo dell’EMDR, di fatto, convivono due anime: quella riduzionista, scientista, causalista e quella limpidamente tecnica. Solo la seconda anima consente un inserimento dell'EMDR in un approccio analitico approfondito che può accogliere varie tecniche (gestaltiche, corporee, ecc.) utilizzabili per favorire un maggior contatto emotivo e i necessari cambiamenti nel progetto di vita delle persone. La prima anima dell’EMDR associa invece la tecnica ad approcci cognitivisti e comportamentisti che tendono ad ignorare la dimensione personale. In tale prospettiva vengono a mio avviso teorizzate in modo discutibile la “desensibilizzazione” e la “installazione” di particolari risorse. In questo modo l’EMDR diventa un indirizzo psicoterapeutico "evidence based" concepito per il raggiungimento di un maggior benessere, ma non per una compiuta espressione delle potenzialità delle persone.

Le tecniche di rilassamento associate all'EMDR (come ad esempio l'esercizio del "posto sicuro"), quando vengono applicate in presenza di stati d'animo di dolore profondo mirano proprio a placare il dolore dei clienti anziché a consentire il lavoro del lutto; quando vengono invece applicate in relazione a stati d'animo "brutti", ma difensivi, servono semplicemente a non analizzare tali stati d'animo come difese. In tal modo l'operatore EMDR rinuncia a fare analisi per portare avanti una terapia "centrata sul paziente" (cfr. Shapiro, 1995, p. 282 e p. 305). Considero errato tale approccio, come pure quello della "terapia centrata sul cliente" di Carl Rogers (1951) perché le persone in psicoterapia, anche se usano al meglio le loro risorse mentali, non possono smascherare da sole la strategia difensiva che inconsciamente seguono. A questo proposito occorre fare una marcata distinzione fra l'applicazione dell'EMDR con persone sconosciute che non sono in psicoterapia e l'uso dell'EMDR con persone che stanno facendo un lavoro analitico. Nel primo caso, data la possibilità che il lavoro "improvvisato" (ad esempio con le vittime di un terremoto) produca sviluppi emozionali a cui tali persone non sono minimamente preparate, trovo estremamente raccomandabile che un terapeuta EMDR sia così prudente da preparare il cliente a "gestire" con tecniche di rilassamento eventuali emozioni "disturbanti". La cosa deve invece essere valutata in termini diversi se l'EMDR è applicata con una persona ben conosciuta, che sta facendo analisi, che non è "emotivamente sprovveduta" e che in ogni caso può essere aiutata. Proporre in tutti i casi tecniche di rilassamento significa limitare il lavoro. Ciò si giustifica solo se l'operatore che fa EMDR non ha fatto analisi (cosa abbastanza frequente), non sa per esperienza personale che le emozioni autentiche possono essere molto intense, non distingue fra emozioni autentiche e difensive, non è in grado di guidare i clienti a compiere un adeguato lavoro del lutto, non sa che l'elaborazione del dolore porta ad una felicità profonda che non è in alcun modo assimilabile al "rilassamento" o al "benessere". I clienti vengono in analisi perché stanno male e vogliono star bene, non per ribaltare il loro progetto esistenziale. Vogliono le loro difese, ma non le escrescenze sintomatiche di tali difese. Un analista sa (o dovrebbe sapere) che il disagio di cui il cliente è consapevole è solo l'aspetto più superficiale del suo rapporto con se stesso, con gli altri e con la realtà. Questo è ciò che non vogliono capire i sessuologi, gli esperti in terapie brevi, gli psicoterapeuti di indirizzo cognitivo-comportamentale. Il problema profondo di tutti i clienti riguarda l'intolleranza (infantile) per il dolore e la gestione superficiale della vita adulta. Molte scuole di psicoterapia riconosciute non richiedono un'analisi personale. Altre scuole (come ad esempio quella psicoanalitica) prevedono un'analisi personale che però ha il difetto di non favorire una comprensione profonda dei vissuti personali. Tutto ciò, ovviamente, crea grossi problemi, sia a chi utilizza l’EMDR, sia a chi utilizza altre tecniche.

Voglio riportare una seduta che può chiarire meglio la necessità di passare in certi casi dal lavoro standard dell'EMDR ad un lavoro analitico, anziché far "rilassare" il/la cliente con qualche rassicurazione o con l'esercizio del "posto sicuro". Antonia era in una fase avanzata del suo percorso e, dopo aver superato i disturbi ingombranti per cui aveva inizialmente cercato aiuto, stava affrontando stati emotivi abbastanza intensi sperimentati anche nell'infanzia. Nella sua prima seduta di EMDR, dopo aver scelto come target su cui lavorare un episodio all'asilo in cui si era sentita molto isolata e non protetta, mette a fuoco la convinzione negativa relativa a tale situazione: "Io non vado bene". Per via del lavoro analitico già svolto non dà un punteggio alto a tale convinzione, ma sente che in qualche misura essa è ancora presente in lei. Sceglie come convinzione positiva da consolidare sul piano del sentire, quella riassumibile con le parole "Io sono abbastanza forte e sono sveglia". Dopo alcuni esercizi con i movimenti oculari, Antonia si "ritrova" isolata dagli altri bambini in un angolo con dei cuscini. Dice che lì si sente protetta, ma anche in gabbia. Mi chiede se può urlare e le rispondo che può farlo, se sente di volerlo fare. Grida "Aiuto!" con molta voce, ripetutamente e poi si scioglie in lacrime e singhiozzi. Nonostante il pianto sia "fisiologicamente completo" e abbastanza profondo, ho l'impressione che l'esperienza in corso sia più una regressione che un'autentica rielaborazione emotiva. A questo punto, le chiedo cosa stia sentendo e mi risponde che, urlando, ha pensato di non essere ascoltata da nessuno e ha sentito di volersi chiudere. Ciò mi conferma che l'EMDR ha riattivato vissuti molto profondi, ma su un piano regressivo: Antonia, in altre parole, "era là" (in qualche misura) e non era "qui, nel mio studio, in contatto con l'esperienza dell'asilo". Noto anche una scarsa mobilità della sua bocca e le chiedo se prova delle sensazioni nelle labbra. Mi risponde di sentire un formicolio nelle labbra (e un po' anche attorno agli occhi). Tali sensazioni di formicolio nella bocca o attorno agli occhi o nelle mani si presentano spesso in analisi, soprattutto nel corso di esercizi fisici che comportano un'intensificazione della respirazione. Da un punto di vista medico rappresentano un segno lieve di iperventilazione e infatti non devono essere portate troppo avanti. Tuttavia non costituiscono un semplice esito "meccanico" di un processo fisiologico, ma indicano che lo stato di attivazione fisiologica ha fatto affiorare emozioni non accettate e bloccate. Infatti, quando una persona sente il formicolio nelle mani perché trattiene un gesto affettuoso o una richiesta di contatto, se colpisce il materassino con i pugni registra un'intensificazione della sensazione, mentre solo se stringe le mani dell'analista nota una improvvisa scomparsa del disturbo. Se invece trattiene della rabbia sente crescere il formicolio stringendo le mani dell'analista e supera la sensazione fastidiosa solo colpendo il materassino. In questi casi si deve procedere per prova ed errore verificando gli effetti di vari gesti espressivi. Decido di rinviare ad un'altra seduta il completamento del lavoro con l'EMDR per concludere quella attuale in modo accettabile e possibilmente utile. Invito quindi Antonia a lavorare fisicamente sulla bocca in vari modi con un tovagliolino, facendole mantenere il contatto con i miei occhi. Sente di voler "immergere il viso nel tovagliolino", lo fa e piange nuovamente con lacrime e singhiozzi. Quando rialza il viso mi dice che il formicolio è calato sensibilmente, ma non è scomparso, e che ora esso è presente, un po', anche nelle braccia. A questo punto penso che l'espressione fisica dell'emozione possa risultare completa solo se meglio identificata sul piano cognitivo.

GF. Perché piangevi?
A. Sentivo una solitudine immensa.
GF. Già. Non è la prima volta. Ma perché piangere, ora, non ti fa trovare pace?
A. Non so.
GF. Farò la cavia: stringi la mia mano con le tue e cerca di scoprire quale tipo di comunicazione fisica ed emozionale senti di voler manifestare, posto che io posso rappresentare qualsiasi persona. [Antonia fa varie "prove": il formicolio nelle braccia cala (ma non scompare) sia tirandomi verso di sé e dicendomi "stammi vicino", sia respingendomi e dicendomi "no!"].
GF. Forse non senti né il bisogno di "chiedere" né quello di respingere. Forse vorresti sentirti libera di dire "no!" anche ad una persona da cui desideri vicinanza o sostegno.
A. [Con un guizzo degli occhi mi fa capire che finalmente abbiamo toccato il punto giusto] E'così! Il formicolio è scomparso. Avevo già sentito la mia paura di dire dei "no" all'interno di rapporti significativi, ma ora questa cosa è più "chiara", dentro di me. Nessuna persona, anche se cara, può obbligarmi a fare ciò che non voglio.
GF. Bene. Hai fatto dei compromessi perché eri piccola. Hai fatto quel che potevi per sopravvivere allora … e per crescere. Ora sai di essere già cresciuta.

Questo piccolo esempio mostra che effettivamente l'EMDR può riaprire delle situazioni emotive non elaborate (o non sufficientemente elaborate, nel caso di clienti in analisi da tempo). Ciò rende la tecnica preziosa. In tale lavoro possono però attivarsi delle emozioni difensive che richiedono interventi appropriati, anche cognitivi, ma non solo cognitivi. La regressione era difensiva perché in fondo per Antonia era più comodo "disperarsi da bambina” in modo confuso che accettare da persona adulta il dolore di un'infanzia "definitivamente conclusa e dolorosa" che ha lasciato dei vissuti dolorosi da accettare e non “sanabili” o “curabili”. Il "rattrappimento agitato" che produceva sensazioni di formicolio era ugualmente difensivo perché confondeva la percezione delle emozioni profonde relative ad un preciso problema. Antonia aveva avviato un pianto di dolore, ma era poi scivolata in un pianto confuso. Sentirsi piccoli, in difficoltà e magari in pericolo, per quanto penoso, è più "comodo" che accettare che non c'è più pericolo, incertezza, ma nemmeno speranza: la storia è stata brutta e tale resterà nel ricordo perché è finita male. In analisi si lavora sull'infanzia per salvare ciò che resta della vita adulta, dato che l'infanzia non ha avuto un lieto fine. Ovviamente il problema di Antonia non era con l'asilo, ma con la madre: proprio la mancanza di sostegno materno la faceva sentire così in difficoltà con gli altri bambini.

La desensibilizzazione rispetto ad uno stimolo non è di per sé una cosa buona. Se fossimo insensibili al calore ci ustioneremmo facilmente e il fatto di essere sensibili sul piano fisico ci aiuta a sopravvivere, così come il fatto di essere sensibili sul piano psicologico ci rende umani. Tuttavia, anche nei casi in cui lo stimolo non è oggettivamente disturbante e la reazione ad esso risulta irrazionale, la semplice desensibilizzazione, se ha successo, resta un intervento errato o almeno riduttivo, anche se può far sentir meglio un cliente e “dar soddisfazione” ad uno psicologo. Infatti, la reazione inappropriata ad uno stimolo si verifica per delle ragioni. Con le risposte inappropriate a certi stimoli, le persone mantengono un distacco emozionale rispetto a qualcosa e la costruzione “terapeutica” di un ulteriore distacco rispetto agli stimoli in questione costituisce, quindi, una sorta di ulteriore repressione. Della prima repressione è responsabile la persona che “sta male”, ma della seconda è responsabile lo psicoterapeuta favorevole alla “desensibilizzazione”. La rielaborazione porta invece a sostituire la sensibilità irrazionale con la sensibilità profonda. Francine Shapiro ha scritto, a proposito dell'EMDR: "Il processo di apprendimento e di trasformazione non si limita a guarire il dolore. L'EMDR può essere utilizzato in modo specifico anche per migliorare la prestazione" (Shapiro-Forrest, 1997, p. 268). L'espressione "guarire il dolore" non è accettabile. Il dolore non può essere "guarito" perché proprio l'autentica esperienza del dolore rende possibile il superamento di ogni disturbo emotivo. Quando una persona risulta in grado di accettare il dolore (inevitabile) oltre che la gioia, non sente più l’esigenza di mantenere dei disturbi psicologici. La distinzione fra il dolore (il dispiacere per una perdita o un'impossibilità) e le varie pseudo-sofferenze (depressione, senso di colpa, pantano masochistico, vittimismo, invidia, rabbia difensiva, confusione, ecc.) non è una sottigliezza interessante sul piano intellettuale, ma è il criterio basilare che consente di capire su cosa "lavorare" e cosa cercare. L'analisi aiuta a cercare il dolore autentico per liberare le persone da pseudo-sofferenze irrazionali.

Nei testi fondamentali dell'EMDR ricorrono sia affermazioni confuse che non sottolineano la differenza fra dolore ed emotività difensiva, sia affermazioni che implicano la consapevolezza di tale differenza: “l'EMDR non elimina e nemmeno attenua emozioni sane e adeguate, incluso il dolore. Può invece permettere ai pazienti di portare il lutto con un maggior senso di pace interiore" (Shapiro, 1995, p. 231). Nelle pagine che fanno seguito a questa ragionevole affermazione, la Shapiro usa però concetti come "dolore eccessivo" e "dolore patologico" senza concettualizzare adeguatamente tali espressioni. Il dolore non è mai “eccessivo” e se è una costruzione difensiva non è dolore e non è nemmeno una “patologia”. La tipica rassicurazione che si suggerisce di porgere ai “pazienti” che stanno molto male ("sì, questo stai sentendo, ma è roba vecchia") mira a far prendere una distanza da emozioni scomode (forse anche per lo psicoterapeuta) e il tipico invito a rifugiarsi in un posto sicuro quando si sta troppo male, mira a "placare" dei sentimenti intesi come esperienze da non analizzare. Infatti, il cliente che manifesta una sofferenza difensiva non dovrebbe essere messo in condizione di calmarsi, ma di accedere al dolore autentico da cui sta scappando. Il cliente che invece sta elaborando un vero dolore non dovrebbe affatto calmarsi, ma attraversare tutte le fasi del suo lutto.

Anche con la cosiddetta fase di "installazione" il lavoro dell'EMDR mira a stabilizzare (con l'induzione dei consueti movimenti oculari) una convinzione positiva che nel corso di una o più sedute il cliente è riuscito a sentire come sua. Un po' come quando a scuola, dopo aver studiato si fa il "ripasso", per "fissare" i nuovi contenuti appresi. Al di là, quindi, della brutta espressione (più da ingegneri o da meccanici che da psicologi), la fase di installazione costituisce il consolidamento di un lavoro compiuto. Purtroppo, però, se l'EMDR è applicata indipendentemente da un lavoro interiore di consapevolezza, il concetto di "installazione" può far venire strane idee e dar luogo ad "approfondimenti" della tecnica decisamente discutibili.

Scrive Francine Shapiro: "E' possibile che le vittime di tutto il mondo imparino che è positivo passare dal ruolo di vittime a quello di sopravvissuti per poi rifiorire?" (Shapiro-Forrest, p. 259). Queste parole testimoniano la sensibilità della Shapiro e aprono le porte alla speranza: un metodo semplice, applicabile in poche sedute e capace di produrre risultati positivi per la vita di molte persone è una cosa sicuramente preziosa. A prova di ciò vanno menzionati i risultati ottenuti dal Programma di Assistenza Umanitaria (EMDR-HAP) costituito da clinici formati in EMDR che aiutano gratuitamente le persone in luoghi colpiti dalla violenza della guerra o da calamità naturali (Cfr. Shapiro-Forrest, p. 271). Questa volontà di individuare e applicare un metodo capace di offrire risultati immediati e significativi merita un sincero apprezzamento, perché un lavoro di tipo analitico richiede tempo e in certi casi il tempo è poco. Per questi motivi credo che meriti di essere apprezzato sia il contributo tecnico che l'EMDR può dare al lavoro analitico, sia il contributo che può dare nei casi in cui il lavoro analitico non può essere svolto. Se tale lettura è corretta, l’EMDR deve però restare una tecnica, perché i suoi sviluppi teorici hanno gli stessi limiti di quelli delle varie psicoterapie focalizzate sui sintomi.




Bibliografia

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D. Dèttore, 1998, Il disturbo ossessivo-compulsivo, McGraw-Hill, Milano
V. Frankl, 1946, Uno psicologo nei lager, trad. it. Ares, 1967 (rist.1996)
R. Greenwald, 1999), L'EMDR con bambini e adolescenti, trad. it. Astrolabio, Roma, 2000
W. J. Lyddon - J. W. Jones Jr., 2001, L'approccio evidence-based in psicoterapia, trad. it. McGraw-Hill, Milano, 2002
W. Reich, 1945, (ristampa ampliata, in lingua inglese, dello scritto del 1933), Analisi del carattere, trad. it. Sugar, Milano, 1973
C. R. Rogers, 1951, La terapia centrata sul cliente, trad. t. Martinelli, Firenze, 1970
F. Shapiro, 1995, EMDR-Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, trad. it. McGraw-Hill, Milano, 2000
F. Shapiro - M. S. Forrest, 1997, EMDR-Una terapia innovativa per l'ansia, lo stress e i disturbi di origine traumatica, trad. it. Astrolabio, Roma, 1998
D. Westen, 2004, Lo statuto empirico delle psicoterapie validate empiricamente. Assunti, risultati e pubblicazione delle ricerche, trad. it. In Psicoterapia e scienze umane, 2005, vol. XXXIX, N. 1, FrancoAngeli Milano