lunedì 17 dicembre 2018

Conoscenze e illusioni nella storia della psicoterapia






Nella storia della psicoterapia, sia le concezioni psicoterapeutiche “riduzionistiche”, sia quelle “umanistiche” hanno confezionato in modi intellettualmente complessi e opposti le più comuni tendenze a non spiegare e a non affrontare le difese  psicologiche, ma hanno anche fatto affiorare, qua e là, delle idee utilizzabili (all’esterno del quadro concettuale “terapeutico”) per un’analisi razionale delle difese psicologiche. Proprio per questa sua contraddizione interna, la storia della psicoterapia merita di essere studiata.

La “terapia psicoanalitica” si propone di favorire un controllo cosciente delle pulsioni inconsce (intese come “minacciose”) e di indirizzarle verso mete più adeguate alla realtà. Presuppone, quindi, che proprio la pulsionalità (cioè, la realtà psichica e fisica dei bisogni) sia “problematica”. Dopo il superamento della concezione iniziale, Freud ha affermato (1922) che anche certe funzioni dell'Io possono essere inconsce e che la terapia deve occuparsi sia della pressione delle pulsioni che dell'eccessiva severità del Super-io. Nella teoria psicoanalitica l'interesse per la “originaria” conflittualità intrapsichica ha dato luogo ad una sottovalutazione del reale contesto relazionale in cui le persone sviluppano le loro potenzialità, oppure costruiscono delle difese psicologiche. Freud non ha capito che i bambini si devono complicare la vita proprio perché i loro bisogni sono trascurati e frustrati da genitori a loro volta cresciuti in una cultura irrazionale. La psicoanalisi, abbandonate le ipotesi iniziali sui “traumi” patogeni, divenne quindi, nei suoi sviluppi ortodossi, un insieme di dotte speculazioni sul modo in cui la mente umana autoinduce sviluppi patologici.

I contributi di W. Reich degli anni '30, quelli maturati nell'orientamento neofreudiano culturalista (Sullivan, 1940, F. Fromm Reichmann, 1950, E. Fromm, 1941, 1956, 1962 e 1970) e quelli riconducibili alla teoria delle relazioni oggettuali (Kernberg, 1976) ed alla psicologia del Sé (Kohut, 1977) sono stati particolarmente utili per collegare i disturbi psicologici alle relazioni interpersonali e soprattutto a quelle che caratterizzano i primi anni di vita. Non hanno però messo sufficientemente a fuoco l’incapacità dei bambini e la capacità (e la necessità) degli adulti di elaborare il dolore. Anche l'idea metafisica di un'originaria pulsione distruttiva (Freud, 1920) è sconcertante e si stenta a credere che una tale ipotesi sia stata formulata, "applicata" sul piano clinico e discussa con tanto impegno da illustri studiosi. Ovviamente essa ha dato luogo ad espliciti dissensi sul piano teorico, epistemologico e clinico anche da parte di autorevoli esponenti della psicoanalisi (Reich, 1945a, cap. XI e Fenichel, 1945, pp. 72-74). In seguito, tale idea è stata respinta da moltissimi psicoanalisti ed è crollata con tutta la metapsicologia freudiana. Tuttavia, la psicoterapia psicoanalitica ha continuato ad aggiornare le sue ipotesi fondamentali.

La psicoanalisi, pur occupandosi anche delle emozioni non è particolarmente interessata alla rielaborazione di antichi vissuti dolorosi. Alla base della terapia psicoanalitica sta l’idea che certi fattori inconsci causino patologie psichiche che possono essere curate. Anche se ridotta davvero all’osso, questa è la base della psicoanalisi e la ragione del suo successo. Questa idea ha stregato intellettuali, turbato i medici, incuriosito la gente comune proprio perché ha consentito alle persone, di porsi il (falso) problema relativo ai “meccanismi psichici” che le rendono “incapaci di essere libere”. Le persone non amano interrogarsi sulle ragioni per cui si fanno del male e fanno del male e, quindi, come hanno sempre gradito immaginare di “essere “egoiste”, ma di potersi pentire e di poter migliorare”, hanno accolto con entusiasmo l’idea di essere “manovrate” da forze inconsce, ma di poter essere curate. Questa concezione presuppone, tra l’altro, l’idea rassicurante secondo cui le persone normalmente agiscono razionalmente. Paradossalmente, la psicoanalisi ha prodotto pagine e pagine sul principio del piacere, sul principio di realtà e  sull’importanza dell’accettazione della realtà, ma non ha spiegato nulla del dolore sperimentato normalmente dai bambini, di ciò che i bambini fanno per dissociarsi dal dolore che non sopportano e dei motivi per cui da adulti vivono irrazionalmente e distruttivamente pur di continuare ad evitare l’elaborazione e l’espressione del dolore. Paradossalmente proprio la psicoanalisi ha reso quasi “popolare” l’espressione “elaborazione del lutto”, ma non ha spiegato nulla del pianto, non ha messo al centro della formazione degli psicoanalisti la capacità di liberare il pianto, non ha chiarito le differenze abissali fra chi piange di dolore e chi piange di rabbia, o “esibisce il pianto”, o fa dei “pianti ciechi”. Non ha quindi chiarito la netta opposizione esistente fra il dolore e le varie forme difensive di “malessere psicologico”.

La fragilità delle basi epistemologiche della psicoanalisi è stata evidenziata dai filosofi della scienza (cfr. Grunbaum, 1980 e 1984 e Hook, 1959), mentre la fragilità dei contenuti della “teoria” psicoanalitica è stata evidenziata da tutte le altre scuole di psicoterapia. Ciononostante il fascino della psicoanalisi è forte, perché essa ha aperto la strada ad una concezione più “moderna” di quella offerta dall’etica, ma egualmente adatta a distogliere l’attenzione dal fatto che la normale distruttività è intenzionale ma inconscia e difensiva: non può essere né perdonata né curata e può essere compresa e superata solo se si accetta il lato doloroso dell’esistenza umana. La concezione psicoanalitica è stata ripensata in termini nuovi da vari autori e, tra questi, Roy Schafer (1976, 1978) ha offerto la migliore teorizzazione dell’intenzionalità difensiva. Ridefinendo tutti i disturbi psicologici come articolati modi di agire ha messo in discussione alle radici l’idea secondo cui le persone sarebbero “affette” da “patologie psichiche”. Anche se tale autore non ha messo al centro del suo lavoro l’elaborazione del dolore, ha offerto, a mio parere, il contributo più importante di tutta la tradizione psicoanalitica all’analisi delle difese psicologiche.

Wilhelm Reich, contestando alcuni aspetti centrali della concezione freudiana, ha anticipato i vari sviluppi post-freudiani della psicoterapia (l'indirizzo culturalista, tutti gli indirizzi corporei e la stessa psicoterapia gestaltica). Considerando il lavoro analitico come un lavoro essenzialmente centrato sulla struttura caratteriale, egli ha inoltre anticipato tutti gli studi successivi riguardanti la personalità. Reich, purtroppo, è rimasto per tutta la vita legato ad una concezione energetica dei disturbi psicologici, tipica dell’originaria concezione freudiana. La teoria dell'energia "orgonica" (1950) che ha formulato negli ultimi anni della sua vita, costituisce una biologizzazione della concezione psicoanalitica della libido e non certo un superamento della logica "idraulica" di tale concezione. Reich ha anche espresso una critica radicale della società autoritaria su basi anche psicologiche (cfr. Reich, 1945b e 1946) ed ha anticipato, con il concetto di “autoregolazione”, quell'orientamento “umanistico” che, nella psicoterapia e nella pedagogia degli anni '50, ha sottolineato l'importanza dello sviluppo del potenziale umano e della creatività personale. Purtroppo, la sua appassionata riformulazione degli assunti psicoanalitici non si è tradotta in una teoria compiuta.

Un altro aspetto profondamente innovativo della concezione reichiana riguarda lo studio degli aspetti somatici delle difese caratteriali. Sebbene la concezione reichiana della "identità funzionale psicosomatica" lasci molto a desiderare sul piano epistemologico, le osservazioni riportate da Reich sul ruolo svolto dall'ipertonia muscolare cronica nel mantenimento di posture, rigidità mimiche e atteggiamenti caratteriali sono state illuminanti e tale comprensione olistica (fisica, comportamentale e psicologica) della persona ha liberato la psicoterapia dalla schiavitù della parola. Grazie a Reich è diventato possibile lavorare sia a livello verbale, sia a livello non verbale, sulle complesse modalità di fuga dal contatto emotivo ed è diventato più facile favorire cambiamenti profondi e tali da implicare significative aperture emotive. Purtroppo, interpretando le strutture caratteriali come blocchi della “energia psichica” e successivamente della “energia biologica” (1942), Reich ha consolidato anche le illusioni "terapeutiche" del lavoro analitico. Soprattutto la scuola statunitense che raccoglie i suoi allievi più ortodossi (Baker, 1969, Nelson, 1975), ha riproposto il pensiero reichiano in modo poco aperto agli sviluppi ulteriori della psicoterapia contemporanea.

Reich ha posto alla base delle sue riflessioni biologiche e psicologiche la fondamentale "antitesi fra piacere e angoscia", ma a livello psicologico, ciò che è rilevante per una comprensione dei disturbi (sintomatici o caratteriali) non è l'antitesi fra piacere e angoscia in quanto emozioni oggettivamente in atto, ma quella fra emotività espressiva e difensiva. Infatti, l’angoscia può essere razionale o difensiva. Anche l'idea reichiana dei “tre strati” della corazza” (emotività superficiale / distruttività difensiva / nucleo autentico), se riformulata in un linguaggio teorico accettabile, può risultare utile. Non a caso ha influenzato vari indirizzi del movimento psicologico centrato sullo sviluppo del potenziale umano e la “teoria del nucleo” di Eileen Walkenstein (1982, 1983).

Dopo la morte di Wilhelm Reich fiorirono molti approcci psicoterapeutici focalizzati sulle tensioni del corpo, direttamente o indirettamente influenzati dal pensiero reichiano e in questo filone possiamo includere autori anche molto diversi per impostazione, come Fritz Perls (1973), Alexander Lowen (1958, 1965, 1975) e William C. Schutz (1967). Altri cercarono di realizzare una sintesi fra la ormai consolidata “terapia corporea” e le concezioni orientali (Dychtwald, 1977) o gli orientamenti spiritualisti (Barbara Ann Brennan, 1987). L'elenco delle persone collocabili in questo ampio filone di ricerca volto alla “liberazione interiore” potrebbe essere lunghissimo e le diramazioni di tale orientamento sono moltissime. Ovviamente in questa ragnatela spiccano contributi significativi e concezioni decisamente discutibili. Negli anni '60/70, l'Esalen Institute, in California è stato un importante centro aggregatore di idee ed esperienze che ha dato frutti buoni e meno buoni, ma l’aspetto comune a tutti questi approcci è la scarsa comprensione dell’intenzionalità difensiva. A poco serve dare soldi ad un ladro se questi non ha cambiato il suo progetto “professionale” e a poco serve favorire esperienze “positive” o “aperture emotive” se le persone non diventano consapevoli di  vivere “poco” per evitare il contatto con il dolore.

Il pensiero di Reich è stato divulgato in Italia all'inizio degli anni '70 da Luigi De Marchi (1970) e in quegli anni Ola Raknes (1970) ha formato a Napoli i primi “terapeuti”. Il gruppo originario napoletano che pubblicava la rivista Quaderni Reichiani (sulla quale io stesso scrissi alcuni ingenui contributi che considero errori di gioventù), a differenza della scuola americana accettava la prospettiva "sessuopolitica" e di sinistra del giovane Reich. Varie tensioni personali all'interno di tale gruppo hanno dato luogo a successive scissioni ed alla costituzione di varie scuole. La Società Italiana di Ricerca e Terapia Orgonica, ha svolto un'attività più psicoterapeutica che centrata sulle “ricerche orgoniche”, soprattutto grazie al contributo di Alberto Torre, persona seria, poco interessata alle questioni teoriche, ma molto sensibile ed incline all'eclettismo sul piano della tecnica. In Francia, George Downing (1995) ha riproposto la teoria clinica di Reich (sganciata dai suoi confusi presupposti epistemologici "funzionalisti" e dalle sue implicazioni "energetiche"), collocandola nel quadro di riferimento costituito dalla teoria delle relazioni oggettuali. Questo studioso, di formazione psicoanalitica e influenzato dalla tradizione fenomenologica della filosofia, ha cercato, quindi, di rendere il lavoro psicoterapeutico corporeo indipendente dalle premesse della concezione reichiana, senza però mettere al centro delle sue riflessioni il dolore e le difese dal dolore.

La “terapia” psicoanalitica è stata “riformata” in vari modi: non solo sul versante della psicoterapia “corporea”, ma anche su quello dell’analisi delle relazioni interpersonali. L'Analisi Transazionale (AT), sviluppata da Eric Berne (1961, 1964, 1966, 1970 e 1972), si occupa degli "stati dell'Io" (in particolare dei tre stati denominati, Genitore, Adulto e Bambino) che vengono attivati nella comunicazione interpersonale. Tale approccio psicoterapeutico ha quindi collegato i disturbi psicologici a particolari schemi relazionali definiti "giochi" ed anche a più ampi progetti di vita definiti "copioni". I giochi vengono portati avanti, secondo Berne, inconsapevolmente e con essi le persone cercano di arrivare a provare dei sentimenti "parassiti" (nella mia terminologia, delle "emozioni difensive"). L'AT può essere praticata in sedute individuali o di gruppo e si propone come obiettivo specifico lo smascheramento dei giochi in corso e l’incoraggiamento a sperimentare relazioni interpersonali basate su una ragionevole accettazione della realtà. I vari aspetti dell'AT (analisi strutturale, analisi delle transazioni e dei giochi e analisi del copione) colmano, a mio parere, molte lacune dell'analisi del carattere sviluppata da Wilhelm Reich perché l'Analisi Transazionale fornisce una miniera di osservazioni preziose sui modi in cui le difese caratteriali delle persone si intersecano con quelle dei loro famigliari, partner, amici, e conoscenti, dando luogo ad interazioni non finalizzate all'espressione personale, ma all'occultamento di profondi vissuti emozionali. Berne ha affermato che l'AT coglie aspetti più complessi e significativi, per un possibile cambiamento, di quelli rilevati dall'analisi del carattere (1972, pp. 155-157) e, giustamente, ha avanzato delle obiezioni alla lettura "energetica" dei processi difensivi fatta da Reich, ma, a sua volta, ha trascurato l’elaborazione dei vissuti emotivi dolorosi. Non ha quindi chiarito le ragioni per cui le persone costruiscono giochi e copioni irrazionali, perché per fare ciò avrebbe dovuto abbandonare la logica "terapeutica" dell’AT e riconoscere l’importanza dell’elaborazione del dolore.

E' molto utile qualsiasi tentativo di integrare i concetti e gli interventi pratici dell'Analisi caratteriale teorizzata da Reich con quelli dell’Analisi Transazionale, perché proprio tale integrazione può consentire una comprensione ottimale di ciò che le persone fanno (fra sé e sé e con gli altri), del modo in cui manifestano le loro difese (atteggiamenti caratteriali, irrigidimenti muscolari, manipolazioni psicologiche), di ciò che costantemente evitano (i vissuti dolorosi), di come possono essere aiutate a prendere in considerazione un cambiamento del loro complessivo modo di vivere. Dato il disinteresse di Berne per il lavoro sugli aspetti corporei delle manifestazioni difensive, alcuni rappresentanti dell'approccio transazionale hanno associato gli interventi classici dell'AT ad interventi psicoterapeutici più attenti ai vissuti emotivi (cfr. M. Goulding - R. L. Goulding, 1979). Tuttavia, il limite più rilevante dell’AT sta nel fatto che non arriva a chiarire che l’analisi dei giochi e del copione è completa solo se lo smascheramento delle manipolazioni conduce all’accettazione e all’elaborazione del dolore. L'AT può anche essere collocata nel filone "intenzionalista" della psicoterapia contemporanea perché, pur attribuendo molta importanza all'influenza dei genitori sui figli, riconosce che i “giochi” e i “copioni” di vita sono tattiche e strategie costruite nell’infanzia e possono, quindi, essere modificate.

Nella psicologia sperimentale, l'influsso della Psicologia della Gestalt (che in tedesco significa "forma" o "configurazione") fu particolarmente rilevante negli anni '20 e gradualmente tale orientamento teorico divenne parte integrante della psicologia statunitense, grazie anche al declino dell'indirizzo a cui si contrapponeva (l'associazionismo). Sottolineando che i processi conoscitivi e percettivi si organizzano in configurazioni unitarie irriducibili alla somma dei singoli elementi e che, quindi, i fenomeni psicologici si verificano in un "campo", i gestaltisti hanno gettato le basi di una concezione generale del comportamento umano e, in seguito, di una corrente della psicoterapia opposta a quella comportamentista, che si era sviluppata a partire dall'associazionismo.

Fritz Perls, dopo essere stato in analisi con Wilhelm Reich, sviluppò un approccio psicoterapeutico che fondeva i principi psicologici gestaltici con il lavoro sui blocchi del contatto emotivo. Secondo tale autore, come l'organizzazione percettiva tende a massimizzare o minimizzare il contrasto fra gli elementi del campo (la "figura" e lo "sfondo"), così il bisogno (o "interesse") dominante dell'individuo struttura il suo campo relazionale, generando una tensione. Finché un bisogno non è soddisfatto c'è uno squilibrio in atto e la persona non riesce a dedicarsi ad altro. Secondo Perls, nelle nevrosi le persone attuano delle "interruzioni" nel riconoscimento e nell'espressione dei loro bisogni e in tale processo l'individuo "introietta" elementi "indigesti" dell'ambiente (che alterano la consapevolezza di sé), oppure "proietta" all'esterno parti non accettate di sé, oppure confonde se stesso con l'esterno ("confluenza"), oppure fa a se stesso ciò che vorrebbe rivolgere all'esterno ("retroflessione"). Anche in questo indirizzo psicoterapeutico, per tanti aspetti prezioso, non è centrale e adeguatamente approfondito il fatto che, quando i desideri non possono essere soddisfatti, solo l’elaborazione di un lutto può ristabilire un solido equilibrio psicologico. Inoltre, meriterebbe un approfondimento il fatto che le persone "si interrompono" nel presente, proprio perché sono impegnate attualmente in un progetto difensivo che hanno costruito nell'infanzia per evitare esperienze dolorose (allora) intollerabili.

L'idea che nelle nevrosi perdiamo il contatto con parti di noi stessi alterando il nostro rapporto col mondo esterno porta la terapia gestaltica all’utilizzazione di tecniche finalizzate al "recupero" delle "parti non accettate". Tra queste, va ricordata quella della "accentuazione dell'interruzione" (che si applica invitando il paziente non già ad aprirsi o rilassarsi, ma ad esasperare le sue modalità difensive), quella del recupero delle parti "attribuite ad altri" (che si applica invitando il paziente a "rappresentare" le persone che trova antipatiche), quella della "doppia sedia" o "sedia bollente", che costituisce una ripresa del metodo moreniano di spostarsi da un ruolo all'altro per lavorare su conflitti interpersonali irrisolti. Fondamentale è il contributo della psicoterapia gestaltica al lavoro sui sogni. "Quando tentate di interpretare un sogno, almeno in una prima fase, sforzatevi di considerare tutte le sue caratteristiche e tutte le persone che vi compaiono, come semplici proiezioni, come parti della vostra stessa personalità. In ultima analisi siete voi a creare il vostro sogno, per cui tutti gli elementi che in esso compaiono, appartengono alla vostra personalità" (Perls-Hefferline-Goodman, 1951, pp. 239-240). Anche la terapia gestaltica rientra fra gli approcci "intenzionalisti", che considerano le persone attive nella strutturazione e nel mantenimento dei loro disturbi psicologici e non "affette" da disturbi psicologici. Per questo motivo i vari interventi gestaltici sono tesi a far prendere coscienza di ciò che fanno le persone quando manipolano le relazioni o negano certe parti di sé. Purtroppo, nemmeno questo indirizzo psicoterapeutico attribuisce un ruolo centrale all’elaborazione del dolore.

La psicoterapia umanistica costituisce, più che una scuola di psicoterapia, una tendenza che si è sviluppata soprattutto come reazione sia alla psicoanalisi, sia al comportamentismo. Accogliendo il contributo della filosofia esistenzialista e della fenomenologia, vari studiosi hanno tentato di dar vita ad approcci psicoterapeutici concepiti come esperienze adatte a favorire lo sviluppo delle potenzialità personali. Purtroppo, nella psicoterapia umanistica le potenzialità personali sono concepite in un quadro di riferimento speculativo, non teoricamente rigoroso. Maslow ha fondato una "psicologia positiva" o "psicologia dell'Essere", la quale "si occupa di finalità più che di mezzi, vale a dire di esperienze, valori, cognizioni finalistiche, ove il fine è costituito dalle persone" (1962, p. 81) e, non a caso, Maslow si è occupato delle esperienze di intensa felicità, definite "peak experiences". La psicoterapia, in questa prospettiva, si struttura come una maieutica e viene teorizzata come un percorso interiore di autoespressione anziché come un trattamento di patologie. Tuttavia, le “buone intenzioni” dei rappresentanti di tale orientamento (cfr. Rogers, 1951, May e AA. VV. 1969, Fromm, 1956) non hanno permesso di chiarire le ragioni per cui le persone rinunciano ad esprimere le loro potenzialità, dato che tali autori non hanno messo a fuoco il ruolo dell’intenzionalità difensiva. L’orientamento “umanistico” ha, quindi, prodotto una sorta di psicoterapia “di sostegno” o “educativa” inadatta ad analizzare le difese e a favorire ridecisioni profonde. Pochi autori hanno unito la “sensibilità umana” tipica di questo orientamento psicoterapeutico alla capacità di elaborazione teorica ed alla capacità di intervenire con efficacia sulle difese psicologiche. Irvin Yalom (1980, 1989, 2002 e Yalom-Elkin, 1974) è stato, a questo proposito, un maestro che ha elaborato un articolato modo di concepire e praticare il lavoro analitico.

Altri psicoterapeuti, pur operando all’interno della tradizione psicoanalitica hanno sviluppato concezioni focalizzate sulle esperienze emotive delle persone in analisi. Franz Alexander ha sostenuto che il principale fattore di cambiamento dei pazienti non era costituito dall'insight intellettuale, ma dalle esperienze emozionali fatte nel corso della terapia. Ovviamente egli fu pesantemente avversato dai colleghi ortodossi che mantenevano fermi sia i principi teorici freudiani, sia le modalità distaccate e "neutrali" di rapporto con i “pazienti”. Il suo libro Psychoanalytic Therapy: Principles and Application, scritto con Thomas M. French ed altri collaboratori (1946) ha quindi segnato una delle svolte “storiche” della psicoanalisi ed ha aperto la strada ai contributi di altri psicoanalisti della "Scuola di Chicago" (tra cui va ricordato Heinz Kohut). Alexander sostiene che se il paziente scopre nella relazione con l'analista di potersi esprimere e di poter agire in modi che nell'infanzia non erano stati accettati dalle figure genitoriali, grazie a tale "esperienza emozionale correttiva", può sia chiarire gli aspetti “patogeni” del suo passato, sia modificare i suoi atteggiamenti ed i suoi comportamenti. Quindi, la terapia consiste essenzialmente in una sorta di rieducazione emotiva e non in una semplice ricostruzione intellettuale. Conta poco che le nuove esperienze emozionali correttive avvengano nel corso delle sedute o nelle relazioni della vita quotidiana che in seduta vengono discusse. Conta invece molto, per Alexander, il fatto che il paziente senta che certi suoi modi di agire non sono più necessari.

Con Alexander si sono ottenute innovazioni sul piano tecnico e si è ridotta la durata dei trattamenti. Anche se Alexander ha portato una ventata d'aria fresca nel mondo della psicoanalisi di quell'epoca,  questo autore, proprio ipotizzando esperienze emotive “correttive” ha in fondo consolidato la visione consolatoria e rassicurante della “terapia”. Le persone sottomesse o competitive non guastano i rapporti umani perché incapaci di rispettare gli altri e perché prive di esperienze formative. Gestiscono i rapporti in modo difensivo e hanno bisogno di capire il loro progetto di vita e di sentire il dolore che evitano e non di ricevere l’attenzione di cui sono stati private. Un buon rapporto umano in analisi rende possibile una collaborazione fra analista e cliente, ma non può di per sé modificare le strategie difensive, che sono intenzionali e inconsce. Inoltre, le emozioni dolorose non accettate nell'infanzia devono essere riconosciute ed espresse perché solo in questo modo cessano di essere percepite come intollerabili.

Se Alexander ha dato una prima spallata all'idea che la psicoanalisi non dovesse occuparsi di esperienze emozionali, John Bowlby ha evidenziato, anche sulla base di ricerche extra-cliniche, precise correlazioni fra l'inadeguatezza delle cure materne nella prima infanzia e la presenza di disturbi nello sviluppo psicologico dei bambini. Sia gli psicoterapeuti di orientamento comportamentista (ancorati alla teoria dell'apprendimento), sia quelli di orientamento freudiano (che basavano lo sviluppo della personalità su ipotetici conflitti intrapsichici) risposero con scetticismo alle sollecitazioni di Bowlby. Con la "teoria dell'attaccamento", Bowlby tentò di sviluppare una concezione psicologica sganciata dalla teoria freudiana delle pulsioni. Egli rinunciò al farraginoso concetto di "energia libidica" e cercò di fornire una chiave di lettura fondamentalmente etologica per i basilari comportamenti umani e di concepire i disturbi psicologici come effetti di reali distorsioni nella comunicazione madre-bambino nell'epoca neonatale e nell'infanzia. Tale lettura psicologico-etologica del comportamento umano ha il merito di non implicare concetti speculativi e di non presupporre la visione riduzionistica dell'agire umano tipica della teoria comportamentista, ma trascura i percorsi soggettivi, intenzionali (inconsci) che orientano l'individuo nel suo agire. Solo analizzando l'intenzionalità difensiva dei comportamenti irrazionali possiamo effettivamente chiarire ai clienti che agiscono e che continuano ad agire in modi che nell'infanzia li aiutavano a sopravvivere, ma che ora impediscono ad essi di esprimere le loro potenzialità.

L’idea di una “sequenza causale” fra accudimento ricevuto nell’infanzia e disturbi psicologici (Bowlby, 1988, p. 95), di fatto, sminuisce il ruolo attivo dei bambini nella costruzione delle difese e conferma, quindi l’idea che l’analisi della storia personale possa essere “terapeutica” anziché strumentale all’elaborazione del dolore e alla libertà di attuare dei cambiamenti. Non a caso, Bowlby sottolinea che in terapia l'analista deve offrire una “base sicura” al “paziente” per favorire l'alleanza terapeutica (1988, p. 146). Bowlby non afferma ingenuamente che offrire una base sicura ai clienti significhi offrire un'esperienza “riparativa” e persino Heinz Kohut (1977), particolarmente orientato a considerare le “fragilità” dei clienti, non afferma niente del genere. Tuttavia la tendenza (difensiva) di molti psicoterapeuti a manifestare atteggiamenti protettivi li conduce facilmente a semplificare le idee di Bowlby e ad offrire ai “pazienti” proprio l'accoglienza "materna" di cui non hanno bisogno. Ovviamente Bowlby non può essere considerato responsabile dei fraintendimenti del suo pensiero, ma ha responsabilità indirette in tal senso per il fatto di aver trascurato l’esame della costruzione attiva delle difese psicologiche da parte dei bambini.

Tra le ricerche più significative originatesi nel quadro teorico di riferimento della teoria dell'attaccamento merita una particolare attenzione quella svolta da Mary Ainsworth e altri studiosi, riguardante la "Strange Situation" o situazione insolita (cfr. Liotti, 1996), che ha consentito di individuare alcuni “stili di attaccamento” che possono prendere forma a partire dai vari rapporti che i bambini sperimentano con le loro figure di attaccamento. I bambini, di età compresa fra i dodici e i diciotto mesi, vengono accompagnati dalla madre (o dal padre, in pochi casi) in una stanza dove vengono affidati ad una persona sconosciuta. Si osservano le reazioni dei bambini quando la madre esce dalla stanza e quando, dopo pochi minuti, rientra nella stanza. Tale ricerca ha individuato quattro modalità tipiche di risposta che sono ritenute tali da caratterizzare un basilare stile di attaccamento:

-attaccamento sicuro: i bambini protestano al momento della separazione e si tranquillizzano immediatamente quando la madre compare nuovamente,

-attaccamento evitante: i bambini reagiscono con apparente indifferenza alla separazione ed alla riunione,

-attaccamento resistente: i bambini protestano al momento della separazione, ma protestano anche al momento della riunione (rifiutando quindi il conforto che ottengono dalla madre che si ripresenta),

-attaccamento disorganizzato: i bambini reagiscono in modo confuso o disorientato al momento della separazione ed esprimono desiderio, paura o repulsione in rapida successione o manifestano risposte di segno opposto simultaneamente, quando la madre ricompare.

Sono poi stati confrontati gli stili di attaccamento manifestati dai bambini in tale esperimento con la personalità della figura di attaccamento (valutata secondo la Adult Attachment Interview), e si è rilevato che il genitore del bambino sicuro tende a dare valore alle esigenze affettive del figlio, il genitore del bambino evitante tende a svalutare tali bisogni, il genitore del bambino resistente tende a manifestare una certa conflittualità rispetto ai bisogni e il genitore del bambino disorganizzato appare concentrato su propri problemi di perdita non risolti e per questo è disattento e poco empatico nei confronti del figlio. Ricerche di questo tipo sono particolarmente preziose, sia perché approfondiscono la conoscenza dello sviluppo infantile, sia perché rendono possibile una maggior comprensione dei disturbi psicologici, ma vanno integrate nel lavoro analitico con un attento esame delle specifiche difese psicologiche e con una rielaborazione dei vissuti dolorosi di solitudine e di rifiuto.

Se da un lato, la psicoanalisi è stata almeno un punto di partenza per gli indirizzi psicoterapeutici che ho finora elencato, per altri indirizzi è, invece, stata solo un errore da contrastare. Le terapie derivate dal comportamentismo di Skinner (1953), le versioni iniziali della psicoterapia cognitivo-comportamentale (Ellis, 1962, Beck, 1976), la psicoterapia relazionale e sistemica (Watzlawick–Weaklnd, 1976, Haley, 1973 e 1984), la Programmazione neurolinguistica o PNL (Bandler–Grinder, 1979) e l’ipnosi ericksoniana (Erickson, 1967 e 1982) hanno in modi molto diversi considerato i sintomi non come l’espressione di qualche vicenda interiore da chiarire e “superare”, ma come dei semplici “fatti” su cui intervenire per produrre i “risultati adattivi” auspicati.

L'originaria concezione psicologica comportamentista si è evoluta grazie al contributo di studiosi che hanno riconosciuto l'importanza dei fattori che intervenivano fra lo stimolo e la risposta e che hanno sottolineato che le risposte individuali all'ambiente non sono circoscritte, ma si articolano e si sviluppano secondo piani o strategie (Miller-Galanter-Pribram, 1960). La terapia comportamentale ovviamente non poteva dilatarsi più di tanto, ma grazie a queste sollecitazioni ha potuto tradursi in un approccio cognitivo oltre che comportamentale ai disturbi psicologici. Lo schema di fondo della terapia cognitivo-comportamentale resta però quello di tutte le scuole di psicoterapia: cause, patologie e cure: “il comportamento di attaccamento del bambino prende forme che appaiono la diretta e ovvia conseguenza del comportamento comunicativo materno” (Mancini-Semerari, 1990, p. 65). Tale lettura dei disturbi psicologici, ovviamente trascura il fatto che i bambini subiscono ciò che accade attorno a loro, ma sono attivi nella costruzione delle loro risposte difensive a ciò che accade. Ciò che dopo dieci o trent’anni continua a disturbare la loro vita non è l’effetto meccanico dei rifiuti subiti nel passato, ma proprio il permanere delle difese psicologiche.

In una prospettiva molto diversa da quella cognitivo-comportamentale, l’indirizzo psicoterapeutico relazionale o “strategico” ha prodotto tecniche attive di intervento che comunque prescindono dall’analisi dei vissuti e delle strategie difensive individuali. Nel 1956, Gregory Bateson, Don D. Jackson, Jay Haley e John H. Weakland pubblicarono sulla rivista Behavioral Science un breve saggio che costituisce una pietra miliare nella storia della psicoterapia, perché nello studio dei disturbi psicologici prescinde dall’indagine su ciò che succede nell'individuo ed esamina ciò che si verifica nelle relazioni famigliari (in Bateson e AA.VV., 1956). Tale orientamento sposta anche il livello d'analisi delle teorizzazioni dal piano intrapsichico a quello interpersonale: "L'analisi di una famiglia non è la somma delle analisi dei suoi membri individuali. Esistono delle caratteristiche che sono proprie del sistema, cioè modelli interattivi che trascendono le qualità dei membri individuali (…) Molte 'qualità individuali' dei membri, soprattutto il comportamento sintomatico, sono in realtà proprie del sistema" (Watzlawick e AA.VV., 1967, p. 130).

E' innegabile il valore delle moltissime pubblicazioni derivate da tale concezione, ma resta il fatto che ogni singolo membro della famiglia aderisce all’irrazionalità del sistema di cui fa parte perché è soggettivamente orientato a soddisfare certe esigenze personali e a fare notevoli rinunce pur di non sentire il dolore derivante dal mancato riconoscimento e dalla non accettazione. In certi casi, accurate e mirate forme di intervento sul sistema famigliare possono ridimensionare in tempi brevi dei disturbi individuali, soprattutto quelli dei soggetti che costituiscono il capro espiatorio della “patologia famigliare”; non si sarà, quindi, mai abbastanza riconoscenti agli studiosi che hanno elaborato l'approccio relazionale, ma l'incompletezza “programmatica” di tale approccio impedisce che esso rappresenti una valida alternativa al lavoro analitico. Su un piano più generale, la concezione sociogenetica delle “patologie psichiche”, affermata in opposizione all'orientamento prevalentemente biologistico della psichiatria, ha dato luogo negli anni '60 al “movimento antipsichiatrico” (Szasz, 1961, Laing, 1967, Cooper, 1967, Basaglia, a cura di, 1968) e ha in qualche misura favorito il rinnovamento nella gestione pubblica delle "malattie mentali", ma non ha contribuito alla comprensione dei disturbi psicologici lievi o gravi.

La PNL (Programmazione Neurolinguistica) non pretende di essere una teoria del comportamento umano, ma un modello utilizzabile per descrivere sinteticamente i processi che danno luogo a particolari comportamenti. Gli interventi della PNL mirano a definire attraverso quali “tappe” le persone giungono a certi risultati ed a "riprogrammare" il comportamento per ottimizzarne gli esiti. Tale tecnica si rivela a volte utile per rompere certi circoli viziosi mentali e per raggiungere modificazioni del comportamento rapide, anche se non profonde, e comunque tali da non incidere sulla struttura della personalità. "Con il modello della PNL intendiamo oggettivamente interessarci al processo che conduce al risultato finale. Come si scatena e persiste la depressione? Quale sequenza di sistemi rappresentazionali viene coinvolta? Come possiamo parlare e muoverci per facilitare il cambiamento nel processo e aiutare il cliente a raggiungere uno stato più desiderabile?" (Lankton, 1980, p. 40). Ovviamente, valgono per tale approccio le stesse obiezioni sollevate a proposito di altri approcci “centrati sul sintomo”, ma voglio sottolineare che due aspetti di questo orientamento psicoterapeutico meritano di essere tenuti nella dovuta considerazione: l'attenzione rivolta all'uso del linguaggio e l'osservazione dei movimenti oculari nella comunicazione.

a) L'utilizzazione della grammatica trasformazionale da parte dei terapeuti della PNL consente di individuare le espressioni linguistiche dei clienti che esprimono descrizioni limitative o distorte della realtà. Le domande rivolte puntigliosamente ai clienti al fine di costringerli a chiarire meglio il modo in cui percepiscono e descrivono la realtà sono importanti per individuare certi punti cruciali del loro modo di pensare e per intervenire su convinzioni e atteggiamenti irrazionali. Al di là del modo specifico in cui la PNL orienta il lavoro psicoterapeutico sulle comunicazioni verbali dei clienti, le considerazioni di Richard Bandler e John Grinder (1975, capitoli 1-5) costituiscono una sollecitazione intellettuale molto forte anche per chi analizza gli atteggiamenti difensivi, dato che quando le persone evitano il contatto con le emozioni profonde, devono pilotare anche la loro comunicazione verbale in modi compatibili con il loro atteggiamento complessivo nei confronti della realtà.

b) L'esame dei movimenti oculari dei clienti aiuta a comprendere se stanno elaborando dati a livello visivo, cenestesico o auditivo e se li elaborano secondo sequenze costanti. La direzione in cui le persone orientano gli occhi (quando non stanno attivamente guardando qualcosa) rivela l'utilizzazione di un particolare "sistema rappresentazionale" (visivo, auditivo o cenestesico). Le persone in genere quando rivolgono gli occhi in alto a sinistra o a destra stanno rispettivamente ricordando o costruendo immagini visive; quando rivolgono gli occhi a sinistra o a destra stanno rispettivamente ricordando o costruendo esperienze auditive; quando orientano gli occhi in basso a sinistra stanno sviluppando un dialogo interno e quando orientano gli occhi in basso a destra stanno prendendo coscienza di esperienze cenestesiche. Inoltre le persone utilizzano preferibilmente predicati verbali visivi, auditivi o cenestesici rivelando in tal modo il loro sistema rappresentazionale preferito o maggiormente utilizzato: dire che una certa persona è "trasparente e limpida" o dire che è "calda" o dire che "rivela una profonda armonia interiore" significa in ogni caso dimostrare apprezzamento per la persona in questione, ma implica, da parte di chi parla, una predilezione per predicati verbali visivi o cenestesici o auditivi.

Bandler e Grinder riassumono con queste parole un loro intervento abbastanza curioso: "Una volta venne da noi una donna con la fobia dei luoghi elevati. (…) Facendole una serie di domande, scoprii che in realtà si costruiva un'immagine di lei stessa che cadeva giù dalla finestra, provava la sensazione di cadere, e quindi avvertiva una sensazione di nausea. Lo faceva molto in fretta e l'immagine restava al di fuori del campo della coscienza. Allora le chiesi di tornare alla finestra, questa volta cantando mentalmente l'inno nazionale americano. Potrebbe sembrare una stupidaggine, solo che andò alla finestra e questa volta senza manifestare la risposta fobica! Nulla di nulla. Questa fobia la affliggeva da anni e anni"(1979, p. 83). Pur apprezzando l'eleganza e l’immediata efficacia dell'intervento descritto e pur ritenendo che una serie di interventi di questo tipo possa incidere positivamente nella vita di un cliente, voglio sottolineare la limitazione a cui la PNL si condanna: in tale approccio psicoterapeutico un disturbo psicologico viene identificato come una "cose da riparare" e non come l'espressione di una concezione riduttiva di sé e della realtà che il cliente mantiene anche quando non sta producendo alcun sintomo.

Le varie psicoterapie “tecnicistiche”, quando raggiungono i loro (limitati) obiettivi, sono, ovviamente apprezzate dai “pazienti”, ma ciò non implica che il lavoro analitico non possa dare risultati in tempi brevi per problemi circoscritti. Voglio, a questo proposito riportare l’esempio di un lavoro che ho svolto in tempi brevi, ma senza trascurare gli aspetti emotivi e le scelte della cliente. Una donna, che chiamerò Stefania, mi comunica di essersi rovinata il week-end con suo marito facendo esplodere un problema di relazione (che aveva "covato" per mesi) e mi riferisce di essere tuttora turbata per la cosa non risolta.

Stefania mi dice che lei ed il marito (Renzo) valutano ed affrontano in modi diversi la gestione della casa. Lei è "attiva" e lui è "passivo". Lui si attiva se lei gli chiede aiuto per cose che per lui non sono urgenti. Lui si occupa di certe cose, ma raramente di altre. Cerco subito di chiarire se Renzo "si appoggia" a lei, se pretende che lei abbia cura di lui come se fosse un bambino e Stefania afferma che non è così. Renzo arriva a casa e si rilassa; trova assolutamente soddisfacente mangiare solo pane e prosciutto e considera non necessario faticare in cucina per mangiare il pollo al forno. Renzo nel week-end ama leggere, fare sesso, andare al cinema e non è interessato a fare una lavatrice fino a quando si trova senza biancheria da indossare. Desidera pulire il pavimento una volta al mese, non di più. Stefania invece segue la logica del "prima il dovere e poi il piacere". Di fatto il piacere è sempre rinviato e lei sente l’urgenza di fare lavori domestici sempre prima di Renzo. Dopo avermi chiarito che comunque è Renzo ad attivarsi (prima di lei) per altre necessità, mi dice che anche sul piano professionale Renzo ha lo stesso atteggiamento “passivo”: non si attiva per cercare un altro impiego, anche se trova parzialmente insoddisfacente quello attuale. In ogni caso non si lamenta con lei, non le carica sulle spalle le frustrazioni lavorative e cerca di star bene a casa dopo le ore dedicate al lavoro. Il punto focale della questione è da Stefania ricapitolato in questa frase: "Sabato ho visto il mucchio dei panni da lavare, i pavimenti sporchi e mi sono innervosita; gli ho parlato contestando la sua svogliatezza e sono stata male per due giorni".

Secondo gli psicoterapeuti della PNL (e anche secondo me) Stefania, dopo aver visto la pila dei panni sporchi, si era persa in un tunnel di sensazioni sgradevoli reagendo con insofferenza. Forse si sarebbe sentita meglio ed avrebbe potuto rielaborare il problema se fosse stata guidata fuori dal corto circuito visivo-cenestesico, ma a me non interessava cercare di farla sentire meglio, perché volevo farle capire a che scopo aveva costruito un brutto fine settimana: per evitare quale dispiacere reale aveva agito così? Mi interessava chiarire quella situazione per favorire un cambiamento del suo più ampio modo di affrontare la vita.

GF. La “passività" di Renzo ti disturba perché "ti priva" di cose importanti, oppure perché "non va bene" (idealmente)?
S. E' vero. Per me "non va bene". Mi disturba proprio "idealmente".
GF. E quale è il tuo "ideale"?
S. "Nella vita le cose te le devi procurare!"
GF. Splendido! Infatti, se tu mi regalassi un libro a cui tengo molto, sarei felice di buttarlo nell'immondizia, uscire di casa e andarmene a comprare una copia in libreria!
S. (Ride)
GF. E da dove viene questa tua strana idea?
S. Dai miei genitori. "La vita è una lotta, non è una vacanza".
GF. A volte si deve lottare. Lotti quando è davvero necessario o lotti sempre per essere vista?
S. E così ritorniamo a me a alla mia solitudine.
GF. Già.
S. (E' triste ed è assorbita nei suoi pensieri).
GF. Forse ti piace tanto Renzo proprio perché vive in un modo diverso dal tuo. Lui si permette quel tipo di esperienze, di sensazioni che tu hai sentito di dover calpestare per non sperimentare la non considerazione, la squalificazione, l'isolamento. Eri troppo piccola per dire cosa veramente volevi.

Nella seduta successiva Stefania mi dice che la tensione con Renzo si è "sgonfiata". Mi dice: "A volte solo a me sembra necessario fare una lavatrice … e quindi tocca a me farla". Mi comunica anche di aver notato che sono molte le cose che Renzo fa in casa e di cui lei non si occupa. Sottolinea soprattutto che ha sentito di più la solitudine di quando era piccola e che domenica è stata tutto il giorno in casa a godersi il "non far niente", nello "stile messicano" di Renzo. Interventi come quelli di Bandler e Grinder sono molto utili in certi casi e soprattutto in situazioni di emergenza. Non possono però dare i risultati di un lavoro analitico perché nella PNL l'elaborazione cosciente di vissuti dolorosi non ha spazio: "Far affrontare al cliente il contenuto penoso di alcuni ricordi non è affatto necessario, né tanto meno l'unica scelta terapeutica possibile" (Lankton, 1980, p. 127). La PNL non considera i disturbi psicologici come difese, ma come semplici dati di fatto e si occupa del modo di interrompere i processi interni attraverso i quali tali disturbi si manifestano.

La psicoterapia cognitiva contemporanea si articola in vari indirizzi e, avendo accolto i contributi della teoria dell'attaccamento e della psicologia dell'età evolutiva, si presenta come un insieme di approcci complessi, attenti alla persona e non solo ai "guasti nel meccanismo". Nell'accezione ampia (non freudiana) in cui io utilizzo il termine "analisi", alcuni interventi proposti dagli indirizzi cognitivisti più recenti possono anche essere classificati come analitici. Orientamenti psicoterapeutici come quelli di Vittorio Guidano (1987) e di Giovanni Liotti (1993, 2001), oltre ad aver accolto i contributi di John Bowlby, si sono sviluppati nel contesto di un dialogo costruttivo con altre Scuole di psicoterapia. Vittorio Guidano ha avvicinato il cognitivismo ad una lettura intenzionale piuttosto che causale lineare dell'agire personale: "il terapeuta deve arrivare a una riformulazione del problema presentato in termini che consentano di operare nell'interfaccia esperire/spiegare (metodo di autoosservazione), escludendo contemporaneamente ogni aspetto connesso a nozioni di malattia (attribuzione causale esterna)" (1996, p. 99). Il cognitivismo, quindi, da un lato si muove nella direzione di un tecnicismo pragmatico secondo cui si devono individuare procedure standardizzate adatte al "trattamento" di disturbi specifici, secondo i dettami della "psicoterapia evidence based" e da un altro lato si muove nella direzione di un'integrazione dei suoi presupposti con quelli derivati da orientamenti attenti alle vicende emozionali. In ogni caso, l’aspetto trascurato anche dagli sviluppi più interessanti del cognitivismo è il ruolo difensivo delle convinzioni irrazionali. Tale trascuratezza ostacola, di fatto, l’elaborazione del dolore e qualsiasi cambiamento nella strategia esistenziale della persona.

Gli aspetti più preziosi ed anche i limiti del cognitivismo sono evidenti nell’indirizzo”cognitivo-evoluzionista” di Giovanni Liotti, che ha cercato di integrare i contributi psicologici di John Bowlby, quelli etologici di Konrad Lorenz e quelli epistemologici di Karl Popper. Liotti offre una chiave di lettura per i disturbi psicologici molto articolata, ma penso che, pur parlando del "fallimento nella conoscenza di specifiche emozioni" da cui derivano "specifiche forme di sofferenza psicologica" (Liotti, 2001, p. 115) egli rinunci ad interrogarsi sulle ragioni difensive di tale "fallimento". Liotti parla esplicitamente di "attivazione difensiva" di certi Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI)  e specifica che tale uso del concetto di "difesa" va distinto da quello psicoanalitico e riguarda "la gestione delle conseguenze di drammaticamente infelici esperienze reali di attaccamento" (2001, p. 118). In base a ciò, si può affermare che, anche se l’indirizzo cognitivo-evoluzionista non mette al centro del lavoro da svolgere l’elaborazione del dolore, manifesta un’apertura a questioni che il cognitivismo in origine trascurava.

Se gli sviluppi più recenti dell’approccio cognitivista sono stati radicali, lo è stato anche quello attuato, nell’ambito della tradizione psicoanalitica, da Joseph Weiss e Harold Sampson con i colleghi e allievi del San Francisco Psychotherapy Research Group (SFPRG). Il gruppo, già noto negli anni '70 come Mount Zion Psychotherapy Research Group o "Scuola di San Francisco" ha elaborato una teoria e un approccio psicoterapeutico (Control-Mastery Theory, o "teoria della padronanza-controllo") caratterizzato da profonde innovazioni concettuali e tecniche (Weiss-Sampson, 2001). Tale approccio, affermando l'importanza di un funzionamento mentale superiore inconscio volto alla ricerca di condizioni di sicurezza e padronanza sulle emozioni nelle relazioni interpersonali, ha ottenuto apprezzamenti da parte degli psicoterapeuti di formazione cognitivista; infatti, esso merita di essere considerato come un indirizzo “autonomo” della psicoterapia, data l'originalità dei suoi concetti basilari, tra i quali, quello di "convinzioni patogene", di "piano inconscio" e di "test". L'interesse della Scuola di San Francisco per la sistematica ricerca empirica condotta per valutare i propri assunti teorici, costituisce un altro elemento di discontinuità rispetto alle teorizzazioni psicoanalitiche classiche, basate in genere solo sulle esperienze cliniche. La teoria della padronanza-controllo ha lasciato cadere le ipotesi iniziali freudiane relative all’energia libidica e ha recepito i contributi della psicologia dell'Io statunitense degli anni '50, della teoria dell'attaccamento e di vari orientamenti post-freudiani. Ha anche introdotto nella teoria della psicoterapia l'idea evoluzionistica ed etologica secondo cui l'individuo tende a realizzare un adattamento al suo ambiente e non solo a gestire le spinte pulsionali.

L'elemento basilare della "svolta" di Weiss rispetto alla tradizione psicoanalitica, sta nel riconoscimento del fatto che "fin dalla prima infanzia l'individuo (…) cerca di acquisire un'attendibile conoscenza (le credenze) di sé stesso e del suo mondo interpersonale (…). Che siano normali o patogene, queste credenze sono fondamentali per la sua vita mentale conscia e inconscia" (Weiss, 1993, p. 41). Le convinzioni patogene originatesi in un ambiente famigliare non favorevole creano vari ostacoli all'autorealizzazione della persona e chi chiede aiuto psicoterapeutico cerca essenzialmente di trovare in un rapporto interpersonale "sicuro" gli elementi necessari per disconfermare le credenze patogene. In pratica, nel rapporto terapeutico, non sono presenti solo resistenze inconsce al cambiamento ma è attiva anche l’intenzione, pure inconscia, di realizzare un cambiamento profondo. Secondo la Control-Mastery Theory i bambini spesso si convincono di non poter conseguire con successo i loro obiettivi senza mettere a repentaglio la loro sicurezza e quando, nella vita adulta, cercano un aiuto psicoterapeutico vogliono scoprire se sono abbastanza al sicuro in tale relazione da poter rimettere in discussione le loro convinzioni patogene. Se l'analista supera certe "prove" (i cosiddetti test), il cliente collabora attivamente al lavoro psicoterapeutico. A mio parere, l'intreccio fra convinzioni, sensazioni ed emozioni è molto stretto, ma certe difese hanno componenti cognitive più rilevanti di altre. Il senso di colpa sviluppato da un bambino di cinque anni include delle reali convinzioni (errate), mentre la propensione di un neonato a limitare la propria motilità (cfr. Chakos, 1969) riposa in un certo senso su "quasi-convinzioni", ma non è esprimibile sul piano verbale. In ogni caso fin dalla nascita l'individuo inizia a sviluppare un personale adattamento alla realtà (Stern, 1985), e quindi, in senso lato, si può accettare l'idea di un graduale sviluppo di convinzioni difensive.

Secondo Weiss sono particolarmente utili gli interventi che disconfermano le credenze patogene: superando i vari test, lo psicoterapeuta riduce il vissuto di pericolo avvertito dal cliente ed il suo bisogno di attuare rimozioni. "Il cliente può mettere alla prova le sue credenze patogene in due modi diversi, cioè attraverso il rivolgimento del passivo in attivo e attraverso il transfert. In entrambi i casi egli riproduce le esperienze traumatiche infantili da cui ha derivato le sue credenze patogene. Nel rivolgimento del passivo in attivo si comporta con il terapeuta riproducendo i comportamenti traumatici che uno dei genitori aveva avuto con lui, nella speranza che il terapeuta non ne sarà altrettanto sconvolto. (…) Il paziente può mettere alla prova le sue credenze patogene in modo più diretto, attraverso il transfert: si comporta cioè con il terapeuta come si era comportato da bambino con i suoi genitori. Riproduce il comportamento che, secondo lui, aveva provocato nei genitori le reazioni da cui ha derivato le sue credenze patogene. Spera inconsciamente di non avere sul terapeuta l'effetto che aveva avuto sui genitori" (Weiss, 1993, pp. 32-33).

In realtà, questi comportamenti sono comprensibili anche dal punto di vista secondo cui il cliente non segue solo un "piano di emancipazione", ma anche un "piano difensivo": ad esempio, nel rivolgimento del passivo in attivo egli si colloca nel ruolo genitoriale per evitare di sentirsi vulnerabile. Un cliente, al suo primo colloquio entrò nel mio studio e sedette alla mia scrivania e ovviamente lavorammo sulla sua tendenza a stare sempre nel ruolo dominante, genitoriale, a volte accudendo gli altri ed a volte svalutandoli, ma evitando comunque di sentirsi dipendente e di fare richieste affettive. Anche quelli che Weiss considera tentativi di mettere alla prova le convinzioni patogene attraverso il transfert possono risultare comportamenti difensivi. Una cliente molto "lenta" nel fare tutte le cose e da sempre svalutata dalla madre per la sua inefficienza, pur essendo sempre giunta alle sedute perfettamente puntuale, si presentò in ritardo per tre sedute successive. Forse mi sottopose ad un “test”: forse volle verificare se avrei reagito come la madre o se avrei evitato di disprezzarla. Credo che superai il test proprio dicendole che non capivo come mai una persona così capace di essere puntuale, per tre volte fosse riuscita a far tardi. Forse, cominciando a sentire un coinvolgimento personale con me, cercava (difensivamente) un rapporto "sicuro e perverso" come quello collaudato con la madre, basato su inadempienze e rifiuti (che l'avrebbe protetta dal rischio di arrivare puntuale e non essere affatto "vista"). Oppure agiva la parte della tartaruga solo per sottopormi ad un test e vedere se io avrei reagito come la madre. In ogni caso riuscimmo a capire che comunicava soprattutto agendo in certi modi piuttosto che esprimendo apertamente le sue emozioni. La sua "lentezza" era infatti rabbia passiva indirettamente espressa. Il punto più significativo da analizzare risultò proprio questo. Credo, in altre parole, che i concetti di piano e di test elaborati dalla Scuola di San Francisco possano essere utilizzati nel modo migliore (e con meno complicazioni teoriche) all'interno di una più ampia concezione dell'intenzionalità difensiva delle persone.

Una lettura intenzionale di ciò che il cliente fa per cambiare dovrebbe associarsi ad un'altrettanto limpida lettura di ciò che il cliente ha fatto nell'infanzia (e che continua irrazionalmente a fare) per proteggersi dal dolore, ma Weiss e collaboratori hanno utilizzato sia letture causali, sia letture intenzionali dei comportamenti difensivi ed espressivi rendendo in qualche misura incoerente la loro teoria: da un lato considerano i sintomi come determinati dal passato e dall'altro considerano i pazienti come artefice di un piano.

In realtà, possiamo attribuire alle persone in analisi sia il "progetto costruttivo" individuato dalle ricerche della Scuola di San Francisco, sia un "antico progetto difensivo". Un cliente che da anni viveva in uno stato d'animo cupo, rabbioso e depressivo, afflitto da inspiegabili disturbi "psicosomatici", dopo una seduta intensa in cui si era sentito (o “ritrovato”) bambino di fronte allo sguardo indifferente della madre, mi disse "Sai, io credo di aver dedicato quasi tutta la mia vita allo sforzo di dimenticare questo dolore". Gli chiesi se dopo aver pianto per quel dolore sentiva di poter in qualche modo "essere travolto" dai suoi "giramenti di testa" o dalla sua "debolezza" e mi rispose che quelle sensazioni non avevano nulla a che fare con ciò che stava sentendo. Si può quindi affermare che la Scuola di San Francisco ha in qualche modo recepito le sollecitazioni degli approcci "intenzionalisti", ma favorirebbe cambiamenti più profondi se desse più importanza all’elaborazione dei vissuti dolorosi delle persone. Proprio la ricerca del dolore aiuta a capire quando i clienti cercano di disconfermare le loro convinzioni difensive e quando agiscono sulla base di tali convinzioni difensive. Aiuta anche ad esplicitare e valutare assieme ai clienti le ragioni per cui fanno ciò che fanno.

Credo di aver evidenziato in queste pagine i pregi dei principali orientamenti psicoterapeutici e l’errore che li accomuna: l’idea di patologie individuali (ritenute tali in quanto insolite rispetto alla normalità), causate da precisi fattori e curabili grazie a precisi interventi tecnici. Le contrapposizioni fra le varie Scuole riguardano l’identificazione delle cause e la scelta delle strategie terapeutiche e sono alimentate dal fatto che gli psicoterapeuti elaborano le loro teorie e le applicano nelle sedute operando “sui pazienti” anziché “con le persone in analisi”. La logica di tipo medico costringe ad agire così, perché i medici chiedono ai pazienti cosa sentono, ma non chiedono suggerimenti per la diagnosi e nemmeno suggerimenti per le cure da attuare. La logica dei medici è giustificata perché le persone non fanno nulla per diventare febbricitanti, ma non è giustificata sul piano psicologico perché le persone fanno moltissime cose per arrivare a sentirsi colpevoli o “ferite” o “incapaci” di fare cose semplicissime. Per questo motivo, conta poco che gli psicoterapeuti “credano” al complesso edipico o alle “patologie famigliari” o ai “disturbi cognitivi”, perché in ogni caso vogliono credere alle patologie e non si propongono di scoprire con i clienti perché fanno ciò che fanno.

La base ideologica (non teorica e non tecnica) che accomuna i vari (e significativamente diversi) approcci psicoterapeutici si riduce in pratica a tre grandi illusioni che ora voglio elencare.

a) L'illusione secondo cui la psicoterapia può diminuire il disagio dovuto ai sintomi e favorire il “benessere” psicologico saltando l’elaborazione del dolore. Tale illusione nasconde il fatto che gli esseri umani non possono provare un costante “benessere”, ma possono essere felici di esistere come persone nella misura in cui accettano la gioia e il dolore.

b) L'illusione secondo cui il lavoro sui disturbi psicologici va inteso come cura di una malattia “strana” e come recupero della normalità. Tale illusione è “confortante” perché distoglie l’attenzione dal fatto che la normalità non è affatto razionale e che ciò vale sia per i tipici modi in cui le persone pensano, sentono e agiscono, sia per le tipiche relazioni interpersonali, sia per i “valori” condivisi, sia per i modi in cui le società sono strutturate, sia per i modi in cui le persone si adattano o si ribellano alla realtà sociale.

c) L'illusione secondo cui la psicoterapia può risolversi in un'esperienza “puramente umana” di ascolto o di accettazione o di “sostegno”, e l'illusione (opposta). secondo cui la psicoterapia si può ridurre all'applicazione metodica di procedure prefissate. L’idea di poter dare “sostegno” ai pazienti può essere gratificante per gli psicoterapeuti e, in un altro modo, può esserlo l’idea di risolvere problemi personali applicando scrupolosamente una procedura tecnica “efficace”, ma entrambe le idee in questione non sono realistiche. Quando dei cambiamenti significativi vengono realizzati con il lavoro analitico, le persone sanno di aver messo in discussione alcune loro convinzioni e di aver affrontato esperienze emotive dolorose, col risultato di non temerle più; sanno di aver deciso di vivere per obiettivi diversi da quello di evitare emozioni profonde. Sanno, quindi, di non essere state “curate” né dalla semplice “accoglienza” del “terapeuta”, né dall’applicazione di qualche tecnica “efficace”.

L’idea che esista una “tendenza” verso il bene ed una verso il male costituisce un mito che disconosce l’intenzionalità difensiva. Solo gli psicologi potrebbero "smontare" l'etica evidenziando le strategie inconsce con cui le persone si dissociano, fin dall'infanzia, dal dolore. Potrebbero dissolvere il moralismo se si proponessero di spiegare l'irrazionalità anziché di "curare" gli "eccessi" della normale irrazionalità. L’unica nostra “tendenza” è verso il bene e la diffusa tendenza ad agire distruttivamente riflette la diffusa presenza delle difese psicologiche con cui i bambini (e, in seguito, gli adulti) cercano di non sentire il dolore. Le persone non sono “tentate” dall’egoismo perché hanno bisogno di buoni rapporti con gli altri fin dall’infanzia (cfr. Tomasello, 2009). Il dolore troppo profondo e troppo precoce rende i bambini insensibili e li fa diventare adulti spaventati, competitivi, rabbiosi e di conseguenza incapaci di amare. La basilare benevolenza degli esseri umani è stata confermata anche dalle esperienze pedagogiche non autoritarie (cfr. Neill, 1960) e da ricerche antropologiche (cfr. Malinowski, 1927), ma le discussioni “etiche” attraversano tutti gli ambiti della dimensione sociale e culturale. La mia convinzione in proposito non è una “concezione della realtà” che mi è parsa “attraente”. Ho accettato gradualmente tale convinzione costretto dai fatti che osservavo. Nel lavoro analitico, le capacità empatiche, la benevolenza, la disponibilità verso gli altri si dilatano senza sforzo nella misura in cui le persone iniziano a volersi bene e ciò avviene da quando accettano il dolore della loro vita e provano compassione per loro stesse.

Le persone che non elaborano il loro dolore hanno bisogno di essere aiutate ad uscire dalle prigioni mentali che loro stesse hanno creato. Tale aiuto può essere offerto solo all’esterno dell’orizzonte concettuale della psicoterapia, perché tale orizzonte presuppone una persona che “cura” e una persona che è “affetta” da una patologia. In questo senso si può dire che la psicoterapia è il sintomo intellettualizzato complementare ai sintomi esibiti dalle persone che sperano di “star meglio” senza capire cosa fanno per “star male” e per non accettare il loro dolore. La psicoterapia si riduce, quindi, nei suo complesso, ad un ostacolo ideologico alla conoscenza dell’esistenza umana e ad un ostacolo pratico ai cambiamenti psicologici che gli esseri umani possono realizzare solo interrogandosi sulle ragioni per cui vivono in certi modi. La psicoterapia ha però prodotto anche strumenti conoscitivi preziosi e ha delineato strategie di lavoro adatte a favorire nelle persone la consapevolezza delle ragioni per cui agiscono irrazionalmente. Il lavoro analitico non è altro che un tentativo di assemblare gli aspetti non speculativi della filosofia e quelli non “terapeutici” della psicologia che possono favorire sia un esame critico dell’irrazionalità, sia un indebolimento delle difese psicologiche e una più libera espressione delle potenzialità personali.

Molti psicoterapeuti sono tanto interessati a trattare “casi clinici” da scordare il fatto che stanno facendo sedute con persone reali che stanno costruendo la loro storia e la loro intera esistenza. L’idea è resa bene dal film di Gus Van Sant, Will Hunting, genio ribelle, in cui un ragazzo “difficile” manda in tilt vari professionisti del settore. Li mette in difficoltà perché, nonostante i suoi problemi, ha abbastanza forza da non lasciarsi incasellare in uno schema facile, da manuale. Poi incontra uno psicoterapeuta poco preoccupato di “curarlo”, ma disponibile a capirlo e, se possibile, ad aiutarlo ad accettare alcuni aspetti molto dolorosi della sua vita. Una bella storia di “psicoterapia non terapeutica”.

Sheldon Kopp, dal mio punto di vista, è stato una persona di questo genere. Ha scritto vari libri (1971, 1972, 1977), uno dei quali, intitolato  Se incontri il Buddha per la strada uccidilo, è risultato un grande successo editoriale. Un libro che mi ha aiutato a vivere, perché parla della vita reale delle persone e anche della vita dell’autore. Un regalo. In fondo noi "leggiamo per sapere che non siamo soli": questa frase, che ricorre nel film di Richard Attenborough, Viaggio in Inghilterra, è particolarmente adatta a ricapitolare ciò che si prova leggendo le pagine di Sheldon Kopp.

Purtroppo, questa persona capace di raccontare sedute in cui due semplici esseri umani chiarivano le “cose della vita”, più che svolgere una “terapia”, ci ha lasciati il 29 Marzo 1999. Egli ha concluso il libro Se incontri il Buddha per la strada uccidilo con un elenco di 43 frasi che non posso ovviamente riportare integralmente. Nei vari periodi in cui mi sono ritrovato il testo fra le mani, ho sottolineato alcune di esse, e non sempre le stesse. Riporto quelle che oggi mi “toccano” in modo particolare.

9. Non c’è alcuna ragione particolare per cui non hai ricevuto alcune cose.
10. Il mondo non è necessariamente giusto. L’essere buoni spesso non viene ricompensato e non c’è alcuna ricompensa per la sventura.
11. Nondimeno hai la responsabilità di fare il tuo meglio.
18. Se hai un eroe, dagli un altro sguardo: in qualche modo hai diminuito te stesso.
39. L’unica vittoria importante sta nell’arrendersi a se stessi.
43. Impara a perdonare te stesso, più e più e più e più e più volte …

Il concetto dell’ultima riga può essere riformulato con queste parole: “Impara a capire te stesso, più e più volte, perché capirai di aver commesso errori, di aver ancora bisogno di cambiare e di non aver nulla da perdonarti”. Credo che Kopp sarebbe stato d’accordo.




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