lunedì 17 dicembre 2018

Il lavoro analitico sulle difese e sui vissuti






Il lavoro analitico (che include l’analisi dell'intenzionalità difensiva e l’elaborazione dei vissuti non integrati) non è l'applicazione di una  teoria psicoterapeutica. Scopo del lavoro analitico non è, infatti, la "cura" di "patologie psichiche" da cui i clienti sarebbero "affetti", ma è un lavoro svolto per chiarire il modo in cui le persone costruiscono la loro esistenza. Le persone attivano nell'infanzia (inconsapevolmente) modi di pensare, sentire e agire che interrompono il contatto emotivo con situazioni troppo dolorose. Attivano, quindi, delle "difese psicologiche". Il lavoro analitico chiarisce le ragioni di tali atteggiamenti difensivi (molto più comuni dei "sintomi" eventualmente presenti) e favorisce il confronto con i vissuti dolorosi mai accettati e mai superati. Tale lavoro è conoscitivo ed esperienziale e non "terapeutico". Mira a spiegare non solo le ragioni di particolari comportamenti irrazionali (sintomi), ma anche di comportamenti o modi di pensare e sentire irrazionali che purtroppo sono normali in una società irrazionale. Non mira ad istituire un immaginario "benessere psicologico" perché l’esistenza umana può essere emotivamente intensa se è aperta sia al dolore inevitabile, sia alla gioia e alla felicità.

Il lavoro analitico è compatibile con qualsiasi reale conoscenza relativa all’intenzionalità difensiva e con qualsiasi intervento (rispettoso delle persone) volto a facilitare la consapevolezza delle ragioni per cui le persone vivono in modi irrazionali. Proprio per questo rende possibili dei significativi cambiamenti nella strategia esistenziale personale. L'accettazione della dimensione emozionale personale rende superflue le difese psicologiche e favorisce un rapporto con sé e con gli altri emotivamente intenso e razionale. Vorrei ora spendere qualche parola per esaminare alcuni aspetti pratici del lavoro analitico e del rapporto che cerco di costruire con i clienti.

Nel colloquio preliminare, dopo aver chiarito con un cliente il lavoro che possiamo svolgere, sottolineo che il compito di cambiare è esclusivamente suo. E' invece compito mio sia quello di aiutarlo a notare cosa fa per mantenere l'attuale suo equilibrio, sia quello di facilitargli il confronto con le esperienze emotive che attualmente evita. L'inizio tipico delle sedute (espresso o implicito) è "Cosa sei venuto a fare oggi?" e non già "Come stai?". Sicuramente con i miei clienti manifesto una sincera disponibilità e con loro gradualmente sviluppo un coinvolgimento affettivo, ma considero questi elementi come condizioni di possibilità per il lavoro analitico piuttosto che come fattori di "guarigione". Il lavoro analitico è un lavoro volto a facilitare dei cambiamenti e non è pura “accoglienza”, comprensione, accettazione.

Credo che certi rituali (tipici di alcuni approcci psicoterapeutici) che caratterizzano un rapporto "formale" fra analista e cliente siano inutili o dannosi, come l'uso del "lei" (almeno nella maggioranza dei casi) o un linguaggio standard (quello "professionale"). Allo stesso modo trovo incomprensibile qualsiasi consuetudine (tipica di altri approcci psicoterapeutici) ad abbracci finalizzata solo ad affermare che si è espansivi e "spontanei" in quanto iscritti ad un immaginario club analitico. In genere uso il "tu" con i clienti, sia perché credo che il rispetto reciproco non dipenda dai rituali formali, sia perché trovo bizzarro dare del lei ad una persona che condivide con me esperienze personali molto delicate. Il rapporto interpersonale è informale solo perché il formalismo implicherebbe una relazione fra estranei, cioè una bugia. Non credo di dover sembrare uno "schermo neutro" per facilitare le proiezioni dei clienti, dato che i clienti proiettano comunque la valanga di cose che vogliono proiettare. Per rapporto informale intendo un rapporto congruente con la realtà effettiva della relazione analitica in cui due persone non estranee, legate da un impegno comune e da sentimenti, fanno un lavoro che riguarda la vita intima del cliente.

Il rapporto analitico non deve essere inquinato da complicazioni che potrebbero rendere meno obiettivo l'analista o alimentare illusioni difensive del cliente. Tuttavia, le occasioni di incontro amichevole fuori dalle sedute non vanno escluse a priori: ad esempio, in un rapporto analitico che comprende un lavoro di supervisione, la frequentazione "da colleghi" in contesti professionali può sovrapporsi a quella strettamente analitica. Tale situazione può essere ben gestita, anche se richiede una certa vigilanza e una certa attenzione. In ogni caso, credo che una relazione d'aiuto analitica sia tale se comporta l'accettazione del fatto che non può essere confusa con un'altro tipo di relazione. La psicoterapia, per prevenire situazioni confuse ricorre alle regole della deontologia professionale, ma credo che ciò che davvero conta vada al di là del minimo richiesto dalla deontologia. Oggi credo, infatti, che un analista abbia buone ragioni per evitare il passaggio da una relazione professionale ad una relazione di altro tipo (erotica, d'affari o amicale) anche dopo la conclusione di un lavoro analitico (che ben difficilmente può essere "perfetto"). A volte, infatti, mi cercano, anche a distanza di anni, persone con cui avevo svolto un lavoro che era risultato soddisfacente; in una o poche sedute ho la possibilità di chiarire situazioni che, di fatto, non erano state sufficientemente analizzate. In questi casi posso farlo proprio perché non sono parte in causa e perché la persona in questione non teme che io metta a fuoco certi temi per un tornaconto personale.

A differenza di molti psicoterapeuti, considero teoricamente insostenibile la "incompatibilità" fra l'avere in analisi una persona ed anche un suo famigliare. Ho avuto in analisi coniugi, amanti, fratelli ed anche genitori e figli, senza riscontrare particolari difficoltà. Infatti il compito dell'analista non è quello di "difendere" o di "giustificare" il cliente, ma consiste nell’analizzare ciò che questi fa. Se due coniugi hanno un conflitto, compito dell'analista non è stabilire chi sia "il cattivo" e chi "la vittima", ma chiarire le difese psicologiche manifestate da ogni persona.

Anche la frequenza delle sedute merita qualche considerazione. Può sembrare ovvio che una maggior frequenza acceleri i cambiamenti (se il lavoro è abbastanza produttivo da facilitare qualche cambiamento). Tuttavia non è vero che cinquanta sedute in due mesi possano produrre gli stessi risultati di cinquanta sedute in un anno, perché le sedute richiedono un certo tempo per essere rielaborate dal cliente. Il lavoro analitico in senso stretto è quello che si fa nell'ora di analisi, ma il "lavoro vero e proprio" è svolto dal cliente nella vita quotidiana. Se, ad esempio, un cliente riesce a chiarire che il suo atteggiamento protettivo verso la moglie corrisponde ad una svalutazione, verificherà con lei cosa succede se smette di trattarla come una bambina. Su questi sviluppi potrà lavorare nella seduta successiva. In genere una seduta settimanale è necessaria e sufficiente e, quando il cliente ha acquisito la capacità di non "scollegarsi", vanno bene delle sedute quindicinali.

La durata dell'analisi va discussa su un piano di realtà e in relazione agli obiettivi stabiliti. Poiché l'obiettivo del lavoro analitico non è la "cura" di qualche sintomo, ma è la chiarificazione dell'intenzionalità difensiva e l’esplorazione della capacità di vivere ad un livello emotivo intenso, richiede tempo. I sintomi iniziali a volte scompaiono in tempi brevi, ma il cliente non va incoraggiato a credersi "guarito" e va piuttosto aiutato ad individuare le vere difficoltà che può superare solo pagando il prezzo di un costante confronto con il lato doloroso della sua intera esistenza. Proprio così egli può, infatti, scoprire che il dolore è tollerabile e che l’apertura emotiva alle esperienze dolorose comporta anche un’analoga apertura alle esperienze gioiose e soprattutto alla felicità di vivere una vita intensa.

Utilizzo l’espressione “lavoro analitico sull’intenzionalità difensiva e sui vissuti non integrati” (o quella più breve “lavoro analitico”) per riferirmi in modo specifico al lavoro che svolgo. Credo, infatti, che le difese siano processi intenzionali (anche se non consapevoli) e che l'elaborazione dei vissuti non integrati sia indispensabile per il superamento di eventuali sintomi e per la modificazione di aspetti non adattivi della personalità. Il lavoro analitico tende, quindi, a chiarire ai clienti a) che agiscono anche quando non si sentono responsabili di ciò che fanno, b) che agiscono intenzionalmente (anche se non consapevolmente) quando manifestano sintomi o disturbi psicologici e c) che in questi casi agiscono per evitare il contatto emotivo con vissuti dolorosi che nell’infanzia erano intollerabili e che sembrano ancora tali.

Il lavoro analitico si caratterizza per il suo obiettivo e non per l’uso di particolari tecniche; anzi, utilizza qualsiasi tecnica rispettosa del cliente che possa aiutarlo a comprendere i propri atteggiamenti difensivi e ad integrare i vissuti ancora temuti. Tale lavoro tratta i disturbi psicologici come modi di vivere e favorisce delle ridecisioni riguardanti il progetto esistenziale personale. Il lavoro analitico riguarda anche le convinzioni difensive delle persone e quindi in certi casi le loro (esplicite o implicite) convinzioni filosofiche, ma non mira a trasmettere dei contenuti “in positivo”, perché mette in discussione solo gli aspetti irrazionali di certi modi di pensare (pregiudizi, svalutazioni, incoerenze).

Utilizzo il termine "persona" in un'accezione non speculativa. In analisi possiamo parlare di persone riferendoci semplicemente agli esseri umani e risparmiarci le domande "terribili" sull'argomento che si devono porre gli studiosi di altre discipline. Le persone, quindi, sentono, pensano, agiscono intenzionalmente (consapevolmente o inconsapevolmente). Le persone esistono nella realtà (ed anche qui possiamo risparmiarci di rispondere ai quesiti filosofici relativi alla “essenza della realtà”) e sono “sospese" fra il loro passato ed il loro futuro. Le persone sono nate, moriranno e nel frattempo agiscono. Agendo, risultano "leggibili" sulla base di quello che fanno, di quello che dicono di pensare e sentire, di quello che mostrano (anche al livello del linguaggio corporeo), degli obiettivi che dichiarano e di quelli che effettivamente raggiungono o evitano di raggiungere. Le macchine si muovono perché alimentate da fonti di energia esterne e grazie ai meccanismi che le rendono tali. Le persone agiscono, e in un percorso analitico è indispensabile che scoprano di agire anche quando credono di "non riuscire a fare certe cose" o di "non riuscire a non fare" altre cose, o di essere "spinte" ad agire in certi modi da qualcosa o da qualcuno. Il mio rifiuto di trattare le persone come macchine rotte o difettose (da aggiustare o "curare") si traduce in un modo di teorizzare i disturbi psicologici ed i cambiamenti, al livello d'analisi della persona complessivamente intesa e non ai livelli d'analisi prediletti dai vari riduzionismi psicoterapeutici (livello "intrapsichico", comportamentale, fisiologico o relazionale).

Utilizzo il concetto di vissuto, come concetto teorico e non per parlare in modo generico di aspetti interiori. Considero come "vissuti" i bisogni, i desideri e le emozioni che una persona adulta sente nel presente, ma che non costituiscono una semplice reazione a stimoli (interni o esterni) attuali. Se una persona sente un rifiuto come doloroso, prova un'emozione comprensibile, ma se in presenza di un rifiuto prova un senso intollerabile di vuoto, sta rivivendo un vissuto “antico”, anche se è convinta di soffrire per qualcosa di attuale. Se una persona desidera la compagnia di altre persone, prova un desiderio comprensibile in relazione al presente, ma se cerca compagnia per ottenere un senso di sicurezza, sta sperimentando un vissuto della sua infanzia. Ovviamente tali distinzioni si basano sul presupposto secondo cui solo i bambini, non disponendo ancora di risorse adulte, sentono bisogni psicologici che, se non vengono soddisfatti, danno luogo ad esperienze emotive intollerabili.

Il lavoro analitico, chiarendo ed interrompendo le difese, porta le persone a confrontarsi con i vissuti dolorosi non elaborati e a scoprire che essi sono tollerabili anche se nell'infanzia erano assolutamente ingestibili in assenza di un sostegno genitoriale. In analisi l'elaborazione del dolore antico consiste in ripetute esperienze emotive in cui i clienti “ritrovano” dei vissuti dolorosi, mantenendo la consapevolezza di essere persone adulte capaci di gestire le proprie emozioni. Tale processo va distinto dalla regressione. Nella regressione le persone sentono ed esprimono dei vissuti senza sentirsi allo stesso tempo al sicuro nel presente. La regressione in analisi è sempre e comunque dannosa e non solo inutile. Le esperienze non integrate e non superate vanno cioè elaborate sia sul piano delle sensazioni, sia in piena lucidità e non è bene che le persone "recuperino" dei vissuti senza capire che stanno "rivivendo" delle emozioni o sensazioni "antiche".

Il dolore, pur costituendo uno dei "colori" fondamentali dell'esperienza umana è un'emozione che i bambini, purtroppo, non imparano ad affrontare con i genitori; lasciati soli si dissociano dal dolore e continuano ad attivare le loro difese psicologiche anche negli anni successivi senza sapere perché vivono in modi limitati. L'espressione autentica del dolore si traduce nel pianto e non ha nulla a che fare con le modalità ("nervosismo", depressione, ecc.) con cui, purtroppo, normalmente gli adulti affrontano i momenti più difficili della loro esistenza. L'esperienza emotiva del dolore è caratterizzata dal fatto di mantenere il contatto sia con il desiderio o bisogno sentito, sia con l'oggettiva impossibilità di trovare appagamento. Il dolore, nella sua espressione immediata, semplice, non difensiva, è riconducibile all'espressione "vorrei, ma non è possibile". Il dolore, sul piano fisiologico, è identificabile con un'attivazione del sistema parasimpatico, come la gioia, anche se la qualità dell'emozione è spiacevole. Nel dolore non c'è "tensione" come nella rabbia, o nella paura, perché il dolore è presente solo se è assente la speranza. Il dolore si riduce ad uno stato psicologico e fisiologico di resa. Sul piano interiore la tristezza, o dolore psicologico, è un'emozione adattiva, perché permette all'individuo di abituarsi gradualmente ad una situazione non voluta, ma immodificabile. Se il dolore è intenso, si esprime nel pianto con lacrime e singhiozzi e non con i piagnistei rabbiosi che costituiscono una difesa dal dolore e dal pianto. Nel dolore, come nel piacere, non c'è né timore, né rabbia, né speranza. Nelle difese psicologiche le persone creano ansia o rabbia proprio per mantenere qualche (illusoria) speranza e per non accettare il dolore.

Nella gioia non speriamo perché abbiamo già ciò che vogliamo e nel dolore non speriamo perché "disperatamente" accettiamo una mancanza. La rabbia e la paura sono incompatibili con il dolore perché implicano una speranza. Nella rabbia l'individuo si oppone a qualcosa perché ritiene possibile ottenere ciò che vuole o pensa di poter respingere ciò che non vuole. Nella paura l'individuo si attiva per prepararsi al peggio, ma considera il peggio come un'eventualità e quindi spera mentre teme; spera proprio perché teme. Nelle situazioni frustranti ma modificabili può aver senso una risposta emotiva di rabbia che prepara ad una lotta, come possono aver senso reazioni di paura. Tali risposte emotive però non sono comprensibili (se non come difese psicologiche) quando riguardano perdite o mancanze certe e definitive. In questi casi, chi dice (con le parole o con l'atteggiamento) che tale situazione non è "giusta", si ribella implicando la possibilità (inesistente) di un cambiamento; chi dice (con le parole o con l'atteggiamento) che un certo stato di cose è "incredibile", cerca (con l'incredulità) di non accettare quello che, appunto, è credibile perché è già realtà. Quando in psicoterapia si parla di angoscia, depressione, senso di colpa, invidia, gelosia, confusione come di “stati d'animo dolorosi”, si rinuncia ad interpretare questi complessi stati d'animo come artefatti cognitivi ed emozionali difensivi che, proprio introducendo la speranza con la paura e la rabbia, riducono o annullano il contatto con il dolore. Ovviamente una persona fobica o depressa sta male, ma, di fatto, evita di accettare il dolore.

Ci si può chiedere perché le persone si creino sofferenze non necessarie per evitare una sofferenza autentica che costituisce una componente essenziale della loro esistenza. La risposta a tale quesito sta nel fatto che le persone nascono incomplete e si completano durante la crescita sviluppando gradualmente le varie "risorse" psicologiche adulte. Finché la maturazione individuale non è completa, i "cuccioli umani" non sanno elaborare il dolore e possono farlo solo se ricevono l'appoggio delle figure genitoriali. I genitori, infatti, non hanno solo il compito di procurare il cibo ai figli finché essi non diventano autonomi per la loro sussistenza, ma hanno soprattutto quello di "prestare" le loro risorse psicologiche ai figli fino a quando essi completano il loro sviluppo. Se muore la nonna ed il bambino viene lasciato a se stesso, non "elabora” il dolore di tale esperienza, ma si irrigidisce, si arrabbia, si dissocia, si confonde, si distrae, e comunque fugge dal contatto con la realtà. Fra le braccia dei genitori, che confermano che la nonna è morta, che era tanto cara, che manca a tutti, il bambino può sciogliersi nel pianto, lasciarsi scuotere dai singhiozzi, sentire il dolore e superarlo gradualmente, scoprendo che quella lacuna nel suo "mondo" lascia comunque integro, significativo e apprezzabile ciò che resta. Le difese attuate dai bambini non "sostenuti" dai genitori, presuppongono una convinzione profonda (e all'epoca ragionevole) relativa all'intollerabilità del dolore, mentre le difese attuate dalle persone adulte presuppongono l’idea, attualmente errata, di una intollerabilità del dolore.

Le operazioni difensive, complesse o rudimentali, ricostruibili verbalmente o assolutamente "immediate", restano come dei macigni posati in mezzo al sentiero della vita. L'analisi porta a vedere tali macigni, a rimuoverli e a sperimentare che la strada è percorribile. Il "lavoro del lutto", nell'accezione del termine da me utilizzata, è costituito dalla costante e incondizionata focalizzazione sul dolore riconosciuto, accettato ed espresso. Comporta l'esperienza del pianto che (a ondate successive) si presenta come necessità fisica di espressione emotiva. Comporta anche il lavoro cognitivo di "ristrutturazione" del campo esistenziale della persona. In questa "ristrutturazione" la persona si abitua a riconoscere la propria esistenza come accettabile anche in assenza di qualche elemento che prima era considerato parte integrante di ciò che la persona riconosceva come "la propria vita". Il lavoro del lutto è necessario non solo quando muore una persona cara, ma anche quando la persona sperimenta una perdita irreparabile sul piano affettivo o della salute o dei progetti. Il lavoro del lutto non serve solo a prevenire dissociazioni e sintomi, ma rende possibile la felicità intesa non come una "grande gioia" o come un (impossibile) costante "benessere", ma come l'emozione che riflette, sia nella gioia, sia nel dolore, il piacere di esistere con consapevolezza, compassione e benevolenza. La conclusione di un lutto non si traduce in una sorta di “distacco”: il dolore per ciò che è perso o che non può essere ottenuto resta, ma viene percepito con minore intensità, perché è divenuto “sfondo” anziché “figura”. Normalmente le persone non risolvono i loro lutti perché non li avviano e non li avviano perché nell’infanzia, in assenza del sostegno dei genitori, hanno imparato a dissociarsi dal dolore (in genere proprio dal dolore dovuto ai rifiuti dei genitori).

Una persona, che chiamerò Valeria, aggrappata alla propria "prudenza", ma sinceramente desiderosa di liberarsi da un autocontrollo divenuto troppo scomoda, mi telefona fuori dall’orario di reperibilità e casualmente mi trova con il cellulare acceso.

V. Scusami l’orario. Puoi parlare cinque minuti?
GF. Sì. Che è successo?
V. Ho l’influenza e questa notte mi sono svegliata con la tosse. Però non mi sono riaddormentata e ho sentito una fortissima tachicardia. Ho cercato di capire cosa evitavo di sentire.
GF. E allora?
V. Quando il cuore è “partito” stavo pensando a mio figlio che cresce bene e ieri si era arrampicato su un albero. Ho pensato che afferrava i rami con sicurezza. Allora ho pensato che non ho mai potuto “afferrare” mia madre, in un abbraccio. Ho sentito tristezza e mi sono commossa, ma solo un po’, come al solito. La tachicardia è calata, ma non è scomparsa. Sono passate dodici ore e il cuore continua a picchiare. Allora ho provato a telefonarti. Non ho detto nulla a mio marito perché lui non c’entra e non voglio dargli anche questo peso.
GF. Dargli un peso sarebbe inutile, però puoi chiedergli di aiutarti a sperimentare una possibilità. E’ in casa ora?
V. Sì, è già rientrato.
GF. Appartati con lui, in modo da non dover spiegare nulla a tuo figlio e chiedigli se può permetterti di fare una cosa perché hai bisogno di affrontare un’emozione difficile. Afferra i suoi polsi, i suoi avambracci, le sue spalle, abbraccialo con tutta la tua forza e chiedigli di tenerti stretta a lui.
V. [Comincia a singhiozzare] Mi viene da piangere solo a pensarci.
GF. Ci hai già pensato, ma ora è bene che cominci a muovere le braccia e a sentirti mentre ti muovi.
V. OK. Lo farò.

Nella seduta successiva mi dice che ha pianto a lungo con il marito e che anche lui ha pianto con lei. La tachicardia è scomparsa. Ogni tanto però affiora, anche se meno intensa.
GF. Hai capito e sentito ciò che serviva, ma il lutto non è un episodio isolato, come la riparazione di un guasto. E’ necessario che porti con te quel dolore e che ogni volta che il dolore supera una certa soglia tu accetti il pianto, quello profondo, con le lacrime e i singhiozzi. Se sei con altra gente rinvia la cosa, ma tienila “presente”. Il dolore e il pianto per quel dolore devono avere il loro posto nella tua vita. Cerca di convivere abitualmente con ciò che senti, se vuoi risparmiarti la “tassa” dei sintomi.
V. Ho paura che sia “troppo”. Dopo un po’ mi chiudo.
GF. Quel “troppo” è la tua vera vita. Tu hai il tuo ritmo e non quello di una normalità senza desideri e senza emozioni inventata dai tuoi genitori.
V. Sentire tutto, sentire sempre … è come se ci fosse una misura, un limite prima del quale devo fermarmi.
GF. Nessun limite. Tu ti fermi quando hai paura di sentire, ma oggi non è mai pericoloso sentire. Il sentire era troppo doloroso quando eri piccola. Tu hai già spostato in avanti il punto oltre il quale iniziavi a ritirarti e a chiuderti, ma mantieni ancora l’idea di restare in contatto con la realtà solo finché ti senti al sicuro. Oltre quel punto mantieni ancora l’idea di attivare i controlli predisposti quando eri piccola. Non è più necessario.

Ecco una seduta “semplice”, lineare, facilmente comprensibile, sicuramente non "terapeutica". Una donna ha paura di lasciarsi andare ad un gesto che nella sua memoria e nei suoi muscoli è stato (inconsciamente) archiviato come pericoloso e che continua a sembrare “impensabile” e impraticabile. Il bisogno (antico) di “aggrapparsi” assomiglia a quello (adulto) di abbracciare un uomo e solo per quella somiglianza continua a limitare la capacità attuale di contatto fisico. Valeria, ad un certo punto della sua vita, si è chiesta se per caso non si stesse autolimitando e ha iniziato con molta fatica a guardarsi dentro anziché accusare gli altri o il destino. In analisi ha trovato una solitudine terribile che era “lì” da sempre, ma ha anche scoperto di poter piangere e gioire. Ha rinunciato a pretendere un rapporto protettivo mai sperimentato nell’infanzia e impossibile fra adulti e, proprio per questa rinuncia, ha potuto comprendere e sentire l’importanza del rapporto reale con se stessa e con il suo compagno.

Il lavoro analitico che svolgo mira a rendere le persone consapevoli di aver costruito una strategia difensiva e di aver pensato, sentito e agito in modi che le proteggevano da vissuti che ora possono accettare. Quando il lavoro analitico raggiunge questo obiettivo consente una più sentita accettazione dell'esistenza personale. L’analisi non insegna a nessuno come vivere, perché ogni persona ha delle caratteristiche individuali, ha una storia particolare e ha particolari qualità: l'analisi aiuta semplicemente a fare a meno dell'irrazionalità difensiva e a non rinunciare all’espressione delle potenzialità personali.

Nella storia della psicoterapia sono emerse alcune idee preziose e molte idee confuse. Tale confusione ha dato corpo alla psicoterapia “ufficiale”, nel senso di “riconosciuta pubblicamente”. La psicoterapia include moltissime Scuole al suo interno e non riflette un sapere condiviso (come nel caso delle vere discipline scientifiche). Accoglie molte assunzioni teoriche e molte pratiche fra loro incompatibili (come le varie chiese e sette religiose). La psicoterapia si colloca, quindi, di fatto, nel solco delle concezioni speculative dell’uomo. Nei paesi secolarizzati, laici, influenzati dall’illuminismo ha il ruolo che nei paesi islamici è occupato dalla religione. In Italia condivide questo ruolo privilegiato con la religione cattolica. La psicoterapia, pur “non esistendo davvero”, per via delle sue tante correnti in dissenso su tutto, è riuscita ad imporre la propria “esistenza” perché ha affascinato molti intellettuali e, attraverso le loro discussioni, ha ottenuto un ruolo significativo nella “cultura popolare” oltre che in ambito accademico.

La psicoterapia, come il “destino” o la “forza della volontà”, o la “coscienza morale”, o la “razza ariana” è qualcosa che esiste solo nell’immaginazione, ma che incide sulla realtà perché è immaginata da moltissime persone realmente esistenti che agiscono nella realtà. La psicoterapia (intesa come il nucleo di principi metafisici condivisi dalle varie scuole) affascina tante persone perché è deresponsabilizzante e rassicurante: afferma che le persone, soprattutto quando “stanno male” non fanno nulla e sperimentano stati d’animo causati da eventi antichi o da fattori sociali; inoltre, assicura che le sofferenze in questione possono essere curate (come le reali malattie del corpo) dai “medici della psiche”. In questo senso, la psicoterapia costituisce l’ultima grande ideologia religiosa e, in particolare, quella che ha (forse) definitivamente bloccato l’ultima via d’uscita dell’umanità dal labirinto delle speculazioni metafisiche. Il suo successo, soprattutto nell’ambito della cultura occidentale, è dovuto al fatto di essersi presentata come una derivazione (o “applicazione”) della psicologia scientifica, che mira a rimpiazzare le tradizionali concezioni speculative dell’uomo. La psicoterapia non si propone come religione e, proprio per questa sua ambiguità, occupa nelle società “moderne” quegli spazi lasciati scoperti dalle religioni tradizionali. Grazie alla psicoterapia, i peccati diventano patologie, i rituali diventano “setting” e la salvezza diventa “guarigione”.

Oggi, come nel passato, le persone fanno ciò che fanno per delle ragioni (e spesso per delle ragioni che non riconoscono) e, per non divenire consapevoli di tali ragioni, inventano delle spiegazioni non plausibili. Se in passato inventavano l’egoismo, oggi inventano le “pulsioni dell’inconscio” o le influenze della comunicazione famigliare o altre cose. Se in passato si rassicuravano assistendo in luoghi pubblici ai riti dei sacerdoti oggi si rassicurano assistendo in luoghi privati agli “interventi” degli psicoterapeuti. Se lo Stato stipendiava insegnanti di religione e cappellani militari, oggi stipendia psicologi impiegati in tutti gli ambiti pubblici. Gli storici delle idee, potrebbero svolgere delle indagini molto utili relative ai motivi per cui il marketing della psicoterapia ha avuto tanto successo in ambito culturale a dispetto della debolezza delle teorie e dell’inconsistenza dei risultati. Quando, infatti, alcune ricerche hanno evidenziato che le varie psicoterapie producevano effetti simili, nonostante le loro contrapposizioni teoriche e tecniche, i ricercatori hanno ipotizzato l’esistenza di “fattori aspecifici” di guarigione dipendenti dal rapporto psicoterapeuta-paziente e non hanno nemmeno sospettato che tali effetti fossero simili proprio perché erano davvero modesti. Di fatto, lavorando con clienti che avevano fatto esperienze, anche prolungate, di psicoterapia non ho mai incontrato nessuno che avesse in passato eliminato qualche sintomo o disturbo psicologico comprendendo le ragioni per cui aveva attivato certi comportamenti o sentimenti o sintomi. In psicoterapia a volte le persone “stanno meglio” dopo un certo numero di sedute, ma non sanno spiegare né il loro “star male”, né il loro “star meglio”. Lo stesso capita a chi “sta meglio” dopo essersi innamorato o dopo aver cambiato lavoro o dopo aver fatto una vacanza. Nel lavoro analitico che svolgo, ciò non accade. Pur sapendo benissimo di non riuscire ad aiutare tutti i clienti a raggiungere risultati accettabili e di aiutare alcuni clienti solo a realizzare cambiamenti parziali e anche modesti, ho sempre presente (come i miei clienti) cosa stiamo facendo e quali sono le difficoltà da superare pagando dei prezzi ben precisi sul piano emozionale. Tutte le persone che lavorano con me vengono provocate ad interrogarsi sulle ragioni delle loro scelte, anche (e soprattutto) quando giurano di non scegliere nulla e di essere semplicemente “incapaci” di fare o di non fare certe cose. Ciò non dipende dalle mie competenze personali, anche perché sono consapevole di avere molti limiti nella capacità di cogliere tutti gli aspetti da chiarire. Ciò dipende solo dal fatto che non mi propongo mai di “curare” delle persone, ma di chiarire con tali persone il loro modo di costruire la loro esistenza personale.

Ciò che rende la psicoterapia non solo limitata o discutibile, ma irrazionale, è la sua logica di fondo, che accomuna tutte le Scuole. Come l’etica riesce a non spiegare la distruttività umana proprio inventando la “malvagità” e come il femminismo riesce a non spiegare l’irrazionalità dei tipici atteggiamenti maschili e femminili proprio inventando il maschilismo, così la psicoterapia riesce a non spiegare le difese psicologiche proprio inventando le “patologie psichiche” o i "meccanismi" di difesa. La psicoterapia, quindi, risponde al diffuso e radicato bisogno difensivo di non sapere: i malvagi “dovrebbero” pentirsi, i maschi “dovrebbero” acquisire una “consapevolezza femminista” e i nevrotici “dovrebbero” farsi “curare”. Mentre in genere le ideologie colpevolizzano e incitano ad un cambiamento da attuare con la “forza della volontà”, l’ideologia psicoterapeutica deresponsabilizza le persone e le invita a “farsi cambiare” dai “professionisti del settore”. Le due strategie (quella colpevolizzante e quella deresponsabilizzante) sono opposte solo in superficie, perché in ogni caso interrompono la capacità delle persone di riflettere sulle ragioni per cui agiscono irrazionalmente. Questo è il vero tabù che caratterizza l’umanità e la sua storia da quando i cuccioli umani hanno iniziato a soffrire troppo, troppo presto e da soli: dovendo restare dissociati dal dolore, hanno dovuto fare cose strane e soprattutto hanno dovuto evitare di comprendere le ragioni delle loro stranezze, perché la comprensione di tali ragioni avrebbe liberato l’incubo del “troppo dolore”. Da allora, qualsiasi sciocchezza va bene, purché blocchi la via delle lacrime: va bene l’idea del peccato originale, dello schiavismo, dell’impero romano, della libertà da realizzare con l’uso della ghigliottina, del fascismo, dello stalinismo, dell’amor di patria, del consumismo e anche delle patologie psichiche.

La debolezza teorica della psicoterapia ha due gravi conseguenze pratiche: quella immediata consiste nel fatto che non produce né delle guarigioni (impossibili) né i cambiamenti che sarebbero possibili, mentre quella indiretta consiste nel fatto che le ambiguità e le incongruenze delle concezioni psicoterapeutiche favoriscono una selezione degli studenti interessati a seguire quel tipo di studi. Gli studenti più appassionati alla logica ed alla scienza tendono a preferire altre materie, mentre quelli più “invischiati” nei loro “problemi personali” possono trovare “molto interessanti” le illusioni rassicuranti che i vari indirizzi psicoterapeutici alimentano. Tali studenti, finita l’università, vengono accolti dalle Scuole di psicoterapia: in molte Scuole non devono nemmeno fare sedute personali e affrontare i loro incubi, mentre in altre devono fare un numero limitato di sedute e ovviamente con uno psicoterapeuta che ha “fede” nella normalità, nelle patologie e nelle terapie. Così il cerchio si chiude e rende impossibile un cambiamento all’interno della psicoterapia. Il cambiamento, però, non può venire nemmeno dall’esterno, perché le persone di cultura non influenzate dalla psicoterapia sono influenzate dall’etica e le persone con una solida formazione scientifica in genere snobbano le problematiche psicologiche oppure si occupano delle basi fisiche dei processi mentali e collaborano con gli psicoterapeuti orientati a trattare i disturbi psicologici come “meccanismi da aggiustare”. C’è sempre la possibilità che qualcosa di nuovo affiori, e, di fatto, le idee che stanno alla base del lavoro analitico sono sorte in ambiti non metafisici della filosofia e in ambiti non ortodossi della psicoterapia. Tuttavia, nella psicoterapia (come nella politica) proprio le idee più confuse finiscono per essere quelle più apprezzate, perché l’irrazionalità permea il normale modo di pensare, sentire e agire degli esseri umani.

La teoria del lavoro analitico non è sofisticata come lo sono la chimica e la biologia, ma mira a chiarire le ragioni delle azioni delle persone, dato che le persone sono tali perché agiscono in certi modi pur potendo agire in mille altri modi. In questa logica, quando una persona mi racconta di “avere” degli attacchi di panico cerco di far riflettere tale persona su ciò che fa prima di provare panico e in tutti i casi i clienti si accorgono di fare un mucchio di cose che non avevano preso in considerazione. Nella logica della psicoterapia, il “terapeuta” prende per buona proprio l’idea degli attacchi di panico che “arrivano” (come la pioggia o l’inverno) e si impegna, quindi, a tranquillizzare o a “rafforzare” i “pazienti” affetti da una patologia inesistente.

Un uomo di mezza età, che chiamerò Sandro, sposato, senza figli, soddisfatto del proprio lavoro mi comunica nel colloquio iniziale di convivere da sempre con un basilare senso di inadeguatezza e di colpevolezza. Faccio alcune precisazioni sui termini “inadeguatezza” e “colpa” per mostrare che sono interessato proprio a ciò che egli copre con quelle vaghe espressioni. Mi parla di alcune molestie sessuali risalenti alla sua infanzia, mai comunicate ai genitori e gli rispondo che posso immaginare l’abisso di solitudine e di dolore in cui è cresciuto, dato che non ha mai confidato ai genitori nemmeno le molestie subite dal sacerdote della parrocchia. Con tale precisazione voglio spostare la sua attenzione dalla situazione traumatica che egli aveva riportato alla situazione famigliare “normalmente traumatica”. Infatti, oggi, da adulto, si svaluta creando una sofferenza inutile. Perché lo fa? I comportamenti irrazionali degli adulti non sono “l’effetto dei fatti accaduti”. Vanno capiti come una strategia di sopravvivenza psicologica presumibilmente ragionevole nel passato, ma inutile e dannosa nel presente.

Chiedo a Sandro di parlarmi della famiglia in cui è cresciuto e ottengo alcune informazioni sui litigi fra i genitori e sul “malessere” della madre che, quando era molto arrabbiata col marito non risparmiava a Sandro frasi come “se tu non fossi nato ora non dovrei stare qui”. A poco serviva l’impegno con cui Sandro “sosteneva” la mamma, anche intervenendo per difenderla dalle svalutazioni del padre, dato che egli restava per lei “il responsabile ufficiale” del disastro famigliare. Il lavoro analitico è iniziato proprio con la presa di coscienza di un fatto “ufficialmente” non terribile, ma realmente terribile: Sandro non aveva trovato nessuno a cui appoggiarsi e da cui farsi ascoltare. Con i sensi di colpa, da bambino aveva creato l’unico dialogo interno possibile in una situazione in cui il dialogo esterno era (con la madre) svalutativo o (con il padre) inesistente. Il suo dialogo interno attuale era una reiterazione di un dialogo interno “antico”, con il quale aveva negato il vuoto di relazioni e il dolore (allora ingestibile) di tale mancanza. Con il dialogo interno colpevolizzante alimentava una vaga speranza di “miglioramento e riabilitazione” e manteneva una perversa complicità con la madre nella svalutazione di sé. Anche nel presente, quindi, evitava il contatto con i dolorosi vissuti di solitudine.

Credo non si possa mai sottolineare a sufficienza quanto possa essere dannoso in questi casi trattare una persona come un caso clinico e i suoi sintomi come la conseguenza meccanica di un trauma. Tale atteggiamento “terapeutico” distoglie dal dolore più profondo di una persona cresciuta in totale solitudine e riduce a “oggetto di cure” una persona che è diventata  capace di capire e sentire, anche se inconsciamente determinata a "vivere poco" per non soffrire "troppo". L'atteggiamento "terapeutico" è purtroppo inevitabile se lo psicoterapeuta, nella sua formazione, non è stato aiutato a smascherare le proprie difese e a maneggiare il proprio dolore, ed è invece stato sollecitato a studiare gli interventi più efficaci per “la cura” di ogni sintomo accuratamente diagnosticato. I giovani iscritti alle scuole di psicoterapia possono anche non aver subito abusi sessuali o violenze fisiche o tragici abbandoni, ma hanno sperimentato almeno quella normale solitudine che per i bambini è comunque ingestibile. Spesso ricorro all’esempio di una persona povera per la quale un debito di soli mille euro può essere devastante come il debito di un milione di euro per un imprenditore: il dolore dei bambini soli è sempre intollerabile proprio perché colpisce dei bambini. I giovani candidati all’esercizio della psicoterapia vengono distratti dal loro dolore proprio con le discussioni sulle “cause delle patologie”  (degli altri) e sugli “interventi terapeutici”. Purtroppo, nel loro studio, incontreranno sempre delle persone reali e non dei casi clinici. Con ciò non sto affermando che la “sensibilità umana” sia sufficiente se si vuole aiutare una persona in difficoltà, ma sto dicendo che è indispensabile per non fare dei ragionamenti sganciati dalla realtà. So bene che si può essere “emotivamente aperti” con un cliente e non riuscire a trovare la strada giusta per favorire un cambiamento. A me capita, purtroppo, e credo che nessuna Scuola di psicoterapia mi avrebbe potuto rendere più intelligente o “acuto” o “capace” di quanto posso essere. Credo però che le Scuole sbaglino ad orientare i loro allievi in una direzione “comoda”, dato che i loro allievi, come ogni essere umano cresciuto in una società irrazionale, non possono elaborare il dolore della loro vita se non vengono aiutati. Con Sandro non mi è servita la confidenza con il dolore (a me ignoto) di un abuso sessuale, ma mi è servita la confidenza con la mia solitudine di bambino e, a dire il vero, anche con la mia solitudine di adulto. In un mondo in cui le guerre sono normali, in cui i litigi famigliari sono normali e in cui per gli psicoterapeuti l’analisi personale è facoltativa, mi sento abbastanza solo. Non potrei quindi nemmeno tentare di essere d’aiuto ai clienti se non convivessi con tale solitudine e se non fossi certo del fatto che essa è sopportabile e che non impedisce comunque a volte delle bellissime esperienze di intimità, di amicizia e di impegno.

Voglio riportare una seduta "scomoda" svolta con una cliente che chiamerò Daria. La seduta è stata svolta dopo un paio d’anni di analisi. Fin dal primo colloquio avevo messo a fuoco la tendenza di Daria a “restare rabbiosamente in situazioni non chiarite”, perché il suo vittimismo silenzioso e sottilmente vendicativo la rendeva poco sensibile al profondo senso di solitudine sperimentato fin da bambina. Era stata realmente abbandonata e con i genitori adottivi aveva trovato una famiglia “normale” in cui “doveva star bene”. Il lavoro non si era sviluppato in modo soddisfacente, anche se Daria si sentiva meglio e, accettando alcuni miei consigli, aveva evitato di peggiorare alcune situazioni famigliari già difficili. Di fatto, anche se a volte aveva sfiorato ed espresso nel pianto il dolore (quello reale e non quello della “vittima delle circostanze”), nella sua quotidianità era sempre “presa” da problemi pratici e continuava a coltivare una rabbia di fondo che la distoglieva dal dolore per ciò che le mancava sia nei momenti in cui si sentiva bambina, sia nella sua vita attuale di donna. In qualche misura trasformava ancora il dolore in una rabbia diffusa.

Nella seduta di cui voglio parlare, mi comunica che le è stata diagnosticata una malattia abbastanza grave. La tipica malattia che solo i ricchi possono affrontare nel modo migliore. Le malattie sono spiacevoli per le persone anziane e, ovviamente, sono ancora più spiacevoli per quelle giovani e quando mi comunicò le brutte notizie provai sia dispiacere per lei, sia preoccupazione, perché pensai che ora avrebbe avuto un’ottima scusa per sprofondare nel vittimismo. Infatti aveva sottolineato più del necessario l’inadeguatezza del sistema sanitario, non aveva preso alcuna decisione e non aveva esaminato davvero l’eventualità di morire “prima del tempo”. Testimoniandole la mia vicinanza le dissi che non avevo mai fatto la sua esperienza, ma immaginavo fosse molto penoso prendere in considerazione la morte alla sua età e con tre figli. Le dissi che avevo esperienza solo della previsione di morire in pochi mesi. Proprio alla sua età, per un errore di valutazione mi dovetti preparare al peggio e solo in seguito ebbi la certezza che i miei disturbi non erano dovuti ad un tumore grave, ma ad una “stupida” ernia iatale, tuttora “operante”, ma tenuta sotto controllo da una semplice compressa al giorno.

D. Come ti sei “preparato al peggio”?
GF. Ho cercato di portare a conclusione tutto ciò che mi stava a cuore. Sarebbe stato meglio fare ciò anche sul piano sentimentale, ma in quel periodo ero solo e quindi mi risparmiai la pena di condividere quel disastro con una compagna (e anche la tenera esperienza di un dolore condiviso). Conclusi il libro che stavo scrivendo, trovai una persona disponibile ad adottare il mio cane e individuai un collega a cui indirizzare i miei clienti in una comunicazione che avrei fatto quando fossi stato certo della mia morte.
D. Ne parli come di una cosa pratica.
GF. Morire è una cosa pratica e anche vivere. Il dolore era un’emozione mia e non parlai della cosa a nessuno, anche se al momento giusto avrei informato nel modo più delicato possibile i miei genitori, i miei clienti, alcuni amici e un paio di ex compagne degli anni passati.
D. Non hai pensato che non fosse giusto?
GF. No, perché era un fatto e non era né giusto né ingiusto. Tu pensi che sia ingiusta la tua situazione?
D. In fondo sì.
GF. Così rischi di rovinare i tuoi ultimi anni di vita trascinando le tue convinzioni difensive di bambina in un presente in cui puoi fare di meglio.

Ho detto a Daria di aver sperimentato una situazione analoga, non “per solidarietà”, ma per toglierle l’arma del “tu non sai cosa si prova in una situazione come la mia”. Ciò che ritenevo di poter ottenere con quell’espediente era di farle notare che stava affrontando in modo inconcludente la realtà proprio perché stava sfruttando la propria malattia per evitare di sentire il dolore di cui parlava. Queste persone, infatti, sollecitano sempre reazioni pseudo-empatiche da parte di chi ama “ascoltare gli altri” o risposte “distaccate” da chi prova fastidio per l’esibizione della sofferenza. Io volevo farle capire che stava sfruttando una situazione difficile per alimentare la stessa rabbia “sorda” che provava quando si sentiva “ferita” dal marito o “delusa” dai figli.

Dopo la mia risposta, Daria cambia tattica, ma senza cedere di un millimetro. Si commuove e comincia a parlare dei suoi bambini e di come si sentiranno se lei peggiorerà, non potrà curarsi e morirà. Non rispondo, perché non accetterebbe l’obiezione (ovvia) secondo cui è almeno prematuro da parte sua considerarsi già defunta. Quindi la lascio vagare nelle considerazioni sui figli, per vedere dove vuole arrivare. Ad un certo punto si lascia sfuggire la frase “non voglio perdere i miei figli” e mi offre un appiglio per riportarla alla realtà.
GF. Stiamo parlando del loro dolore o stiamo parlando di qualcosa che tu non vuoi perdere?
D. Le due cose non si escludono.
GF. Sì, si escludono perché i figli non sono “tuoi” e non puoi “perderli”. A meno che mentre parliamo della tua malattia reale ed attuale tu non stia sentendo altre cose relative a tue esperienze di perdita.
D. Loro si sentirebbero come mi sono sentita io da bambina.
GF. Forse. Però tu non hai mai accettato quella perdita. Da bambina sei sopravvissuta considerando ciò che sperimentavi come un’ingiustizia. Continui ad aggrapparti a tutto ciò che trovi, anche a tuo marito e ai figli e, appena ti accorgi di non ottenere abbastanza, continui a trovare ingiustizie. Fai poco per rendere felice te e loro e sei arrabbiata per ciò che non ottieni e che comunque non potresti ottenere per riempire il tuo antico “vuoto”. Non accetti mai di volere qualcosa che ti manca perché precipiti subito nella denuncia “asciutta” o “lacrimosa” di un’ingiustizia.
D. Sono ancora “lì”, quindi?
GF. Già. Però tuo marito non può colmare alcun vuoto e i figli non sono nemmeno “tuoi”. Hanno bisogno di te e sarebbe davvero terribile se ti perdessero, ma quando sfrutti anche le malattie per scivolare nella tua rabbia, crei una situazione nella quale i tuoi cari “ti perdono”. Ti hanno persa troppe volte e faresti un regalo a te e a loro se “tornassi”, finché hai tempo. E se accettassi di poter almeno dare qualcosa a te e a loro.

Non è piacevole parlare con franchezza di ciò che accade, soprattutto quando delle persone afflitte da reali sofferenze esibiscono delle sofferenze fasulle per dissociarsi dal dolore che non vogliono sentire. In questi casi, però, la psicoterapia diventa complice di gravi operazioni difensive se tratta il “dolore” esibito nei sensi di colpa, nella depressione e nel vittimismo come un dolore reale e se continua a programmare interventi volti a “lenire” il (finto) dolore. Il vero dolore, normalmente negato, merita di essere accettato e non “curato”, perché è gestibile. I siti degli psicoterapeuti e i convegni organizzati dalle Scuole di psicoterapia sono pieni di promesse (relative al “benessere psicologico”) che non implicano alcuna consapevolezza del fatto che qualsiasi cambiamento psicologico positivo dipende dall’accettazione del dolore come parte essenziale dell’esistenza umana. Le "vetrine" degli psicoterapeuti (sia i bigliettini lasciati ai medici di base, sia i siti web), sono davvero sconfortanti: quando includono offerte professionali riguardanti, ad esempio, la "terapia degli attacchi di panico" prospettano l'eliminazione di un disturbo e il recupero della salute. Purtroppo, però, gli attacchi di panico vengono attivati in momenti particolari di una vita che non era realmente vissuta in precedenza e includeva un'idea distorta di sé, degli altri e un mucchio di illusioni e pretese. Il singolo attacco di panico non è mai il problema, bensì l'ultima mossa di una partita truccata. Proprio i fraintendimenti psicoterapeutici spiegano l'affermazione della psicoterapia e non consentono di prevedere sviluppi positivi di tale disciplina.

Un concetto piuttosto confuso, ma spesso utilizzato dai “pazienti” e dagli psicoterapeuti è il concetto di “ferite psicologiche”. Ricordo ancora benissimo una seduta davvero difficile di molti anni fa, svolta con una giovane donna che chiamerò Enza. A trent’anni aveva già avuto alcune relazioni sentimentali impegnative, ma insoddisfacenti, con uomini orientati a “proteggerla e ad offrirle sostegno”. Era cresciuta con una madre indifferente e “bisognosa” e un padre distante che però aveva attuato dei comportamenti molesti sul piano sessuale nei suoi confronti. Lei non aveva mai parlato di ciò con la madre e nemmeno con altri e aveva scoperto di poter interrompere le molestie paterne piangendo. In questo modo “si era arrangiata” e aveva cercato di crescere in fretta. Riporto questo esempio solo perché in questi casi facilmente si prova un desiderio di offrire "sostegno". Francamente avrei preferito uccidere suo padre piuttosto che lavorare sulle difese di Enza, ma il padre era anziano e innocuo, mentre Enza si stava ancora facendo del male. Per questo motivo, quando mi disse di aver trovato un vecchio diario in cui aveva scritto che dopo certe esperienze non si può più sorridere, dimostrandomi di provare ancora lo stesso stato d’animo, dichiarai di non condividere quell’idea e la invitai a spiegarmi meglio le sensazioni che provava ripensando alla sua storia. Disse di sentirsi ancora “ferita” e in un certo senso “non integra”.

GF. Cosa mi risponderesti se ti dicessi che ti capisco e che, effettivamente, con certe “ferite” le persone non possono essere “integre”?
E. Che non mi stai dando alcun aiuto.
GF. Allora non sei convinta di aver definitivamente perso la tua integrità.
E. Non capisco.
GF. No. Tu hai capito. Hai capito una brutta verità che io stesso trovo scomoda. Credimi, ti devo dire una cosa importante che non ho nessuna voglia di dirti. Però siamo qui per te e per chiarire cosa stai facendo e cosa puoi cambiare di ciò che stai facendo. Ciò che fai è sentirti incompleta perché in questo modo “da qualche parte” speri di poter rivendicare qualche esperienza che ti restituisca “qualcosa”, anche se ciò non accadrà. Chi ruba soldi può restituire il denaro, ma chi ruba una felicità possibile non ha “ottenuto” nulla e non può restituire nulla. Tu non riavrai mai l’infanzia felice che non hai conosciuto. Il tuo sentirti “ferita” è qualcosa che fai e non qualcosa di reale che osservi. Con il tuo “fare” eviti di perdere la speranza a cui ti sei aggrappata da bambina per non morire di dolore, ma oggi con questo atteggiamento generi difficoltà inutili. Interrompi il contatto quando tuo figlio ti chiede “troppa” attenzione o quando il tuo compagno non ti sostiene “abbastanza”, cioè in situazioni in cui hai bisogno di esprimere le tue capacità adulte e di agire come madre e come femmina. Con la sensazione di “incompletezza” pretendi di ottenere atteggiamenti protettivi che non ti servono e che poi respingi creando delle relazioni poco autentiche che limitano la tua vita attuale e quella delle persone che ami.

Sapevo di aver detto cose sgradevoli e di aver corso il rischio di far chiudere Enza in uno stato d’animo risentito. Al di là di ogni mia aspettativa, mi rispose di aver capito. Disse anche di aver capito quanto mi fosse costato parlarle in quel modo. Nella seduta successiva, mi raccontò di essersi ritrovata in una situazione famigliare in cui in passato si sarebbe “persa” e di aver messo da parte tale “tendenza”. Notai che doveva ancora liberare tutto il pianto che aveva soffocato per tanti anni con le sue “tendenze”, ma riconobbi che aveva portato avanti il lavoro svolto nella seduta. Quella seduta costituì solo l’inizio di una esperienza di cambiamento e, per quanto penosa e “spietata”, fu rispettosa e utile.

E’ difficile immaginare i danni che la psicoterapia produce diffondendo idee “toccanti” sulle “ferite” dei bambini poco amati, suggerendo “esperienze emotive correttive” e intervenendo sulle “carenze” dei “pazienti”. Danni consistenti in interminabili serie di sedute dedicate a capire la “sofferenza” quando la "sofferenza" esibita copre un autentico dolore. E’ molto scomodo fare questa distinzione, ma proprio il rispetto per il (vero) dolore delle persone giustifica l’analisi delle difese psicologiche.

La psicoterapia è, in fondo, una mentalità. E’ una mentalità che riduce la consapevolezza di quanto sia grande, bella e tragica l’avventura di vivere. L’avventura che costituisce il privilegio degli esseri umani. E’ una mentalità che distoglie l’attenzione dal dolore che è solo da accettare e dalla felicità che può essere costruita solo accettando il dolore. La psicoterapia ha ridotto l’esistenza degli esseri umani (sempre in bilico fra le opzioni espressive e quelle difensive) ad una questione sanitaria e quindi affascina gli intellettuali, i politici e “le masse” che non vogliono riconoscere un fatto indiscutibile: l’esistenza umana costituisce una sfida, un impegno e una sofferta, ma entusiasmante, ricerca dell’armonia e della bellezza in una realtà comunque attraversata dal dolore e anche dall'orrore La mentalità psicoterapeutica non alimenta la distruttività come quella svalutativa dei moralisti, ma consolida la tendenza (già troppo diffusa) a vivere “poco”.