martedì 28 ottobre 2014

Analisi o psicoterapia?





La psicoterapia contemporanea è costituita da un insieme di scuole o approcci o indirizzi che non hanno molto in comune e che, in pratica, condividono solo l’idea che esistano delle “patologie” psicologiche e che siano possibili delle “terapie” psicologiche. Anche le scuole che utilizzano il termine “analisi” (Psicoterapia psicoanalitica, Analisi Transazionale, Analisi del carattere, ecc.), condividono la convinzione di poter curare delle patologie psichiche individuali. Tale convinzione è tutt’altro che ovvia, ma è ben consolidata.
All’inizio del ‘900 la psicologia aspirava a diventare una disciplina scientifica e quindi a trattare in modo rigoroso anche l’aspetto più inquietante della soggettività: la capacità degli esseri umani (da sempre concepiti come “animali razionali”) di risultare del tutto irrazionali manifestando paure ingiustificate, comportamenti incomprensibili, e vari disturbi del pensiero, dell’emotività e del comportamento. In quel periodo, sia la psicoanalisi di Sigmund Freud, sia il comportamentismo di John Watson tentarono in modi diversi (anzi, opposti) di spiegare scientificamente alcune forme di irrazionalità (solo quelle individuali e solo quelle più circoscritte) come il risultato di qualche causa e quindi, come patologie da curare. Mentre la psicologia sperimentale si è in qualche modo svincolata dal piano della speculazione diventando un ambito di ricerca scientifica, la psicoterapia si è sviluppata caoticamente dando luogo ad una miriade di “scuole” che, proprio con la loro incapacità di condividere le "spiegazioni" delle “patologie” psichiche e le giustificazioni delle strategie terapeutiche, hanno dimostrato la loro incapacità di realizzare il salto (realizzato dalla medicina) dal piano della metafisica al piano della scienza applicata.

Gli studiosi e i professionisti che si definiscono psicoterapeuti rientrano, anche se non vorrebbero, in quella grande corrente di pensiero razionale e irrazionale, laico e religioso, materialista e spiritualista che tenta da sempre di spiegare gli aspetti più delicati dell’esistenza umana e che si scontra da sempre con la difficoltà di spiegare in termini oggettivi i processi soggettivi. Tale grande corrente costituisce un aspetto fondamentale della cultura umana e non merita di essere squalificata per il fatto di non essere giunta (come le scienze naturali) nemmeno a conoscenze parziali condivise. La tradizione della psicoterapia, come tutte le tradizioni filosofiche, ideologiche e religiose che si interessano alle aspirazioni, motivazioni ed emozioni delle persone e al loro modo di costruire un percorso esistenziale, quindi, merita rispetto e molta attenzione, ma è risultata, a mio parere, decisamente discutibile per le sue (recenti) pretese di essere riconosciuta come depositaria di particolari strumenti conoscitivi e terapeutici e in particolare come disciplina operante nell’ambito sanitario.

Pur avendo acquisito una formazione riconosciuta legalmente come adatta all’esercizio della psicoterapia, non ho mai condiviso l’idea che ciò che le varie scuole “psicoterapeutiche” proponevano costituisse una terapia e non ho mai considerato come patologie i disturbi psicologici individuali di cui mi occupavo nelle sedute. L’aspirazione degli psicoterapeuti a risultare assimilabili ai medici, anche se in una altro campo, mi è quindi sempre sembrata infondata, perché la medicina si basa sulla fisiologia degli organismi umani e negli organismi le deviazioni dalla norma sono indiscutibilmente patologiche e sono causate da qualche evento particolare (genetico, traumatico, infettivo, ecc.), mentre nell’ambito psicologico le cose stanno diversamente: la normalità psicologica è tutt’altro che paragonabile alla “salute” degli organismi, dato che normalmente le persone vivono in modi irrazionali e distruttivi, sia individualmente sia sul piano interpersonale, sia su quello sociale.

Per questi motivi non considero il lavoro analitico che svolgo come uno degli indirizzi “analitici” della psicoterapia, ma come un lavoro basato sull’analisi (filosofica) dell’irrazionalità e sull’analisi (psicologica) delle ragioni per cui le persone tanto spesso pensano, sentono ed agiscono in modi irrazionali. L’analisi delle difese psicologiche,  che definisco genericamente “lavoro analitico”, mira a chiarire con le persone le ragioni per cui vivono in modi per loro insoddisfacenti e non mira a curare cose da me ritenute “oggettivamente” patologiche. Inoltre, l’orizzonte concettuale del lavoro analitico non rientra nella psicoterapia perché mira non solo a chiarire alcuni problemi individuali, ma anche vari aspetti della normale irrazionalità individuale e sociale (pregiudizi, conformismo, autoritarismo, illusioni, concezioni metafisiche, dogmatismi laici o religiosi, idee morali, ideologie politiche, ed anche ideologie psicoterapeutiche).

A mio parere non esiste alcuna ragione per considerare “patologiche” solo le persone irrazionalmente litigiose (in quanto “anormali”) quando da sempre gli Stati organizzano guerre (con il consenso e l’entusiasmo delle masse) e le famiglie normali salutano con commozione i figli che vanno al macello per una patria basata su ingiustizie sociali identiche o simili a quelle della patria dei “nemici”. L’irrazionalità e la distruttività non sono deviazioni individuali patologiche da una normalità sana, come lo sono le malattie nell’ambito biologico e fisiologico, perché caratterizzano tutti gli esseri umani. Le ragioni dell'irrazionalità "normale" o "anormale" non sono ancora state chiarite in modi ritenuti convincenti da tutti gli studiosi. Non pretendo che le mie spiegazioni siano “quelle giuste”, ma penso che al momento ognuno possa avanzare le proprie ipotesi e che non possa vantare la credibilità che i medici hanno acquisito basandosi su reali conoscenze.

Nel mio lavoro evito accuratamente di fare assunzioni metafisiche e cerco di ancorare al piano empirico le idee con cui cerco di chiarire le ragioni per cui i miei clienti e, in generale, le persone agiscono. Proprio lavorando con le persone allo scopo di chiarire con loro le ragioni per cui vivono in modi limitati e non proponendomi di fare interventi sulle persone allo scopo di causare degli effetti “terapeutici”, non ho alcun motivo per definirmi psicoterapeuta. Tuttavia devo farlo, perché da quando la psicoterapia, al di là della sua frantumazione in scuole contrapposte, è diventata per legge una disciplina che cura le patologie psichiche, si è verificato uno strano fenomeno: non solo gli psicoterapeuti riconosciuti possono vantare (al pari dei loro colleghi con cui sono in dissenso su moltissime questioni teoriche e pratiche) delle competenze ufficiali, ma possono anche stabilire chi svolga (legittimamente o abusivamente) la psicoterapia. Quindi, se io uscissi dall’Ordine degli psicologi (rinunciando al riconoscimento dell’attività psicoterapeutica) e continuassi a svolgere l’attività non terapeutica che ho sempre svolto, potrei essere comunque condannato per esercizio abusivo della professione psicoterapeutica (che non esercito). Non potrei sostenere che svolgo un lavoro analitico da “libero pensatore” perché  gli psicoterapeuti avrebbero comunque il diritto di affermare che faccio psicoterapia e che, quindi, faccio psicoterapia senza il riconoscimento legalmente richiesto. Tale situazione è molto strana, come lo sarebbe se un maomettano fosse condannato da uno Stato cattolico in quanto “cattolico eretico”.

Sono consapevole di evitare in queste poche pagine questioni importanti che ho trattato in altri lavori più estesi e articolati, ma cerco proprio di sollecitare la curiosità per l'esame di tali approfondimenti. Tutte le “terapie” psicologiche mirano ad attenuare il dolore superficiale e costruito dalle persone ed evitano di chiarire che quelle pseudo-sofferenze sono parte di una strategia (necessaria ai bambini ma non agli adulti) volta a mantenere una dissociazione dal dolore. Nella “realtà reale” sono purtroppo inevitabili perdite e mancanze che sembrano intollerabili (come nell’infanzia), ma che possono essere accettate e integrate dagli adulti. L'ideologia "sanitaria" della psicoterapia ha purtroppo trasformato l’antico “fermento psicoterapeutico” (ricco sia di intuizioni profonde, sia di errori) in una istituzione “intoccabile”.

Quando iniziai a svolgere il lavoro analitico sotto la supervisione del mio analista, l’ultimo dei miei problemi era costituito dalla denominazione da dare alla mia professione, perché volevo semplicemente imparare a fare sedute almeno decenti, sensate e non inutili. Inoltre, in quegli anni non esisteva una “cosa” denominata “psicoterapia” e chiunque poteva offrire “aiuto” a chiunque sulla base di ciò che sapeva (o credeva di sapere) facendo psicoanalisi freudiana, gruppi di psicoterapia, gruppi di autocoscienza femminista, esercizi spirituali, astrologia, ecc. L’unica pretesa della società era costituita da un prelievo fiscale se queste “consulenze” erano offerte a pagamento. Così iniziai con l’apertura di una Partita IVA con il codice di attività 9400 riguardante “Altre attività professionali”. Erano gli anni della sincerità, dell’umiltà e del realismo. Anche se molti “colleghi” già allora si consideravano “psicoterapeuti” sapevano di esprimere una definizione personale di un’attività disconosciuta da moltissimi medici, da molti studiosi e sicuramente disconosciuta dagli “psicoterapeuti” delle altre “scuole”. L’umiltà stava nel fatto che ognuno esprimeva le proprie convinzioni, cercava di giustificarle e lavorava nel modo che considerava preferibile presentandosi semplicemente come una persona che si era formata in un certo modo. Nessuno poteva insultare altri studiosi o professionisti definendoli “ciarlatani” perché tutti riconoscevano di essere alla ricerca della verità e non depositari di un sapere ufficialmente riconosciuto.

Negli anni successivi, alcune di queste scuole di psicoterapia (anche molto distanti sul piano delle convinzioni teoriche e delle metodologie adottate) riuscirono ad allearsi ed a coinvolgere dei politici per ottenere un riconoscimento “pubblico” di quella attività che loro stessi non esercitavano sulla base di conoscenze condivise. Quando i politici riuscirono ad ottenere una maggioranza parlamentare “battezzarono”, quindi, una psicoterapia non ancora nata. Si costituì l’Albo e poi l’Ordine degli psicologi e si delimitò (legalmente, non teoricamente) l’attività psicoterapeutica. Da quel momento l’esercizio di attività “simili” a quella degli “psicoterapeuti” divenne “esercizio abusivo della psicoterapia”. Poiché non era chiaro (agli stessi psicoterapeuti) cosa fosse la psicoterapia, anche se tutti tentavano di fornire definizioni accurate, non poteva essere nemmeno chiaro quale tipo di attività costituisse un esercizio abusivo della psicoterapia, ma il riconoscimento statale (burocratico) dell’attività professionale metteva al sicuro chi faceva “cose di quel tipo”. Restarono ovviamente al sicuro anche le persone che facevano “cose di quel tipo” senza la tutela dell’Ordine, ma con la tutela di altri poteri politicamente rilevanti: non mi risulta che gli “esercizi spirituali” organizzati dalle parrocchie o i “gruppi di autocoscienza femminista” siano mai stati oggetto di denunce per esercizio abusivo della psicoterapia, anche se comportavano l'esame di questioni personali (autonomia, dipendenza, libertà, colpa, significato della vita, sessualità, emozioni, ecc.).

Fui molto contrariato da questi cambiamenti, perché concepivo il lavoro analitico come una ricerca conoscitiva/esperienziale e non come una attività “sanitaria”, ma chiesi ed ottenni il riconoscimento della mia attività come “attività psicoterapeutica” per non avere problemi con la legge. Fatto questo, continuai ad occuparmi delle ragioni dell’irrazionalità, evitando di "ragionare" in termini di patologie, terapie e normalità.

La mia valutazione critica della scelta politica degli psicoterapeuti era in sintonia con quella di persone ben più autorevoli di me. Prima che in Italia venisse tracciato per legge il confine (tuttora incerto) fra psicoterapeuti e “ciarlatani”, alcuni studiosi dichiararono di considerare tale operazione non giustificabile. Paolo Migone scrisse “Io ritengo che sarebbe meglio che non passasse la parte della legge riguardante la regolamentazione dell'esercizio della psicoterapia, cioè ritengo che sarebbe meglio che l'esercizio della psicoterapia rimanesse non regolamentato da una legge” (Migone, 1986). Dopo alcuni anni tornò sull’argomento: “La legge 56/1989 (la cosiddetta "legge Ossicini") purtroppo tende a favorire una cultura della psicoterapia legata a riconoscimenti esterni che non tengono conto delle caratteristiche specifiche della formazione in questo settore (…) Sarebbe stato più opportuno, come è stato proposto da più parti e come avviene in certi paesi esteri, limitarsi a un elenco di trasparenza e alla autocertificazione degli psicoterapeuti” (Migone, 1991).
Di fatto, da anni la psicoterapia è diventata “esistente per legge”, mentre le varie scuole di psicoterapia legalmente riconosciute continuano ad essere criticate dalle altre scuole di psicoterapia legalmente riconosciute.

Nel mio percorso ho svolto un’analisi personale preziosa e varie esperienze psicoterapeutiche del tutto inutili che però mi hanno insegnato molte cose da non fare. Ho imparato cose preziose da alcuni (pochi) psichiatri e psicoterapeuti ed anche da filosofi, antropologi, pedagogisti, letterati, femministe, sacerdoti, militanti politici, guide spirituali. Provo quindi stima e gratitudine per Sheldon Kopp (1971, 1972 e 1977), Eric Berne (1964 e 1972), Wilhelm Reich (1945), Roy Schafer (1976), Irvin Yalom (1980) ed altri, pur non condividendo le loro teorie generali e pur non considerandole riconducibili all’ambito sanitario. Non ho alcun pregiudizio ed alcuna ostilità nei confronti della psicoterapia come nei confronti di altri segmenti (religiosi, politici, filosofici) della cultura umanistica e dissento semplicemente dall’idea che si possano stabilire per legge delle verità non dimostrate. Apprezzo che il femminismo non sia diventato un’organizzazione socialmente riconosciuta e che le donne si possano sposare anche se non sono state “abilitate” da un gruppo di autocoscienza e apprezzo che un turista possa visitare una chiesa anche senza essere stato “adeguatamente formato” da una comunità religiosa riconosciuta come legalmente “autentica”. Non posso quindi accettare volentieri il vincolo in base al quale  lo Stato afferma di poter stabilire la legittimità di un punto di vista psicoterapeutico (come nella Russia sovietica che riconosceva come religione statale il materialismo dialettico). Non so cosa pensino oggi gli studiosi che in passato erano contrari alla “istituzionalizzazione” della psicoterapia, ma oggi, di fatto, persino i medici, da sempre diffidenti nei confronti delle discipline psicologiche, convivono con i nuovi “quasi colleghi” nel sistema sanitario.

A mio parere, lo Stato ha il diritto e anche l’obbligo di fissare alcune condizioni per il riconoscimento di certe attività professionali: è comprensibile che solo alcune persone possano insegnare chimica nelle scuole e che pochissime persone possano insegnare quella materia nelle aule universitarie ed è anche comprensibile che lo Stato deleghi ai medici il compito di stabilire le condizioni per il riconoscimento della professione medica. I medici, infatti, prima di essere una “categoria burocratica” sono una categoria professionale. Hanno dissensi su alcune cose, ma condividono conoscenze biologiche, fisiche, chimiche fondamentali e non sono divisi in scuole che “credono al fegato” e scuole che “non credono al fegato”. In psicoterapia la situazione è ben diversa e i rappresentanti dei principali indirizzi non concordano nemmeno sull’ipotesi che la “terapia” debba tener conto della storia personale dei “pazienti” o debba focalizzarsi solo sulla realtà attuale.

Non sto “interpretando” arbitrariamente i fatti per screditare dei colleghi, dato che i colleghi si screditano fra loro già da tempo; la citazione che segue è tratta da un libro di Jay Haley, un autorevole psicoterapeuta che ha influenzato molte scuole “riconosciute” di psicoterapia sistemica, relazionale e famigliare. La citazione evidenzia la distanza fra tali scuole e quelle di matrice psicoanalitica o “psicodinamica”, pure “riconosciute”.
Haley ha studiato in modo molto accurato le tecniche di noti psichiatri e psicoterapeuti ed anche quelle ipnotiche “indirette” elaborate da Milton Erickson, un geniale psichiatra e ipnoterapeuta che ha influenzato a sua volta molte scuole di psicoterapia. Haley evidenzia la radicale contrapposizione fra l’approccio psicoanalitico, volto a “scavare” nell’inconscio e nel passato dei pazienti e gli approcci pragmatici, caratterizzati da interventi attivi del terapeuta e finalizzati all'eliminazione di specifici sintomi. Secondo Haley, “Il desiderio di Erickson di prescrivere compiti che possono modificare un rapporto è eguagliato solo dalla sua volontà di non aiutare le persone a capire come e perché interagiscono in maniera inadeguata. L’assenza di interpretazioni sulla eventuale causa del comportamento sembra fondamentale nel suo metodo di terapia. Anche se egli può non dichiararlo apertamente, nel suo modo di lavorare è implicita la convinzione che un terapeuta che tenta di aiutare le persone a capire perché si comportano in un dato modo, ostacola il cambiamento terapeutico” (Haley, 1973, p. 28 – corsivo mio, G. R.).

Questa citazione è una miniera di informazioni. Potrei riportare centinaia di citazioni che non aggiungerebbero comunque nulla a ciò che queste parole evidenziano con chiarezza. Scrivendo il suo libro Haley affermava che ogni indagine sulla storia personale costituiva “un ostacolo” a qualsiasi terapia veramente efficace. Egli condivideva con tutti gli psicoanalisti la pretesa di fare “terapia”, ma sottolineava che Erickson lavorava in maniera ottimale perché riusciva a causare dei cambiamenti nelle persone senza che queste fossero consapevoli dei motivi per cui avevano manifestato dei sintomi e dei motivi per cui non li manifestavano più.
Senza soffermarmi sul fatto che autorevoli filosofi della scienza hanno valutato (a ragione, secondo il mio punto di vista) come inconsistenti le “spiegazioni psicoanalitiche” e che molti psicoterapeuti considerano (a ragione, secondo il mio punto di vista) superficiali, anche se a volte efficaci, gli interventi di Erickson, di Haley e di altri teorici delle “terapie brevi”, voglio solo sottolineare l’abisso che separa psicoterapeuti di formazione psicoanalitica e psicoterapeuti “relazionali” o “strategici” (tutti autorizzati ed impegnati a gestire scuole “riconosciute”).
Le varie scuole affermano l’esistenza di cause per le patologie psichiche da curare, ma alcune individuano cause inconsce e risalenti all’infanzia, altre individuano cause attuali costituite dalla comunicazione interpersonale, altre individuano cause sociali e culturali. Roberto Assagioli (padre fondatore di un’altra scuola di “psicoterapia” attualmente “riconosciuta”) considerava addirittura il “risveglio spirituale” come possibile determinante di crisi psicologiche da non confondere con quelle dovute a conflitti normali (cfr. 1965, pp. 45-50).
Le mie convinzioni riguardanti le varie scuole di psicoterapia e la psicoterapia in generale contano sicuramente poco, ma la citazione di Haley mostra che sono proprio gli psicoterapeuti più autorevoli a screditare la psicoterapia considerando i loro colleghi  inclini ad “ostacolare il cambiamento terapeutico”.

Il fatto che gli psicoterapeuti abbiano ottenuto per legge un ruolo nel sistema sanitario nazionale non rende la loro professione una reale professione terapeutica, ma una professione giuridicamente definita come terapeutica. L’idea che “se lo dice lo Stato deve essere vero” costituisce una discutibile scelta di fede e non una convinzione razionale. Gli Stati hanno affermato molte cose: hanno affermato l’esistenza di gruppi razziali che in realtà erano gruppi etnici, hanno affermato l’inferiorità di alcune “razze”, hanno definito come “interventi di pace” delle operazioni militari e hanno anche ucciso chi violava le norme religiose "riconosciute", ma tali scelte non hanno cambiato la realtà dei fatti. La specie umana non è divisa in razze, le operazioni belliche sono operazioni belliche anche se denominate in altri modi e dio esiste o non esiste indipendentemente dalle decisioni degli Stati. E anche le patologie e le terapie psicologiche esistono o non esistono indipendentemente da ciò che le leggi di uno Stato o di molti Stati possono stabilire. Labriola affermava che "lo Stato che definisce la Scienza è già una Chiesa" (cit. in Giorello, 2015, p. 48) e, se ciò è vero, quando gli psicoterapeuti stabiliscono chi è ciarlatano e chi non lo è, stanno  manifestando il loro dogmatismo religioso.

Sicuramente qualsiasi lavoro sui problemi personali (concepito come “psicoterapia” o come filosofia socratica o come chiacchiere fra amici) è fruttuoso nella misura in cui chi “aiuta” ha letto qualche libro, ma soprattutto nella misura in cui chi cerca di offrire aiuto ha un buon contatto emotivo ed una centratura psicologica accettabile. Ovviamente ci sono amici che dispensano consigli balordi e psicoterapeuti che ragionano con saggezza, ma ciò che voglio sottolineare è un’altra cosa: posto che ogni categoria sociale include persone di tutti i tipi, la categoria riconosciuta come l’unica “abilitata” ad offrire un aiuto psicologico professionale ha un riconoscimento statale che prescinde proprio dall’aspetto più importante in una relazione di aiuto: le caratteristiche specifiche della formazione personale. Quale scuola di psicoterapia può garantire che i suoi “diplomati” sono almeno capaci di piangere liberamente (e di non “piangersi addosso”) o di provare compassione per il prossimo? Molte scuole di psicoterapia riconosciute non prevedono una psicoterapia personale dei loro allievi e quindi, se gli psicoterapeuti diplomati non hanno fatto nemmeno una seduta personale con i loro trainer come possono tali trainer sapere se i loro allievi riescono o non riescono ad elaborare il dolore o  se hanno paura di salire su un aereo o di fare sesso o se hanno pregiudizi legati a qualche ideologia, o se sono inclini a svalutare gli altri?
Sorge ovviamente l’obiezione: ma come potrebbe lo Stato riconoscere la “sensibilità”, la “centratura”, il “contatto emotivo” degli psicoterapeuti? Questa, però, non è un’obiezione a ciò che penso, perché è proprio l’espressione di ciò che penso: lo Stato può certificare la competenza di un idraulico nella revisione delle caldaie, ma non può certificare il contatto emotivo su cui non esiste alcuna teoria scientifica condivisa da tutti gli studiosi e nemmeno da tutti gli psicoterapeuti. Per questo sto constatando che lo Stato ha riconosciuto e regolamentato ciò che non poteva né essere riconosciuto né essere regolamentato.

Confermando la normalità e ottenendo un riconoscimento istituzionale della psicoterapia, gli psicoterapeuti hanno rinunciato, come in passato, ma con nuove motivazioni, ad un ruolo critico nei confronti della società "data". Negli anni in cui la Germania era sull’orlo del collasso che avrebbe portato i nazisti al potere non ci furono manifestazioni ufficiali di psichiatri, psicologi, sessuologi e psicoterapeuti volte a denunciare la follia nazista. Alcune voci isolate si levarono, ma non furono l’espressione di una comunità professionale. Gli psicoterapeuti non denunciano tuttora il catechismo imposto ai figli dalle famiglie cattoliche e le altre forme di educazione religiosa imposte ai bambini da famiglie che affermano i principi di altre religioni o sette. Poiché i bambini non si organizzeranno mai in un “movimento di liberazione” e non conquisteranno spazi nei dibattiti in TV, credo che gli psicoterapeuti continueranno a rispettare la “libertà religiosa” intesa come libertà delle famiglie religiose di imporre ai figli dei sensi di colpa voluti anche da dio.
Gli psicoterapeuti evitano oggi come in passato di mettere in discussione su un piano clinico e teorico  la cultura di massa. Diagnosticano e “curano” (partendo da premesse molto diverse) patologie individuali che sono solo “eccessi di normalità”, ma non hanno molto da dire sulla normalità. Ai veri uomini di scienza è venuto il dubbio che la terra non fosse piatta prima che la TV suggerisse l’idea. Sarebbe bello che la psicoterapia turbasse la normalità aprendo squarci di consapevolezza sulla base di conoscenze realmente acquisite e quindi condivise dagli specialisti. Conoscenze tanto solide da risultare scomode per una società autoritaria e non conoscenze vaghe ma “riconosciute” da una società in cui la "normale follia" è “cultura” e in cui solo alcuni “eccessi di normalità” risultano "strani".

Tutto ciò è preoccupante, ma ciò che preoccupa maggiormente è il fatto che “alla gente” non importi nulla di questo problema. Alla gente, tutto sommato va bene che le persone siano buone e da ammirare o cattive e da svalutare (secondo i principi delle varie concezioni etiche), oppure che siano “sane come tutti” o malate e da curare (secondo i principi delle varie scuole di psicoterapia). Alla gente non interessa la qualità della vita umana.
Le persone accettano tutto. Accettano di pagare delle tasse anche se sono a credito con il fisco, accettano di pagare multe se superano i cinquanta chilometri orari in una strada a tre corsie, accettano la mafia, accettano la padania e il patriottismo, accettano di fumare al freddo d’inverno all’esterno dei bar e dei ristoranti, accettano il maschilismo ed anche il femminismo, accettano la TV. Accettano di eleggere governi che considerano inevitabile che l’uno per cento della popolazione controlli metà delle ricchezze dello Stato e del pianeta. Le persone accettano tutto, per non pensare e per non rischiare di sentire qualcosa. Perché non dovrebbero accettare le patologie psichiche e le terapie psichiche? E perché non dovrebbero accettare uno Stato che trasforma i dubbi della ragione nelle verità della legge?



Riferimenti bibliografici

R. Assagioli, 1965, Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, trad. it. Astrolabio, Roma, 1973

E. Berne, 1964, A che gioco giochiamo, trad. it. Bompiani, Milano, 1967 (rist.1974)

E. .Berne, 1972, "Ciao!"...e poi?, trad. it. Bompiani, Milano, 1979

G. Giorello, 2015, Libertà, Bollati Boringhieri, Torino

J. Haley, 1973, Terapie non comuni, trad. it. Astrolabio, Roma, 1976

S. Kopp, 1971, Guru, trad. it. Astrolabio, Roma, 1980

S. Kopp, 1972, Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo, trad. it. Astrolabio, Roma, 1975

S. Kopp, 1977, Ripartire da uno, Astrolabio, Roma, 1979

P. Migone, 1986, Sulla regolamentazione della psicoterapia, in Il ruolo terapeutico, 1986, 42: 39-40. Il saggio è reperibile alla pagina web

P. Migone, 1991, Sono necessarie scuole "quadriennali" per coloro che al 18-2-94 avranno accumulato cinque anni di laurea? A proposito dell'art. 35 della legge 56/1989, in Il Ruolo Terapeutico, 1991, 57: 43-47. Il saggio è reperibile alla pagina web

W. Reich, 1945 (ristampa ampliata, in lingua inglese, dello scritto del 1933), Analisi del carattere, trad. it. Sugar, Milano, 1973

R. Schafer, 1976, A New Language for Psychoanalysis, Yale University Press, New Haven and London, rist.1978

I.D. Yalom, 1980, Existential Psychotherapy, Basic Books, Inc., New York