La psicoterapia contemporanea è
costituita da un insieme di scuole o approcci o indirizzi che non hanno molto
in comune e che, in pratica, condividono solo l’idea che esistano delle
“patologie” psicologiche e che siano possibili delle “terapie” psicologiche. Anche
le scuole che utilizzano il termine “analisi” (Psicoterapia
psicoanalitica, Analisi Transazionale, Analisi
del carattere, ecc.), condividono la convinzione di poter curare delle
patologie psichiche individuali.
Tale convinzione è tutt’altro che ovvia, ma è ben consolidata.
All’inizio del ‘900 la psicologia
aspirava a diventare una disciplina scientifica e quindi a trattare in modo
rigoroso anche l’aspetto più inquietante della soggettività: la capacità degli esseri
umani (da sempre concepiti come “animali razionali”) di risultare del tutto
irrazionali manifestando paure ingiustificate, comportamenti incomprensibili, e
vari disturbi del pensiero, dell’emotività e del comportamento. In quel
periodo, sia la psicoanalisi di Sigmund Freud, sia il comportamentismo
di John Watson tentarono in modi diversi (anzi, opposti) di spiegare scientificamente
alcune forme di irrazionalità (solo
quelle individuali e solo quelle più
circoscritte) come il risultato di qualche causa e quindi, come patologie da
curare. Mentre la psicologia sperimentale si è in qualche modo svincolata
dal piano della speculazione diventando un ambito di ricerca scientifica, la psicoterapia si è sviluppata caoticamente dando luogo ad una miriade di
“scuole” che, proprio con la loro incapacità di condividere le "spiegazioni" delle “patologie”
psichiche e le giustificazioni delle strategie terapeutiche, hanno dimostrato la
loro incapacità di realizzare il salto (realizzato dalla medicina) dal piano della
metafisica al piano della scienza applicata.
Gli studiosi e i professionisti
che si definiscono psicoterapeuti rientrano, anche se non vorrebbero, in quella
grande corrente
di pensiero razionale e irrazionale, laico e religioso, materialista
e spiritualista che tenta da sempre
di spiegare gli aspetti più delicati dell’esistenza umana e che si scontra da
sempre con la difficoltà di spiegare in termini oggettivi i processi soggettivi. Tale
grande corrente costituisce un aspetto fondamentale della cultura umana e non
merita di essere squalificata per il fatto di non essere giunta (come le
scienze naturali) nemmeno a conoscenze parziali condivise. La tradizione della
psicoterapia, come tutte le tradizioni filosofiche, ideologiche e religiose che si
interessano alle aspirazioni, motivazioni ed emozioni delle persone e al loro
modo di costruire un percorso esistenziale, quindi, merita
rispetto e molta attenzione, ma è risultata, a mio parere, decisamente
discutibile per le sue (recenti) pretese di essere riconosciuta come
depositaria di particolari strumenti conoscitivi e terapeutici e in
particolare come disciplina operante nell’ambito sanitario.
Pur avendo acquisito una
formazione riconosciuta legalmente come adatta all’esercizio della
psicoterapia, non ho mai condiviso l’idea che ciò che le varie scuole “psicoterapeutiche”
proponevano costituisse una terapia e non ho mai considerato come patologie i
disturbi psicologici individuali di cui mi occupavo nelle sedute. L’aspirazione
degli psicoterapeuti a risultare assimilabili ai medici, anche se in una altro
campo, mi è quindi sempre sembrata infondata, perché la medicina si basa sulla
fisiologia degli organismi umani e negli organismi le
deviazioni dalla norma sono indiscutibilmente patologiche e sono causate
da qualche evento particolare (genetico, traumatico, infettivo, ecc.), mentre nell’ambito
psicologico le cose stanno diversamente: la normalità psicologica è tutt’altro che
paragonabile alla “salute” degli organismi, dato che normalmente le
persone vivono in modi irrazionali e distruttivi, sia individualmente sia sul
piano interpersonale, sia su quello sociale.
Per questi motivi non considero
il lavoro analitico che svolgo come uno degli indirizzi “analitici” della
psicoterapia, ma come un lavoro basato sull’analisi (filosofica)
dell’irrazionalità e sull’analisi (psicologica) delle ragioni per cui le
persone tanto spesso pensano, sentono ed agiscono in modi irrazionali. L’analisi
delle difese psicologiche, che
definisco genericamente “lavoro analitico”, mira a chiarire con le persone le ragioni
per cui vivono in modi per loro insoddisfacenti e non mira a curare cose da me
ritenute “oggettivamente” patologiche. Inoltre, l’orizzonte concettuale del
lavoro analitico non rientra nella psicoterapia perché mira non solo a chiarire
alcuni problemi individuali, ma anche vari aspetti della normale irrazionalità individuale e sociale (pregiudizi, conformismo, autoritarismo,
illusioni, concezioni metafisiche, dogmatismi laici o religiosi, idee morali,
ideologie politiche, ed anche
ideologie psicoterapeutiche).
A mio parere non esiste alcuna ragione per considerare “patologiche” solo
le persone irrazionalmente litigiose (in quanto “anormali”) quando da sempre
gli Stati organizzano guerre (con il consenso e l’entusiasmo delle masse) e le
famiglie normali salutano con commozione i figli che vanno al macello per una
patria basata su ingiustizie sociali identiche o simili a quelle della patria
dei “nemici”. L’irrazionalità e la distruttività non sono deviazioni individuali
patologiche da una normalità sana, come lo sono le malattie nell’ambito biologico e fisiologico, perché caratterizzano tutti gli esseri umani. Le ragioni dell'irrazionalità "normale" o "anormale" non sono ancora state chiarite in modi ritenuti convincenti da tutti gli studiosi. Non pretendo che
le mie spiegazioni siano “quelle giuste”, ma penso che al momento ognuno possa
avanzare le proprie ipotesi e che non possa vantare la credibilità che i
medici hanno acquisito basandosi su reali conoscenze.
Nel mio lavoro evito accuratamente di fare assunzioni metafisiche e cerco di ancorare al piano empirico le idee con cui
cerco di chiarire le ragioni per cui i miei clienti e, in generale, le persone
agiscono. Proprio lavorando con le
persone allo scopo di chiarire con loro le
ragioni per cui vivono in modi limitati e non proponendomi di fare
interventi sulle persone allo scopo
di causare degli effetti “terapeutici”, non ho alcun motivo per definirmi
psicoterapeuta. Tuttavia devo farlo,
perché da quando la psicoterapia, al di là della sua frantumazione in scuole
contrapposte, è diventata per legge
una disciplina che cura le patologie psichiche, si è verificato uno strano
fenomeno: non solo gli psicoterapeuti riconosciuti possono vantare (al pari dei
loro colleghi con cui sono in dissenso su moltissime questioni teoriche e
pratiche) delle competenze ufficiali,
ma possono anche stabilire chi svolga
(legittimamente o abusivamente) la psicoterapia. Quindi, se io uscissi
dall’Ordine degli psicologi (rinunciando al riconoscimento dell’attività
psicoterapeutica) e continuassi a svolgere l’attività non terapeutica che ho sempre svolto, potrei essere comunque
condannato per esercizio abusivo della professione psicoterapeutica (che non esercito). Non potrei sostenere che svolgo un lavoro analitico
da “libero pensatore” perché gli
psicoterapeuti avrebbero comunque il diritto di affermare che faccio psicoterapia e che, quindi, faccio psicoterapia senza il riconoscimento legalmente
richiesto. Tale situazione è molto strana, come lo sarebbe se un maomettano fosse condannato da uno Stato cattolico
in quanto “cattolico eretico”.
Sono consapevole di evitare in
queste poche pagine questioni importanti che ho trattato in altri lavori più estesi e articolati, ma cerco proprio di sollecitare la curiosità per l'esame di tali approfondimenti.
Tutte le “terapie” psicologiche mirano ad attenuare il dolore superficiale e costruito dalle
persone ed evitano di chiarire che quelle pseudo-sofferenze sono parte di una
strategia (necessaria ai bambini ma non agli adulti) volta a mantenere una
dissociazione dal dolore. Nella “realtà reale” sono
purtroppo inevitabili perdite e mancanze che sembrano intollerabili (come
nell’infanzia), ma che possono essere accettate e integrate dagli adulti. L'ideologia "sanitaria" della psicoterapia ha purtroppo trasformato l’antico “fermento psicoterapeutico” (ricco sia di
intuizioni profonde, sia di errori) in una istituzione “intoccabile”.
Quando iniziai a svolgere il
lavoro analitico sotto la supervisione del mio analista, l’ultimo dei miei
problemi era costituito dalla denominazione da dare alla mia professione, perché
volevo semplicemente imparare a fare sedute almeno decenti, sensate e non
inutili. Inoltre, in quegli anni non esisteva una “cosa” denominata “psicoterapia” e
chiunque poteva offrire “aiuto” a chiunque sulla base di ciò che sapeva (o
credeva di sapere) facendo psicoanalisi freudiana, gruppi di psicoterapia, gruppi
di autocoscienza femminista, esercizi spirituali, astrologia, ecc. L’unica
pretesa della società era costituita da un prelievo fiscale se queste
“consulenze” erano offerte a pagamento. Così iniziai con l’apertura di una
Partita IVA con il codice di attività 9400 riguardante “Altre attività professionali”.
Erano gli anni della sincerità, dell’umiltà e del realismo. Anche se molti “colleghi” già allora si consideravano
“psicoterapeuti” sapevano di esprimere una definizione personale di un’attività
disconosciuta da moltissimi medici,
da molti studiosi e sicuramente disconosciuta dagli “psicoterapeuti” delle
altre “scuole”. L’umiltà stava nel fatto che ognuno esprimeva le proprie
convinzioni, cercava di giustificarle e lavorava nel modo che considerava
preferibile presentandosi semplicemente come una persona che si era formata in un certo modo.
Nessuno poteva insultare altri studiosi o professionisti definendoli “ciarlatani”
perché tutti riconoscevano di essere alla ricerca della verità e non depositari
di un sapere ufficialmente riconosciuto.
Negli anni successivi, alcune di
queste scuole di psicoterapia (anche molto distanti sul piano delle convinzioni
teoriche e delle metodologie adottate) riuscirono ad allearsi ed a coinvolgere
dei politici per ottenere un riconoscimento “pubblico” di quella attività che
loro stessi non esercitavano sulla base di conoscenze condivise. Quando i
politici riuscirono ad ottenere una maggioranza parlamentare “battezzarono”, quindi, una psicoterapia non ancora nata. Si costituì l’Albo e poi l’Ordine
degli psicologi e si delimitò (legalmente, non teoricamente) l’attività
psicoterapeutica. Da quel momento l’esercizio di attività “simili” a quella
degli “psicoterapeuti” divenne “esercizio abusivo della psicoterapia”. Poiché
non era chiaro (agli stessi psicoterapeuti) cosa fosse la psicoterapia, anche
se tutti tentavano di fornire definizioni accurate, non poteva essere nemmeno
chiaro quale tipo di attività costituisse un esercizio abusivo della
psicoterapia, ma il riconoscimento statale (burocratico) dell’attività professionale
metteva al sicuro chi faceva “cose di quel tipo”. Restarono ovviamente al sicuro anche le persone che facevano “cose di
quel tipo” senza la tutela dell’Ordine, ma con la tutela di altri poteri
politicamente rilevanti: non mi risulta che gli “esercizi spirituali”
organizzati dalle parrocchie o i “gruppi di autocoscienza femminista” siano mai
stati oggetto di denunce per esercizio abusivo della psicoterapia, anche se comportavano l'esame di questioni personali
(autonomia, dipendenza, libertà, colpa, significato della vita, sessualità, emozioni, ecc.).
Fui molto contrariato da questi
cambiamenti, perché concepivo il lavoro analitico come una ricerca conoscitiva/esperienziale e non come una attività “sanitaria”, ma chiesi ed ottenni il riconoscimento
della mia attività come “attività psicoterapeutica” per non avere problemi con
la legge. Fatto questo, continuai ad occuparmi delle ragioni
dell’irrazionalità, evitando di "ragionare" in termini di patologie, terapie e
normalità.
La mia valutazione critica della
scelta politica degli psicoterapeuti era in sintonia con
quella di persone ben più autorevoli di me. Prima che in Italia venisse
tracciato per legge il confine
(tuttora incerto) fra psicoterapeuti e “ciarlatani”, alcuni studiosi
dichiararono di considerare tale operazione non giustificabile. Paolo Migone
scrisse “Io ritengo che sarebbe meglio che non passasse la parte della legge
riguardante la regolamentazione dell'esercizio della psicoterapia, cioè ritengo
che sarebbe meglio che l'esercizio della psicoterapia rimanesse non
regolamentato da una legge” (Migone, 1986). Dopo alcuni anni tornò
sull’argomento: “La legge 56/1989 (la cosiddetta "legge Ossicini")
purtroppo tende a favorire una cultura della psicoterapia legata a
riconoscimenti esterni che non tengono conto delle caratteristiche specifiche
della formazione in questo settore (…) Sarebbe stato più opportuno, come è
stato proposto da più parti e come avviene in certi paesi esteri, limitarsi a
un elenco di trasparenza e alla autocertificazione degli psicoterapeuti”
(Migone, 1991).
Di fatto, da anni la psicoterapia è diventata “esistente per legge”, mentre le varie scuole di psicoterapia legalmente riconosciute continuano ad essere criticate
dalle altre scuole di psicoterapia legalmente riconosciute.
Nel mio
percorso ho svolto un’analisi personale preziosa e varie esperienze
psicoterapeutiche del tutto inutili che però mi hanno insegnato molte cose da non fare. Ho imparato cose preziose da
alcuni (pochi) psichiatri e psicoterapeuti ed anche da filosofi, antropologi,
pedagogisti, letterati, femministe, sacerdoti, militanti politici, guide
spirituali. Provo quindi stima e gratitudine per Sheldon Kopp (1971,
1972 e 1977), Eric Berne (1964 e 1972), Wilhelm Reich (1945), Roy Schafer
(1976), Irvin Yalom (1980) ed altri, pur non condividendo le loro teorie
generali e pur non considerandole riconducibili all’ambito
sanitario. Non ho alcun pregiudizio ed alcuna ostilità nei confronti della
psicoterapia come nei confronti di altri segmenti (religiosi, politici,
filosofici) della cultura umanistica e dissento semplicemente dall’idea che si possano stabilire per legge delle
verità non dimostrate. Apprezzo che il femminismo non sia diventato un’organizzazione
socialmente riconosciuta e che le donne si possano sposare anche se non sono
state “abilitate” da un gruppo di autocoscienza e apprezzo che un turista possa
visitare una chiesa anche senza essere stato “adeguatamente formato” da una comunità religiosa riconosciuta come legalmente
“autentica”. Non posso quindi accettare volentieri il vincolo in base al
quale lo Stato afferma di poter
stabilire la legittimità di un punto di vista psicoterapeutico (come nella Russia sovietica che
riconosceva come religione statale il materialismo dialettico). Non so cosa
pensino oggi gli studiosi che in passato erano contrari alla “istituzionalizzazione”
della psicoterapia, ma oggi, di fatto, persino i medici, da sempre diffidenti nei confronti delle discipline psicologiche, convivono con i nuovi “quasi colleghi” nel
sistema sanitario.
A mio parere, lo Stato ha il diritto e anche l’obbligo di fissare
alcune condizioni per il riconoscimento di certe attività professionali: è comprensibile
che solo alcune persone possano insegnare chimica nelle scuole e che pochissime
persone possano insegnare quella materia nelle aule universitarie ed è anche comprensibile
che lo Stato deleghi ai medici il compito di stabilire le condizioni per il
riconoscimento della professione medica. I medici, infatti, prima di essere una
“categoria burocratica” sono una categoria professionale. Hanno dissensi su
alcune cose, ma condividono conoscenze biologiche, fisiche, chimiche fondamentali e non sono
divisi in scuole che “credono al fegato” e scuole che “non credono al fegato”.
In psicoterapia la situazione è ben diversa e i rappresentanti dei principali
indirizzi non concordano nemmeno sull’ipotesi che la “terapia” debba tener
conto della storia personale dei “pazienti” o debba focalizzarsi solo sulla
realtà attuale.
Non sto “interpretando”
arbitrariamente i fatti per screditare dei colleghi, dato che i colleghi si screditano fra loro già da
tempo; la citazione che segue è tratta da un libro di Jay Haley, un autorevole psicoterapeuta che ha influenzato molte scuole “riconosciute” di
psicoterapia sistemica, relazionale e famigliare. La citazione evidenzia la distanza
fra tali scuole e quelle di matrice psicoanalitica o “psicodinamica”, pure
“riconosciute”.
Haley ha studiato in modo molto
accurato le tecniche di noti psichiatri e psicoterapeuti ed anche quelle
ipnotiche “indirette” elaborate da Milton Erickson, un geniale psichiatra e
ipnoterapeuta che ha influenzato a sua volta molte scuole di psicoterapia.
Haley evidenzia la radicale contrapposizione fra l’approccio psicoanalitico,
volto a “scavare” nell’inconscio e nel passato dei pazienti e gli approcci pragmatici,
caratterizzati da interventi attivi del terapeuta e finalizzati all'eliminazione di specifici sintomi. Secondo Haley, “Il desiderio di Erickson di prescrivere
compiti che possono modificare un rapporto è eguagliato solo dalla sua volontà di non aiutare le persone a capire
come e perché interagiscono in maniera inadeguata. L’assenza di
interpretazioni sulla eventuale causa del comportamento sembra fondamentale nel
suo metodo di terapia. Anche se egli può non dichiararlo apertamente, nel suo
modo di lavorare è implicita la convinzione che un terapeuta che tenta di aiutare le persone a capire perché si
comportano in un dato modo, ostacola il cambiamento terapeutico” (Haley,
1973, p. 28 – corsivo mio, G. R.).
Questa citazione è una miniera di
informazioni. Potrei riportare centinaia di citazioni che non aggiungerebbero
comunque nulla a ciò che queste parole evidenziano con chiarezza. Scrivendo il
suo libro Haley affermava che ogni indagine sulla storia personale costituiva “un
ostacolo” a qualsiasi terapia veramente efficace. Egli condivideva con tutti
gli psicoanalisti la pretesa di fare “terapia”, ma sottolineava che Erickson
lavorava in maniera ottimale perché riusciva a causare
dei cambiamenti nelle persone senza che queste fossero consapevoli dei motivi
per cui avevano manifestato dei sintomi e dei motivi per cui non li manifestavano
più.
Senza soffermarmi sul fatto che
autorevoli filosofi della scienza hanno valutato (a ragione, secondo il mio
punto di vista) come inconsistenti le “spiegazioni psicoanalitiche” e che molti
psicoterapeuti considerano (a ragione, secondo il mio punto di vista)
superficiali, anche se a volte efficaci, gli interventi di Erickson, di Haley e di altri
teorici delle “terapie brevi”, voglio solo sottolineare l’abisso che separa
psicoterapeuti di formazione psicoanalitica e psicoterapeuti “relazionali” o
“strategici” (tutti autorizzati ed impegnati a gestire scuole “riconosciute”).
Le varie scuole affermano
l’esistenza di cause per le patologie psichiche da curare, ma alcune
individuano cause inconsce e risalenti all’infanzia, altre individuano cause
attuali costituite dalla comunicazione interpersonale, altre individuano cause
sociali e culturali. Roberto Assagioli (padre fondatore di un’altra scuola di
“psicoterapia” attualmente “riconosciuta”) considerava addirittura il “risveglio
spirituale” come possibile determinante di crisi psicologiche da non confondere
con quelle dovute a conflitti normali (cfr. 1965, pp. 45-50).
Le mie convinzioni riguardanti le
varie scuole di psicoterapia e la psicoterapia in generale contano sicuramente
poco, ma la citazione di Haley mostra che sono proprio gli psicoterapeuti più autorevoli a screditare la psicoterapia considerando i loro colleghi inclini ad “ostacolare il cambiamento
terapeutico”.
Il fatto che gli psicoterapeuti
abbiano ottenuto per legge un ruolo nel sistema sanitario nazionale non rende la loro professione una reale professione terapeutica, ma una
professione giuridicamente definita come
terapeutica. L’idea che “se lo dice lo Stato deve essere vero” costituisce
una discutibile scelta di fede e non una convinzione razionale. Gli Stati hanno
affermato molte cose: hanno affermato l’esistenza di gruppi razziali che in
realtà erano gruppi etnici, hanno affermato l’inferiorità di alcune “razze”,
hanno definito come “interventi di pace” delle operazioni militari e hanno
anche ucciso chi violava le norme religiose "riconosciute", ma tali scelte non hanno cambiato la
realtà dei fatti. La specie umana non è divisa in razze, le operazioni belliche
sono operazioni belliche anche se denominate in altri modi e dio esiste o non
esiste indipendentemente dalle decisioni degli Stati. E anche le patologie e le
terapie psicologiche esistono o non esistono indipendentemente da ciò che le
leggi di uno Stato o di molti Stati possono stabilire. Labriola affermava che "lo Stato che definisce la Scienza è già una Chiesa" (cit. in Giorello, 2015, p. 48) e, se ciò è vero, quando gli psicoterapeuti stabiliscono chi è ciarlatano e chi non lo è, stanno manifestando il loro dogmatismo religioso.
Sicuramente qualsiasi lavoro sui problemi
personali (concepito come “psicoterapia” o come filosofia socratica o come
chiacchiere fra amici) è fruttuoso nella misura in cui chi “aiuta” ha letto
qualche libro, ma soprattutto nella misura in cui chi cerca di offrire aiuto ha
un buon contatto emotivo ed una centratura psicologica accettabile. Ovviamente
ci sono amici che dispensano consigli balordi e psicoterapeuti che ragionano
con saggezza, ma ciò che voglio sottolineare è un’altra cosa: posto che ogni
categoria sociale include persone di tutti i tipi, la categoria riconosciuta
come l’unica “abilitata” ad offrire un aiuto psicologico professionale ha un
riconoscimento statale che prescinde proprio dall’aspetto più importante in una
relazione di aiuto: le caratteristiche specifiche della formazione personale. Quale
scuola di psicoterapia può garantire che i suoi “diplomati” sono almeno capaci di piangere liberamente (e
di non “piangersi addosso”) o di provare compassione per il prossimo? Molte
scuole di psicoterapia riconosciute non
prevedono una psicoterapia personale dei loro allievi e quindi, se gli
psicoterapeuti diplomati non hanno fatto nemmeno una seduta personale con i
loro trainer come possono tali trainer sapere se i loro allievi riescono o non riescono ad elaborare il dolore o se hanno paura di
salire su un aereo o di fare sesso o se hanno pregiudizi legati a qualche
ideologia, o se sono inclini a svalutare gli altri?
Sorge ovviamente l’obiezione: ma
come potrebbe lo Stato riconoscere la “sensibilità”, la “centratura”, il
“contatto emotivo” degli psicoterapeuti? Questa,
però, non è un’obiezione a ciò che penso, perché è proprio l’espressione di ciò
che penso: lo Stato può certificare la competenza di un idraulico nella
revisione delle caldaie, ma non può certificare il
contatto emotivo su cui non esiste alcuna teoria scientifica condivisa da tutti
gli studiosi e nemmeno da tutti gli psicoterapeuti. Per questo sto constatando che lo Stato ha riconosciuto e
regolamentato ciò che non poteva né essere riconosciuto né essere regolamentato.
Confermando la normalità e ottenendo un riconoscimento istituzionale della psicoterapia, gli psicoterapeuti hanno rinunciato, come in passato, ma con nuove motivazioni, ad un ruolo critico nei confronti della società "data". Negli
anni in cui la Germania era sull’orlo del collasso che avrebbe portato i
nazisti al potere non ci furono manifestazioni ufficiali di psichiatri, psicologi, sessuologi e psicoterapeuti volte a
denunciare la follia nazista. Alcune
voci isolate si levarono, ma non furono l’espressione di una comunità
professionale. Gli psicoterapeuti non denunciano
tuttora il catechismo imposto ai figli dalle famiglie cattoliche e le altre
forme di educazione religiosa imposte ai bambini da famiglie che affermano i
principi di altre religioni o sette. Poiché i bambini non si organizzeranno mai
in un “movimento di liberazione” e non conquisteranno spazi nei dibattiti in
TV, credo che gli psicoterapeuti continueranno a rispettare la “libertà
religiosa” intesa come libertà delle famiglie religiose di imporre ai figli dei
sensi di colpa voluti anche da dio.
Gli psicoterapeuti evitano oggi
come in passato di mettere in discussione su un piano clinico e teorico la cultura di massa. Diagnosticano e “curano” (partendo
da premesse molto diverse) patologie individuali che sono solo “eccessi di
normalità”, ma non hanno molto da dire sulla normalità. Ai veri uomini di
scienza è venuto il dubbio che la terra non fosse piatta prima che la TV
suggerisse l’idea. Sarebbe bello che la psicoterapia turbasse la normalità
aprendo squarci di consapevolezza sulla base di conoscenze realmente acquisite
e quindi condivise dagli specialisti. Conoscenze tanto solide da risultare
scomode per una società autoritaria e non conoscenze vaghe ma “riconosciute” da
una società in cui la "normale follia" è “cultura” e in cui solo alcuni “eccessi
di normalità” risultano "strani".
Tutto ciò è preoccupante, ma ciò
che preoccupa maggiormente è il fatto che “alla gente” non importi nulla di
questo problema. Alla gente, tutto sommato va bene che le persone siano buone e da ammirare o cattive e da svalutare (secondo i
principi delle varie concezioni etiche), oppure che siano “sane come tutti” o malate e
da curare (secondo i principi delle varie scuole di psicoterapia). Alla
gente non interessa la qualità della vita umana.
Le persone accettano tutto. Accettano
di pagare delle tasse anche se sono a credito con il fisco, accettano di pagare
multe se superano i cinquanta chilometri orari in una strada a tre corsie,
accettano la mafia, accettano la padania e il patriottismo, accettano di fumare
al freddo d’inverno all’esterno dei bar e dei ristoranti, accettano il maschilismo
ed anche il femminismo, accettano la TV. Accettano di eleggere governi che
considerano inevitabile che l’uno per cento della popolazione controlli metà
delle ricchezze dello Stato e del pianeta. Le persone accettano tutto, per non
pensare e per non rischiare di sentire qualcosa. Perché non dovrebbero accettare
le patologie psichiche e le terapie psichiche? E perché non dovrebbero
accettare uno Stato che trasforma i dubbi della ragione nelle verità della
legge?
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