INDICE
Introduzione
1. Né cuccioli né lupi
2. Il tempo vissuto e il tempo raccontato
3. Sognare realisticamente in grande
4. Su Randy Pausch e sulla morte
5. Crimini di tempo
6. Violenza e canzoni
7. Il “non valore” del tempo vissuto
8. Pleasantville
9. Cosa resta del giorno?
10. Truman e l'immaginazione
11. Barriere invisibili
12. Hachiko
13. Fiori per Algernon
14. Piccole grandi storie
8. Pleasantville
9. Cosa resta del giorno?
10. Truman e l'immaginazione
11. Barriere invisibili
12. Hachiko
13. Fiori per Algernon
14. Piccole grandi storie
Considerazioni conclusive
Riferimenti bibliografici
Introduzione
Non è facile vivere una “buona vita”: non tanto per i dispiaceri che la vita ci riserva (assieme ai doni e alle gioie), ma per la nostra tendenza a “proteggerci” da sofferenze troppo intense costruendo vari tipi di “difese psicologiche”. Una tendenza che sviluppiamo nell’infanzia e che poi manteniamo anche negli anni della maturità, nei quali non serve più. Proprio per non sentire il dolore finiamo per sentire poco e per agire secondo finalità non creative, non espressive, non costruttive. La tendenza delle persone a vivere “poco” è purtroppo normale, in quanto molto diffusa, ma non corrisponde alle potenzialità individuali. Essa non è mai stata al centro dell’attenzione degli psicoterapeuti, i quali continuano ad occuparsi essenzialmente delle deviazioni dalla normalità, per “curarle” affinché le persone possano tornare alla loro normalità. Solo i filosofi hanno continuato ad occuparsi delle vite “poco vissute” e della “banalità” del male, ma inquadrando il problema sul piano “etico” non hanno potuto offrire spiegazioni razionali della tanto diffusa irrazionalità degli esseri umani.
La questione di cui mi occupo da quattro decenni è proprio quella relativa alle ragioni per cui le persone normalmente pensano, sentono e agiscono in modi irrazionali e distruttivi. Nei miei lavori ho cercato di assemblare vari frammenti di conoscenza rintracciabili nella filosofia della scienza, nella filosofia analitica e in alcuni ambiti marginali della psicologia e della psicoterapia. Su tali basi ho cercato di mostrare l’utilità di un lavoro analitico concepito non come “terapia”, ma come occasione, per le persone, di comprendere la loro vita e di cambiarla. In queste pagine, però, non mi propongo di ricapitolare le mie idee sul lavoro analitico, ma solo di raccontare e commentare alcune storie e di sollecitare alcune domande relative alla possibilità di andare oltre il "poco" del normale modo di vivere. Tutte le difese psicologiche (i pregiudizi, le chiusure emotive, le illusioni, le pretese, e anche i sintomi) alimentano varie manifestazioni irrazionali della rabbia e dell’ansia; possono far “star male” le persone, ma di fatto impediscono la reale accettazione del dolore e la sua elaborazione nel pianto e nel lavoro del lutto. Di questo sono convinto e ogni giorno verifico che è possibile vivere una “buona vita” solo se non si cerca di ignorare il dolore che comunque è “dato”.
Partendo da tali presupposti, non offrirò in queste pagine una visione della vita come quella che (purtroppo) viene spesso offerta nei libri “edificanti” focalizzati sui doveri e sulle “virtù” o in quelli “rassicuranti” scritti dagli psicoterapeuti che prospettano tecniche per “realizzarsi”, o “liberarsi dallo stress” o ritrovare "l’autostima”. Cercherò di chiarire alcune cose, anche scomode, senza offrire perle (fasulle) di saggezza e senza prospettare quel “benessere” che è possibile sperimentare solo nell’infanzia e che, purtroppo, in genere, nell’infanzia non viene sperimentato. L’accettazione del dolore rende possibile la felicità che può realmente essere sperimentata dagli esseri umani adulti, non quella che le persone in genere si illudono di “conquistare” con epiche battaglie morali o con tecniche psicologiche. Le cose “stanno come stanno”, indipendentemente da ciò che possiamo pretendere. Di fatto, “le cose della vita” sono più belle di quanto immaginiamo, ma sono anche più brutte di quanto temiamo. La felicità prospettata nelle “favole” della cultura condivisa è solo un sogno, ma ciò non ci impedisce di essere felici in modi realistici e rispettosi della nostra condizione umana.
Voglio riportare un’esperienza personale che forse può costituire, per la sua semplicità, un buon punto di partenza per le riflessioni che svilupperò. In seconda elementare mi ero fatto l’idea che imparare delle cose a scuola fosse utile, ma che scrivere con tutte le “o” tonde, con le “aste” dritte fosse una sciocchezza. Scrivevo quindi abbastanza speditamente, ma senza preoccuparmi della “eleganza” delle mie parole scritte. La maestra della prima elementare mi aveva lasciato abbastanza libero, ma il maestro della seconda pensò di piegare quel barlume di autonomia di giudizio che stavo manifestando. Negli esercizi fatti sul quaderno mi diede buoni voti, ma aggiunse tre gravi insufficienze in calligrafia. Voleva piegarmi, ma non ci riuscì. Tornando a casa, infatti pensai che i miei avrebbero condiviso la mia teoria, perché era una buona teoria. Purtroppo, i miei non condivisero nulla. Non ricordo quel momento; ho un vuoto di memoria. Non ricordo la solitudine, la disperazione, il senso di morte che presumo di aver provato. Ricordo però l’attimo successivo in cui il vuoto era stato “colmato” dalla vergogna. Sì, mi vergognai per aver pensato e fatto qualcosa di “sbagliato”; mi vergognai perché non mi sentii più in grado di affermare la mia teoria con o senza l’approvazione degli altri. La mia vita senza l’approvazione del maestro era intatta, ma senza l’approvazione dei genitori non era nulla. Pensai quindi di avere due genitori saggi e affidabili che mi capivano e che quindi mi respingevano proprio perché mi capivano. L’idea di aver agito in modi inaccettabili mi fece star male, ma mi garantì la certezza (tanto rassicurante quanto falsa) di non essere solo e mi fornì la possibilità di sentirmi nuovamente accolto dopo i dovuti atti riparativi, stimolati dalla vergogna. La vergogna è una strana forma di compagnia (illusoria) con persone svalutanti e io scelsi quell'illusione. In seguito ripresi a scrivere a modo mio, ma nel momento critico non avevo esitato a farmi del male, pur di non sentirmi abbandonato.
Ciò che ho fatto a sette anni (e che penso avessi già fatto in precedenti occasioni che non ricordo) non mi sembra un grave atto di viltà, ma semplicemente l’idea migliore che mi è venuta in quelle circostanze. Tutti i bambini si fanno venire idee di questo tipo, pur di non sentirsi soli. Alcuni decidono di sentirsi “inadeguati” anche se non prendono brutti voti; altri si tirano su maltrattando i compagni più deboli; altri si illudono di diventare “qualcuno” in futuro e decidono di sfidare tutti quelli che incontrano e che incontreranno; altri si illudono di poter ottenere amore mostrandosi “deboli”. Il guaio è che dopo venti o quarant’anni, questi “ex bambini” sono ancora “lì”, intenti a vergognarsi, a deprimersi, a disprezzare i più deboli, a crepare di infarto nello sforzo di fare carriera o a piagnucolare in continuazione pretendendo attenzione, pur di non piangere mai davvero per ciò che semplicemente sentono come mancante e pur di non lottare quando serve. In pratica, con il filtro delle nostre difese psicologiche, più o meno gravi, cerchiamo di costruire una buona vita, senza però riuscirci, perché per farlo dovremmo sentire di più: tutta la gioia, tutto il dolore e tutta la felicità di sentire tanta gioia e tanto dolore. Infatti, solo in quel “di più” possiamo sperimentare la compassione e l’amore per noi stessi e (di conseguenza) per gli altri. Con la pesantezza di sentimenti "frenati" e/o con l’interferenza di sentimenti vivaci ma irrazionali (di rabbia, di ansia e di miscugli strani di queste “robe”), finiamo per sentire la vita come un’avventura incompiuta e quando la morte comincia ad incalzarci da vicino, ci accorgiamo di non aver completato la nostra “opera” e di non aver espresso le nostre potenzialità personali.
Siamo così indaffarati a sentire poco per non soffrire, che finiamo per soffrire davvero poco, pagando però un prezzo alto: quello di “star male” in modi strani, annoiandoci a morte, svalutandoci, tradendo chi ci ama, aggrappandoci a chi non ci vuole, sognando cose impossibili e trascurando cose per noi importanti. La psicoterapia, purtroppo, pretende di “curare” i disturbi psicologici che le stesse persone hanno creato. Anziché aiutare le persone ad accettare il loro dolore e a fare a meno delle loro difese psicologiche, si sforza di “guarire” le persone come se fossero malate, rafforzando così il mito infantile secondo cui dovremmo “star bene”. Noi non possiamo “star bene” come i bambini accuditi dai genitori, cioè in un presente appagante e percepito senza dolore, perché da adulti la coscienza della nostra finitezza, dei limiti degli altri e della precarietà della nostra esistenza ci accompagna sempre: possiamo essere felici solo vivendo con intensità sia le gioie, sia i dolori che sperimentiamo nel nostro cammino. Questo possiamo fare e questo ci può bastare per considerare “buona” la nostra vita. Purtroppo il mito del “benessere” e della sofferenza da “curare” rende la nostra vita più povera di ciò che potrebbe essere. Nei brevi testi che seguono cercherò di mostrare che proprio l’accettazione del lato doloroso della nostra vita costituisce la condizione per vivere in modo razionale e quindi con sentimenti intensi e limpidi. Infatti, solo dalla compassione per noi stessi nasce l’empatia verso gli altri e la capacità di donare: donare momenti belli a noi stessi e donare momenti belli a chi amiamo. E’ proprio la dimensione dell’impegno che riempie la vita delle persone adulte: i bambini hanno l’esigenza di ricevere amore dai “grandi”, ma gli adulti hanno l’esigenza di amarsi e di amare, anche se percepiscono ancora vecchi bisogni di accudimento.
Noi agiamo perché abbiamo degli obiettivi in mente (consci o inconsci) e tra questi c’è sia l’intenzione razionale di costruire cose buone, sia (purtroppo) l’intenzione irrazionale di dissociarci dal dolore. Una persona può essere schiva e timida: si sta illudendo di essere ancora nel passato e di poter ottenere accettazione se “non si allarga troppo”. Questa illusione serve solo a dimenticare che ha già subito rifiuti pesanti, dolorosi e irrimediabili. Rifiuti da accettare proprio perché già “dati”. Un’altra persona può essere arrogante e “indipendente” ad oltranza e con questa maschera fa (in un altro modo) la stessa operazione della persona “timida”: evita di sentire il (vecchio) bisogno degli altri sfidando i rifiuti altrui e illudendosi di essere “invulnerabile”. In realtà è già stata “vulnerata” e non vuole “ricordarlo” proprio continuando a dimostrare che “ce la fa”. In questi due modi opposti di rapportarsi agli altri (e in mille altri modi altrettanto irrazionali) noi in realtà non viviamo nel presente per obiettivi attualmente perseguibili: viviamo nel presente con l’illusione di poter “prevenire il passato”. Facciamo profilassi dopo un funerale che non vogliamo riconoscere. Sprechiamo il presente. Viviamo per non sentire cose già “nostre” e in tal modo ci distacchiamo dalle emozioni del nostro reale presente.
C’è però un altro modo di vivere: vivere il presente accettando il dolore del passato (che ci accompagna sempre) ed anche quello attuale. Solo così possiamo costruire, nei limiti del possibile, un futuro migliore per noi e per chi amiamo. E’ proprio la consapevolezza del dolore più profondo (quello radicato negli anni in cui eravamo troppo piccoli per elaborarlo) che ci permette di guardare il presente in modo razionale e con partecipazione emotiva. E di impegnarci nel presente per obiettivi realistici. Se stiamo nel presente, possiamo mantenere la nostra dignità anche se gli altri non ci rispettano, dato che abbiamo la forza di restare con noi stessi. Ovviamente ciò è possibile solo se accettiamo tutti i nostri vissuti e se riconosciamo sia i loro lati belli, sia quelli dolorosi. In questo modo non siamo mai “soli” e in questo modo consolidiamo la compassione per noi stessi ed il rispetto per noi stessi. E’ proprio la compassione a rendere possibile l’amore, l’impegno e l’avventura della vita. Se blocchiamo il contatto con il dolore ci sentiamo al sicuro, ma non viviamo una vita “nostra”: come riconosce il personaggio femminile di un film di Ingmar Bergman “Il muro crebbe intorno a me e mi trovai non solo protetta, ma anche prigioniera” (Un’estate d’amore). Solo rinunciando alle sicurezze illusorie possiamo rendere la nostra vita un’esperienza sentita, compresa e vissuta in ogni istante. Questa è l’unica nostra possibilità di “fregare” la morte.
Il lavoro psicologico che ho svolto sulle mie chiusure e sulle mie illusioni mi ha aiutato fondamentalmente ad accettare il dolore che non può essere eliminato e quindi a non pretendere ciò che non è possibile (e a cui non ho diritto). Credo di non aver diritto a nulla e credo che nessuno abbia diritto a nulla. Non ho nemmeno il diritto di essere vivo perché, se tutti avessimo questo diritto, dovrei sentirmi colpevole per aver già vissuto più di tanti altri esseri umani. I “diritti dell’uomo” sono stati (opportunamente) affermati in un certo momento dai rappresentanti di molte società, ma essi non erano “lì, da qualche parte” e quindi non sono stati “scoperti e riconosciuti” come si scopre un nuovo sito archeologico. Credo di non avere nemmeno dei doveri, anche se tengo presenti le norme imposte da ogni gruppo di cui scelgo di fare parte. I doveri che ho “per legge” sono solo regole (sagge o stupide) stabilite da altri, ma nei casi in cui le leggi non condizionano la mia vita non credo di avere “doveri” stabiliti dalla mia “coscienza morale”. Agisco nei modi che corrispondono alla mia sensibilità e, a mio parere, fanno così anche le persone che credono di “sottomettersi alla loro coscienza” e magari di essere tanto buone e di meritarsi dei premi terreni o ultraterreni.
Ho sempre cercato di capire “come stessero le cose” e, accettando la gioia e il dolore della mia piccola vita, ho finito per convincermi del fatto che “le cose stanno come stanno”, sia che ciò mi piaccia, sia che ciò non mi piaccia. Trovo ragionevole accettare la realtà e quindi cambiare in meglio ciò che posso cambiare, ma anche arrendermi al dolore che dipende da ciò che non posso cambiare. L’irrazionalità umana causa più disastri dei virus e dei terremoti. Nel mio percorso, il tema dell'irrazionalità è risultato centrale e mi sono gradualmente convinto del fatto che gli esseri umani costruiscono tanto spesso convinzioni, desideri, emozioni e interi progetti esistenziali irrazionali per non accettare il dolore che in qualche misura e in tanti modi la vita dispensa. A mio parere, gli esseri umani sono animali razionali che vivono in modi irrazionali solo perché nell’infanzia non ricevono l’accudimento di cui hanno bisogno e quindi, non potendo “elaborare” il dolore, iniziano a dissociarsi dal dolore. Poi crescono e continuano a mantenere le dissociazioni che hanno costruito nell’infanzia e continuano a “sentire poco” e a "vivere poco".
Queste idee non sono “ovvie” e nemmeno condivise da tanti. Sono il “riassuntino” di una teoria o “quasi-teoria” che può risultare convincente o sballata, ma che ritengo corretta. Infatti essa non solo mi permette di farmi una buona compagnia nei momenti migliori e in quelli peggiori, ma è di aiuto alle persone con cui faccio sedute focalizzate sulle difese psicologiche. Per tanti anni ho lavorato con la qualifica di “psicoterapeuta” adattandomi agli “usi e costumi” della società in cui vivevo, ma non mi sono mai considerato un “terapeuta” e ho sempre cercato solo di chiarire con i miei clienti (mai concepiti come “pazienti”) cosa stessero facendo nella loro vita e per quali ragioni. I “sintomi” si riducevano o scomparivano nella misura in cui le persone capivano di averli costruiti per “sentire poco”. Ovviamente tutto ciò può essere messo in discussione, ma credo che le mie idee sulle ragioni per cui le persone vivono “poco” siano coerenti e basate sui fatti. Per approfondimenti rinvio agli altri miei saggi: non al libri pubblicati in passato, ma ai testi disponibili in rete e liberamente scaricabili.
Alcuni capitoli di questo lavoro sono stati scritti nel 2009-2010, come singoli post, nel blog collettivo Tempovissuto e sono qui riportati con correzioni, tagli e aggiunte. Altri capitoli sono stati scritti successivamente. Ogni singola frase di questo lavoro è “intrisa di teoria”, ma con queste pagine mi sono proposto solo di suggerire alcuni spunti di riflessione utilizzando parole semplici e commentando fatti di tutti i giorni.
1. Né cuccioli, né lupi
“Da giovani
sopraffatti dal senso di provenire
da un altrove
scrutiamo
scandagliamo le profondità
e riemergiamo
alieni, indiani,
approdiamo in uno spazio aperto
uno spazio d’oro
più spesso approdiamo su una nuvola
cittadini delle nuvole.”
(Patti Smith, Dream of Life)
Adolescenza: terra di nessuno in cui ogni soggettività si definisce in una lotta con gli incubi del passato e con i timori di un futuro incerto. In cui ogni soggettività afferma la voglia di esserci e la forza di esserci. Almeno la voglia e la forza che sono rimaste in gioco e non sono state zittite. Età delicata, che solo gli ingenui considerano “fisiologicamente” caratterizzata da un senso di ribellione: non c’è alcun motivo per essere ribelli da giovani, se non il fatto (del tutto contingente) di stare fra adulti che hanno dimenticato i loro sogni veri aggrappandosi a quelli falsi; che inventano norme per sentirsi genitori, professori, guide, senza però essere tali. Gli adolescenti che hanno “a portata di mano” adulti capaci di ascoltare e di offrire spunti di riflessione non si ribellano, ma si confrontano, assorbono idee ed arrivano ad esprimere il meglio di sé. Esperienza rara, ma preziosa, di crescita. Gli altri a volte restano bambini incatenati e a volte diventano ribelli (cioè bambini rabbiosi). Sia i bambini incatenati di oggi, sia i ribelli di oggi, comunque, diventeranno i conservatori o i finti progressisti di domani e spezzeranno il cuore ai loro figli. Un vero peccato.
Ripenso ad un film toccante, ottimo per la “confezione”, ma ambiguo o forse semplicemente superficiale sul piano dei contenuti: L’attimo fuggente di Peter Weir. Un professore lancia un messaggio dirompente che travolge e appassiona i ragazzi o almeno i più sensibili: la poesia, l’arte, la conoscenza non sono cose da “imparare”, ma sono lo spazio della creatività personale. Straccia (realmente) alcune pagine di un arrugginito manuale per affermare che il nozionismo è la tomba della vita. Questo gesto è facilmente sentito come liberatorio dallo spettatore che è stato indottrinato anziché guidato, perché prospetta la possibilità di una scuola capace di insegnare a pensare e non solo di trasmettere pensieri già pensati. Questo gesto, tuttavia, è così “sgarbatamente provocatorio” da far dubitare della chiarezza degli scopi sottesi. Sorge infatti un problema, nel film. Il gesto spettacolare coglie impreparati i ragazzi cresciuti in un ambiente conservatore. Suscita timori, ma anche entusiasmi (entrambi “localizzati” in personalità non ancora consolidate). Entusiasmi collegati sia ad una genuina voglia di libertà, sia ad una confusa insofferenza per le dolorose (non digerite e non superate) esperienze di incomprensione da parte della scuola, dei genitori e della società. Il professore affascina, ma tenta la magia impossibile di trasformare dei ragazzini in artisti con una semplice provocazione. Inoltre rinuncia a tentare un’impresa più modesta, ma realizzabile: trasformare dei ragazzini smarriti in persone interessate a cercare la loro verità e anche ad esprimerla nei modi e nei momenti più opportuni. Ci scappa il morto: un ragazzo si suicida perché cerca di “esprimere la sua individualità”, ma non riesce a sostenere il rifiuto dei genitori. Il professore ha visto la bellezza e le potenzialità dei cuori e delle menti dei suoi ragazzi, ma non ha capito la loro impossibilità di cancellare il passato a cui sono ancora incatenati. Lui ci resta male, ma sono loro a farsi male. Alla fine gli sono comunque grati per quello che egli ha visto in loro e non lo condannano per ciò che non ha capito. Momento commovente, umano, che salva la figura del professore, ma non salva il regista. Questi, infatti, ha perso l’occasione di mostrare la possibilità di un reale incontro, in un clima di reale rispetto, fra due generazioni diverse.
Alcune mie esperienze personali (fatte da studente) possono dare sostegno a queste mie brevi osservazioni. Voglio ricordarle, per pagare un debito di gratitudine. L’esperienza meno gradita, ma che oggi considero utilissima, risale al terzo anno di liceo. Liceo scientifico, ora di Italiano. Libro di testo, un classico di quell’epoca: Disegno storico della letteratura italiana di Natalino Sapegno: un “mattone” che guidava i giovani lettori dal XIII secolo al dopoguerra. Come alle elementari, per quasi tutto l’anno, leggemmo ad alta voce in classe l’introduzione. Poche righe al giorno, esasperati dalle domande del professore: “secondo voi, perché questa frase è scritta così e non cosà?”, “secondo voi, a quale tradizione culturale il Sapegno aderisce commentando in questo modo questo fatto?”. E così via. Giorno dopo giorno. Due palle così! Tuttavia, a distanza di anni, so di dovere a quel professore la capacità di capire “al volo” di cosa tratta un libro, quali presupposti implica e dove va a parare. Quel professore mi ha aiutato anche a pensare che le parole scritte non sono “cose da imparare”, ma “ponti” che collegano il mondo di chi scrive al grande mondo della cultura e al mondo personale di chi legge.
Un’esperienza più piacevole e altrettanto utile risale al quarto anno di liceo. Ora di fisica, pausa di chiacchiere con un professore di mentalità aperta, simpatico, progressista, (l’opposto del primo). Ci chiede cosa facciamo quando studiamo un testo e noi cominciamo a cercare la risposta migliore: i più “tecnici” espongono i loro modi di immagazzinare dati, i più disciplinati sottolineano l’importanza di studiare la “sostanza” del libro e non i semplici fatti riportati, i più “svegli” parlano della necessità di collocare ciò che l’autore scrive in un tessuto sociale. Il professore ci risponde che, studiando così, a trent’anni saremo molto fragili culturalmente, perché comunque avremo dimenticato quel libro, i suoi contenuti profondi e anche la sua “collocazione storica”. Attimo di silenzio: tutti a martellarci le meningi per trovare il pezzo mancante. Poi il professore dice che il libro è stato scritto per dimostrare qualcosa. Per noi costituisce una sfida: ci convince o no? Dimenticheremo tutto, ma non le nostre convinzioni, quelle maturate riflettendo sulle tesi degli altri e anche sulle tesi dell’autore di quel libro. Un filosofo usa argomentazioni più o meno logiche e uno scienziato fa esperimenti più o meno accurati sulla base di premesse più o meno convincenti. In ogni caso, se comprendiamo come una persona arriva ad una conclusione, quella conclusione diventa nostra, oppure viene scartata e rafforza un’altra nostra convinzione. Magari per noi è solo un punto di partenza, ma solido. Se dimentichiamo l’argomentazione o l’esperimento possiamo sempre recuperare il testo, ma senza convinzioni nostre non sapremo mai in quale direzione andare. Cose ovvie, ma capaci di stordire a diciassette anni, dopo vari anni passati ad imparare “come si fa” la gamba della “b” in prima elementare e ad imparare negli anni successivi “cosa ha detto Tizio” e “cosa ha detto Caio”.
L’esperienza più importante e rilevante sul piano della mia formazione personale, oltre che su quello della mia formazione intellettuale risale allo stesso periodo: ultimo anno del liceo e primo anno di università. Un altro professore, non un mio professore. Nei mesi estivi era sempre nel giardino della sua casa ed era regolarmente assediato da giovani che cercavano sollecitazioni, consigli, provocazioni sulle cose del loro mondo e della loro vita. Aveva sempre tempo per tutti, aveva sempre la parola giusta per ognuno. Era credente, ma estraneo a qualsiasi integralismo o bigottismo. Parlava con passione di Don Milani e della scuola, così come parlava di Vance Packard e dell’incubo della pubblicità. Parlava di Papa Giovanni, di Kennedy, della rivoluzione culturale e di poesia. Soprattutto ascoltava. Ascoltava i ragazzi incazzati con la società, i ragazzi smarriti nella società, i ragazzi che non sopportavano i preti e quelli che si domandavano se diventare sacerdoti. Non era “accomodante” perché aveva idee ben precise su tutto, ma era tollerante perché capiva che la crescita interiore di ogni persona era un’unica grande occasione per quella persona e per tutta l’umanità. Mi spiace non essere mai andato a salutarlo all’ospedale quando stava morendo a meno di quarant’anni, perché sento una gratitudine immensa per questo “padre” che ha vegliato su di me negli anni fragili e aspri in cui stavo entrando in un mondo per me troppo difficile. Fino all’ultimo ai ragazzi che lo andavano a trovare ha parlato della loro vita e non della propria morte. In quel periodo, però, ero entrato pesantemente in conflitto con le sue idee religiose e non mi sentivo di discutere con lui queste cose mentre stava andando via. Rinviavo di settimana in settimana, ma poi il tempo è scaduto. Questa mia esitazione mi aiuta a non disprezzare le persone che agiscono con "vigliaccheria", e mi aiuta anche a prendere di petto le cose, almeno oggi.
Non riporto i nomi dei miei due professori per semplice discrezione: non sono personaggi pubblici da dover citare. Non riporto il nome del terzo professore per rispetto. Era conosciuto in alcuni ambiti e qui voglio solo ricordare che lui mi ha fatto del bene e non che io ho avuto il privilegio di frequentarlo. Citandolo farei onore a me e non a lui, che sarebbe stato un angelo anche senza incontrarmi.
Un’altra esperienza risale alle elementari, al secondo anno. Il maestro era malato e noi fummo smistati in varie classi. Capitai in una classe in cui l’insegnante era un uomo molto alto, robusto e con una voce tonante. Faceva lezione chiedendo ad un bambino di leggere il libro e poi chiedendo ad un altro di proseguire, per far leggere qualche riga a tutti. Già leggere non era facile per chiunque, ma stare attenti in quel clima noioso era davvero difficile. Noi “visitatori” non partecipavamo a questa cosa e dovevamo semplicemente stare zitti. C’era però un bambino con il mio stesso nome che non era mai pronto quando doveva continuare la lettura dopo l’ultima interruzione e il maestro pronunciava il suo nome con un tono di rimprovero che mi atterriva. Io sapevo di non essere l’oggetto della furia di quella divinità, ma ero piccolo e stavo malissimo sentendo il mio nome urlato in quel modo. Chiesi di andare in bagno e mi rifugiai nella stanzetta delle bidelle, dove trovai “la Pippa” (diminutivo di Giuseppina). Mi vide pallido e mi chiese cosa fosse accaduto. Mi spiegò che quel maestro era una buona persona anche se aveva la voce grossa. A volte perdeva la pazienza, ma non faceva mai niente di male. Mi offrì una tazza di latte e mi disse che potevo telefonare a casa per farmi venire a prendere da qualcuno. Ciliegina sulla torta: avrebbe informato lei il maestro. Mi salvò la vita. Mio padre ebbe l’ottima idea di prendermi per mano, senza commentare in alcun modo la mia paura.
La gratitudine è un sentimento bellissimo. Bellissimo per chi prova gratitudine e non solo per chi la riceve. Inoltre la gratitudine “non va a peso”. Si può confrontare l’intervento di un professore che incide su tutti gli studi di una vita con due parole buone di una bidella che parla con dolcezza mentre riempie una tazza di latte? Si può confrontare un melone con un chicco d’uva? Il peso è misurabile, ma non il sapore. Gli adolescenti hanno bisogno di sapori buoni, ma purtroppo gli adulti non ricordano più quel bisogno. Vogliono solo che i loro figli o nipoti o allievi crescano in fretta e pensano alle quantità e alle calorie dell’educazione. Un incubo. Il bene però ha una cosa in comune con la zizzania: non scompare mai. Su questo possiamo contare. Noi adulti non dobbiamo sottrarci alla possibilità di dire una parola buona al momento giusto e quindi alla possibilità di rendere migliore tutta la vita di un’altra persona che sta crescendo. Gli adolescenti hanno bisogno di adulti con convinzioni solide (non rigide). Hanno bisogno di essere aiutati a sentire e a capire che la loro vita è preziosa, anche se purtroppo non ha valore per molta gente. Hanno bisogno di sentire e di capire che essa è importante per qualcuno e che può essere importante per loro.
2. Il tempo vissuto e il tempo raccontato
“Avrà forse sapore di noi il cosmico spazio in cui ci dissolviamo?”
(Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi)
Il timore espresso da Rilke di non lasciare una traccia (“sapore”), così come quello espresso da Karen Blixen di non essere ricordata dai nativi, dagli animali e dalle montagne del Kenya, una volta tornata in Europa (cfr. il film La mia Africa di Sydney Pollack, tratto dal suo libro), si radica nel bisogno o nel desiderio degli esseri umani di essere rispecchiati, ascoltati, capiti dagli altri. Un bisogno o desiderio che ha manifestazioni complesse, a volte estremamente serie (la ricerca di una condivisione di interessi profondi o di un’intimità sessuale ed emotiva), e altre volte banali, anche se soggettivamente pressanti (l’esigenza di “parlare di niente” o di “cercare compagnia” per non sentire “la solitudine”). Un bisogno o desiderio che vari filosofi hanno collegato alla “autenticità” della relazione con “l’altro” e su cui molti psicologi hanno versato fiumi di inchiostro. L’idea di raccontare ciò che siamo e l’idea di “esistere davvero” grazie alla presenza di qualcuno che conosce il nostro pensare, il nostro sentire, il nostro fare, è un’idea profonda per certi aspetti e ingannevole per altri. Sicuramente è un’idea che trascende i concetti di tanti studi sul linguaggio e sulla comunicazione. Riguarda la nostra sensibilità, la nostra percezione di noi stessi e la nostra valutazione di cosa stiamo a fare in questo sperduto angolo dell’universo. Il “raccontarsi” è condizione di possibilità dell’incontrarsi davvero, ma appena viene inteso come esperienza che dà un senso all’esistenza personale, si traduce facilmente in modalità relazionali manipolative e consolatorie.
Prima di approfondire la questione voglio riportare un brano tratto da Le rose di Atacama, di Luis Sepulveda che alcuni anni fa mi ha costretto a riflettere su questo tema. L’Autore inizia il libro riportando una sua visita al lager di Bergen Belsen, in Germania. “In un angolo del campo di concentramento, a un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori, nella ruvida superficie della pietra, qualcuno, chi?, aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse, o di un chiodo, la più drammatica delle proteste: ‘Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia’ (…) Credo di aver letto un migliaio di libri, ma mai un testo che mi sia parso così duro, così enigmatico, così bello e al tempo stesso così straziante come quello inciso nella pietra”.
Dopo aver letto questo brano, mi sono chiesto se con quel chiodo in mano avrei scritto le stesse parole e la mia risposta è stata negativa. Avrei scritto con rabbia, con dolore e anche con l’idea di regalare qualcosa ad un lettore del tempo a venire, una frase come questa: “Hanno il potere di uccidermi, ma non quello di rendermi arido come loro”. Oppure avrei lanciato un grido di lotta come questo: “Nessuno dovrà dare mai più il potere a coloro che non sanno ciò che fanno”. Forse avrei anche manifestato una dignitosa sfida come questa “Questa notte sono riuscito anche a ridere di cuore con gli amici, dopo aver pianto. Due cose che chi muore dentro, soffocato da una svastica, non sa fare!”. No, non avrei pensato alla mia storia non raccontata, dato che non ci penso mai. Nella mia storia ci sono cose delicate che non posso raccontare senza avere la certezza di essere compreso. Pur non avendo cose da nascondere, non voglio dire tutto a chiunque. Questo fatto non mi crea problemi. Non mi sento “incompiuto” in quanto non perfettamente conosciuto. Mi basta conoscere e conservare con cura le cose più “mie”. Racconto a volte (anche nel mio lavoro) dei pezzi della mia storia, come racconto pezzi della storia di persone che conosco, ma solo perché penso che in tali occasioni quei fatti possano sollecitare riflessioni utili. Ogni compagna della mia vita ha saputo tutto il “prima” e ha condiviso il resto, finché c’è stata condivisione, ma ho percepito la mia vita come una cosa integra anche nei (lunghi, a volte) periodi trascorsi senza una compagna, e quindi senza nessuno che “sapesse tutto” di me. Non mi avrebbe quindi creato disagio a Bergen Belsen il fatto di morire senza testimoni. Mi avrebbe creato disagio e soprattutto dolore il fatto di vivere oppresso e di dover morire, per la volontà di persone folli, ma purtroppo più forti di me. Eppure il grido scolpito in quella pietra mi ha scosso, se da anni ci penso. Dice qualcosa anche a me, come dice qualcosa, forse, a chiunque.
La nostra storia personale inizia con un’esperienza di radicale incompiutezza e questo fatto determina l’importanza dei primi incontri e scambi emotivi dopo la nascita, nell’infanzia e negli anni dell’adolescenza. I neonati sentono tutto e non capiscono nulla. Gradualmente, crescendo, sviluppano la capacità di leggere la realtà, ma occorre molto tempo prima che un bambino riesca a pensarsi come “qualcuno”. Fino ad allora, in pratica è un “flusso di pensieri e sensazioni”: funziona come un romanzo espressionista. Funziona così non per scelta o per preferenza poetica, ma per l’impossibilità di fare di meglio. L’autocoscienza è una conquista preziosa: consente la comprensione di sé come soggetto stabile nel tempo ed anche come oggetto di auto-comprensione. Prima di acquisire l’autocoscienza possiamo solo “essere compresi” oppure “sprofondare”. La presenza di qualcuno che ci "sostiene" e che rispecchia i nostri movimenti espressivi costituisce un'esperienza importantissima che non solo ci gratifica, ma ci permette di sentirci “al sicuro”. Cominciamo quindi a vivere “appoggiati” alla madre e poi ad entrambi i genitori e solo in seguito, diventando coscienti di noi stessi e “radicati” in noi stessi, abbiamo la possibilità di “incontrare” le persone concependole come “persone-altre-da-noi”. L’incontro con le altre persone, nella vita adulta costituisce un prezioso ambito di esperienza, anche se non ha nulla a che fare con quel senso di “bisogno” che lo accompagnava nell’infanzia: può risultare utile o piacevole e può arricchire la nostra vita. Non è però un “nutrimento” come per i neonati ed i bambini, dato che è un’opportunità. Ha a che fare con la curiosità, il desiderio, la creatività, l’amore, ma non con il bisogno.
Esiste uno stretto intreccio fra gli intoppi nello sviluppo psicologico individuale e i modi di pensare e agire “difensivi”, volti cioè a non sentire vissuti dolorosi che nell’infanzia non erano tollerabili. Una volta divenuti adulti non abbiamo alcun “bisogno” di raccontare nulla. Abbiamo la libertà (non la necessità) di raccontare cose e anche di “raccontare noi stessi”. Se però sentiamo ancora quel bisogno, anziché tentare inutilmente di soddisfarlo, dobbiamo avere un po’ di compassione per noi stessi, per tale bisogno apparente (non reale, ma realmente sentito) di essere ascoltati e quindi “salvati” da una presenza attenta a noi. Un bisogno irrimediabilmente doloroso nella vita adulta, perché soddisfacibile (e in genere non adeguatamente soddisfatto) solo nell’infanzia.
Se tutti noi portassimo nel cuore la compassione per quel dolore e versassimo le nostre lacrime, non solo non cercheremmo di “raccontarci” in modi inopportuni ("attaccare bottone" in autobus, raccontare migliaia di barzellette, fare interventi inutili in riunioni o convegni, scrivere romanzi depressivi, esibirci in programmi televisivi demenziali), ma avremmo più rispetto per noi stessi e per gli altri. Finiremmo inevitabilmente anche per raccontare cose interessanti (per gli altri) e soprattutto per fare cose costruttive. L’idea di essere animali sociali è diversa dall’idea di essere animali cannibali. La comunicazione divorante (a volte garbata, tollerata da tutti perché “normale” anche se banale e a volte sgarbata, intrusiva e quindi “sopportata” o respinta) si stabilisce quando “l’altro” è considerato come un “oggetto”, nel senso di “oggetto che ascolta”, e non viene considerato come un “soggetto”. Trattare gli altri come soggetti non è una normale abitudine degli esseri umani, proprio perché l’esigenza irrazionale di rosicchiare l’attenzione altrui è un male endemico radicato in una infanzia normalmente incompiuta. In genere la fame di “conferme” o di “ascolto” (tutte cose indispensabili e in genere non ottenute dai bambini), spinge a volere, anche dopo decenni, qualcosa “dal primo che passa” (inteso come semplice “distributore-di-attenzioni”). Parlare è invece una bella esperienza, un’esperienza creativa e costruttiva proprio se si tiene presente che l’interlocutore è “qualcuno”, cioè una persona. Qualcuno con cui “fare” qualcosa di gradito ad entrambi. Già, questo è il punto: i bambini non hanno nulla da “fare”, a parte crescere e per crescere hanno bisogno di “ricevere” conferme. Il tempo vissuto di un bambino è un “tempo passivo” riempito da altri. I bambini inevitabilmente considerano gli altri come oggetti (buoni o cattivi), mentre gli adulti (se non fanno i bambini) hanno bisogno di capire se gli altri sono soggetti “compatibili” o “incompatibili.
Purtroppo normalmente le persone “fanno cose ieri”, cioè compiono nel mondo di oggi, azioni giustificate con mille scuse, ma finalizzate ad ottenere risposte che servivano solo nell'infanzia. A che serve lavorare quando non si ha più bisogno di soldi? A sentirsi “importanti”: ma a quale età? A che serve aspirare a ruoli pubblici quando non si ha nulla da offrire? A sentirsi “visti”: ma a quale età? A che serve fare del male agli altri, umiliarli, sfruttarli? A sentirsi “forti”: ma a quale età? Ovviamente esiste un abisso fra chi organizza delle “ronde” per alimentare la xenofobia e chi semplicemente “attacca bottone” in autobus. Esiste un abisso fra chi sfrutta il lavoro minorile, organizza attività criminali, scatena guerre e chi racconta qualche balla per sembrare “figo”. La malvagità, aggiunta alla normale irrazionalità è disastrosa, ma è comunque segno di una trasposizione nel presente di vissuti antichi di bisogno non compresi e non accettati come dolorosi. In altri termini, l’ordinaria follia degli adulti nelle relazioni interpersonali e nella dimensione sociale è comprensibile solo se riferita ad un’infanzia priva di sicurezze di base e mai superata.
A questo punto dobbiamo riflettere molto seriamente sul nostro bisogno di raccontare la nostra storia. Vogliamo permettere agli altri di conoscerci per valutare la possibilità di fare cose buone con loro? Oppure vogliamo solo “farci accogliere e salvare” da qualcuno che “deve sapere che ci siamo”? La scelta fra comunicazione costruttiva e comunicazione “divorante” determina conseguenze immediate e a lungo termine. I due tipi di comunicazione attraversano la realtà delle relazioni interpersonali, ma anche le manifestazioni della cultura di massa, dell’arte, della filosofia, della politica. Molte persone dichiarano spudoratamente di avere moltissimi amici: provate a chiedere quanti di tali “amici” rischierebbero la vita per loro o farebbero delle gravi rinunce per loro e verificate cosa tali persone vi rispondono con lo sguardo, prima che con le parole. Molte persone affermano di avere una vita sociale molto intensa. Provate a chiedere a queste persone cosa fanno nella loro “vita sociale”. Costruiscono qualcosa o ammazzano solo il tempo fra un aperitivo, un pettegolezzo e una frase seria detta solo per mostrare di aver letto il libro che “hanno letto tutti”?
La mancanza di compassione per sé e per la solitudine da cui si è emersi a fatica, limita la compassione per gli altri e limita la disponibilità a considerare sacre le persone, tutte le persone. La compassione è la benzina della vita. La voglia di “farsi accettare”, invece, produce buone accelerate, brevi corse, ma immancabilmente ci fa restare a piedi. La compassione ci porta lontano e ci porta lontano in compagnia di noi stessi. Ci aiuta anche ad incontrare davvero gli altri.
3. Sognare realisticamente in grande
“E’ una strada lunga, quella alle mie spalle (It’s a long road behind me)
è una strada lunga, quella che ho di fronte (it’s a long road ahead).
Se insegui tutti i tuoi sogni (If you follow every dream)
puoi anche perderti (you might get lost).”
(Neil Young, The Painter, in Prairie Wind)
Ci spostiamo sempre, anche restando fermi. Ci spostiamo in continuazione nel nostro spazio interno e nel tempo. Non riusciamo mai ad afferrare una sensazione perché, appena tentiamo di farlo, vediamo che è già fuggita nel passato ed è stata sostituita da un’altra. Non riusciamo mai a fissare alcun pensiero nella sua immediatezza, perché appena nasce corre via, nel flusso della memoria. Fra la memoria di ciò che è già stato e la previsione di ciò che può essere, sentiamo ogni attimo della nostra vita come “inconsistente” perché già destinato a divenire storia personale. Eppure esistiamo tangibilmente, calati sia nella realtà delle cose che ci circondano, sia nella realtà del nostro mondo soggettivo. Di fatto siamo sempre in movimento, sempre sospesi nel labile presente che unisce un definitivo passato ad un probabile futuro. Questa è quella realtà non perfettamente concepibile su cui rimuginano i nostri compagni di strada da millenni e a cui ognuno di noi aggiunge una piccola riflessione. E mentre facciamo ciò entriamo in un futuro che presto diventerà passato.
In ogni momento della vita definiamo il nostro futuro proprio rimaneggiando il nostro passato. L’aspetto più importante del nostro presente è proprio questo rimaneggiare il passato. I nostri progetti (costruttivi o distruttivi), relativi al futuro immediato o al futuro lontano, dipendono da ciò che abbiamo “ricavato” dal nostro passato. Tuttavia, non è il nostro passato in quanto tale a determinare il nostro futuro, perché solo la nostra particolare interpretazione e utilizzazione del passato ci consente di costruire un particolare futuro. Il nostro tempo è sempre vissuto, ma è vissuto nei modi consentiti dalle nostre convinzioni razionali e dalle nostre illusioni, dalle nostre aperture emotive e dalle nostre chiusure emotive. L’attività con cui ogni giorno (in modi creativi o rigidi) ricapitoliamo il nostro passato, e con cui costruiamo ogni giorno un pezzettino di futuro, può essere definita in modo asettico come “elaborazione dei dati in funzione di una progettualità”, ma io preferisco definirla in modo un po’ ingenuo e magari “poetico” con l’espressione “sognare il futuro”. Noi umani siamo stati definiti animali razionali, animali sociali, esseri spirituali e persino “bipedi implumi”, ma io preferisco pensare agli esseri umani come ad esseri sospesi fra la nascita e la morte intenti a realizzare i loro sogni. In questa prospettiva, abbiamo la libertà di realizzare sogni o di perderci nei sogni, per usare le parole d’apertura di Neil Young. Lo “spazio” in cui possiamo sempre procedere con noi stessi o smarrirci è una cosa molto delicata definita più dalle sfumature che dai tratti. Come i quadri di Turner.
Perché possiamo “perderci” nei nostri sogni? In quali casi i sogni risultano un vortice che ci cattura e in quali casi sono invece un faro che ci guida a destinazione? La parola “sogni” mi piace proprio perché ha un’ambiguità che ci permette di pensare sia ai sogni costruttivi (si pensi ad “I have a dream” di Martin Luther King), sia ai sogni distruttivi come quelli che identifichiamo quando diciamo che un tale è solo “un sognatore inconcludente”. Credo che i sogni che ci guidano positivamente nella costruzione di un buon futuro siano “sogni d’amore”. Sogni d’amore per noi e per gli altri, dato che le due cose procedono sempre assieme. Se dai successi e dagli errori del passato (che hanno comunque determinato gioie e dolori) ricaviamo rispetto e compassione per noi stessi, possiamo cercare di esprimere il meglio di noi stessi e in questo modo possiamo “sognare” e poi costruire (per quanto dipende da noi) un buon futuro. Se invece dai successi e dagli errori del passato (che hanno comunque determinato gioie e dolori) ricaviamo l’idea di non voler rischiare alcuna sofferenza profonda, possiamo solo fare “sogni non nostri”; possiamo solo cercare illusioni o “sicurezze”, ma così facendo rinunciamo ad esprimere fino in fondo le nostre potenzialità.
Amare significa voler bene, cioè volere il bene: l’amore ha come priorità il fare cose buone ed implica solo in seconda battuta l’evitamento dei dispiaceri. Se la casa è in fiamme, un genitore cerca di uscire con il figlio, non cerca di uscire al più presto. Ora, quante volte facciamo il bene dei nostri figli e quante volte facciamo delle sciocchezze che a loro fanno male? Non solo: dato che ognuno di noi è il primo “figlio” di se stesso (nel senso che, da adulti, noi siamo affidati prima di tutto a noi stessi), quante volte facciamo il nostro bene e quante volte facciamo sciocchezze che ci fanno male? Se riflettiamo un attimo, ogni volta che facciamo del male siamo spaventati da qualcosa (magari da pregiudizi sballati derivati erroneamente delle esperienze già fatte). La paura irrazionale limita la nostra disponibilità verso chi amiamo (i figli, il/la partner, noi stessi, gli altri). Fare del male non è piacevole, nemmeno quando produce potere, ricchezza o notorietà. Le persone che fanno del male sul piano interpersonale o sul piano sociale e politico sono persone infelici. Vanno combattute, ma prima di tutto vanno comprese come delle persone perdenti: non fanno del bene perché non hanno capito niente del loro passato, sono accecate dalla paura e riescono solo a dire assurdità allo scopo di giustificare le azioni che rendono infelici loro stesse e gli altri. I sogni “distruttivi” possono essere sogni grandiosi o “rattrappiti”. Le persone non fanno sogni grandiosi o rattrappiti per stupidità, ma perché hanno deciso di fare quei sogni in un momento delicato della loro storia personale (l’infanzia), in cui il contatto con la realtà era troppo doloroso. Non sanno quindi sognare perché non sanno perché fanno ciò che fanno.
Una delle cose più belle dell’età adulta è la capacità di tollerare il dolore. Non sto dicendo che sia bello attraversare il dolore, ma sto dicendo che è bello sapere di poter mantenere una completa integrità anche nei momenti più dolorosi. Tale consapevolezza ci rende liberi, non ricattabili e realmente forti. Più forti di chi accumula potere per causare dolore agli altri e per proteggersi da un passato umiliante non accettato. Gli adulti hanno una notevole autonomia, anche se spesso non ne tengono conto. Possono, più dei bambini, evitare alcune situazioni dolorose perché possono ritirarsi da rapporti o situazioni spiacevoli. Possono anche combattere con più forza dei bambini. Ma se non possono né fuggire né combattere possono comunque accettare, elaborare, attraversare e superare i dispiaceri inevitabili. Possono quindi risparmiarsi i “trucchi” con cui, di fatto, molta gente scappa mentalmente facendo sogni assurdi. Potendo elaborare il dolore, gli adulti possono “sognare realisticamente” e possono anche “sognare in grande”. Ciò rende la vita un’avventura anziché uno spot pubblicitario reiterato fino alla nausea. Per questi motivi, possiamo sognare una vita “buona” in quanto realmente “nostra”. Fare sogni realistici e grandi comporta molte delusioni, ma rende possibili delle grandi soddisfazioni. Se fossimo consapevoli di tutte le valutazioni che facciamo mentre diamo forma ad un sogno, faremmo solo sogni sensati, ma purtroppo molte volte facciamo valutazioni errate in piena incoscienza.
Un sogno, che mi ha accompagnato dall’adolescenza in poi, e che da allora continuo a realizzare giorno per giorno (con esiti oggettivamente modesti, anzi, microscopici, ma “miei”), ha le sue radici nel modo in cui ad un certo punto della mia vita ho inquadrato il mio passato (di allora). A circa diciassette anni, alla fine degli anni ’60 i “grandi” del mio liceo facevano discorsi "nuovi" e comunque tali da rendere necessarie anche delle scelte pratiche: richiedere l’assemblea generale degli studenti? partecipare a degli scioperi? occupare la scuola? La situazione era tale da rendere una scelta anche il non fare nulla. Mi tuffai nei libri, nei giornali, nelle riviste. Era in ballo anche un’eventuale, possibile, ipotetica contestazione di tutto “il sistema”. Prima non mi ero accorto che ci fosse un “sistema”, eppure cominciavo a capire che ciò che succedeva nelle piazze era collegato a ciò che succedeva nelle fabbriche, e che ciò che succedeva in Italia aveva a che fare con ciò che succedeva negli Stati Uniti, in Uruguay o in URSS. Un bel pasticcio. Mi avvicinai al Movimento Studentesco, da “pulcino”, ma deciso a capire meglio e a fare ciò che potevo.
Ora so che quello era l’inizio di un lungo viaggio, ma allora era solo il mio presente ed era un presente intriso di sogni che riguardavano me e tutti gli altri, sia che fossero amici, o “fratelli”, o “compagni”. Cominciai a prendere mattoni del mio passato, già usati per costruire un carcere, e cercai di riutilizzarli per costruire un teatro. In tutto il discorso sul “sistema” c’era un concetto che mi intrigava e mi inquietava particolarmente: il concetto di “demistificazione”. L’idea che molte idee o ideologie o consuetudini “mistificassero” qualche “vera realtà” mi affascinava perché, prima di quel momento, avevo vissuto con disagio molte esperienze che, se “demistificate”, forse sarebbero risultate per me finalmente comprensibili. Tutto però era confuso. Infatti il problema si radicava proprio nella confusione che avevo da sempre respirato nella mia famiglia. Nella mia famiglia, spesso, le cose che percepivo come spiacevoli venivano descritte come giuste e alcune cose che percepivo come piacevoli e molto importanti venivano svalutate. Fin dagli anni dell’infanzia queste cose mi avevano creato disagio e volevo capire "le cose" per fare dei sogni "miei".
Perché racconto questa storia? Racconto la storia perché il tema è la costruzione del futuro sulla base dell’elaborazione del passato. La mia prima psicoterapia (negli anni delle scuole medie) non funzionò. La formazione freudiana dell’analista non poteva produrre alcuna comprensione sensata del mio disagio. Tuttavia, a parte la mania dell’analista di trascrivere con molta cura tutti i resoconti dei miei sogni, la pazienza di tale persona adulta nell’ascoltarmi senza contraddirmi e senza spiegarmi quanto fossero belle le cose brutte o brutte le cose belle, mi aiutò ad avere più fiducia in ciò che sentivo. Qualche ansiolitico in dosi minime e la tempesta ormonale fecero il resto. Riuscii a riprendermi in tempo per non perdere l’anno scolastico e consolidai alcune certezze. Pur non avendo ricavato da quell’esperienza alcuna illuminazione “profonda”, trovai il modo di crescere. Più avanti, da adulto, una buona analisi (non freudiana) mi aiutò a chiarire gli aspetti di me non chiariti da ragazzo, ma la mia prima vera ricerca consapevole di qualche “illuminazione” sulle cose della mia vita personale e della società in cui vivevo, iniziò proprio alla fine del liceo con quella storia delle “mistificazioni”. In quella fase cercai di collegare alcune cose: a) il fatto che si possono avere sintomi che nulla hanno a che fare con la vita reale di cui si è coscienti, b) il fatto che i miei genitori (in perfetta buona fede) avevano detto e dicevano cose che erano contraddette dalla realtà, c) il fatto che ideologie consolidate (come il liberismo o la dottrina sociale della chiesa) giustificavano un assetto sociale che produceva delle palesi ingiustizie, d) il fatto che varie filosofie o “scienze sociali” tentavano di spiegare molte cose, ma paradossalmente milioni di persone sfruttate non comprendevano il loro sfruttamento e adoravano personaggi politici completamente inaffidabili o alti prelati che sguazzavano nell’oro. In quel periodo della mia vita decisi di “demistificare” tutto il possibile. Decisi di rispettare i miei sentimenti, i fatti e i buoni ragionamenti. Decisi di avvicinare gli altri per migliorare una società che consideravo inaccettabile e che era formata da persone che immaginavo potessero aver bisogno, come me, di migliorare la loro vita.
Mi occupo ancora dell’irrazionalità individuale e sociale. Ci sto ancora male perché vedo ogni giorno che la sofferenza degli esseri umani deriva in gran parte dalle convinzioni demenziali della gente, non dai virus o dai terremoti. Anzi, non riusciamo ad affrontare adeguatamente queste minacce naturali alla nostra incolumità proprio perché siamo stupidamente dediti a costruire bombe atomiche, a invidiare i vicini di casa e a “spararci in vena” il Festival di S. Remo. Le famiglie continuano ad apparire meravigliose anche se sono disastrose, le fedi religiose continuano ad essere vendute come “robe spirituali” (mentre calpestano la dimensione interiore con il moralismo e il dogmatismo) e la politica continua a tutelare interessi particolarissimi ipnotizzando persone sprovvedute con idee che qualsiasi marziano di media intelligenza considererebbe bizzarre. Purtroppo, i sogni che è facile condividere sono sogni poveri.
Le nostre convinzioni non si formano a causa del passato o a causa di qualche sollecitazione attuale: noi rispondiamo attivamente alle sollecitazioni attuali utilizzando ciò che abbiamo compreso o frainteso del nostro passato. Non possiamo non sognare, ma se facciamo sogni che producono infelicità dobbiamo chiederci quale fetta (dolorosa) del nostro passato stiamo cercando di non accettare. Da quel che sono riuscito a capire, solo in questo modo possiamo sognare in grande, senza smarrirci.
4. Su Randy Pausch e sulla morte
Max - Non dobbiamo chiudere occhio tutta la notte.
Peggy - ...O ci sveglieremo trasformati in qualcosa di inumano.
Max - Molte persone perdono poco a poco la loro umanità, senza accorgersene. Non così all'improvviso, dalla sera alla mattina. Ma la differenza è poca. (...) Ci si indurisce il cuore giorno per giorno. Solo quando dobbiamo lottare per difendere la nostra umanità ci accorgiamo di quanto valga, di quanto ci sia cara.
(D. Siegel, L'invasione degli ultracorpi)
Randy Pausch ha incontrato la morte, ancora relativamente giovane e “impreparato”, ma ha trovato il modo di vivere nel modo migliore i pochi mesi che gli restavano. Già che era all’opera, si è concesso il lusso di fare un regalo a tutti noi, con il video della sua ultima lezione all’Università e con il libro L’ultima lezione – La vita spiegata da un uomo che muore. In genere, le persone affrontano la morte in modi molto diversi. Rifiutano la realtà, sentono collera, cadono in depressione e alla fine, se superano tutto questo caos, cominciano ad accettare la realtà. Persino psicologi come Elisabeth Kubler-Ross considerano normale questo modo di gestire il tempo personale che resta, senza specificare che è normale solo nel senso statistico del termine. Nel senso in cui sono cose normali le guerre, il terrorismo, lo sfruttamento, la corruzione, il razzismo, l’indifferenza o la violenza nei rapporti di coppia e nei rapporti fra genitori e figli. Rispetto a questa normalità abbiamo però la possibilità di manifestare un dissenso, di vivere meglio e anche di morire meglio. Pausch, non aveva già “frequentato” la morte assistendo persone care in fin di vita, né aveva assimilato la saggezza delle migliori filosofie, ma nel momento decisivo si è trovato pronto, perché aveva fatto le esperienze necessarie per affrontare qualsiasi situazione impegnativa sul piano dei sentimenti: l’esperienza di essere stato amato da genitori che avevano rare e semplici qualità, di essere stato guidato nella sua crescita, ma anche di essere stato lasciato libero. Le sue indiscutibili doti intellettive, a mio parere, non sono state importanti per la sua ultima battaglia, perché anche con meno cervello sarebbe morto con la stessa dignità e con lo stesso amore. Io sono convinto che il nostro cervello serva soprattutto agli altri (se lo usiamo per scopi buoni). A noi serve soprattutto la determinazione ad avere rispetto per noi stessi. La storia dolce, dolorosa e anche appassionante di Randy Pausch, dimostra proprio questo.
Alcune persone (che chiamerò “il gruppo dei fortunati”) crescono in un clima di sicurezza e di amore. Crescendo, continuano ad amarsi, diventano capaci di amare gli altri e quindi diventano capaci di vivere una vita buona, comprensibile e appassionante. Nelle situazioni difficili (e la vicinanza della morte è una delle più difficili), affrontano nel miglior modo possibile le difficoltà. In genere, però, le persone (diciamo, “il gruppo di quelli sfortunati”) crescono in famiglie terribili o semplicemente rassegnate al grigiore. Crescono cercando di non sentire che stanno male e che nessuno se ne accorge. Diventano persone adulte che continuano a sentire poco e che, di conseguenza, si amano poco. Come possono amarsi se non conoscono i loro sentimenti più delicati e se dialogano con se stessi superficialmente? Quindi, per non sentire il vuoto in cui sono cresciuti, svuotano tutto il loro mondo interno. Dicono di avere la passione dei viaggi senza capire che i loro viaggi sono solo dei passatempi. Non si regalano altro che delle distrazioni da una vita noiosa che loro stessi creano. Con questa limitazione nel sentire, nel sentirsi e nel curarsi di sé, finiscono per amare poco anche gli altri, e si abituano a considerarli degli oggetti più o meno utilizzabili. Le donne che si lamentano di essere semplici oggetti di desiderio trascurano il fatto che con il loro vittimismo trattano i loro partner come “semplici oggetti di non desiderio”. Le persone che si organizzano la vita in modi “poveri”, trattano quindi il/la partner, gli amici, i figli, e un po’ tutti come oggetti da divorare per "riempirsi" o da respingere per sentirsi "forti". Fregandosene del fatto che gli “altri” sono in realtà dei soggetti e che quindi soffrono ad essere trattati con poco rispetto. La ricerca di una felicità “ottenuta dagli altri” anziché “costruita con gli altri” genera solo inutili frustrazioni. Nella vita vissuta delle persone, la scelta fondamentale è quella fra vivere per “avere” e vivere per “fare”. Decidendo di pretendere dagli altri (intesi come oggetti) la felicità, oppure di impegnarsi con gli altri (intesi come soggetti) per creare felicità, le persone definiscono i loro progetti di vita. Spesso vivono per “avere” e ovviamente non trovano la felicità. Quando sbattono il naso contro la morte, rischiano di rovinarsi anche gli ultimi giorni, dopo aver sprecato in buona parte gli anni precedenti con inutili tormenti, rancori e illusioni.
Altre persone (diciamo, il gruppo dei "semi-fortunati”), prive del bagaglio emotivo consolidato in una buona infanzia, riescono a fronteggiare il dolore e la morte grazie ad un lavoro personale, interiore, di tipo analitico. Il recupero del dolore di tanti anni vissuti in qualche incubo famigliare, permette di sapere che ogni dolore inevitabile è gestibile e permette di affrontare la vita e le persone con la necessaria compassione per sé e per gli altri. La compassione spinge a fare delle cose. Cose buone, per sé e per gli altri. Finché c’è tempo. Pausch non aveva fatto nessun lavoro analitico. Non si era “guardato dentro” perché apparteneva al “gruppo dei fortunati”. Aveva studiato materie scientifiche, ma nella sua professione assolutamente pratica, tecnica, “tutta operatività”, stabiliva dei rapporti belli con i suoi allievi e i suoi colleghi e manteneva un’indiscutibile dignità nei confronti dei superiori quando sentiva di voler tutelare i propri studenti. Essendo cresciuto bene senza alcuno sforzo, viveva una vita buona e cercava di stabilire buoni rapporti umani. Buoni rapporti come quelli sperimentati da bambino o da ragazzino. Un solo esempio può valere per tutti quelli da lui riportati a proposito del rapporto con i suoi genitori.
“E’ sempre stato difficile tenere a freno la mia immaginazione, e a metà delle superiori provai l’urgenza di fare uno schizzo dei miei pensieri in ebollizione sui muri della stanza.
Chiesi a mio padre il permesso.
‘Voglio dipingere delle cose sulle pareti della camera’ dissi.
‘Tipo?’ mi chiese.
‘Cose importanti per me’, risposi. ‘Cose fantastiche. Vedrai’.
Questa risposta si rivelò sufficiente per mio padre. Era questo il suo lato straordinario: incoraggiava la creatività con un semplice sorriso. (…) Mia madre non era proprio d’accordo su questa pulsione creativa, ma cedette abbastanza in fretta”.
Con la sorella e un amico, Pausch compì l’opera. Disegnarono la porta di un ascensore, un’equazione, un’astronave e lo specchio di Biancaneve con la frase “Ti ricordi quando ti dissi che eri la più bella? Mentivo!”. Sul soffitto, la scritta “Sono intrappolato nel sottotetto”, poi un sottomarino, i pezzi del gioco degli scacchi e altre cose. Il suo mondo.
In questo clima famigliare molto sobrio, ma sicuro e caldo, Pausch evitò nell’infanzia tormenti inutili e sviluppò in modo lineare gli strumenti interiori che lo avrebbero, all’occorrenza, aiutato in qualsiasi circostanza a vivere. Tali strumenti, se esaminiamo il testo che ci ha lasciato, sono essenzialmente i seguenti: la capacità di esprimersi, di divertirsi, di piangere, di chiedere aiuto, di rispettare gli altri e di essere disponibile nei loro confronti. Inoltre, il senso della propria dignità, la libertà di sognare, di realizzare sogni, di imparare qualcosa anche dalle sconfitte. Cose semplici ma “corpose” che non richiedono un’intelligenza eccezionale, dispendio di denaro, letture molto complicate. La sua simpatia, generosità e semplicità erano proverbiali come la sua capacità di sollecitare la creatività delle persone con cui lavorava all’università mettendole sia a loro agio, sia sotto torchio.
In genere le persone vivono senza impegnarsi nella costruzione quotidiana di una buona vita e arrivano impreparate alla morte perché hanno molti rimpianti e perché non sono soddisfatte di una vita spesa a rincorrere sogni impossibili. Se pensano alla morte, ci pensano come ad un’esperienza di solitudine, che è l’incubo dei bambini. L’idea è sballata, perché se entriamo nel “nulla eterno”, non siamo nulla e quindi non possiamo nemmeno essere soli. Se invece entriamo in qualche altro piano di coscienza o di esperienza è improbabile che ci arriviamo da soli. Escludendo il paradiso e l’inferno (che non sono ipotesi ragionevoli, dato che implicano una divinità più vendicativa dei vigili urbani con i parcheggiatori indisciplinati), è poco ragionevole anche collegare la morte alla solitudine. Non a caso l’idea della solitudine dopo la morte è attribuita da Dostoevskij, nel libro I fratelli Karamazov ad un bambino morente: “Papà, mentre sotterreranno la mia bara, sbriciola sopra un pezzo di pane così i passeri voleranno da me e io li sentirò e sarò contento di non stare da solo”. Se non si esamina la questione dal punto di vista dei bambini, la morte non è un problema, ma pone con estrema forza il problema della vita, del come vivere. La morte mi infastidisce perché è come un “super coito interrotto” che interromperà le cose belle che starò facendo e quelle che vedrò fare dagli altri (solo alcuni, purtroppo) o che staranno semplicemente accadendo. Tengo presente che dovrò lasciare tutto, ma mi concentro sull’obiettivo di non sprecare i giorni e le ore ancora a mia disposizione. Se il tempo è dato ed è limitato, non va sprecato. Va vissuto. A tutti i costi.
La mia vita è stata più complicata di quella di Pausch, anche se meno tragica, dato che sono più anziano di lui e sono ancora vivo. La vita di Pausch è stata lineare: da una buona famiglia “ricevuta” ad una buona famiglia “costruita”, dall’esperienza di andare a scuola a quella di fare il docente universitario. Nel suo libro parla dei suoi quarant’anni come di un’esperienza non certo superficiale, ma nemmeno tormentata. Quel libro mi ha fatto ripensare alle tappe della mia vita, fatta di cose molto belle, ma anche di terremoti, di crisi, di salvataggi. Di muri da superare, ma con i cocci di vetro in cima. In questo riesame dei miei istanti e dei miei decenni, ho notato che la morte ha quasi sempre avuto un discreto spazio nei miei pensieri coscienti. Da ragazzo, credo nell’ultimo anno del liceo, vidi, partecipando ad un cineforum parrocchiale, Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Un film molto “pesante”, che però lasciò un segno. La discussione fra gli spettatori, dopo il film non fu di grande utilità perché i cervelloni del quartiere spesero parole molto difficili solo per far credere di aver capito molte cose. Io tornai a casa con quel problema della scacchiera e della morte che vuole dare scacco matto. Ci pensai un po’, poi smisi, poi ripresi a pensarci. Poi sentii parlare a scuola un prete. Questo sacerdote buttò lì il discorso della vita “che non ha senso se c’è la morte”. Un’abile manovra per far pensare che la vita acquistasse senso grazie ad una seconda vita (eterna). Io allora non capii che la risposta era sballata, dato che una vita eterna messa a compensazione di una vita assurda suona come una bestemmia: qualsiasi divinità avrebbe potuto fare di meglio al primo colpo. Però avevo circa diciotto anni e rimasi fulminato. Cominciai a leggere libri di filosofia (come se già non bastassero quelli sulla rivoluzione). E lì ebbi la terza “botta”: il libro L’uomo problematico di Gabriel Marcel. Questo filosofo, credente, partiva dal problema di un uomo che viveva in una baracca dopo aver perso tutto ciò che aveva avuto e che aveva considerato come il suo mondo. Marcel si interrogava sul senso della vita di questa persona privata delle sue cose e della sua identità sociale. Scriveva in modo quasi letterario, facendo passare le sue domande attraverso le crepe che il film di Bergman aveva prodotto nella mia coscienza di ragazzo. Mi sembrò un po’ superficiale la sua tendenza a drammatizzare il problema dell’uomo della baracca, dato che rispetto ad un ipotetico “uomo della Ferrari” aveva solo un’angoscia, di tipo economico, in più. Di fatto, l’inquietudine dell’esistere e il problema del senso della vita riguardano sia l’uomo della baracca, sia l’uomo della Ferrari. Divorai il libro, nonostante tale riserva “sociologica”, ma senza capire il tranello finale.
Rileggendo il libro in questi giorni, ho visto, infatti, che il ragionamento di Marcel non fila. Egli fa una carrellata delle idee filosofiche che, dalla Grecia classica ad oggi, inquadrano e cercano di risolvere “il problema dell’uomo”. Le soluzioni, in genere sono risposte a problemi posti da persone ben diverse da Pausch e annebbiate da angosce depressive, sensi di colpa ed altre emozioni strane. Questa roba, una volta generalizzata e ben confezionata intellettualmente sembra molto “profonda”. Il gioco sta in questo: persone che vivono male sono molto inquiete perché sentono di girare a vuoto. Sentono che la loro vita fa schifo e pensano che quella di tutti e anche la nostra faccia schifo; quindi scrivono dei libri per aiutarci. E “ci aiutano” in due modi opposti. Quelli che partono da convinzioni più o meno materialistiche (dagli stoici in poi) ci vendono la soluzione del distacco, cioè quella della (pseudo)accettazione delle sfortune della vita. Quelli più ottimisti, invece, peggiorano il quadro di partenza, svelano il trucco dei superficiali materialisti e quando ti ripresentano la tua vita come un incubo e stai per buttarti dalla finestra, tirano fuori il coniglio dal cilindro: la fede. Lì si è tranquilli perché tutto il disastro è pura apparenza. Purtroppo, la soluzione, anche se intrigante, resta da dimostrare. Poiché non si dimostra, si sostiene con la fede. Piccolo dettaglio: si ha fiducia (fede) per qualche ragione e qui la ragione sta solo nel bisogno di una soluzione. Il libro di Marcel mi colpì, ma rimase non ben digerito. La lettura di alcuni filosofi da lui elencati non mi chiarì meglio le idee. Anzi, mi chiarì meglio le idee, ma non mi convinse della soluzione.
Quando i filosofi parlano del problema dell’esistenza, della finitezza, della morte, del senso della vita, in genere confondono la loro personale difficoltà a vivere, con una problematicità attribuita alla vita in quanto tale. E cercano soluzioni “generali”. Di fatto, non ci sono soluzioni generali ad un insieme di difficoltà particolari. Pausch ha vissuto con cuore e partecipazione la sua vita. Una vita non “problematica”, ma sentita e ben spesa. Quando ha toccato un grande dolore, ha pianto con la moglie e da solo, per sé e per i suoi cari. Poi ha accettato la cosa e ha cercato di vivere nel modo migliore (con quella tristezza) i pochi giorni che gli restavano. Noi possiamo cercare di fare cose buone (accettando il lato doloroso della vita) e solo così possiamo smettere di cercare “significati”.
Da ragazzo non capii questo fatto e annaspai un po’ esaminando le soluzioni filosofiche al problema dell’esistenza. Non riuscivo a vivere bene, ma mi costruivo almeno qualche buona giornata. Ad un certo punto iniziai un lavoro psicologico personale e cominciai a darmi da solo il permesso di vivere una vita che nessuno mi aveva autorizzato a vivere. In pratica scoprii di potermi autorizzare da solo a “dipingere i muri della mia casa”. Percorrendo questo sentiero scomodo ma rispettoso, ho finito per sentirmi meglio con me stesso e ho rinunciato a tentare di “capire” le cose incomprensibili di tanti filosofi. Non a caso sono un tifoso della filosofia analitica che mira a “smontare” gli equivoci filosofici, piuttosto che a "risolvere" i problemi filosofici mal posti. La filosofia non può dare risposte intellettuali a modi di vivere distruttivi. Se si vive male occorre cercare di vivere meglio e non inventare qualche “soluzione”. La morte può portarci via la vita ancora da vivere, ma non quella già vissuta. Questa idea, abbastanza sensata, è quella accettata da tutte le persone che amano qualcosa e qualcuno. Se si ama solo la frenesia di essere amati, si è fregati. Pausch amava i suoi cari, i suoi amici, i suoi studenti e quindi non viveva con “l’angoscia esistenziale”. Conviveva con i limiti della realtà e faceva le cose buone che riusciva a fare. “Scalava i muri”, tutti quelli che riusciva a scalare. Non ha potuto scalare l’ultimo, ma si è arreso rispettandosi e senza smettere di amare le persone che aveva nel cuore. Vivere bene costruendo una vita buona (anziché pretendendo che la vita ci faccia sconti) costa un po’ di dolore per ciò che non va bene e che non possiamo cambiare, ma ci toglie dai piedi la “angoscia esistenziale”.
Se i bambini vengono trattati con rispetto continuano poi a rispettarsi perché non perdono tempo a “dissociarsi”. Lo spiega bene Alexander Neill nel libro Summerhill, che non si trova più in commercio, ma di cui si trova un’edizione parziale intitolata I ragazzi felici di Summerhill). Se invece i bambini vengono trattati male, possono arrivare comunque a trovare un buon equilibrio affrontando, in un lavoro analitico, i loro incubi. In ogni caso, per la strada lineare o per quella complicata, è possibile vivere per costruire un’avventura anziché per sentire “poco”. La mia “teoria” del “fare”, del vivere il tempo a disposizione proprio “facendo”, cioè costruendo la felicità possibile, senza pretendere quella impossibile e senza lamentarsi è solo una linea di pensiero e di condotta, ma funziona. Mi sembra abbastanza in sintonia con alcune “quasi-teorie” che ho trovato in film a me molto cari e meno esasperanti di quello di Bergman: "Due volte in questa vita mi è stato dato di scegliere: da bambino e da uomo. Il bambino ha scelto la sicurezza; l'uomo sceglie la sofferenza. Il dolore di oggi fa parte della felicità di ieri; bisogna accettarlo". (R. Attenborough, Viaggio in Inghilterra). Altri due film mi sembrano davvero importanti: Quel che resta del giorno di James Ivory e La vita è meravigliosa di Frank Capra. Il primo è un incubo a rallentatore: mostra i dettagli di una vita non vissuta. Il secondo mostra invece che qualsiasi situazione merita di essere affrontata e che il rispetto di se stessi e l’impegno per gli altri procedono assieme, se non ci ritiriamo in una distruttiva e passiva protesta.
Un’ultima considerazione sulle idee relative alla morte. A mio parere le concezioni consolatorie non stanno in piedi, perché la morte è una cosa che fa male. Può essere affrontata, ma non annullata o compensata. L’idea che la morte non sia una tragedia per i credenti è semplicemente falsa. Prima di tutto perché i credenti sono davvero pochi e gli altri sono più che altro “appartenenti” ad un gruppo che professa idee su cui quasi nessuno riflette con cura. Le tante persone “pseudo-credenti” evitano il dramma (o il pungolo) della morte non grazie alla fede (che non hanno davvero), ma semplicemente perché (come la maggior parte delle persone non credenti) non ci pensano. Quelle che invece ci pensano, immaginano una seconda vita come quella descritta dalle grandi religioni monoteiste. Tuttavia, questa idea non è affatto rassicurante: le persone che credono a questa seconda vita hanno in mente una seconda possibilità, ma non una certezza, dato che la seconda vita può essere un paradiso ma anche un inferno. Per fuggire dall’angoscia della morte, si angosciano tutta la vita pensando all’inferno. Altre persone, si sentono rassicurate dalla prospettiva della reincarnazione, ma semplicemente perché fraintendono i concetti delle dottrine che suggeriscono questa idea. Nessuna delle tradizionali concezioni della reincarnazione afferma che a reincarnarsi sia la persona che realmente muore, ma il suo spirito, che non coincide affatto con la soggettività della persona in questione. In altre parole, nella prospettiva della reincarnazione, io potrei reincarnarmi come soldato o come collezionista di monete. Il mio spirito si farebbe un altro giro in questa nuova situazione, ma io (Gianfranco) che ora sto pensando alla morte, sarei comunque fregato. Se ho uno spirito, non è come spirito che mi sento turbato dalla morte, ma proprio come soggetto radicato in questa incarnazione. Dal punto di vista limitato in cui ora mi trovo, che non si identifica con il mio eventuale spirito e con tutte le passate e future incarnazioni, il fatto che il mio ipotetico spirito sopravviva, comporta comunque la morte di ciò che ora so di essere. Non mi rassicura lasciare tutto ciò che amo, sapendo che rinascerò, senza ricordare nulla e sentendo un mucchio di emozioni nei panni di un commerciante inglese o di una ballerina russa! Io non sono un commerciante e non sono una ballerina e quindi perderò comunque ciò che mi sta a cuore.
L'idea che ci sia o non ci sia un’altra vita su altri piani di coscienza e di esistenza costituisce un problema importante (che in realtà non appassiona molta gente). La seconda vita che in genere appassiona tante persone è una vita (fra)intesa come rassicurazione e immaginata proprio per non pensare agli attimi e agli anni di un tempo che finirà. Quale che sia il “dopo”, dobbiamo restare “sconsolati” di fronte all’unica certezza che abbiamo: la “nostra” vita (l’unica a cui siamo affezionati) si interromperà. Non ci sono soluzioni ad un problema come la morte, che non è un problema, perché è un fatto. Se non possiamo avere “soluzioni” per il non-problema della morte, possiamo però vivere una vita “nostra”, anziché una vita fatta di distrazioni e passatempi. E possiamo fare cose con l’amore che serve, se prima accettiamo la morte. Una morte che, anche prima del colpo di falce finale, è all’opera. La “morte quotidiana” include i nostri limiti, quelli degli altri, la solitudine di ogni nostra decisione, alcune perdite, alcuni sogni irrealizzabili, ecc. Pausch pensava che la tendenza delle persone a lamentarsi non le potesse rendere più felici e pensava che i muri fossero delle sfide da accettare e non degli impedimenti da subire. Parole belle, semplici di un non filosofo che, con la sua passione per la vita, ci aiuta a capire che solo vivendo una vita “realmente nostra”, possiamo prepararci ad affrontare la nostra morte.
5. Crimini di tempo
Lei - Non ti importa di ciò che pensa la gente?
Lui - Non sono responsabile di ciò che pensa la gente, ma di ciò che sono.
(W. Wyler, Il grande paese)
Racconterò la storia di un amico, che si chiama Walter. Poi chiarirò il motivo di questo racconto. Studiavo all’università, e d’estate lavoravo in una grande azienda agricola a pochi chilometri da Ravenna. Nell’azienda lavoravano molti braccianti, circa una sessantina, pochi uomini e molte donne e Walter organizzava il lavoro di tutti, oltre a lavorare con noi. La frutta doveva essere raccolta già matura, ma non troppo matura. Il lavoro doveva essere svolto nel migliore dei modi e nel minor tempo possibile. In certi appezzamenti si raccoglieva con gli “scaloni”, e io portavo i secchi colmi al “banco” in cui la frutta veniva divisa e sistemata nelle casse; in altri appezzamenti, con gli alberi “squadrati a filari”, la raccolta si faceva con il rimorchio di un trattore, in cima al quale due donne si sporgevano per raccogliere, mentre io impilavo le casse che poi il “muletto” prelevava. Le donne si alternavano fra il lavoro di raccolta e quello di selezione, gli uomini fra quello al trattore, quello al muletto e quello sugli scaloni. Io facevo il lavoro più stupido e più faticoso, poiché non avevo esperienza ed ero giovane. Con me, altri studenti.
C’era un’altra figura nella “catena di comando” dell’azienda: il fattore (Dario). Un omone che teneva in casa una scimmia (simpaticissima), fumava in continuazione e buttava le cicche per terra, sia nel campo, sia a casa. A casa sua, quando andavo a ritirare l’assegno della settimana, camminavo sulle cicche più che sulle mattonelle del pavimento e, ovviamente, dovevo schivare la scimmia. Walter era comunista, mi dava del tu e si faceva dare del tu da tutti, ma tutti lo rispettavano indipendentemente dal suo essere “alla mano”. Dario era fascista del M.S.I., mi dava del tu e si faceva dare del lei da tutti, tranne che da Walter (e dal padrone). In quell’azienda, si seguivano alcune direttive, non scritte ma costantemente rispettate: nessuno si doveva fare male, niente si doveva buttare via, tutti dovevano lavorare per tutto il tempo, salvo nelle pause sindacali, tutti dovevano essere pagati ed essere in regola. Dario seguiva le disposizioni del padrone, ma su tali direttive Walter era d’accordo in modo “appassionato”. Lui non sopportava l’idea che le cose non procedessero nel migliore dei modi. Anche se era in una posizione di responsabilità, non si sentiva mai tenuto ad oziare quando non aveva cose da organizzare per noi. Se aveva un’ora libera, saliva sul muletto o mi aiutava a portare i secchi di pesche. Se una donna si sporgeva troppo dalla scala, le gridava “quella pesca non merita che tu cada per terra”. Una volta guidai il muletto, carico di casse, ma sbagliai la manovra sull’argine della “canaletta”. Il muletto si rovesciò e io saltai fuori in tempo. L’unico suo commento fu “l’importante è che non ti sia fatto male”.
Suo figlio aveva tredici anni, ma sembrava già un ragazzo. Era nella “età difficile”, ma non mi è parso mai in difficoltà con nessuno. Aveva rispetto per tutti quelli che lavoravano. Sedeva di fianco a suo padre nel quarto d’ora dello spuntino e lo ascoltava con l’attenzione con cui i tifosi guardano ogni passaggio della squadra del cuore. Io spesso facevo colazione con Walter e Pietro (un anziano bracciante), perché loro mi avevano in simpatia e cercavano di spiegarmi che la sinistra non doveva frantumarsi. Io portavo con me Il Manifesto, il primo quotidiano finanziato dai lettori, che ogni giorno elencava tutte le sottoscrizioni nell’ultima pagina e qualche volta includeva anche il mio nome: G. Ravaglia, 2.000 lire. Walter e Pietro ascoltavano il mio punto di vista e insistevano sul loro, anche se erano d’accordo su quasi tutte le mie critiche al P.C.I. Walter non era mentalmente chiuso, ma ribadiva che le critiche si dovevano fare “dall’interno”, perché la D.C. era unita nel far guai e solo una sinistra compatta avrebbe potuto impedirglielo. E la sinistra era solo “il partito”. Mi ha sempre rispettato anche se era convinto che io sbagliassi. Lo andavo a trovare a volte a casa in inverno, quando era finita anche la vendemmia e io ero “in pausa” dal lavoro fino all’estate successiva. Una volta, lo andai a trovare con la Luisa, la mia prima ragazza “impegnativa”. Ci offrì un caffè e ci disse “trattatevi sempre bene”. Ma si riferiva soprattutto a me, perché poi precisò che le donne vanno trattate come “il servizio buono” (riferendosi ai piatti del pranzo della domenica). Vanno trattate con cura, perché se “si sbeccano” non è più la stessa cosa. Aveva il pregio di saper dire cose profonde parlando con frasi pensate in dialetto. Sua moglie lo sentì mentre ci versava il caffè e sorrise. Non aveva proprio nulla da obiettare e mi diede l’impressione che anche lei trattasse Walter con la stessa cura.
Walter aveva l’idea che le cose se non sono importanti non si fanno, ma che se si fanno, vanno fatte bene, e infatti il podere era bello come un giardino. Egli avrebbe mantenuto il posto anche lavorando meno, ma aveva la responsabilità del podere e pensava che le cose non dovessero “andare in malora”. Non lavorava sotto pressione, ma sempre con calma. Nei mesi invernali in cui i braccianti restavano a casa lui era sempre impegnato a preparare tutto per la stagione successiva. C’era da potare, da tenere in ordine le macchine e il capannone. A volte si faceva aiutare dal figlio, nel pomeriggio, ma in realtà lo faceva per passare qualche ora con lui, dato che quando aveva realmente bisogno di aiuto, lo comunicava a Dario e questi chiamava qualcuno “a giornata”. La bambina piccola stava sempre con la mamma. Walter pensava che l’asilo non fosse un posto per bambini, dato che “non si impara ancora niente e non si sta bene come con la mamma”. Non aveva fatto molte letture, ma sulle questioni essenziali aveva capito tutto da solo. Diceva che l’asilo serviva alle fabbriche per far lavorare le donne, ma non serviva ai bambini. In pratica, era “una porcheria dei padroni”. Quando mi trovavo in quella casa sentivo un buon profumo di affetto. Walter era innamorato a quarant’anni come lo era stato a venticinque. Non ne parlava, ma lo mostrava. Non era un lettore di libri. Leggeva il giornale. Detestava la televisione e mi diceva che a casa sua si guardava il telegiornale, poi le previsioni del tempo, poi si spegneva “la scatola”. Aveva cura dei figli ed era comprensibile che suo figlio fosse in confidenza con lui. Dato che Walter era curioso del mio modo di pensare, era sicuramente ancor più curioso del modo in cui si sentivano la moglie e i figli. Se dovessi mettere un titolo alla vita di Walter, non avrei dubbi sull’espressione “Una buona vita”. Ci siamo persi di vista perché dopo l’università andai a vivere a Napoli e quando, dopo alcuni anni, lo cercai aveva cambiato casa. Immagino che sia in pensione e che sia molto impegnato con i nipoti.
Ho raccontato questa storia di Walter perché considero la sua vita una vita pienamente “vissuta”, anche se nota a poche persone e senza significative ricadute sul piano sociale. Ho preferito parlare di questa vita, anziché di quella di Gandhi perché è duro a morire il mito secondo cui le vite “importanti” sono quelle dei grandi scienziati o politici o artisti o uomini di cultura. Balle! Un balordo con un buon quoziente intellettivo potrebbe scoprire una cura del cancro strepitosa e vivere una vita “povera”. Nella storia che ho raccontato non c’è alcuna possibilità di attribuire la "profondità" del “tempo vissuto” di Walter all’eccezionalità dei suoi effetti sulla storia dell’umanità. Io credo che i talenti particolari di alcune persone servano agli altri e non alle persone stesse. Immagino che grandi scienziati si siano appassionati e anche divertiti a risolvere problemi difficili (per loro, oltre che difficilissimi per noi), ma che si siano divertiti più o meno quanto si divertono persone meno intelligenti a risolvere problemi più semplici. A parte eventuali ritorni economici dei talenti (non però scontati, perché spesso un grande letterato guadagna meno di un commerciante), sul piano del piacere di vivere dubito che Chopin si sia “realizzato” componendo uno dei suoi Notturni più di quanto “si realizzi” un insegnante a dare una buona formazione ad una manciata di ragazzi o di quanto “si realizzi” un bambino a fare la sua prima capriola.
Ciò che resta alle persone quando hanno espresso il meglio di sé è la sensazione di aver semplicemente fatto ciò che “andava fatto”. Il resto, se c’è un “resto”, è solo un senso di irrazionale e stupido orgoglio. Ciò che è davvero misurabile e si può soppesare nella sua importanza è il valore dei diversi “prodotti intellettuali” per gli altri. Chopin continua ad arricchire la vita interiore di milioni di persone, mentre altri influenzano in modo meno significativo la società in cui vivono. Anche se consideriamo solo il “successo” su piani umanamente significativi (trascurando quindi il mero “successo di pubblico” di tanti personaggi ben radicati nella “cultura di massa”), l’idea che il “successo” di una persona migliori la qualità della sua vita è semplicemente un’idea sbagliata. Ciò chiude il discorso sulla presunta “necessità” di fare cose “importanti” per avere una vita “sensata”.
Credo sia ormai chiaro che il tema di queste pagine è “il significato” della vita. Un tema abbastanza “spinoso”, su cui illustri filosofi si sono scornati per secoli, facendo purtroppo spesso elucubrazioni tanto dotte e sofisticate quanto inconsistenti. Un tema abbastanza sentito anche dalle persone comuni nei casi in cui esclamano “ma che campiamo a fare?!”. La questione (mal posta) del "significato" della vita umana, a mio parere, si intreccia con la questione dell’integrità o apertura emotiva delle persone, dato che più le persone sono in una condizione soggettiva di squilibrio, di confuso disagio, di insoddisfazione non compresa, più tendono a dire sciocchezze sull’esistenza umana. E questo sia nei casi in cui le sciocchezze vengono “confezionate” in modi intellettualmente sofisticati e pubblicate, sia nei casi in cui vengono “buttate là” in un bar.
Credo che un’esistenza personale si possa considerare “buona” se riflette ciò che la persona è e se esprime le potenzialità della persona in questione. Non può essere valutata in base alle preferenze di qualcun altro, né in base a criteri che comunque qualcuno ha stabilito partendo da un’arbitraria scala di valori spacciata per “naturale” o divina. Non voglio quindi suggerire un mio personale ideale di “buona vita”, ma capire cosa può rendere davvero soddisfacente per le persone il percorso della loro vita. Posto che un disagio soggettivo, psicologico, disturba inevitabilmente sia la disponibilità a costruire esperienze soddisfacenti, sia ad apprezzare le esperienze buone comunque fatte, vale la pena di chiarire in generale quali variabili siano rilevanti per considerare “vissuto” il tempo speso in una vita. L’appagamento soggettivo è una variabile da considerare, ma non decisiva. Certe persone sono scontente della loro vita mentre in realtà è proprio il loro atteggiamento psicologico a rendere le loro vite tanto insoddisfacenti. Ciò è dimostrato dal fatto che altre persone vivono delle difficoltà analoghe o maggiori, ma vivono con passione. Altre persone sono entusiaste della loro vita, pur vivendo in modi decisamente superficiali; il carattere “fasullo” di questi entusiasmi è dimostrato dal fatto che le persone superficialmente “innamorate della vita”, vanno in crisi appena riscontrano un insuccesso o devono fare i conti con una grosso dolore; vanno in crisi e non trovano più il “senso” del loro esistere, semplicemente perché non lo avevano trovato prima. La coerenza fra le scelte personali e la manifestazione delle potenzialità personali mi sembra importante per capire cosa possa rendere davvero accettabile il tempo vissuto di un’esistenza, indipendentemente dalle fortune o sfortune che vanno e vengono. La “verità” è semplice, anche se comporta un po’ di dolore: se viviamo una vita “nostra”, conoscendo ciò che realmente siamo (e non ciò che in strani sogni vorremmo essere) ed esprimendo le nostre reali potenzialità (anziché barare per dimostrare che siamo “speciali”), siamo automaticamente convinti di star vivendo una buona vita. Appena schiviamo un dolore aggrappandoci ad un’illusione rischiamo di trovare insensata la nostra vita, dato che la nostra vita reale non può corrispondere ad alcuna illusione.
Vediamo di dare un po’ di concretezza al discorso sulle potenzialità. Le potenzialità caratterizzano ogni particolare persona, anche se gli esseri umani hanno degli aspetti comuni. Dante pensava che per non “viver come bruti” dovessimo fare un percorso di “virtute e conoscenza”, ma per la sua rigidità mentale non capiva che la virtù è figlia della compassione e che quindi dipende da un buon rapporto con se stessi. In altre parole, dipende da un’emotività libera dalle bastonate abbondantemente elargite dai maniaci della “virtù”. Anche la conoscenza, se è un “dovere” o una “aspirazione”, avvolge la persona come una camicia di forza e la stritola dall’epoca in cui “si devono fare i compiti per non essere bambini cattivi", all’epoca in cui “senza cultura non si è nessuno”. Quindi, possiamo dire che viviamo una buona vita se rispettiamo ed esprimiamo le nostre emozioni profonde e la curiosità per la realtà. Dal rispetto per noi stessi deriva la capacità (non il “dovere”) di rispettare gli altri ed anche la genuina voglia di conoscere. La libertà, il piacere e l’accettazione di sé diventano naturalmente solidarietà, creatività, curiosità, impegno, passione. In pratica, chi impedisce ad un bambino di giocare per impartirgli qualche insegnamento sul bene e sul male, contribuisce a renderlo un potenziale malvagio; chi impedisce ad un bambino di giocare per spingerlo ad essere il primo della classe contribuisce a renderlo una persona poco curiosa, oppure un “tipico intellettuale” conformista. A mio parere, la saggezza non è necessariamente una “roba epica” collegata a misteriosi segreti e a stati di coscienza straordinari. Viviamo da saggi vivendo una vita nostra e vivendo quindi da persone, così come i gatti, saggiamente, vivono da gatti e i canguri, saggiamente, vivono da canguri. Purtroppo, in genere, oltre ad essere più intelligenti e consapevoli dei gatti e dei canguri, non viviamo una vita “nostra”, ma una vita immaginata come buona. Una vita piena di illusioni, di diritti che non esistono, di doveri che potremmo toglierci dal groppone, di emozioni devastanti, di ideali fasulli, di vergogne ingiustificate, di paure non corrispondenti ad alcun pericolo. E piena di rabbia, tanta rabbia, appena la vita immaginata non si realizza.
Proviamo a sintetizzare la vita quotidiana del “popolo della TV”. Gli esseri umani, da bambini non si divertono, non si sentono al sicuro, non si abituano a volersi bene, poiché vengono “educati” ad essere qualcun altro (cioè ad essere “bravi” o “buoni”, ecc.). Da giovani spesso hanno “la fissa” di divertirsi, ma non sanno più farlo. Normalmente hanno insicurezze sessuali, manie competitive, voglia di “evadere”; oppure sono già noiosi e rassegnati. Da adulti cercano di essere normali e accettabili. Cercano di sposarsi per sentirsi “a posto”, ma senza essersi mai chiesti se vi siano vere ragioni che giustifichino il matrimonio. Magari si sposano in chiesa, senza essersi mai chiesti perché sia giustificabile quella religione e non un’altra. Si annoiano nonostante le vacanze, l’auto nuova, il sesso (che comincia a calare dopo il primo figlio). Cercano di riempirsi la vita con i figli, ma scoprono poi che richiedono “troppo impegno”. Frequentano “amici” con cui non costruiscono niente, ma con cui “parlano”. Di cosa? Di ciò che fanno. E cosa fanno? Si annoiano con il marito, la moglie, i figli e altri amici. Quindi, non fanno nulla ma si sforzano di commentare il nulla che fanno. Cercano di distrarsi però, perché così la vita è “una palla”: qualche “canna”, l’amante, qualche “interesse”. Quali interessi? Basta guardare i siti per single alla ricerca di un partner: alla voce “interessi” si sprecano espressioni come “amo viaggiare, la musica, il ballo, lo sport”. Normalmente i passatempi vengono classificati come “interessi” e quindi alla gente non interessa nulla. A parte le vacanze, però, c’è il lavoro che “riempie” molto tempo. Una necessità a cui le persone si appassionano: si preoccupano della carriera, dei giudizi ottenuti, di qualche ingiusto trattamento, di quando faranno "il ponte" e di quando andranno in pensione. Poi la gente va in pensione davvero. Se dopo ogni vacanza quasi tutti sono delusi perché le vacanze non possono riempire una vita vuota, dopo il pensionamento, quasi tutti sono depressi: non sanno più che fare tutto il giorno. Le cose poi cominciano a peggiorare perché i passatempi si riducono con l’età avanzata. La bellezza sfuma, il sesso poco goduto in gioventù diventa ancor meno intenso e gli stessi giochi seduttivi (non finalizzati al sesso, ma “a piacere”) diventano poco praticabili. Qualche acciacco, i tempi troppo dilatati e allora si comincia a pensare che la vecchiaia sia un grande problema. Le persone che da giovani si illudevano di riempire la vita con lo svago, divenute anziane cominciano a pretendere di riempirla con le attenzioni dei figli. Una brutta storia, soprattutto perché i figli sono già impegnati a non vivere la loro vita.
Vivendo vite “povere” (piene di grigiore o di cocaina) le persone stentano a capire le cose per loro più importanti. Anche le persone colte rivelano spesso una capacità di non capire nulla che è devastante. E appena riescono a “non capire qualcosa”, comunicano i loro pensieri in modo accurato ai colleghi e ricevono l’invito ad un convegno. In questo modo, tonnellate di idee che dovrebbero spiegare la “natura” dell’uomo e il “significato” della vita non includono le quattro cose che Walter, invece, capiva benissimo. Walter si rispettava, perché se avesse dovuto umiliarsi per lavorare, avrebbe cambiato lavoro. E aveva rispetto per le altre persone. Amava le persone più vicine come amava se stesso. Traduceva questo sentimento in gesti coerenti, era preoccupato per le ingiustizie della società e si impegnava nel partito che considerava più credibile. Poiché si prendeva le sue responsabilità sulla base di sentimenti autentici e non era pressato da sensi di colpa o da ideali astratti, quando non lavorava se la spassava. Gli piaceva ballare. Sua moglie mi disse che era “un gran ballerino” e che la loro storia cominciò con un rock and roll strepitoso alla “Casa del popolo”. Altro che nottate depressive trascorse in discoteca a “tirarsi su” per bilanciare la tendenza a buttarsi giù!
Walter non ha mai progettato un viaggio alle Maldive, ma ogni volta che il campo non era a posto progettava di piantare nuovi alberi, o di intervenire per ridurre i danni di possibili grandinate. E quando si metteva in testa una cosa, andava avanti finché non la vedeva realizzata. Dopo era soddisfatto. La sua curiosità per le persone era genuina e io, pur essendo un po’ marziano rispetto al suo mondo (uno studente di filosofia extraparlamentare e anche senza “morosa”, quando ci conoscemmo la prima volta) ricevetti la sua attenzione. Gli intellettuali, invece, si condannano a fare operazioni “ermeneutiche” su filosofi strani come Nietzsche o “vuoti” come Focault, e dopo trenta citazioni fanno venir voglia di tirarsi su con Tex Willer. Gli “esperti psy”, invece, ci confortano con spiegazioni “fondamentali” come quella secondo cui il bambino per la madre è il sostituto di un “fallo assente” (Lacan) o come quella secondo cui non importa capire il motivo per cui le persone agiscono irrazionalmente, perché ciò che conta, in psicoterapia, è “riprogrammare” i comportamenti disfunzionali (Bandler e Grinder). Questi fanno venir voglia di leggere un buon libro di filosofia, ma se si apre uno di quelli più diffusi, si torna a Tex Willer.
La realtà, però, anche se negata con discorsi sofisticati di tipo “culturale”, resta quella che è. Lo sforzo di vivere ignorando il dolore (che fa parte integrante della vita) è inutile e deleterio. Il dolore può essere accettato, anche se quasi nessuno ci prova. L’illusione di vivere senza dolore interferisce con la possibilità di amare se stessi (e di esprimere, con il pianto, compassione per le proprie pene) e disturba la possibilità di amare le altre persone. Infatti, tale illusione porta a vivere “per essere amati” (versione “sentimentaloide” del “disagio esistenziale”) oppure per dimostrare che non si ha bisogno di nessuno (versione “epica” dello stesso “disagio”). In entrambi i casi, il soggetto, non provando compassione per sé e non provando compassione per gli altri, tratta tutti come “oggetti” (da “divorare” o da sminuire). In questo clima scadente sul piano emozionale, la conoscenza non è più una passione, ma un’occasione per “affermarsi” e il gioco non è più un piacere. La creatività, la voglia di progettare e realizzare cose belle, cose utili, cose da condividere o da regalare, diventa un’ossessione finalizzata al successo. In ultima analisi il culto delle illusioni protegge così bene dal dolore vero che produce un’onda anomala di dolore fasullo. Ovviamente le mie convinzioni possono essere sbagliate ed è possibile che io sia uno sciocco che non ha afferrato “la complessità” delle “variabili” rilevanti nella “trama” delle “vicende” che sono “specificamente umane”. Di fatto, però, indipendentemente dalle verità delle metafisiche tradizionali e postmoderne, la gente non esprime quasi mai il dolore in modo “pulito”, manifesta sentimenti bizzarri ed è smarrita tutte le volte che la vita diventa un po’ più dura del previsto.
Poiché normalmente non si pensa alla morte, non si ha rispetto per se stessi e si costruiscono rapporti non basati sulla compassione, stento a credere che ciò che manca alla gente sia un insight filosofico da scovare in testi focalizzati sulla “deiezione”, sulla “angoscia esistenziale” o in libri di psicologia scritti per guidare in cento pagine alla conquista del “vero sé”, magari praticando qualche tecnica di rilassamento. Noi stiamo male perché normalmente non viviamo una vita “nostra” e perché per ignorare il dolore ci creiamo delle illusioni che stroncano i sentimenti profondi e la realizzazione delle nostre potenzialità (conoscitive, ludiche e sessuali, creative e sociali). Poiché normalmente non viviamo la nostra vita eleggiamo politici che distruggono anziché costruire, cerchiamo svaghi banali, ci sottomettiamo ad una cultura umanistica prodotta da persone spaventate dalla vita, ci sentiamo male e cerchiamo di tirarci su con una sbronza o con un ansiolitico, con una “bella carriera” o una (brutta) scopata, con un rituale religioso o con le parole crociate. Ma il tempo ci insegue, se non è “vissuto”. Se superiamo il recinto delle certezze “normali”, scopriamo che chi si rispetta e si dedica a qualcosa, non si pone il problema del senso della vita: sa che la vita ha il senso delle cose che si fanno e che quindi una vita è “buona” se si fanno cose buone. Una buona vita non è una vita in cui “si sta bene”, perché solo un idiota (o un neonato dopo la poppata) può “stare bene” senza un filo di tristezza. Una vita buona è una vita costruita con cura, nonostante il dolore che comporta e nonostante il dolore di non poter fare molto per chi vive male e non vuole capire perché.
6. Violenza e canzoni
“l’uomo è una persona o una pedina?”
(M. L. King, La forza di amare)
Stephen Bantu Biko (1946-1977), attivista sudafricano, fondò il Black Consciousness Movement e, dopo essere stato arrestato dalla polizia sudafricana, subì gravi lesioni al cranio e morì. Le autorità imputarono il decesso ad un prolungato sciopero della fame. Trent’anni di vita vissuti con passione. Cercando in rete alcune notizie sulla sua storia personale dopo aver rivisto per l’ennesima volta il film bellissimo di Richard Attenborough Grido di libertà, mi sono imbattuto in una nota, oggettivamente irrilevante se confrontata con la tragicità delle altre notizie, che però mi ha fatto riflettere su altre tragedie incredibilmente piccole e grandi allo stesso tempo. La nota riguardava il fatto che Peter Gabriel nel 1980 incise un brano intitolato Biko che ebbe molto successo, ma fu vietato in Sudafrica. Poiché vivo nell’Italia del 2014 e non nel Sudafrica degli anni ’80 non sono abituato a chiedermi se la musica che mi piace sia autorizzata o vietata. Sono abituato ad altri divieti semplicemente irrazionali, ma almeno nel mio paese non è vietato sentire musica o leggere libri.
Dopo il film molto intenso e la lettura della storia di Biko, quel riferimento alla canzone vietata mi ha fatto pensare al modo in cui il potere politico si intreccia con il potere dell’indifferenza della gente. Cosa può aver reso possibile che nel 1980 una canzone di Peter Gabriel non potesse giungere in un negozio? Sicuramente non un acceso dibattito politico. Ci sarà stata una commissione di controllo per la vendita dei prodotti del settore e ci sarà stato un tizio, diciamo John, convinto di dover escludere in base all’articolo 2, comma 3 della circolare 647 quel prodotto contenente un brano dedicato ad una persona “sgradita alle autorità”. John avrà detto alla segretaria (Louise) di scrivere una nota da inviare ai distributori del settore “musica”. Lì, Johannes avrà tirato una riga su una lista, e in qualche magazzino Alice avrà respinto l’invio della “robaccia” di Peter Gabriel. Se un turista fosse andato in quegli anni in Sudafrica, si sarebbe potuto trovare al bar vicino ad un membro della commissione di controllo, sorridente e intento a spiegare al figlio che deve succhiare la bibita con la cannuccia senza fare rumore, oppure vicino a John, Louise, Johannes o Alice: persone per bene, intente a bere un aperitivo o un caffè sotto il caldo cielo dell’Africa. Quel turista avrebbe quindi sorseggiato un drink fra persone normali e sorridenti, che non facevano scorrere il sangue, ma che compivano piccole azioni che cementavano il grande nulla delineato da imprenditori, politici e militari. A volte nel centro di Bologna bevo un caffè fra persone normali sorridenti. E tutto va bene. O quasi bene. O va male e non ne so niente.
Torniamo a Biko. La sua storia non è in realtà così “lontana” dalla nostra. Anche nella tranquilla Italia ogni tanto capitano strane cose: Giuseppe Pinelli decide di suicidarsi proprio gettandosi dalla finestra della questura di Milano e le vicende di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi risultano oltre che dolorose, inquietanti. Tuttavia, nel nostro paese, fatti come questi non sono dovuti a direttive di un regime che stabilisce la discriminazione di un gruppo sociale o che autorizza l’esercizio della violenza. La storia di Biko rientra invece nella normale anormalità di un intero sistema sociale. Tale anormalità ha radici economiche, risvolti ideologici e manifestazioni istituzionali, ma è rimasta operante tanto tempo proprio grazie alla complicità di persone normali come quelle che vivono in Italia e sorseggiano aperitivi a Bologna. Persone normali e quindi non diagnosticate come casi clinici dai professionisti del settore, non scomunicate dalle chiese e non condannate dai docenti di filosofia morale delle università. Persone normali come i nostri nonni che avevano accettato la marcia su Roma e la conquista di “un posto al sole” in Etiopia.
Le “persone normali” oggi non pensano molto al Sudafrica di ieri o all’Iran di oggi e nemmeno agli incidenti di piazza che a volte si verificano persino nella sonnolenta Italia. Hanno altre preoccupazioni: vivono nel terrore che un tradimento coniugale venga scoperto dal/dalla partner o si angosciano perché non si sentono “realizzate” nell’ambito lavorativo. In genere non arrivano a sentirsi sole in un mondo ufficialmente normale ma realmente strano. Nel mondo (quello di oggi, non quello della storia antica) sono accadute pochi anni fa cose decisamente strane in Iraq e continuano ad accadere cose strane in Crimea riportate nei nostri giornali fra articoli dedicati a fatti di cronaca e a partite di calcio. Le persone leggono queste notizie e poi si chiedono se dare il voto ad una vittima delle “toghe rosse”, ad un “politico” che ha cercato di rottamare i “vecchi” e di lasciar spazio ai “giovani” oppure ad un “comico” che ha “capito” che la "vera" politica non può essere né di destra né di sinistra. Normali elettori votano normalissimi politici che ripetono degli insulti alla ragione. Normali elettori assuefatti ad una normalità in cui, dato che di sera non c’è il coprifuoco tutto va bene. Normali elettori che però a volte cercano anche delle novità, come le “quote rosa” (ma perché non anche le quote musulmane, le quote omosessuali, le quote anziani, le quote rumene e le quote di altri gruppi “svantaggiati”?).
Arrivo al punto. Qualcuno ha sollevato una spranga prima di spaccare la testa di Biko e ancor prima qualcuno ha diramato una circolare che vietava a Biko di parlare in pubblico; ma come è venuto in mente a “persone normali” nascoste in qualche ufficio, intente a maneggiare timbri e carpette, che una canzone potesse essere oltraggiosa per la “comunità dei bianchi”? Come viene in mente oggi alla “gente comune” che l’intera comunità umana basata su crimini sociali gestiti scrupolosamente da interi Stati sia una cosa normale? Come può la gente comune accettare normalmente l’orrore sociale? Io vedo ogni giorno che la gente comune nutre rancori per il/la partner che ha voluto il divorzio e si vendica con ritorsioni economiche attuate da normali avvocati. La gente comune minimizza il disagio dei figli, pensa alle vacanze, legge soprattutto libri polizieschi o “sentimentali”, guarda in TV i “dibattiti” fra politici dediti a “fare i simpatici” o ad insultarsi. La “gente comune” al massimo si informa sulla crisi economica e teme che i figli possano non trovare lavoro in una società folle che però va bene finché si può far la spesa. Se tale “società” lascia i “negri” nelle baracche in Sudafrica, va bene. Se decide di sventrare una montagna piena di amianto in Italia, va bene. Purché ci sia occupazione. Se lascia per decenni che un’acciaieria accorci la vita della popolazione di un’intera città, va bene, purché nessuno accenda una sigaretta nei locali pubblici.
La cosa terribile è che crimini sociali come l’apartheid e crimini particolari come l’assassinio di Biko non sono dovuti ad una ristretta cerchia di esseri disumani. La cerchia ristretta fa le leggi e calcola i guadagni supportata da un’altra cerchia ristretta di fidati esecutori muniti di pistole e manganelli, ma ciò avviene solo perché una “cerchia allargata” di esseri “stranamente umani” vive normalmente pensando “ad altro” e “sentendo poco”. Pensa all’anniversario del matrimonio, alla causa di divorzio, ai risultati scolastici dei figli, al calcio, mentre il mondo brucia, ma “altrove”. La Crimea è “altrove”, il Vietnam è stato “altrove”, la seconda guerra mondiale è “altrove e allora”. La tragedia di questo mondo è costituita proprio dalla “gente per bene”, che accetta l’apartheid e il Festival di S. Remo, che vuole fare vacanze normali in un mondo anormale.
In un film recente, sicuramente non eccezionale, intitolato Ultimatum alla terra (di Scott Derrickson) che è il remake (con lo stesso titolo) di un classico della fantascienza del 1951 diretto da un grande regista (Robert Wise), un marziano viene inviato sulla terra per convincere i rappresentanti del pianeta ad interrompere l’escalation militare che potrebbe danneggiare anche altri pianeti. Ovviamente, il visitatore si deve confrontare (inutilmente) con normali idioti che governano con il sostegno delle persone normalmente “appartenenti alla società così come è”. Ad un certo punto, il marziano (Klaatu) incontra un altro marziano (che indicherò come X) il quale da molti anni soggiorna su questo pianeta in incognito e ha compreso bene sia i limiti, sia le potenzialità della specie umana.
X. Temo non siano una razza ragionevole. Vivo tra loro ormai da 70 anni. Li conosco molto bene.
K. Quindi?
X Qualsiasi tentativo di mediazione sarebbe inutile. Sono esseri distruttivi. E non cambieranno mai.
(…) [N. B. Klaatu partirà dopo aver messo in salvo molti esemplari della flora e della fauna terrestre e dopo aver avviato la procedura per la distruzione della specie umana].
X. Io resto.
K. Non puoi restare qui.
X. Sì, posso. E lo farò.
K. Se resti, morirai.
X. Lo so. Ma questa è casa mia, adesso.
K. Ma non hai appena detto che sono una razza distruttiva?
X. E’ vero. Però c’è anche un altro aspetto: io provo affetto per loro. E’ un po’ ridicolo, lo so. E non riesco neanche a trovare il modo per spiegartelo. Per molti anni io ho maledetto il fatto di essere qui. La vita umana è così difficile. Ma ora che questa vita è giunta alla fine, mi considero fortunato ad averla vissuta.
Questo è il punto. Le persone non sono “brave persone”, anche se spesso vengono descritte come “povere vittime” dei capitalisti, dei fascisti, dei razzisti, dei maschilisti, dei comunisti, dei qualunquisti, della pubblicità, della TV o dei “potenti”. Le brave persone sono un incubo. Però sono anche bellissime. Sono bellissime per ciò che “sono”, ma per ciò che fanno normalmente sono un incubo. Possono bloccare il normale commercio di una bella canzone e possono mettere in commercio migliaia di canzoni totalmente idiote e ascoltarle con avidità. William Kingdon Clifford, un matematico e filosofo che visse nella seconda metà dell’800, scrisse “Esiste soltanto una cosa più perversa del desiderio di comandare, ed è la volontà di ubbidire”. Proprio questa strana “volontà” ci rende l’unica specie sulla terra tanto distruttiva. Lo ha capito bene Hannah Arendt, denunciando la responsabilità di tanti uomini comuni che con la loro indifferenza hanno reso possibili le premesse, lo sviluppo ed il compimento del disastro della Germania nazista. L’Autrice, a mio parere è diventata tanto famosa (cosa insolita per i filosofi) proprio perché ha individuato un problema spinoso (la “banalità” del male) senza spiegarlo. Il problema è costituito dalla responsabilità delle “persone comuni” nei processi sociali più inquietanti, ma la “spiegazione” tentata dalla Arendt sul piano “etico” è fuorviante. Il lato orribile dei “normalissimi esseri umani” non consiste nella loro “malvagità” (concepita come “radicale” o come “banale”), ma nella loro tendenza a vivere per dissociarsi dal lato doloroso dell’esistenza. Iniziano nell’infanzia a dissociarsi per non sentire il vuoto della loro “famiglia normale” e da adulti continuano a vivere fondamentalmente per dimenticare la loro infanzia (sempre attuale, perché mai accettata e superata). I bambini ancora integri e bellissimi diventano bambini appassiti o insopportabili, poi diventano adolescenti problematici o ribelli, poi diventano adulti normalmente indifferenti o normalmente violenti. E bisognosi di sentirsi parte della società "data" anziché di metterne in discussione le illusioni e la violenza.
Quando gli esseri umani riescono ad esprimersi nello stesso modo in cui si esprimevano da bambini, sono bellissimi, dolcissimi, abbaglianti. E’ questo il lato che nel film affascina il marziano più vecchio e che gli fa pensare di essere stato fortunato a vivere una vita con noi umani. Un bambino è bellissimo se fa le capriole sull’erba. Quando però il bambino smette di giocare perché la madre o il padre intervengono, diventa impacciato, nemico di se stesso, capace di odiare il fratellino che continua a fare le capriole. Se la situazione si stabilizza (un giorno per le capriole vietate, un giorno per il primo amore alle elementari deriso dai “grandi”, un giorno per il desiderio di fare l’artista sostituito dall’aspirazione ad avere un “lavoro sicuro”, ecc.), quel bambino diventa nemico della propria bellezza e si sente affascinato dall’ordine famigliare, dalle mille luci della società impersonale, dall’etica condivisa, dai pregiudizi condivisi, dalla pubblicità. Non crede a Babbo Natale, ma crede di avere duecento amici grazie a Facebook. Non crede che un gatto nero porti sfortuna, ma crede che “esistano” le colpe.
Le idee assurde sono inaccettabili e le scelte distruttive di uno Stato o di una comunità o di una singola persona sono inaccettabili. Vanno contestate e anche combattute. Vanno però capite. Solo se sono capite non vengono sostituite da nuove assurdità. Nel film di Attenborough si trova una frase bellissima pronunciata da Biko. Non so se sia davvero stata pronunciata da lui nella sua vita o se gli sia stata attribuita dallo sceneggiatore o dal regista. Non importa. La frase è questa: “Un sacco di noi saranno morti per niente, se il sistema politico nostro risulterà semplicemente una versione nera del loro”. In queste parole rintraccio la consapevolezza di un fatto che in genere sfugge ai ribelli o agli indignati (che non sono mai rivoluzionari): una situazione ingiusta o assurda si realizza per delle ragioni, non per delle colpe. Se noi individuiamo delle colpe, immaginiamo il cambiamento come una lotta ai colpevoli e, non comprendendo la logica profonda della situazione, in caso di vittoria riprodurremo la stessa situazione, ma con i colpevoli privati del potere e con noi stessi nel ruolo dei “giusti” e quindi nel ruolo di chi eserciterà lo stesso potere.
Gli esseri umani sono bellissimi quando si liberano dalle loro paure irrazionali e si concedono una carezza, un abbraccio, un’idea nuova, un’equazione elegante, una poesia, una festa senza il culto degli alcolici. Proprio per quegli esseri umani “autentici” il vecchio marziano del film accetta di rinunciare alla propria vita: non vuole mettersi in salvo e abbandonarli. Per la loro bellezza vale la pena vivere e cercare un incontro. Non è però sensato scambiare la loro bellezza reale con la loro ottusa paura di precipitare in un pianto che era stato insopportabile negli anni dell’infanzia. Biko ha capito poco della sofferenza psicologica dei bambini (bianchi e neri), ma ha messo a fuoco la follia della “mentalità bianca”. Altri hanno messo a fuoco altri pregiudizi (educativi, sessisti, etici, sociali, ideologici, religiosi). Ogni pensiero razionale e appassionato libera la bellezza che gli esseri umani nascondono abitualmente. E ci ripete il "richiamo" della nostra foresta così teneramente descritto da Jack London.
C’è qualcosa che unisce la follia “dell’uomo bianco”, quella dei “ricchi” e quella dei “dominati-rassegnati”. E che unisce la crudeltà di chi sgancia napalm, pratica la tortura, lapida le donne, brucia gli eretici o semplicemente colpevolizza un bambino o una bambina. E che unisce chi con zelo si esalta per la pulizia etnica o per l’ordine pubblico o per la moda o per i tatuaggi o per la religione (quella “del luogo”, ovviamente), o per l’ultimo prodotto tecnologico tascabile. Questo qualcosa che in certi film atterrisce i marziani è la capacità tutta umana di non manifestare umanità, ma controllo: controllo del desiderio di godere, di abbracciare, di giocare, di capire, di creare. Il terrore di sentire inizia “prima delle idee”. Prima del razzismo istituzionalizzato, prima del fanatismo religioso, prima della carriera, del marketing e delle manganellate in piazza. Inizia alla spiaggia, quando un genitore grida (ad un bambino!) “Smetti di fare il bambino!”; inizia a casa quando un genitore sussurra al figlio “vergognati”; inizia in parrocchia quando un prete spiega i “peccati”; inizia quando una madre e un padre spiegano ad una ragazzina che da quel momento dovrà uscire di casa col “velo”. L’orrore inizia presto e inizia ovunque ed è talmente normale che nemmeno viene notato. Meriterebbe il voto qualsiasi partito che nel programma politico includesse come primo obiettivo la tutela dei bambini e la denuncia delle normali violenze nei confronti dei bambini. Tuttavia, quali adulti sarebbero in grado di capire e di tutelare i bambini qualora una legge di questo tipo venisse approvata?
Il dolore dei bambini soli genera tutte le forme di dissociazione dal dolore e l'irrazionalità individuale e sociale. Nella società "data" le “brave persone” sono in fondo bambini spaventati pronti a distruggere tutto appena temono di versare una lacrima. La consapevolezza di questo fatto ci rende scettici anche nei confronti dei progressisti “politicamente corretti” che in genere sono superficiali e insensibili come i reazionari politicamente scorretti. Può però renderci più determinati a cercare la bellezza degli esseri umani, ad apprezzarla quando si manifesta, a lasciarla libera negli ambiti in cui la paura non è ancora riuscita a prevalere.
7. Il “non valore” del tempo vissuto
“E’ tempo di uscire dalle ombre, Juna. E’ tempo per te di scegliere. (…) Il momento è ora.”
(R. Redford, La leggenda di Bagger Vance)
A volte si considera il tempo come un nemico, mentre in realtà il tempo è un amico che ci accompagna nel percorso dell’unica vita che stiamo costruendo. Un amico che però non trattiamo con cura. Le persone fanno ciò che fanno necessariamente nel tempo. Compiono azioni precise per delle ragioni (consce o inconsce, comprensibili o difficili da comprendere), ma ogni volta che compiono un’azione, oltre a “fare qualcosa” inevitabilmente fanno un certo uso del loro tempo. Spesso le persone non si preoccupano nemmeno di ciò che fanno, anche se fanno cose assurde o distruttive, ma ancor più spesso evitano di interrogarsi sul modo in cui utilizzano il loro tempo, in generale e in ogni momento.
Se un impiegato non va al lavoro deve fornire una giustificazione accettabile e documentata, oppure viene penalizzato per il tempo non dedicato al lavoro, ma se un ufficio pubblico fa perdere a centinaia di persone migliaia di ore per assurde questioni burocratiche non deve in alcun modo rimborsare le ore sprecate dalle persone: il tempo di lavoro non dedicato al lavoro è penalizzato, ma il tempo libero di chi va inutilmente in posta o in un ufficio comunale non ha alcun valore. Secondo la “filosofia quotidiana” socialmente prevalente, le persone non hanno alcun diritto di togliere alle altre persone un centesimo se non offrono in cambio qualcosa, ma possono togliere agli altri del tempo senza considerarsi responsabili di un danno arrecato e soprattutto senza che tale danno sia riconosciuto come tale da chi lo subisce.
In questo strano mondo, e soprattutto nelle menti delle persone che popolano questo mondo, il denaro ha valore, il tempo di lavoro ha valore, ma il tempo vissuto delle persone non ha alcun valore. O almeno non ha alcun valore riconosciuto. Tante volte spreco denaro (magari per risparmiare tempo!), ma vivo ogni spreco del mio tempo libero come un taglio nella mia carne. Noto che tutti i miei clienti, nella misura in cui prendono realmente confidenza con il dolore della loro vita esprimendolo con il pianto, senza distaccarsi o innervosirsi o piagnucolare, e quindi nella misura in cui sperimentano più gioia e cercano attivamente di vivere una vita “piena”, diventano attenti al loro tempo. Diventano insofferenti nei confronti di incontri sociali, abitudini, attività che sottraggono tempo alla loro ricerca di “buone cose” per sé e per le persone che amano. Credo quindi che l’attenzione al tempo speso o sprecato non sia una mia “mania”. Purtroppo, se questo è vero, l’immenso spreco di tempo organizzato socialmente con il consenso attivo o la complicità passiva di (quasi) tutti costituisce uno dei possibili modi di misurare l’irrazionalità sociale. La mia ipotesi (terribile) è che il tempo sia normalmente sprecato perché le persone normalmente non sono interessate alla vita che stanno costruendo.
Il tempo libero è (o almeno può essere) piacevole e costruttivo, perché consente di contemplare la bellezza, gioire, fare sesso, coltivare l’intimità e la buona socialità, accudire bambini e animali, leggere, studiare, scrivere trattati, poesie o semplici lettere d’amore, riposare, giocare e così via. Il tempo dedicato ad arrivare in un ufficio, ad attendere il proprio turno, a parlare di assurdità con un impiegato è tempo devastato. Eppure le persone sono capaci di manifestare in piazza per un balzello che riduce il bilancio annuo famigliare di dieci euro, ma non immaginano nemmeno di poter lottare contro norme che riducono il tempo libero annuale di migliaia di ore. Per un’ora di straordinario non pagata chiunque protesterebbe, ma nessuno protesta per le ore sprecate a compilare moduli o a correre da un ufficio all’altro. Così come le persone normali, con la loro complicità passiva, hanno reso possibili e rendono possibili sistemi economici e politici autoritari e violenti, proprio le persone normali, con la loro complicità passiva, mantengono un sistema burocratico di cui denunciano (a volte) solo i costi.
Lo slogan degli anni ’60 “lavorare tutti, lavorare meno” sintetizzava una delle intuizioni più profonde dello spirito “rivoluzionario” o almeno “critico” di quell’epoca. Riassumeva un’esigenza ragionevole: l’esigenza di ridurre al minimo necessario il tempo di lavoro e di disporre di tutto il tempo libero possibile. Tale esigenza nasceva dalla comprensione del fatto che la vita umana non può essere distinta dal tempo in cui la vita si svolge. Togliere la vita ad una persona (e quindi annullare il tempo che la separa dalla morte) è considerato comprensibilmente un reato grave, ma guastare il tempo delle persone non è considerato un “omicidio parziale” e nemmeno un lieve reato: non è nulla. Esiste una diffusa complicità, omertà e indifferenza nei confronti degli “omicidi parziali”: quelli che trasformano il tempo vissuto in tempo sprecato. Essi sono tanto diffusi da risultare un “genocidio parziale”. Ovviamente non voglio minimizzare la gravità delle guerre, delle persecuzioni e dello sfruttamento; voglio solo precisare che anche gli omicidi “parziali” e i genocidi “parziali” meriterebbero un po’ d’attenzione. Tra l’altro credo che l’indifferenza nei confronti di questa “violenza in dosi omeopatiche” contribuisca significativamente al permanere delle violenze sociali più gravi.
Normalmente le persone evitano di fare tutte le cose che renderebbero “vissuto” il loro tempo libero. Se sono tristi non piangono e non elaborano i loro lutti, ma si intossicano di rabbia, sensi di colpa e ansia; se sono allegre non festeggiano, non giocano, non fanno sesso, ma “fanno sport” oppure “vedono gente” o vanno nei luoghi in cui vanno tutti per poi lamentarsi dello “stress”; se sono o credono di essere innamorate, non fanno l’amore, ma vanno in vacanza con gli amici in modo da avere meno intimità con il/la partner oppure trovano pretesti per litigare; se hanno dei figli “desiderati” e se non li terrorizzano con i loro litigi, li accudiscono nei ritagli di tempo. In sintesi, nel tempo libero le persone si sentono libere di incatenarsi a convenzioni, a rituali sociali e a sfoghi di emozioni irrazionali. Forse proprio l’indisponibilità a godere del tempo libero, tanto radicata da risultare in pratica un’incapacità, è l’unica ragione comprensibile dell’indifferenza nei confronti dei “furti di tempo”. In fondo, se Gianni cena con Pino solo per “fare una bella mangiata” e parlare di donne, calcio e motori, non è così grave il fatto che Pino tardi mezz’ora.
Ciò che siamo può evidenziarsi in momenti critici o in situazioni drammatiche, ma lascia continuamente tracce nei dettagli della nostra quotidianità. Le persone assorbono abitudini, slogan e messaggi poco ragionevoli semplicemente perché non sanno cosa cercano, cosa amano e cosa non sopportano. Non esaminando criticamente le loro convinzioni e non vivendo con passione i loro legami affettivi, sono portate a conformarsi a qualsiasi abitudine imposta da qualsiasi autorità o suggerita in quanto “nuova”. Il bisogno di non capire e di sentire poco rende il tempo libero un tempo vuoto da riempire e, in fondo, tra il riempitivo di quattro chiacchiere al bar o dal parrucchiere e il riempitivo della fila all’ufficio postale, la differenza non è significativa. Per questo motivo, credo, i ritardi dei conoscenti e le costanti erosioni del tempo libero dovute agli adempimenti burocratici non risultano soggettivamente devastanti. Nella quasi totalità dei nuclei famigliari, la televisione è accesa durante e dopo i pasti. Quasi tutte le persone che viaggiano in automobile tengono accesa la radio. Negli ultimi anni ho notato un aumento vertiginoso della presenza della TV accesa nei bar e nei ristoranti o almeno della radio. Questo fatto non si spiega sul piano delle intenzioni consapevoli delle persone. Io non credo che le persone siano prive dell’intelligenza necessaria per capire che chi sta con loro con la televisione accesa non trova piacevole o interessante la loro presenza. Lo capiscono, ma non vogliono ammetterlo. Nelle famiglie normalmente non si guarda affatto qualcosa in TV, ma si sta con la TV.
La domanda ora è la seguente: perché una persona, dopo una giornata di lavoro torna a casa, in una particolarissima casa abitata da un’altra persona ed eventualmente dai figli, e fa tutto il possibile per non stare con chi condivide la sua vita? Qual è lo scopo di questa noiosa e sgradevole esperienza che pesa sul bilancio emotivo della giornata più di un secondo lavoro? Perché le persone non considerano tempo sprecato quello di stazionare in un appartamento con persone “intime” con le quali l’intimità è attivamente evitata? Forse le persone non hanno alternative migliori? Non credo: anche la lettura dell’orario ferroviario mangiando un panino sarebbe più interessante, istruttiva e forse piacevole. Forse le persone non riescono ad immaginare alternative migliori? Non credo. E’ difficile immaginare la struttura dell’atomo o la nascita dell’universo o la società comunista, ma non è difficile immaginare di tornare a casa, guardare negli occhi una persona e stare con lei nonostante la seccatura di dover mettere comunque qualcosa sotto i denti e poi lavare i piatti. Non è difficile immaginare tutto ciò, ma forse non è desiderabile tornare a casa e trovare proprio quella persona che da tre mesi o da trent’anni “è lì senza realmente esserci”. Ma se tale convivenza non è desiderabile, per quale motivo viene considerata inevitabile e immodificabile?
Le persone non desiderano stare davvero con altre persone e a mio parere non desiderano nemmeno stare davvero con se stesse. A me piace prendere un caffè a casa e mi piace anche prendere un caffè al bar. Di fatto “mi offro un caffè”, “mi accompagno” al bar e faccio due chiacchiere con me nel tragitto, nel bar, al ritorno ed anche in seguito. Essendo il mio più caro amico non ho alcuna voglia di trascurarmi. Se però entro in un bar pensando alle cose della mia giornata, alle persone della mia vita, alle cose che sto leggendo e vengo aggredito da una musica “qualsiasi” (spesso sgradevole) e non posso evitare uno schermo “invadente” di un metro quadrato in cui una ragazza con i capelli verdi si agita con il microfono in mano, mentre sullo sfondo compaiono coccodrilli, vampiri, tramonti ed elicotteri, sento il bisogno di uscire. Non offrirei un caffè ad un amico nel bagno e non vedo perché debba offrirmi un caffè in un locale del genere. Purtroppo, tali “innovazioni” piacciono alla gente. Le persone a casa schivano il marito o la moglie o i figli con la TV e anche al bar schivano la propria compagnia e quella di chi è con loro approfittando di video demenziali gentilmente offerti da baristi che “spacciano” quel particolare tipo di droga. Ora, se nel tempo libero non stiamo nemmeno con noi stessi e con le persone care, cosa stiamo facendo della nostra vita? Quale tipo di vita stiamo costruendo? Se passiamo la maggior parte del nostro tempo libero ad ascoltare qualsiasi “roba” televisiva o radiofonica, quale vita abbiamo in mente?
Credo che esista un nesso profondo fra abitudini come quella della TV accesa a casa o nei bar, quella della radio accesa in auto, quella delle vacanze “in compagnia” e quella dei reiterati incontri sociali. E credo ci sia un nesso fra questi fatti e il dialogo interno delle persone. A volte chiedo ai miei clienti quali passioni abbiano e mi elencano, a seconda dei casi, la cucina, “viaggiare”, fare jogging, “la lettura”. Se faccio notare che “viaggiare” non può essere una passione, non capiscono. Allora chiarisco che può essere una passione andare a Londra per visitare un museo, o raggiungere una persona amata, come può essere una passione andare in una particolare località e fare tuffi in un mare bellissimo, ma “viaggiare” non è altro che la seccatura di spostarsi, fare i bagagli, salire e scendere dall’auto o da un aereo. Stessa cosa per la lettura. Per una persona può essere appassionante leggere l’ultimo libro di un autore molto amato, ma non “leggere qualcosa”. Se poi chiedo l’elenco degli autori molto amati, la lista è davvero breve, anche per le persone colte. Allora faccio notare che l’idea generica di “viaggiare” o “leggere” indica un passatempo, come fare jogging o le parole crociate. I clienti ci pensano e alcuni mi dicono di non avere passioni e di non sapere perché. Altri mi chiedono di aiutarli a chiarire perché provano un forte coinvolgimento con i figli, ma non li hanno elencati fra le loro passioni. Tali riflessioni spesso conducono alla comprensione di aspetti importanti del loro intero progetto di vita. Proprio la “necessità” di “sentire poco” e soprattutto di sentire poco il dolore temuto fin dall’infanzia determina la passione per le “distrazioni” e quindi la svalutazione del tempo libero.
La gente crede a qualsiasi cosa purché sia ripetuta dai mezzi di comunicazione di massa. Perché? Semplicemente perché non ha tempo per formarsi delle convinzioni, per provare dei sentimenti, per esprimere dei sentimenti, per abbracciare le persone care, per esplorare i mondi interni delle persone care, per ubriacarsi di buon sesso, per fare l’amore, per piangere i lutti, per costruire con attimi intensi una vita vissuta. Le persone non hanno tempo “libero”: iniziano nell’infanzia ad occupare il tempo libero con illusioni, sintomi e rituali famigliari e sociali, pur di non sentire il “vuoto”. A vent’anni o a sessanta temono ancora quel vuoto e devono riempire il tempo libero di “cose” di qualsiasi tipo. Non hanno quindi tempo per la bellezza, per il dolore e per l’amore. Hanno paura del tempo vissuto e hanno paura del tempo libero perché potrebbe essere davvero tempo “vissuto”. Nonostante questa tragica realtà, la felicità resta sempre possibile e in qualche misura viene anche sperimentata. In qualche misura anche le persone più “distratte” vedono la bellezza, piangono il dolore, gioiscono ed esprimono l’amore per sé e per gli altri. Purtroppo solo in qualche misura. Tale misura è la misura del tempo realmente vissuto.
Due ragazzi, fratello e sorella, entrano misteriosamente, come in un film di fantascienza, in un’altra dimensione. Non nel passato o nel futuro o in un mondo parallelo, ma in una serie televisiva degli anni ’50 che riportava il tipico modo di vivere dell’americano medio di quegli anni. Si trovano catapultati in un piccolo centro abitato in cui non succede mai nulla e in cui i personaggi dello sceneggiato recitano le puntate che i due ragazzi avevano già visto in TV. Con l’espediente del trasferimento di due persone reali in una “realtà non reale”, il film rappresenta il modo in cui le persone possono perdere la loro identità diventando “semplici personaggi”, e quindi caricature di se stesse. Altri film orientati ad esplicitare una denuncia del conformismo hanno preso di petto la questione, in termini drammatici. Indovina chi viene a cena (di Stanley Kramer), La parola ai giurati (di Sidney Lumet) e Farenheit 451 (di Francois Truffaut) hanno evidenziato come sia facile per gli esseri umani assorbire pregiudizi e limitare la capacità di pensare e di sentire. Nel film di Gary Ross, invece, l’espediente del “salto” dei due ragazzi all’interno di una serie televisiva porta lo spettatore a godersi una storia bizzarra e un po’ buffa prima di capire che sta esplorando quell’incubo costituito dalla resa delle “persone comuni” (e reali) ad una società autoritaria e moralista che soffoca la riflessione critica, l’intimità, la sessualità e il bisogno di partecipazione alla vita sociale.
I due ragazzi (David, interpretato da Tobey Maguire e Jennifer, interpretata da Reese Whitherspoon), rimpiazzano due adolescenti della commedia, ma, essendo persone reali, sconvolgono l’ordine mentale dell’intera popolazione di Pleasantville, costituita da personaggi completamente calati nel ruolo previsto dalla sceneggiatura. Lo stupore e la curiosità attraversano con effetti benefici le menti dei personaggi abituati a fare le stesse cose, sempre negli stessi modi e tale situazione paradossale costringe lo spettatore a chiedersi quanto le persone reali nella vita reale assomiglino ai personaggi di una serie televisiva che rappresenta la quintessenza della normalità di una particolare generazione e del “mondo” di tale generazione. Un mondo in bianco e nero, non solo sul piano cromatico, ma anche su quello emozionale. Gli abitanti di tale mondo, infatti, “non pensano” e sentono solo ciò che è previsto dal loro copione. Lavorano, cenano la sera, lavano la macchina la domenica. Sono sempre allegri, chiacchierano di banalità e non hanno alcun interesse per ciò che accade al di là dei confini della loro cittadina. I ragazzi nemmeno si baciano e parlano con i genitori dei loro vestiti o della partita di pallacanestro, ma non di altro.
In quel mondo semplice e rassicurante non esistono problemi sociali, non esistono problemi nei rapporti interpersonali e non esistono nemmeno gli incendi: i vigili del fuoco vengono chiamati solo per recuperare gatti smarriti. A scuola si seguono programmi ultrasemplificati e non si apprende niente della storia della società in cui il paese è immerso, perché gli abitanti nemmeno immaginano di far parte di una società. La geografia inizia e finisce con le strade di Pleasantville e quando Jennifer (che è calata nel personaggio di Mary Sue) chiede all’insegnante cosa ci sia oltre Pleasantville suscita solo un imbarazzo generale. I libri hanno le pagine bianche, dato che non si deve imparare nulla sul mondo, ma si deve solo confermare ciò che già si conosce di quel microcosmo incantato. Tutto è così compatto, perfettino e “grigio” che non esistono nemmeno domande capaci di trascendere l’ordine dato. Il film consente di toccare con mano il fatto che la gente non vive male perché accetta “risposte sbagliate”, ma perché non si fa domande: gli errori possono sempre essere corretti e risultare delle tappe di un’avventura conoscitiva, ma il blocco della curiosità genera il vortice del vuoto conoscitivo ed esistenziale.
Ora, cosa si è proposto il regista costruendo questa situazione assurda con due ragazzi di oggi imprigionati in un mondo irreale? Il regista ha utilizzato quella situazione bizzarra come una metafora adatta a rappresentare in modo esasperato i normali rituali psicologici e sociali delle persone reali che nel mondo reale di oggi vivono “poco” perché sentono e pensano poco. Il regista ci lancia quindi un S.O.S. invitandoci a diffidare della tendenza presente in tutti noi a “perderci” nella quotidianità, nelle convenzioni, nelle abitudini condivise.
David viene interpellato dai vari personaggi messi in crisi dalle situazioni determinate da Jennifer. Ciò che colpisce è la delicatezza con cui David risponde alle richieste (e alle angosce) dei personaggi: non si propone come un paladino della loro “liberazione”, ma mostra attenzione e rispetto sia per il loro bisogno di cambiare, sia per la loro paura di cambiare. Riesce cioè a comprendere sia il mondo in bianco e nero in cui i personaggi vivevano, sia il mondo a colori che gradualmente stanno conquistando. Nel film alcuni escono dal bianco e nero e recuperano i loro colori liberando la loro sessualità, altri fanno lo stesso cambiamento scoprendo l’avventura della lettura, altri ancora esprimendo la necessaria aggressività di fronte ai soprusi ed altri manifestando commozione. Nel film viene descritta anche l’intolleranza dei personaggi più impermeabili ai cambiamenti, ma tale intolleranza è analizzata accuratamente come un riflesso della loro paura. Infatti, i personaggi che disprezzano e aggrediscono le persone “a colori” o bruciano i libri (che ora non hanno più le pagine bianche), non sono identificati semplicemente come “i cattivi”, ma sono analizzati come prigionieri del loro terrore di provare emozioni intense.
Il film, in pratica, è un omaggio alla consapevolezza delle nostre potenzialità e non un’incitazione a ribellioni prevedibili e superficiali. Sottolinea il valore della nostra dimensione interiore e riesce sia a trattare con discrezione la nostra abituale tendenza a vivere “da personaggi”, sia la nostra esigenza di esprimerci compiutamente come persone. Quando il sindaco esclama “non possiamo stare fermi a guardare ciò che succede senza muovere un dito”, manifesta quel miscuglio di terrore e odio che caratterizza qualsiasi atteggiamento fascista. L’odio per ciò che è piacevole, spontaneo, creativo nasce dal terrore di sentire, sapere, creare. Nasce dal terrore di perdere un’identità falsa e di rinunciare a sicurezze illusorie. Infatti, a Pleasantville i personaggi più “attaccati” alla loro parte non sanno cosa fare quando le battute del loro copione non si incastrano più con quelle degli altri personaggi. Potrebbero lasciarsi trasportare dalla corrente delle cose, ma per farlo dovrebbero capire e sentire ciò che non hanno mai nemmeno concepito. Il sindaco invita, quindi, i suoi amici a restare uniti e ad opporsi a ciò che non capiscono e che non vogliono capire.
Nel film risulta evidente che il cambiamento delle persone non consiste semplicemente nella modificazione dei comportamenti. Le persone costruiscono delle difese psicologiche che non si riducono a semplici comportamenti, ma che consistono nell’autosvalutazione degli aspetti di sé svalutati dagli altri. Non solo, quindi, della sessualità, ma della curiosità, dell’aggressività costruttiva e del dolore. In questo senso, Pleasantiville non è un film “facile”, con i buoni, i cattivi e le cose “giuste” da fare per “sistemare tutto”. Costringe a riflettere perché è tagliente e aiuta a sentire perché è rispettoso della sensibilità (e anche delle difese psicologiche) delle persone. In questo gioiellino cinematografico c’è praticamente “tutto”, ma ridotto all’essenziale. Quando nella nostra vita reale viviamo “da personaggi” non recitiamo un copione impostato da uno sceneggiatore, da un produttore e da un regista, ma recitiamo un copione stabilito da noi stessi in un’epoca in cui eravamo troppo piccoli per accettare il dolore. Il film di Gary Ross, quindi, ci aiuta a sentire la nostra paura di cambiare e la nostra voglia di cambiare senza prendere di petto il tema delle difese psicologiche, ma mostrandoci tutti i passaggi interiori attraverso cui normalmente arriviamo a vivere "poco".
Atticus - Non riuscirai mai a capire una persona se non cerchi di vedere le cose anche dal suo punto di vista.
Figlia - E cioè?
Atticus - Devi cercare di metterti nei suoi panni e andarci a spasso.
(R. Mulligan, Il buio oltre la siepe)
Il film di James Ivory Quel che resta del giorno ci aiuta a toccare con mano il fatto che le persone possono avere un’idea di sé e della realtà che non ha nulla a che fare con ciò che sono e con la realtà in cui vivono. Il film, quindi, ci aiuta a chiederci in quale misura il nostro “mondo soggettivo” rifletta ciò che siamo “davvero” e il mondo in cui trascorriamo la nostra vita. In questo capolavoro di Ivory ogni inquadratura o sequenza o frase è semplicemente e terribilmente perfetta e ciò rende ancora più apprezzabile un’opera già preziosa per i contenuti che trasmette.
Il film è graffiante, ma non polemico. Coglie con feroce lucidità la commistione di insensibilità e irrazionalità nei pensieri, nelle frasi e negli atteggiamenti dei personaggi principali e mostra la “inevitabilità” di ciò che tali persone fanno perché non sospettano nemmeno di poter mettere in discussione i sentimenti che costituiscono il collante della loro (falsa) identità. Nel film di Ivory, il maggiordomo Stevens è irremovibile nella sua sottomissione al padrone: confida nel fatto che egli pensi ed agisca sempre nel migliore dei modi. Non si interroga sulla sensatezza delle idee di un ricco inglese filo-nazista e non vuole nemmeno ascoltare i suoi discorsi per evitare qualsiasi possibile dubbio. Non ha idee proprie sulla società come non ha idee sul proprio modo di vivere. Non vuole sapere nulla perché sente la necessità di vivere in un certo modo e di essere deferente nei confronti del padrone che considera rispettabile semplicemente in quanto membro di una classe rispettabile.
Nel mondo reale in cui viviamo oggi, le persone non sembrano mentalmente ottuse come Mr. Stevens. Leggono i giornali e quindi si informano sulle idee di tutti e non temono di mettere in discussione le idee di alcuni loro “padroni”. Hanno però il terrore di mettere in discussione il massimo comun divisore delle bugie offerte dalla confraternita di tutti i loro padroni. Danno per scontato che la loro “patria” sia davvero “qualcosa” e che sia più di una realtà amministrativa, ma non sanno perché. Danno per scontato che i problemi del loro paese siano più importanti di quelli del resto del mondo. Danno per scontato che “la religione” sia “quella” religione, che “la sinistra” sia “quella” sinistra. A volte “si aprono” a idee nuove, anche se esse sono semplicemente stupide, solo perché sono state ripetute in TV (o nel web). Quanti Mr. Stevens apparentemente consapevoli incontriamo ogni giorno? Ci sono anche persone allenate nella critica, anticonformiste, tese ad “emanciparsi”. Quante lo fanno per aver cura di sé e di chi amano e quante lo fanno per sentirsi “accettabili”? Ci sono persone piene di passioni, ma quante manifestano autentici slanci, trasmettono calore ed esprimono una vera disponibilità verso gli altri?
Senza il conformismo sociale non esisterebbe alcuna società “data” e la convivenza sociale sarebbe radicalmente diversa Senza la paura di abbandonare il proprio guscio non ci sarebbero relazioni interpersonali “povere” o conflittuali. Tuttavia, in genere le tendenze al conformismo e le chiusure psicologiche nella società contemporanea sono “confezionate” con una certa eleganza. Il film di Ivory mira a cogliere il nucleo profondo, elementare e semplice di atteggiamenti o comportamenti normalmente razionalizzati e abbelliti. Tale nucleo si riduce al terrore di sentire il dolore e, in particolare, di coinvolgersi davvero con gli altri senza protezioni e chiusure psicologiche. Il terrore di “sentire” spinge le persone a non voler “sapere” e quindi a “pensare” i pensieri degli altri o almeno di alcuni altri. Il terrore genera la delega del pensiero, la fede nel “pensiero costituito” e rende inevitabile un mondo brutale, banale, cementato dall’ignoranza spacciata per cultura. Il pensiero tende ad essere “impraticabile” sia da parte di chi, come Mr. Stevens rifiuta di ascoltare ed esaminare criticamente i discorsi dei “padroni”, sia da parte di chi divora le idee “date” (quelle di tutti i padroni) con la voracità di un neonato.
Gli atteggiamenti dei personaggi del film rinviano facilmente, purtroppo, alle parole di un altro film (Oltre il giardino, di Hal Ashby): “La vita è uno stato mentale”. No: può essere anche reale, se non permettiamo che la paura di provare emozioni intense e di mettere in discussione le emozioni incomprensibili ci faccia ritirare in un mondo puramente mentale e (solo apparentemente) sicuro. Noi viviamo al di sotto delle nostre potenzialità. Concepiamo riduttivamente la nostra identità personale e la società in cui ci muoviamo e in questo modo lasciamo incompiuti aspetti importantissimi della nostra vita. Il nostro potenziale non è meno reale delle nostre azioni: non è un’ipotesi o una fantasia, ma un preciso campo di possibilità che ci definisce come persone. La nostra vita non è incompiuta se non raggiungiamo gli obiettivi di altre persone, ma è incompiuta se non facciamo ciò che noi possiamo fare per rendere “nostra” la nostra vita.
Noi umani non possiamo “semplicemente vivere” come gli altri animali, perché la nostra consapevolezza ci impedisce di vivere “solo nell’attimo”. Possiamo lasciarci andare al flusso delle sensazioni e “vivere l’attimo”, ma solo se abbiamo accettato di vivere nella gioia e nel dolore di quella intera esistenza che include ogni attimo. Purtroppo, normalmente le persone vivono in un tempo opaco, senza attimi. Sarebbe sensato che due persone impegnate sentimentalmente andassero a cena assieme in un ristorante grazioso se si fossero chieste se andare a cena in quel locale oppure se fare uno spuntino a casa e andare a fare il bagno in un laghetto oppure se fare sesso e poi mangiare qualcosa oppure se rileggere assieme alla luce di una candela le lettere con le quali avevano iniziato la loro relazione, oppure … altro. E’ facile che vadano al ristorante semplicemente perché è sabato ed è facile che al ristorante discutano sull’opportunità di fare le ferie con i vicini di casa che sono tanto simpatici. Il “non dirsi niente” degli animali è invece sempre “carico” di qualcosa di realmente comunicato; due cani che fanno un pisolino stando a contatto, pur avendo un’intera stanza a disposizione, “si dicono” almeno qualcosa. Molte coppie fanno cose più complesse e non si dicono nulla.
Ogni giorno al risveglio le persone sanno benissimo se andranno al lavoro o dal dentista o al colloquio con gli insegnanti del figlio o da qualche parente. Dubito però che sappiano perché faranno proprio quelle cose. Non ho mai notato in un/una cliente preoccupato/a per il rendimento scolastico del figlio o della figlia alcuna consapevolezza dei motivi di tale preoccupazione. In genere le persone considerano “automaticamente” come un fatto “positivo” che i figli “vadano bene” a scuola e considerano come un fatto “negativo” che “vadano male”. Io chiedo ai miei clienti le ragioni di questa netta alternativa e non ottengo risposte. Semmai ottengo lo stupore per una domanda così bizzarra. Faccio presente che Einstein non se la cavava benissimo a scuola e che Conrad da bambino nemmeno parlava l’inglese, ma le mie precisazioni sembrano “provocatorie”. Replicano “dovrei forse essere contento se mio figlio venisse bocciato?!”. Faccio notare che non ho detto nulla del genere, ma devo fare molta fatica per chiarire che in genere i figli vengono “mandati” a scuola, o in vacanza con la parrocchia o dai parenti o … in guerra, senza alcun interesse per il significato di tali esperienze nella loro vita. D’altra parte le persone che fanno sesso da anni non sanno perché non si dicano più (o non si siano mai dette) “ti amo”. Le persone che sono tanto “innamorate” e attendono con ansia di sposarsi e di invitare tanti conoscenti non mi spiegano mai per quale motivo, se hanno già provato il piacere di fare l’amore, desiderino tanto suggellare tale realtà con un timbro del sindaco e con una festa a cui inviteranno persone che non hanno voluto frequentare per anni. Non lo sanno proprio e a volte reagiscono anche con irritazione alle mie “candide” domande. Se superano l’irritazione e si interrogano, cominciano a sentire il vuoto … e le lacrime.
All’inizio di ogni giornata ogni persona ha la possibilità di vivere un altro pezzettino della propria vita o di sprecare del tempo prezioso, ma quante persone si chiedono se potranno fare le cose più desiderate nell’ambito di una vita sentita come propria? Quante persone iniziano una giornata chiedendosi se condivideranno la giornata con le persone “giuste”? Mi sono abituato a fare domande “semplici” ai miei clienti e a non trovare risposte comprensibili. Le persone non sanno e soprattutto non vogliono sapere perché fanno ciò che fanno. Lo fanno e basta. Quando disprezzano la vita di altre persone non sanno mai spiegare perché considerino migliore la propria vita. Tirano in ballo “l’onestà” o la normalità o il “buon senso”, ma si stupiscono o si infuriano se chiedo a loro perché quel “buon senso” sia davvero “buono”.
Io credo che non si possano comprendere né i comportamenti più banali, né quelli definiti “patologici” (dagli psicoterapeuti), né quelli definiti “immorali” (dai moralisti) se non si comprende che le persone normalmente vivono una vita che non è la loro vita. Una vita in cui semplicemente si trascinano ora dopo ora e anno dopo anno; e in cui fanno ciò che “danno per scontato” vada fatto e che dipende da decisioni prese nell’infanzia e automaticamente rinnovate. Decisioni antiche e non più ragionevoli anche se razionalizzate con l’idea della “realizzazione” personale o dei “doveri”.
Tutte le bugie coprono il dolore. Alimentano l’illusione di una vita senza il dolore e senza la morte o di un potere immaginario da esercitare per annullare il dolore e la morte. Le bugie trasformano la bellezza dei bambini (di tutti i bambini) nell’incubo dei bambini “adattati” o “disadattati”, degli adolescenti “complicati” e degli adulti normalmente determinati a non sentire e a non capire ciò che più conta nella loro vita. Poi la vita finisce e … cosa resta del giorno se il giorno è stato un lungo sonno?
Hallie - E in questo modo ... tutto il paese sarebbe dalla tua parte
Sonny - Io mi ci trovo molto meglio da solo, dalla mia parte.
(S. Pollack, Il cavaliere elettrico)
Un film “terribile”, ma illuminante. The Truman Show, di Peter Weir, racconta la storia improbabile di un bambino "adottato" da un network televisivo, filmato a sua insaputa in un paesino appositamente costruito, e “sbattuto in onda” ventiquattro ore al giorno in mondovisione. E’ la storia di un possibile crimine sociale, che possiamo ritenere “inconcepibile”, ma che non è davvero impossibile in una società in cui sono stati reali, oltre che possibili, i campi di sterminio. Tutto ciò che “accade” a Truman nell’interminabile unico episodio del telefilm, è pianificato dal regista e reso possibile da centinaia di attori e tutto ciò che Truman fa è la quotidiana semplice reazione ad una realtà che è solo una finzione. Con questa opera Peter Weir narra una storia assurda e mostra nei dettagli come tale assurdità possa risultare socialmente accettata. Cose di questo tipo, e ben più gravi, sono già accadute realmente: tanti “colonizzatori” hanno sfruttato quotidianamente per anni le vite di milioni di persone e non si sono limitati a “metterli in onda”. Altri fatti gravissimi (come l’apartheid, le vendette mafiose, la pubblicità, il catechismo impartito ai bambini, i divorzi vissuti con puro odio, la “globalizzazione” ed anche la “moda autunno”) sono stati o sono accettati da tutti o comunque da molti.
Le vite “finte” (perché non corrispondenti alle potenzialità delle persone) sono comunque vite vissute, vite reali, vite sentite. Nel film di Weir le persone che accendono la TV, che assistono ad una violenza programmata e che sperano sempre “che succeda qualcosa”, sono persone molto simili a quei genitori che nella realtà, e non in un film, in questo momento, da qualche parte, stanno portando la loro bambina da una “esperta” che pratica mutilazioni genitali, o a quei soldati che per fare “il loro dovere” stanno uccidendo altre persone, o ai ragazzini che stanno prendendo in giro un compagno timido o agli amanti che stanno facendo sesso senza precauzioni, pur non volendo alcun figlio. Persone reali che, mentre fanno cose terribili, fanno “pensieri normali”. Persone reali, realmente umane, anche se incompiute. Non incompiute rispetto all’ideale di qualcun altro, ma incompiute rispetto a ciò che potrebbero vivere esprimendo il loro potenziale personale. Persone reali, non personaggi, non “gente”. Capaci però di diventare “gente” e di smarrirsi tutti i giorni nei miti e nei riti di un tessuto relazionale e sociale ritenuto scontato, ovvio, indiscutibile. Persone che pensano, sentono e collezionano attimi che formano una storia vissuta che non ha nulla a che fare con ciò che realmente sono, ma che ha molto a che fare con il loro terrore di capire e sentire. Io temo le persone apertamente violente, ma temo soprattutto quelle diligenti nel dedicarsi ad un lavoro di cui non capiscono il senso, a rituali famigliari condivisi con persone di cui non sanno nulla, a passatempi socialmente istituiti ed anche alla “ovvia”, scontata, indiscutibile frenesia del telecomando.
Weir fa benissimo a presentare il suo collega del film (il regista che organizza l’incubo), come una persona profondamente convinta di fare una cosa buona per il pubblico e persino per Truman, perché normalmente le persone fanno del male senza rendersene conto. Quando questi parla a Truman che sta per entrare nella realtà “reale”, gli dice che “là” troverà altri inganni e non sarà nemmeno “protetto” come nel piccolo mondo artificiale costruito appositamente per lui. Quel regista è grottesco nel decantare i pregi di quel piccolo mondo falso, ma ha anche ragione, perché nel mondo esterno tutti i telespettatori sono stati davvero complici dell’inganno e solo “per pura incoscienza" hanno iniziato a gioire vedendo Truman alla ricerca della libertà. Dunque proprio il mondo reale è l’incubo. Il film di Weir è geniale, perché prima ci porta a riconoscere l’evidente assurdità di una finzione e poi ci costringe a notare che il “mondo reale”, che riconosciamo come “nostro”, costituisce un’assurdità ancora più tragica. Dubito però che tutti i fan di Weir abbiano capito che il film denuncia proprio la loro realtà, la loro vita e la loro società.
Nel mondo reale le persone pensano, desiderano, sentono e fanno cose di cui non comprendono i veri motivi. Nel mondo reale le persone si commuovono davvero ascoltando le parole di giustizia e di speranza pronunciate da “capi spirituali” o leader politici che proprio sottomettendosi per decenni al potere costituito hanno ottenuto ruoli di potere. Nel mondo reale gli atei si scambiano gli auguri di buona pasqua, i credenti non sanno nulla della loro religione, le persone prendono sul serio partiti “contrapposti” che però manifestano divergenze solo sui modi di “aggiustare” una società che comunque accettano come immodificabile nelle sue caratteristiche fondamentali. Nel mondo reale le persone non guardano Truman in TV, ma guardano in TV delle persone reali che recitano come Truman.
Dobbiamo dubitare di tutto ciò di cui siamo convinti, o di tutto ciò che desideriamo, che sentiamo e che stiamo facendo? Non credo. Non abbiamo alcuna necessità di interrogarci sui “veri” motivi per cui troviamo simpatico il barboncino dei vicini di casa, ma abbiamo ottimi motivi per dubitare anche di ciò a cui siamo più “attaccati” se qualcosa “non fila”. Questo dubbio è l’unica arma che abbiamo a disposizione per proteggerci da quel suicidio rateizzato che compiamo ogni giorno alimentando sogni fasulli: il sogno di “appartenere”, di “diventare accettabili”, di “realizzarci”, di “star bene” o anche “di non pensare troppo”. Abbiamo bisogno della razionalità per capire e per sentire chi siamo e cosa possiamo fare oggi di piacevole, creativo, costruttivo, comprensibile. Nel film di Weir, l’uomo che guarda la TV mentre sta nella vasca da bagno, la barista che guarda la TV mentre serve birra al banco, le vecchiette che condividono il divano davanti alla TV farebbero bene a chiedersi se “fila” con il resto della loro vita quella strana passione per un programma televisivo di cui vogliono essere spettatori/spettatrici anche se per nessuna ragione vorrebbero trovarsi al posto di Truman. C’è una profonda bellezza nell’espressione consapevole e coerente di convinzioni, desideri ed emozioni. La vita umana, nel suo aspetto “interiore” ed in quello relazionale è essenzialmente una danza, un’avventura ed una continua scoperta della meraviglia di esistere e di averne consapevolezza. Lo è, però, se si mettono in discussione tutte le “evidenze” che, a conti fatti, “non filano”.
Normalmente le persone sono così abituate a vivere senza accorgersene, oppure a lamentarsi di situazioni a cui, di fatto contribuiscono, che non riescono ad immaginare una vita corrispondente a ciò che sono, a ciò che desiderano, a ciò che amano. L’immaginazione non va intesa come una specie di talento naturale, ma come una semplice conseguenza del rispetto per i propri desideri. L’immaginazione è una cosa bellissima, anche se costa sincerità e dolore. Il semplice fatto di immaginare cambiamenti presuppone il riconoscimento di desideri insoddisfatti e ci porta a considerare anche gli ostacoli che si collocheranno fra il nostro pensiero e la sua realizzazione: ostacoli oggettivi, ma soprattutto ostacoli creati dai nostri simili abituati a non immaginare una vita migliore. In un film di Rob Reiner una frase “spietata” riassume una tragedia purtroppo normale: “La gente non beve la sabbia perché è assetata. Beve la sabbia perché non conosce la differenza” (The American President). Per scegliere occorre immaginare delle possibilità e se manca l’immaginazione le scelte peggiori sembrano accettabili e persino entusiasmanti. E’ passato molto tempo da quando i ragazzi con i capelli lunghi e tanti libri nel tascapane scrivevano sui muri “la fantasia al potere”. In quegli anni la fantasia non era normalmente “praticata”, ma almeno era fantasticata.
Normalmente le persone considerano del tutto accettabili o contestano superficialmente (provando solo un po’ di indignazione) cose che, in realtà, sono molto gravi. Al bar qualcuno dice “Ecco un’altra rogna: possibile che non si trovi un accordo sulla Crimea?!” e un’altra persona replica “E’ per via dei gasdotti”. Poi passano al campionato di calcio. Tuttavia, l’orrore non riesce mai a sradicare la bellezza. Molti anni fa ero a spasso con il mio cane e un bambino, con un sorriso incantevole, mi ha detto: “Che bel cane! Può essere contento se gli faccio una carezza?”. Provo ancora gioia ricordando quell’incontro. Così piccolo, quel bambino ha colto in un attimo la bellezza di un animale, il proprio desiderio di contatto, la soggettività (ignota) dell’animale, la possibilità di non essere accettato e la disponibilità a fare comunque un tentativo. Gioisco ancora per la lucidità e la sensibilità di un bambino che evidentemente non era stato costretto a chiudersi o a sopravvivere superficialmente. Il mio cane non c’è più, prima o poi io morirò, ed anche il bambino, ma in un angolo di questo pianeta questa piccola esperienza ha fatto vibrare le nostre piccole vite ed ha cambiato (almeno un po’) la storia dell’universo. Tutto ciò passerà, ma prima di passare sarà avvenuto. Sarà stato un fatto.
"La ragione era una pura questione di statistica."
(G. Orwell, 1984)
Nel film Barriera invisibile (1947), di Elia Kazan, la denuncia sociale dell’antisemitismo strisciante nell’upper-class americana costituisce lo sfondo per l’esame di due temi psicologici scomodi, trattati con molta acutezza e sensibilità: il conformismo e l’importanza dell’impegno condiviso in una relazione di coppia. Purtroppo la traduzione in italiano dei dialoghi più significativi ha letteralmente storpiato il messaggio relativo al secondo tema. Farò quindi qualche osservazione sul conformismo e poi sul tema dell’impegno condiviso nella coppia e sulle possibili ragioni della disastrosa versione italiana del film.
Resteremmo in superficie se considerassimo questo bellissimo film come una semplice denuncia dei pregiudizi e dell’antisemitismo in particolare. Tale lettura sarebbe riduttiva perché il film analizza in modo “sentitamente spietato” l’atteggiamento delle persone che non affermano pregiudizi, ma manifestano pregiudizi senza rendersene conto. Tali persone hanno convinzioni solide, ma sono paralizzate nell’espressione di ciò che pensano e sentono perché il timore dell’emarginazione sociale prevale sulle idee di cui sono coscienti. Tali persone, per sentirsi integrate nel loro ambiente cercano di "non dare fastidio". Hanno un vago terrore di non “appartenere” a “qualcosa”. Provano rabbia per l’ottusità e la chiusura mentale dei loro famigliari o conoscenti o colleghi, ma minimizzano le incompatibilità e fanno ciò che serve a mantenere “buoni rapporti” con tutti. Temono di esprimersi e di rischiare l’esclusione dal club dei benpensanti o “non-pensanti”. Il tema del film non è quindi l’antisemitismo, perché lo stesso film si sarebbe potuto sviluppare su altri temi. Il tema è proprio la paura di farsi conoscere e di verificare se davvero abbiamo degli amici e se davvero abbiamo dei rapporti umani.
Il personaggio principale (Philip Green, interpretato da Gregory Peck) è un giornalista che deve scrivere una serie di articoli sull’antisemitismo e finge di essere ebreo per osservare le reazioni delle altre persone nei suoi confronti. Impara molte cose, ma soprattutto scopre che la sua fidanzata (Kathy Lacey, interpretata da Dorothy McGuire), pur appoggiando incondizionatamente la sua scelta, non osa mantenere il segreto con le persone a cui è più legata. Quando il figlio di Philip viene ingiuriato dai compagni che lo considerano uno “sporco ebreo”, lei lo rassicura nel modo peggiore: gli dice “non ti preoccupare, tu non sei ebreo”, anziché “non ti preoccupare, quei bambini non capiscono niente”. Philip non accetta l’ambiguità di Kathy e la rottura diventa inevitabile. A quel punto, Kathy cerca di chiarirsi le idee parlando con Dave, l’amico di Philip, che è ebreo davvero. Lui l’aiuta a capire che Philip non la considera antisemita, ma debole, conformista, timorosa. Inoltre le chiarisce che Philip non trova in lei un’alleata, una vera compagna di vita. In quel colloquio, Kathy, rendendosi conto di fare del male a sé oltre che all'innamorato con la propria passività, sente il bisogno di fare un cambiamento profondo e, ritrovando se stessa, ritrova in seguito anche la sintonia con Philip.
Nella prospettiva del regista, il tema centrale è quindi costituito dal fatto che anche chi non è intellettualmente contaminato da un pregiudizio può essere emotivamente incline ad una passività complice e in ultima analisi distruttiva. Infatti, è il caso di porre una domanda: quando un pregiudizio inizia ad affermarsi, quante sono le persone così idiote da crederci davvero e quante sono le persone così spaventate da non opporsi? Io credo che il conformismo sia la benzina e che il pregiudizio sia solo il cerino. L’incendio non è devastante a causa del fiammifero, ma a causa dei litri di combustibile che trasformano una fiammella in una follia di massa. Nel film, Philip è il personaggio “positivo” che con la necessaria aggressività e determinazione porta avanti un’idea, mentre Kathy è il personaggio che nasconde la propria umanità e poi la ritrova. Non è importante, in ogni caso, che “lui” sia il personaggio positivo. Nel film di Stanley Kramer Indovina chi viene a cena (1967), infatti, i ruoli sono rovesciati: la moglie (Katharine Hepburn) accetta facilmente il matrimonio della figlia con un uomo di colore, mentre il marito (Spencer Tracy), pur essendo intellettualmente “aperto di idee”, si trova emotivamente in difficoltà e solo alla fine scioglie le proprie resistenze.
Nel film, Kathy riesce a capire proprio questo: non può creare una storia con un’altra persona se non vive una storia personale. Non può “condividere” una vita se non ha una propria vita e ha solo delle idee "politicamente corrette". L’amico Dave l’aiuta con molta benevolenza e partecipazione. Non fa prediche, ma l’aiuta a guardare ciò che lei già comincia a vedere e le fa notare che nessuno, tranne lei stessa, può permetterle o impedirle di esprimersi. Questo è il secondo messaggio del film, ma, purtroppo, la versione italiana rovescia il senso di tale messaggio. Infatti nella versione italiana Dave suggerisce a Kathy di cambiare per compiacere Philip. Un disastro. Con questa traduzione errata crolla l'intero film, poiché il messaggio complessivo diventa paradossale: Kathy non dovrebbe sottomettersi al conformismo sociale, ma dovrebbe “conformarsi” alla causa del marito. Ma che senso ha un “cambiamento” con cui Kathy inizia ad “esprimersi” solo per “adeguarsi” al marito idealista? D’altra parte le parole (in italiano) di Dave sono inequivocabili: “Tu puoi trasformarti come vuoi, come lui vuole, per amore!” In questo quadrettino, Philip combatte e lei gli rammenda i calzini anziché rammendarli ai suoi nemici. L’idea è semplicemente stupida. Le femministe direbbero che è un’idea maschilista, ma il punto è un altro: se il maschilismo nei secoli avesse prodotto saggezza dovremmo essere tutti maschilisti. Poiché ha prodotto assurdità dobbiamo usare la testa (uomini e donne) e non adottare un punto di vista semplicemente “opposto”.
Il problema è in realtà molto più ampio e tocca moltissimi ambiti della vita sociale. Noi tendiamo in qualche misura a capire la realtà, ma tendiamo anche ad uniformarci, ad “appartenere”, a non voler sembrare “strani”. Mandrie di persone “a posto”, di “brava gente”, anche di esseri umani sensibili e intelligenti tendono ad adeguarsi alla normale follia pur di non sentire la solitudine. Quella solitudine che c’è comunque, ma che sembra non esistere. Il fatto tragico è che questo bisogno di appartenere è un bisogno dei bambini, ma gli adulti cercano, purtroppo, di sentirsi “al sicuro” nella mandria come se fossero ancora dei bambini: non ottengono alcuna sicurezza reale e perdono semplicemente la consapevolezza di ciò che sono. Vivono a metà, vivono “poco”.
“I sentimenti fanno paura. E a volte fanno male. Se non riesci a sentire il male, non riuscirai a sentire nient’altro.”
(R. Redford, Gente comune)
Il film Hachiko (di Lasse Hallstrom) ripropone, ambientandola negli Stati Uniti ai giorni nostri, una storia veramente avvenuta nel Giappone degli anni ’20: un cane è andato per molti anni, tutti i giorni, alla stazione ferroviaria ad aspettare il suo padrone, che era deceduto. Una storia semplice, ricca di squisita bellezza, di dolore e di amore. Una storia che, essendo narrata nel film con delicatezza e senza enfasi, ci fornisce l’occasione per confrontarci con i nostri pensieri e i nostri sentimenti.
Hachiko, detto Hàchi è un cane. Semplicemente e autenticamente un cane. Capace “per come è fatto” di stabilire legami intensi e di restare fedele all’interno di una relazione. E’ capace di fare ciò per istinto e, purtroppo, anche per i propri limiti. I cani a volte fanno facilmente cose che per noi sarebbero una scelta molto complessa e il risultato di un’acquisita saggezza. Diventare sinceri e leali come i cani per noi è, in genere, un punto di arrivo: una svolta in cui rinunciamo alle difese psicologiche che ci spingono ad essere superficiali, indifferenti o malvagi. Nel film, Hachi mantiene il contatto emotivo con il proprio desiderio di un legame compiutamente espresso con il suo amico e non fa nulla per dissociarsi da tale desiderio, anche di fronte alla realtà dolorosa: il suo amico non ritorna. Non sa che è morto, ma sa che continua a non ritornare da lui. Non capisce che essendo morto non può più farlo. Accetta tale dolore sperando di ritrovarsi con lui. Resta fedele all’amico ed alle proprie emozioni. Non fa nulla di ciò che noi saremmo tentati (e in grado) di fare: minimizzare o soffocare il desiderio, minimizzare il valore dell’amico e quindi cessare di rimpiangerne la presenza, accusare l’amico di un “tradimento”, accusare la vita di includere tali esperienze. Con questi “imbrogli” noi riusciamo molto spesso ad ammazzare i nostri lutti e ad evitare il dolore per sguazzare in sentimenti brutti ma più superficiali. Per dieci anni, giorno dopo giorno, Hachi si ripropone il desiderio di rivedere l’amico che il giorno prima non si è presentato. Accetta il dolore, mantiene il desiderio, coltiva la speranza, aspetta e ritrova il dolore rispettandosi con quel dolore. Fa ciò senza distruggere nulla di sé, dell’amico e della propria vita. Fa ciò rispettando ciò che rende la propria vita una vita: il sentimento di amicizia, di lealtà, di amore.
Il film può disturbare chi è abituato a dissociarsi dai desideri e dal dolore. Può però anche far sentire alle persone che vivono con il proprio amore e con il proprio dolore, che non sono completamente sole. Varie persone hanno infatti contribuito alla realizzazione di un film che è un omaggio a quel tipo di consapevolezza così raramente condivisibile con altri esseri umani. C’è quindi qualcuno “là fuori” che non parla di emozioni nei modi contorti cari agli intellettuali e agli psicologi o nei modi riduttivi cari alle persone superficiali. Entrare nel film comporta il dolore di ricordare tutte le persone amate che sono morte. Oppure che hanno soffocato dei sentimenti, hanno bloccato delle risposte empatiche, non hanno voluto capire cose scomode e sono “un po' morte” pur rimanendo vive. Persone che abbiamo aspettato giorni, mesi, anni e che vorremmo ancora ritrovare. Entrare nel film equivale a riconoscere il valore dei nostri lutti che sono importanti perché sono nostri e non perché “belli”. Entrare nel film significa farci quella compagnia che avremmo voluto ricevere in un lontano o recente passato e che oggi tocca prima di tutto a noi stessi concederci, per danzare con la vita, assecondando il suo flusso e accettando il fatto che la felicità è gioia, ma anche dolore.
La sceneggiatura presenta degli errori. Ciò va sottolineato, perché tali errori potevano essere evitati con un minimo di attenzione. Tuttavia, tali errori non "pesano" troppo perché rientrano in una narrazione in cui la “materialità” del rapporto è, a mio parere, volutamente trascurata. Un professore trova un cucciolo presumibilmente smarrito, che può anche aver viaggiato per molto tempo; infatti il cucciolo viene trovato in una stazione ferroviaria, vicino ad una gabbia rotta. Il professore porta il cucciolo a casa, lo sistema sul divano del salotto e va a dormire. Se i cani non mangiano da un giorno o più, hanno fame come noi e soprattutto soffrono se non hanno sempre a disposizione dell’acqua. Quindi, il quadretto iniziale dell’accudimento si traduce, di fatto, in un comportamento tanto superficiale da risultare crudele. Più avanti nella storia, il professore abitua il cane ad accompagnarlo alla stazione ferroviaria e a tornare a casa da solo: una scelta forse accettabile nel Giappone di un secolo fa (negli anni in cui la storia realmente si verificò), ma decisamente irresponsabile in una città degli Stati Uniti di oggi: i proprietari dei cani sono responsabili della sicurezza dei loro beniamini … ed anche delle persone che potrebbero fare incidenti stradali a causa di un cane lasciato libero. Non solo. Il rapporto fra questo padrone e questo cane è un rapporto molto intenso, ma il cane non vive in casa: sta in una baracca ai margini del giardino, come la maggior parte dei cani poco accuditi e poco amati. Gli esempi si potrebbero moltiplicare e preciserebbero ulteriormente i contorni di una storia narrata in modo poco accurato. Tuttavia, la cosa più curiosa sta proprio nel fatto che questi “errori”, contribuiscono al “rafforzamento” del tema centrale: il semplice ed essenziale rapporto fra due esseri. Tale rapporto è “stilizzato”, non “raccontato”. E’ “messo a fuoco”, non “sviluppato” nei particolari.
Il padrone del cane è presentato come un compagno di passeggiate e una figura che accoglie sempre con un caldo abbraccio il suo amico. Il cane è presentato come un soggetto che cerca e offre un contatto fisico ed emotivo. Padrone e cane sono colti sempre e soltanto nella loro “pura presenza”: sono esseri interiori, non esseri viventi, sono esseri affettivi, non esseri biologici, sono descritti semplicemente nel loro rapporto. Questa riduzione all’essenziale esalta gli aspetti che il racconto deve evidenziare. Non so se il regista abbia volutamente “amputato” tanti aspetti "concreti" di un reale rapporto fra uomo e cane, ma queste amputazioni narrative, unite alla sensibilità con cui è descritto il desiderio di contatto dei due personaggi, rende la storia quasi ipnotica. Siamo “costretti a smarrirci” in una storia ridotta all’osso, in cui l’incontro diventa intimità e in cui la separazione diventa un rimpianto "assoluto". In tale storia non c’è altro. C’è solo la ricerca del contatto, il contatto, il dolore per la perdita del contatto.
Normalmente, gli esseri umani adulti vivono per non sentire il desiderio di una buona intimità e per evitare esperienze intense (e quindi "rischiose") di contatto emotivo. Gli adulti in genere sentono prevalentemente il bisogno di un contatto “nutriente”, cioè quello di cui sono stati privati nella loro infanzia e che ovviamente non possono recuperare nei rapporti con altri adulti. Gli adulti “ri-sentono” continuamente bisogni “antichi” che non possono più soddisfare, ma passano la vita o a cercare di soddisfare tali bisogni (attualmente insoddisfacibili), oppure a negare di sentirli. In entrambi i casi sono “piantati nel passato” e fanno cose strane nel presente per ottenere l’impossibile o per negare ciò che sentono. Gli adulti vivono nel terrore di (ri)sentire il loro vecchio dolore e rendono i loro rapporti interpersonali appiccicosi o distaccati. Vivono “poco” perché il piacere di vivere comporta anche dolore. Protetti da una finta passionalità o da finte forme di “indipendenza” non sentono più nulla di autentico, ma sentono un mucchio di “emozioni-spazzatura” consistenti in complesse miscele di ansia, rabbia e indifferenza.
Gli spettatori, vedendo un film come Hachiko, possono facilmente concedersi un pizzico di tenerezza per quel “povero cane” (non notando che il cane rappresenta loro stessi), oppure possono trattare con superiorità il problema “troppo elementare” narrato dal regista. In realtà, il problema è un problema fondamentale, non per i cani, ma per gli esseri umani. Se tollerassimo ed esprimessimo il nostro dolore (quello della nostra infanzia e quello del presente) vivremmo in un mondo “pulito”, senza disturbi psicologici, senza conflitti inutili, senza irrazionalità sociale, senza violenze, senza quella “cultura di massa” in cui siamo immersi ed anche senza una bella fetta di quella “grande cultura” che costituisce solo l’intellettualizzazione di un pantano psicologico spacciato per angoscia “esistenziale”. Vivremmo senza guerre, senza religioni, patriottismi, localismi e senza governi indecenti. Vivremmo da persone con altre persone in una comunità.
Normalmente evitiamo di ammettere, accettare ed esprimere il nostro coinvolgimento nei rapporti significativi. Minimizziamo ciò che sentiamo e manifestiamo agli altri solo una parte di quel pochino che riusciamo a sentire. Nel film, anche se forse la cosa non deriva da una consapevole scelta del regista, è evidente che il rapporto fra Parker (il padrone del cane) e la moglie è più “misurato” del rapporto con il cane. In una scena, Parker si esprime in modo caldo e diretto con la sua compagna dicendole di amarla e di provare gratitudine per ciò che lei gli dona ogni giorno. Lei risponde di ricambiarlo. Questa è intimità espressa. Tuttavia lui interrompe il contatto facendo una battutina che abbassa il livello della comunicazione: le risponde “meno male!”. In pratica, dal “crescendo” del “Ti amo!-Anche io!” si passa al ridanciano “Meno male!”. Lei poi esaspera il “ribasso” dicendo che lo ama soprattutto quando non ha odore di cane, e i due ridono. Niente di grave. Si può anche ridere quando si è innamorati, ma non è un caso che una comunicazione diretta e intensa sia stata stroncata da due battutine “amichevoli”. Con il cane, invece, Parker mantiene sempre alto il livello della comunicazione emotiva. Quando i due giocano, giocano seriamente. Quando passeggiano, si muovono “assieme”. Quando si incontrano dopo una separazione, si abbracciano. Il cane usa le zampe anteriori come due braccia. Parker accoglie sempre con le sue braccia le “braccia” di Hachiko.
Hachiko e Parker rappresentano l’essere “compagni di vita”. Quando Parker è vivo, Hachiko sente il desiderio di stargli vicino, ma sta tranquillo quando non è con lui. Parker è sempre disponibile verso Hachiko, ma in sua assenza si occupa della propria vita, dei suoi cari e dei suoi studenti. La storia è quindi la metafora di buoni rapporti di coppia, di amicizia, professionali e famigliari. Rapporti con una dipendenza psicologica accettata, ma senza dipendenze psicologiche “strane”. Rapporti senza doveri, senza colpevolizzazioni, senza pretese, senza ricatti, senza rancori, senza gelosie, senza noia, senza modalità “appiccicose” di contatto e senza artificiose distanze. La storia è una celebrazione dell’intimità.
La realtà è più “reale” dell’idea di essa che spesso abbiamo in mente: noi viviamo fondamentalmente per godere di buoni rapporti e per costruire buoni rapporti. Questa è la vera avventura della vita umana. Sicuramente abbiamo anche bisogno di risolvere problemi, dato che abbiamo un cervello, abbiamo bisogno di nutrirci (e quindi di lavorare, guadagnare, ecc.), dato che abbiamo uno stomaco e abbiamo bisogno di riposarci, di svagarci, ecc. Ma i problemi che desideriamo risolvere hanno sempre dei risvolti interpersonali. Se non siamo troppo dissociati da noi stessi, comprendiamo facilmente che il succo della vita non sta né nella semplice accumulazione di cultura, né nella buona cucina, né nelle tappe della carriera. Il succo è l'intimità e il resto è … il resto. Se tendiamo a “piantarci” in passatempi intellettuali o lavorativi o “sociali” non necessari o addirittura distruttivi, di fatto, siamo spinti dalla paura dell’intimità. L’intimità, il piacere della “presenza” delle persone care e anche il piacere del nostro rapporto con noi stessi, orienta il tempo delle nostre giornate e delle stagioni della nostra vita. Per questo, proprio il film Hachiko ci ricorda chi siamo. Ci ricorda che siamo liberi di gioire con chi amiamo e che siamo capaci di rimpiangere chi amiamo e non è più con noi. Ci ricorda che la nostra dignità non consiste nel dimostrare che siamo come gli altri ci vogliono, ma nell’essere ciò che realmente siamo: più teneri, più generosi e più vulnerabili di quanto normalmente gli altri riescono ad immaginare.
Hachiko non è stato un cane “generoso”: ha semplicemente vissuto la propria vita e nel fare ciò ha reso migliore quella del suo padrone e di tanti altri. Per questo, anche se è passato quasi un secolo dalla morte del vero Hachiko, un film sulla sua storia ci tocca ancora. Il comportamento di Hachi nel film deriva da un equivoco. Egli non sa che il suo amato amico è morto. Per quel motivo aspetta e continua ad aspettare. La consapevolezza della morte lo renderebbe triste, ma non ostinato ad aspettare inutilmente. Noi umani, abbiamo un vantaggio rispetto ad Hachiko: in genere sappiamo come stanno le cose. Abbiamo però uno svantaggio: normalmente seguiamo un copione di vita in cui lo scopo principale è “non sentire il dolore”, e perseguiamo tale scopo a costo di creare altro dolore a noi stessi ed alle persone care. La morte ci coglie preparati o impreparati, ma ci raggiunge sempre e anche la distruttività nei rapporti affettivamente significativi è una manifestazione della morte: fa morire qualche sviluppo vitale di tali rapporti. La rabbia nei rapporti affettivamente significativi è sempre una difesa. Sempre e comunque. Quando ci arrabbiamo con una persona cara non siamo “presi” da una forza irresistibile, ma scegliamo di dire cose che creano sofferenza piuttosto che accettare una nostra sofferenza. Se amiamo qualcuno possiamo anche separarcene, ma con amore, chiarendo le cose e non vendicandoci di presunte “ingiustizie”.
Restare vivi, a dispetto della morte che ci incalza con la distruttività di tante persone che amiamo e da cui vorremmo essere riamati è compito nostro. Siamo in ogni istante liberi di “rovinare tutto” con rancori, vendette e svalutazioni, ma siamo anche liberi di salvare i nostri sentimenti profondi e la nostra vita. Risulta chiaro, quindi, che il film Hachiko ci aiuta (se ci permettiamo di farlo) a riflettere sul nostro modo di vivere. La reiterazione della presenza all’appuntamento alla stazione non ci ricorda solo ciò che quel cane non aveva capito, ma ci indica la possibilità di non dissociarci dal desiderio di chi ci manca e dalla benevolenza nei suoi confronti; è la metafora della nostra possibile fedeltà a ciò che sentiamo. Se non ci assumiamo la responsabilità personale di essere fedeli a noi stessi chi potrà farlo per noi? La nostra vita include dei dispiaceri e, se uccidiamo quelli, uccidiamo in qualche misura noi stessi e la nostra felicità.
13. Fiori per Algernon
John - Che cosa fa la gente?
Alicia - E’ la vita, John; esistono infinite possibilità; basta aggiungere il significato.
(R. Howard, A Beautiful Mind)
“Il dotor Strauss dicie che dovrei skrivvere quello che penso e riccordo e tutto quello che mi sucederà dora inavanti. Non lo so il perché ma lui dicie che importante perché così vedranno se potrò servire a cualcosa. Spero di sì perché Miss Kinnian dicie che forse riusiranno a farmi diventare inteligiente. Vollio esere inteligiente. Michiamo Charlie Gordon e lavvoro nela paneteria di Donner indove che il signor Donner mi dà 11 dollari a la setimana e pane o torta se volio. Ho 32 anni e il mese prossimo sarà il mio compleanno. O detto al dotor Strauss e al profesor Nemur che non so skrivvere bene ma non a importanza dicono loro doverei soltanto skrivvere come che parlo e come skrivvo comprosizzione al centro scollastco per addulti ritardatati, nela clase de la Miss Kinnian dove che vado tre volta a la setimana ne le mie ore libbere. Il dotor Strauss dicie di skrivvere tanto di tuto quelo che penso e di tuto quelo che mi suciede ma a me non mi vene in mente altro perché non ci ho gnente da skrivvere e così perogi chiudo … il vostro a fezionato Charlie Gordon”.
La storia è in fondo semplice. Charles Gordon, che tutti chiamano Charlie, è un ritardato a cui viene offerta la possibilità di sviluppare l’intelligenza con un nuovo tipo di intervento chirurgico fino ad ora sperimentato solo su animali. All’inizio della storia Charlie è molto frustrato perché il topolino Algernon (che ha triplicato la sua capacità intellettiva con l’intervento) lo supera sempre nella prova del labirinto. L’operazione riesce bene e i resoconti di Charlie (che costituiscono l'intelaiatura del libro) mutano gradualmente sia sul piano grammaticale, sia su quello della comprensione dei fatti, sia perché includono sempre maggiori collegamenti con le conoscenze gradualmente assimilate. Dalla vetta raggiunta, però, Charlie comprende prima degli studiosi che lo avevano operato e seguito, che Algernon sta regredendo e che egli stesso dovrà inevitabilmente ritornare al suo livello originario di intelligenza. Nel libro, più che nel racconto breve, viene descritto nei dettagli il mondo interno di Charlie in tutte le sue sfumature e viene analizzato con cura il rapporto fra Charlie e la sua famiglia d’origine e il rapporto fra Charlie e Alice Kinnian, l’insegnante che lo accompagna sia nella scuola per ritardati all’inizio, sia nei suoi studi successivi. Tra i due nascerà un amore struggente, complicato ovviamente dalla stranezza di tutta la situazione e dai cambiamenti manifestati da Charlie. La storia è intrigante e offre spunti di riflessione su alcuni temi: il rapporto fra le persone che hanno dei deficit intellettivi e le persone normali, i rischi della ricerca scientifica, le ambizioni personali dei ricercatori, l’attesa della morte (che, nel caso del personaggio, è l’attesa del ritorno alla condizione iniziale).
Cercherò ora di “scavare” un po’ nel testo di Keyes (utilizzando citazioni tratte dal romanzo, non dal racconto breve) per evidenziare alcuni temi importanti e in genere trascurati da filosofi e psicologi. Il libro si presta ad un equivoco, ovvero all’idea secondo cui la nostra lucida e profonda partecipazione alle esperienze della vita dipende dalla nostra intelligenza, poiché le vicende narrate si sviluppano in relazione allo sviluppo ed all’involuzione del quoziente intellettivo di Charlie. Tuttavia tale lettura sarebbe superficiale e fuorviante. In realtà, tutti conosciamo persone indiscutibilmente intelligenti, ma decisamente “povere” sul piano umano. Tutti conosciamo anche persone che sicuramente non brillano per il loro Q.I. o per la loro cultura, ma che sono profondamente sagge. Ci si deve chiedere, quindi, se implicitamente l’Autore volesse davvero suggerire l’idea banale secondo cui le nostre “capacità umane” sono riconducibili alle nostre capacità intellettive. Alcuni brevi passaggi possono indurci ad appoggiare questa interpretazione: Alice nota, quando Charlie è diventato un genio, di essere “distante” da lui come quando egli era uno stupido e quindi sente di non poter avere un rapporto sentimentale con lui. Inoltre, i due si amano proprio nella “fase discendente” di Charlie, quando intellettivamente si ritrovano sullo stesso livello. Tuttavia, sarebbe riduttivo attribuire all’Autore una sopravvalutazione dell’intelligenza nelle relazioni interpersonali. Di fatto, Alice non si concede a Charlie nella sua “fase ascendente” per due motivi ben diversi: in tale fase Charlie è emotivamente “scombussolato” dai continui cambiamenti e soprattutto egli stenta a raggiungere una maturazione psicologica analoga a quella intellettiva. I due si incontreranno, quindi nel momento in cui Charlie avrà acquisito una maggior consapevolezza di sé ed anche un reale rispetto per sé. La comprensione del declino in corso rende Charlie più compassionevole, cioè più “umano” e quindi capace di amare se stesso e una donna. Solo in questa nuova, dolorosa, ma intensa e positiva situazione, Alice sente, nel romanzo, di potersi fidare di lui e di poter manifestare un affetto che era già divenuto attrazione, ma non era stato espresso.
E’ ovvio che per certi incarichi si richiedano particolari competenze intellettive e conoscenze, che le persone di bell’aspetto cerchino in genere dei/delle partner fisicamente attraenti e che le banche concedano prestiti più alti a chi offre maggiori garanzie, ma questo non significa che le aziende amino i loro funzionari o che le persone belle amino sempre i/le loro partner o che le banche amino i loro clienti. Questo culto (pagano) di massa relativo alle “capacità personali” (anche intellettive) che porta tanta gente a provare imbarazzo con persone “superiori” sotto qualche aspetto, non sta in piedi. Resta in piedi pur non avendo solide basi, perché ha basi psicologiche profonde, anche se irrazionali. I genitori, quando rifiutano i figli, non conoscono il motivo della loro ostilità e quindi trovano delle scuse: “sei il solito stupido”, “fatti onore”, “non deludermi”, “non far soffrire la mamma”. I bambini, proprio perché sono piccoli, vogliono credere di essere rifiutati per i loro limiti pur di non accettare che sono poco amati. Vogliono credere che se saranno più bravi, più buoni o più ordinati, saranno anche amati. Si aggrappano (inconsapevolmente) a queste sciocchezze e ne fanno una ragione di vita, sia nell’infanzia, sia nelle epoche successive: cercano amore impegnandosi più del necessario prima a scuola o nello sport e poi sul lavoro, cercano amore “parlando difficile” anche se non serve, cercano amore “ritoccandosi le rughe” quando invecchiano. Il libro di Keyes è quindi, in fondo, un antidoto per questa “droga mentale”, dal momento che quando Charlie diventa un genio ci tiene a precisare che era un essere umano anche prima e che meritava quindi lo stesso rispetto.
Nel romanzo viene evidenziato che l’attaccamento iniziale di Charlie all’idea di diventare “inteligiente” aveva le sue radici nelle chiusure psicologiche di sua madre, una donna fragile emotivamente e incapace di accettare il ritardo mentale del figlio. Una donna orientata a scaricare sul figlio la propria mancanza di rispetto per se stessa. Il padre era molto più sereno nei confronti dei limiti del figlio, ma non riusciva a “fare il padre” e ad intervenire quindi in modi opportuni. Nel corso della storia, Charlie comprende il nesso (illusorio e difensivo) fra il proprio passato e la propria esigenza di “progredire”: “Ma io, suppongo, non smisi mai di desiderare di essere il bambino intelligente che lei avrebbe voluto, affinché potesse amarmi” (p. 128).
Se vediamo il libro da questa angolazione, riusciamo a trovare in esso proprio un profondo riconoscimento dell'importanza degli aspetti “semplicemente umani” degli esseri umani, al di là dei loro pregi o limiti intellettivi o di altro tipo. Non a caso, quando Charlie inizia a sentire attrazione sessuale per Alice, si accorge di non avere una “solidità interiore” paragonabile alla solidità culturale ormai raggiunta e riflette sulla cosa in questi termini: “Come fa un uomo a imparare il modo di comportarsi con una donna? I libri non servono un gran che” (p. 75). Si impara, infatti, crescendo in un ambiente famigliare emotivamente equilibrato e ricco di intimità. Si impara prima ad essere amati e poi ad amare. La capacità di amare sessualmente si sviluppa in seguito, naturalmente.
Lo sviluppo intellettivo porta Charlie a capire cose che nemmeno gli studiosi che lo avevano guidato riuscivano a capire, ma ciò che di meraviglioso egli raggiunge, uscendo dal tunnel della propria ottusità iniziale, è soprattutto la capacità di accettare sia ciò che è diventato, sia ciò che era. E di accettare Algernon anche sulla via del declino e dopo la sua morte. Assistendo al declino di Algernon egli prova compassione per quell’animaletto che gli era stato tanto vicino. E decide che il topolino suo amico non deve finire nell’inceneritore del laboratorio. Dopo la sua morte lo seppellisce nel proprio giardino e continua a deporre fiori sulla piccola tomba. Da qui il titolo del libro. Questa ricchezza interiore diventa un elemento stabile di Charlie che, infatti, manterrà l’affetto per Alice e per Algernon anche quando tornerà a scrivere delle pagine sgrammaticate. L’ultima di queste, che è anche l’ultima pagina del libro, riguarda proprio il suo sentimento per l’amico sepolto nel giardino e la speranza che, quando egli morirà, altri depongano fiori sulla tomba del topolino: “per piacere se posono metano cualke fiore su la tomba di Algernon nel kortile”.
"E la vita non è fatta di idee. La maggior parte delle cose viventi nemmeno le ha, le idee. Quello che conta succede prima delle idee."
(Sydney Pollack, Havana)
Anche se l’espediente delle situazioni “estreme” facilita agli scrittori ed ai registi il compito di rappresentare la "profondità" dell’esistenza umana, in alcuni casi gli autori scelgono di descrivere tale profondità proprio raccontando piccole storie ambientate nella semplice vita quotidiana. In un certo senso, tale scelta è “ardita”, perché il minimalismo spesso esprime una visione distaccata della vita, ma quando tale scelta non implica distacco e l’autore è capace di usare le parole della passione e della compassione, i risultati sono davvero preziosi. Alcuni romanzi e film di questo tipo mi sono particolarmente cari, anche perché, non avendo mai dovuto affrontare scenari di guerra o persecuzioni politiche o ricatti mafiosi o grandi sfide scientifiche, trovo confortante che qualcuno riesca a “dimostrare” che anche le piccole vite come la mia sono in qualche modo preziose.
Sherwood Anderson (1876-1941), con il suo modo di scrivere scarno ed essenziale non ha solo influenzato (con Gertrude Stein) i migliori scrittori americani della “generazione perduta” (Ernest Hemingway, William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, John Steinbeck e altri), ma ha fatto qualcosa di molto importante sul piano umano: ha trovato le parole giuste per raccontare come le persone ogni giorno possono vivere la loro vita o vivere "poco". I Racconti dell’Ohio (1919) di Anderson scuotono la nostra sensibilità fin dalle prime pagine, da cui voglio trarre alcuni brani.
Anderson chiude così, bruscamente, la sua riflessione sulla nostra capacità di nascondere ciò che siamo, proprio aggrappandoci avidamente a delle certezze. Egli ci lascia, senza certezze anche alla fine della serie di racconti dedicati ad alcuni abitanti di Winesburg, un paesino dell’Ohio. Senza certezze, ma con un senso di calore. Forse con la “certezza morbida” secondo cui ogni persona è un mondo, una soggettività fatta di vita vissuta e per questo preziosa. Anderson non ci spiega molto dei suoi personaggi; li delinea rapidamente, lasciandoci il compito di riempire gli spazi vuoti con la nostra tenerezza. Egli ci “indica” le cose più private senza permettersi mai di “sviscerarle”, come se fossero troppo fragili per essere afferrate dalle parole. Ogni capitolo del libro è dedicato ad un abitante di Winesburg e le storie narrate sono storie di persone spesso abbastanza confuse. In ogni caso l’autore si astiene dal giustificare e anche dal condannare. Anderson cerca piuttosto di narrare vite con il rispetto di chi capisce che ogni scelta cruciale degli esseri umani rientra in un progetto esistenziale, magari confuso o illusorio, ma sentito come necessario. E’ questo tratto lieve della filosofia dell’autore che, unito ad uno stile esasperatamente “essenziale”, ci permette di “entrare in punta di piedi” in queste esistenze, a volte isolate dalle altre e a volte intrecciate alle altre. Fin dal primo racconto, Anderson spiega che, nonostante l’età, lo scrittore aveva una cosa dentro di lui che era giovane e che era vitale. Era “come una donna pregna” (p. 8) e proprio tale “cosa giovane” era responsabile di quella specie di sogno che aveva ispirato il suo nuovo libro.
Perché il "contenuto" o "messaggio" di una narrazione non sia superficiale occorre che l'autore oltre a saper raccontare abbia anche "qualcosa" da raccontare. I racconti “sentimentali” o polizieschi, in genere non ci conducono da nessuna parte, se non all'auspicato matrimonio o alla scoperta dell'assassino. Quelli "veri", invece, parlano della vita reale delle persone e quindi delle loro battaglie interiori. Qui casca l'asino, perché non sta scritto da nessuna parte che le battaglie interiori debbano necessariamente essere costituite da tormenti moralistici. L'idea dell'uomo "lacerato" o “inquieto” non è un'idea "profonda", ma un'idea fasulla che nasce a sua volta da una lacerazione, da idee e da emozioni confuse. Ciò che rende "tragica" la vita umana non è la presenza di equivoci psicologici, ma la consapevolezza dell'inevitabile compresenza di gioia e dolore nella trama dell'esistenza personale. E' quindi irrilevante che una storia realmente interessante sia lineare o complessa, o che abbia un lieto fine o un finale triste.
Vi sono anche altri romanzi importanti, in cui i rapporti fra le persone vengono arricchiti da sentimenti comprensibili e non da difese psicologiche scambiate per “stati d’animo profondi”. Jack London, nel libro Il richiamo della foresta è riuscito a ricapitolare metaforicamente la determinazione con cui le persone possono lottare non solo per sopravvivere, ma per stabilire legami contrassegnati da lealtà, fedeltà e amore. David Herbert Lawrence, invece, ha creato una storia (L’amante di Lady Chatterley) tanto semplice da risultare quasi fantascientifica in un mondo in cui le relazioni di coppia ruotano attorno a sentimenti irrazionali e quindi difensivi: la storia di un uomo e una donna che si incontrano, rinunciano alle loro chiusure psicologiche, si lasciano conoscere esprimendo ciò che realmente sentono, si apprezzano, si desiderano, manifestano liberamente il loro desiderio sessuale, si permettono anche di amarsi e di fare le scelte che riflettono il loro semplice amore. E’ un romanzo troppo bello per essere facilmente compreso e, non a caso, è stato considerato un testo “pornografico” ed è stato poi rivalutato, ma non adeguatamente riconosciuto come radicalmente diverso da tanti altri. D’altra parte, 1984 di George Orwell è stato apprezzato come romanzo “politico” anche se è prezioso proprio per ciò che coglie nella dimensione personale.
Anche nell’ambito del cinema, sia alcuni maestri della regia, sia alcuni semplici artigiani, ci hanno lasciato storie semplici e convincenti come quelle di Anderson. Mi riferisco a film come Una storia vera, di David Lynch, in cui un vecchietto decide di riconciliarsi col fratello e di arrivare da lui senza l’aiuto di nessuno. Nel viaggio, alla guida di un tosaerba a cui ha agganciato un rimorchio contenente coperte e scorte alimentari, il personaggio, interpretato da uno splendido Richard Fainsworth a fine carriera, incontra varie persone. Ad ognuna di esse lascia alcune parole schiette e il suo calore umano. Nel film Smoke, diretto da Wayne Wang e Paul Auster i personaggi riescono a stabilire un contatto davvero autentico facendo cose normalissime, ma soprattutto manifestando la capacità di trattare gli altri come soggetti e non come oggetti. E’ commovente la storia che il tabaccaio racconta alla fine del film all’amico scrittore per aiutarlo a scrivere una bella “storia di Natale”.
8. Pleasantville
"Molto di ciò che si definisce piacere non è altro che uno sforzo volto a ridimensionare la consapevolezza."
(G. Orwell, The collected essays, Journalism and Letters, Vol. IV)
"Molto di ciò che si definisce piacere non è altro che uno sforzo volto a ridimensionare la consapevolezza."
(G. Orwell, The collected essays, Journalism and Letters, Vol. IV)
Pleasantville, scritto, prodotto e diretto da Gary Ross, è un film che coglie in modo lieve e spietatamente graffiante le radici delle chiusure mentali individuali e, inevitabilmente, di qualsiasi forma di autoritarismo sociale. Continuo a rivederlo e a stupirmi ogni volta dell’elegante fusione di acutezza e compassione che caratterizza la narrazione. Il film procede in modo strano: all’inizio sembra un filmetto sciocco sugli studenti americani, poi risulta focalizzato su temi importanti e alla fine scioglie il cuore e costringe a sentire ciò che si stava iniziando a capire.
Due ragazzi, fratello e sorella, entrano misteriosamente, come in un film di fantascienza, in un’altra dimensione. Non nel passato o nel futuro o in un mondo parallelo, ma in una serie televisiva degli anni ’50 che riportava il tipico modo di vivere dell’americano medio di quegli anni. Si trovano catapultati in un piccolo centro abitato in cui non succede mai nulla e in cui i personaggi dello sceneggiato recitano le puntate che i due ragazzi avevano già visto in TV. Con l’espediente del trasferimento di due persone reali in una “realtà non reale”, il film rappresenta il modo in cui le persone possono perdere la loro identità diventando “semplici personaggi”, e quindi caricature di se stesse. Altri film orientati ad esplicitare una denuncia del conformismo hanno preso di petto la questione, in termini drammatici. Indovina chi viene a cena (di Stanley Kramer), La parola ai giurati (di Sidney Lumet) e Farenheit 451 (di Francois Truffaut) hanno evidenziato come sia facile per gli esseri umani assorbire pregiudizi e limitare la capacità di pensare e di sentire. Nel film di Gary Ross, invece, l’espediente del “salto” dei due ragazzi all’interno di una serie televisiva porta lo spettatore a godersi una storia bizzarra e un po’ buffa prima di capire che sta esplorando quell’incubo costituito dalla resa delle “persone comuni” (e reali) ad una società autoritaria e moralista che soffoca la riflessione critica, l’intimità, la sessualità e il bisogno di partecipazione alla vita sociale.
I due ragazzi (David, interpretato da Tobey Maguire e Jennifer, interpretata da Reese Whitherspoon), rimpiazzano due adolescenti della commedia, ma, essendo persone reali, sconvolgono l’ordine mentale dell’intera popolazione di Pleasantville, costituita da personaggi completamente calati nel ruolo previsto dalla sceneggiatura. Lo stupore e la curiosità attraversano con effetti benefici le menti dei personaggi abituati a fare le stesse cose, sempre negli stessi modi e tale situazione paradossale costringe lo spettatore a chiedersi quanto le persone reali nella vita reale assomiglino ai personaggi di una serie televisiva che rappresenta la quintessenza della normalità di una particolare generazione e del “mondo” di tale generazione. Un mondo in bianco e nero, non solo sul piano cromatico, ma anche su quello emozionale. Gli abitanti di tale mondo, infatti, “non pensano” e sentono solo ciò che è previsto dal loro copione. Lavorano, cenano la sera, lavano la macchina la domenica. Sono sempre allegri, chiacchierano di banalità e non hanno alcun interesse per ciò che accade al di là dei confini della loro cittadina. I ragazzi nemmeno si baciano e parlano con i genitori dei loro vestiti o della partita di pallacanestro, ma non di altro.
In quel mondo semplice e rassicurante non esistono problemi sociali, non esistono problemi nei rapporti interpersonali e non esistono nemmeno gli incendi: i vigili del fuoco vengono chiamati solo per recuperare gatti smarriti. A scuola si seguono programmi ultrasemplificati e non si apprende niente della storia della società in cui il paese è immerso, perché gli abitanti nemmeno immaginano di far parte di una società. La geografia inizia e finisce con le strade di Pleasantville e quando Jennifer (che è calata nel personaggio di Mary Sue) chiede all’insegnante cosa ci sia oltre Pleasantville suscita solo un imbarazzo generale. I libri hanno le pagine bianche, dato che non si deve imparare nulla sul mondo, ma si deve solo confermare ciò che già si conosce di quel microcosmo incantato. Tutto è così compatto, perfettino e “grigio” che non esistono nemmeno domande capaci di trascendere l’ordine dato. Il film consente di toccare con mano il fatto che la gente non vive male perché accetta “risposte sbagliate”, ma perché non si fa domande: gli errori possono sempre essere corretti e risultare delle tappe di un’avventura conoscitiva, ma il blocco della curiosità genera il vortice del vuoto conoscitivo ed esistenziale.
Ora, cosa si è proposto il regista costruendo questa situazione assurda con due ragazzi di oggi imprigionati in un mondo irreale? Il regista ha utilizzato quella situazione bizzarra come una metafora adatta a rappresentare in modo esasperato i normali rituali psicologici e sociali delle persone reali che nel mondo reale di oggi vivono “poco” perché sentono e pensano poco. Il regista ci lancia quindi un S.O.S. invitandoci a diffidare della tendenza presente in tutti noi a “perderci” nella quotidianità, nelle convenzioni, nelle abitudini condivise.
I due ragazzi del film hanno inizialmente un atteggiamento diverso. David cerca di non disturbare l’ordine costituito perché pensa che in quel mondo i personaggi non potrebbero sopportare sollecitazioni estranee alla loro mentalità, mentre Jennifer è molto infastidita dal perbenismo e dall’ottusità delle persone con cui è costretta ad interagire e assume atteggiamenti provocatori. Di fatto avvia una reazione a catena e i personaggi della tranquilla cittadina si trovano a fare i conti con stimoli, domande e situazioni estranee alle loro coordinate mentali. Quando i personaggi “recuperano” un aspetto della loro “interiorità inespressa”, prendono colore. Gradualmente Pleasantville diventa un mondo a colori, come quello reale, e i personaggi di quel mondo diventano persone, con dubbi, speranze, gioie, sofferenze, voglia di porre domande e desideri sessuali. Il film, quindi, non è schematico. Non ripropone in modo elementare il mito della rivoluzione culturale o della rivoluzione sessuale e nemmeno suggerisce l’idea della rivolta generazionale o della contestazione puramente intellettuale del perbenismo. Tocca gradualmente tutti i nodi della nostra paura di vivere e rende perfettamente l’idea del cammino che ognuno di noi ha bisogno di fare per liberarsi dalle proprie privatissime catene. L’espediente narrativo dei personaggi che diventano persone ha quindi una forza dirompente e ci consente di chiederci quanto siamo disposti a vivere la nostra vita e quanto siamo ostinati a modellarci in modo da schivare esperienze intense ed anche dolorose.
David viene interpellato dai vari personaggi messi in crisi dalle situazioni determinate da Jennifer. Ciò che colpisce è la delicatezza con cui David risponde alle richieste (e alle angosce) dei personaggi: non si propone come un paladino della loro “liberazione”, ma mostra attenzione e rispetto sia per il loro bisogno di cambiare, sia per la loro paura di cambiare. Riesce cioè a comprendere sia il mondo in bianco e nero in cui i personaggi vivevano, sia il mondo a colori che gradualmente stanno conquistando. Nel film alcuni escono dal bianco e nero e recuperano i loro colori liberando la loro sessualità, altri fanno lo stesso cambiamento scoprendo l’avventura della lettura, altri ancora esprimendo la necessaria aggressività di fronte ai soprusi ed altri manifestando commozione. Nel film viene descritta anche l’intolleranza dei personaggi più impermeabili ai cambiamenti, ma tale intolleranza è analizzata accuratamente come un riflesso della loro paura. Infatti, i personaggi che disprezzano e aggrediscono le persone “a colori” o bruciano i libri (che ora non hanno più le pagine bianche), non sono identificati semplicemente come “i cattivi”, ma sono analizzati come prigionieri del loro terrore di provare emozioni intense.
Il film, in pratica, è un omaggio alla consapevolezza delle nostre potenzialità e non un’incitazione a ribellioni prevedibili e superficiali. Sottolinea il valore della nostra dimensione interiore e riesce sia a trattare con discrezione la nostra abituale tendenza a vivere “da personaggi”, sia la nostra esigenza di esprimerci compiutamente come persone. Quando il sindaco esclama “non possiamo stare fermi a guardare ciò che succede senza muovere un dito”, manifesta quel miscuglio di terrore e odio che caratterizza qualsiasi atteggiamento fascista. L’odio per ciò che è piacevole, spontaneo, creativo nasce dal terrore di sentire, sapere, creare. Nasce dal terrore di perdere un’identità falsa e di rinunciare a sicurezze illusorie. Infatti, a Pleasantville i personaggi più “attaccati” alla loro parte non sanno cosa fare quando le battute del loro copione non si incastrano più con quelle degli altri personaggi. Potrebbero lasciarsi trasportare dalla corrente delle cose, ma per farlo dovrebbero capire e sentire ciò che non hanno mai nemmeno concepito. Il sindaco invita, quindi, i suoi amici a restare uniti e ad opporsi a ciò che non capiscono e che non vogliono capire.
Nel film risulta evidente che il cambiamento delle persone non consiste semplicemente nella modificazione dei comportamenti. Le persone costruiscono delle difese psicologiche che non si riducono a semplici comportamenti, ma che consistono nell’autosvalutazione degli aspetti di sé svalutati dagli altri. Non solo, quindi, della sessualità, ma della curiosità, dell’aggressività costruttiva e del dolore. In questo senso, Pleasantiville non è un film “facile”, con i buoni, i cattivi e le cose “giuste” da fare per “sistemare tutto”. Costringe a riflettere perché è tagliente e aiuta a sentire perché è rispettoso della sensibilità (e anche delle difese psicologiche) delle persone. In questo gioiellino cinematografico c’è praticamente “tutto”, ma ridotto all’essenziale. Quando nella nostra vita reale viviamo “da personaggi” non recitiamo un copione impostato da uno sceneggiatore, da un produttore e da un regista, ma recitiamo un copione stabilito da noi stessi in un’epoca in cui eravamo troppo piccoli per accettare il dolore. Il film di Gary Ross, quindi, ci aiuta a sentire la nostra paura di cambiare e la nostra voglia di cambiare senza prendere di petto il tema delle difese psicologiche, ma mostrandoci tutti i passaggi interiori attraverso cui normalmente arriviamo a vivere "poco".
9. Cosa resta del giorno?
Atticus - Non riuscirai mai a capire una persona se non cerchi di vedere le cose anche dal suo punto di vista.
Figlia - E cioè?
Atticus - Devi cercare di metterti nei suoi panni e andarci a spasso.
(R. Mulligan, Il buio oltre la siepe)
Il film di James Ivory Quel che resta del giorno ci aiuta a toccare con mano il fatto che le persone possono avere un’idea di sé e della realtà che non ha nulla a che fare con ciò che sono e con la realtà in cui vivono. Il film, quindi, ci aiuta a chiederci in quale misura il nostro “mondo soggettivo” rifletta ciò che siamo “davvero” e il mondo in cui trascorriamo la nostra vita. In questo capolavoro di Ivory ogni inquadratura o sequenza o frase è semplicemente e terribilmente perfetta e ciò rende ancora più apprezzabile un’opera già preziosa per i contenuti che trasmette.
Ad una riunione di ricchi e di politicanti tenuta fra le due guerre in una grande casa padronale dell’Inghilterra si sprecano parole come onore, dignità e giustizia, mentre si nega il fatto che la Germania si sta preparando a rendere normale l’orrore. In altri modi e in altri contesti questo accade ancora oggi: oggi come allora alcune persone seducono le “masse” rassegnate alla sottomissione. Tuttavia, nel film i personaggi politicamente più importanti restano sullo sfondo, mentre l’accondiscendente proprietario della grande casa e alcune persone al suo servizio hanno un ruolo centrale.
L’ospite è sinceramente convinto di dare un contributo alla storia dell’umanità, dato che non riesce nemmeno ad immaginare un mondo umano. Non agisce per interesse personale, ma con una “limpida incoscienza” che risulta inquietante. Allo stesso modo è inquietante la deferenza di Mr. Stevens, il capo-maggiordomo, nei confronti di un’accozzaglia di invitati intenti ad autocelebrare la loro immaginaria superiorità “razziale e morale”. Quel maggiordomo non ha mai sospettato di poter interagire da persona con altre persone perché, in pratica, conosce solo l’esistenza di esseri a lui socialmente “superiori” e di esseri sottoposti al suo controllo nell’esercizio di mansioni sciocche, come la misurazione della distanza “giusta” fra i piatti e le posate a tavola. Non ha mai abbracciato suo padre e si limita a sfiorare la sua mano nel momento della sua morte. Non coglie nemmeno le controllate, ma evidenti, manifestazioni di attenzione personale che gli rivolge Miss Kenton, la responsabile delle cameriere, e si limita ad apprezzare le sue capacità professionali.
Il film è graffiante, ma non polemico. Coglie con feroce lucidità la commistione di insensibilità e irrazionalità nei pensieri, nelle frasi e negli atteggiamenti dei personaggi principali e mostra la “inevitabilità” di ciò che tali persone fanno perché non sospettano nemmeno di poter mettere in discussione i sentimenti che costituiscono il collante della loro (falsa) identità. Nel film di Ivory, il maggiordomo Stevens è irremovibile nella sua sottomissione al padrone: confida nel fatto che egli pensi ed agisca sempre nel migliore dei modi. Non si interroga sulla sensatezza delle idee di un ricco inglese filo-nazista e non vuole nemmeno ascoltare i suoi discorsi per evitare qualsiasi possibile dubbio. Non ha idee proprie sulla società come non ha idee sul proprio modo di vivere. Non vuole sapere nulla perché sente la necessità di vivere in un certo modo e di essere deferente nei confronti del padrone che considera rispettabile semplicemente in quanto membro di una classe rispettabile.
Nel mondo reale in cui viviamo oggi, le persone non sembrano mentalmente ottuse come Mr. Stevens. Leggono i giornali e quindi si informano sulle idee di tutti e non temono di mettere in discussione le idee di alcuni loro “padroni”. Hanno però il terrore di mettere in discussione il massimo comun divisore delle bugie offerte dalla confraternita di tutti i loro padroni. Danno per scontato che la loro “patria” sia davvero “qualcosa” e che sia più di una realtà amministrativa, ma non sanno perché. Danno per scontato che i problemi del loro paese siano più importanti di quelli del resto del mondo. Danno per scontato che “la religione” sia “quella” religione, che “la sinistra” sia “quella” sinistra. A volte “si aprono” a idee nuove, anche se esse sono semplicemente stupide, solo perché sono state ripetute in TV (o nel web). Quanti Mr. Stevens apparentemente consapevoli incontriamo ogni giorno? Ci sono anche persone allenate nella critica, anticonformiste, tese ad “emanciparsi”. Quante lo fanno per aver cura di sé e di chi amano e quante lo fanno per sentirsi “accettabili”? Ci sono persone piene di passioni, ma quante manifestano autentici slanci, trasmettono calore ed esprimono una vera disponibilità verso gli altri?
Senza il conformismo sociale non esisterebbe alcuna società “data” e la convivenza sociale sarebbe radicalmente diversa Senza la paura di abbandonare il proprio guscio non ci sarebbero relazioni interpersonali “povere” o conflittuali. Tuttavia, in genere le tendenze al conformismo e le chiusure psicologiche nella società contemporanea sono “confezionate” con una certa eleganza. Il film di Ivory mira a cogliere il nucleo profondo, elementare e semplice di atteggiamenti o comportamenti normalmente razionalizzati e abbelliti. Tale nucleo si riduce al terrore di sentire il dolore e, in particolare, di coinvolgersi davvero con gli altri senza protezioni e chiusure psicologiche. Il terrore di “sentire” spinge le persone a non voler “sapere” e quindi a “pensare” i pensieri degli altri o almeno di alcuni altri. Il terrore genera la delega del pensiero, la fede nel “pensiero costituito” e rende inevitabile un mondo brutale, banale, cementato dall’ignoranza spacciata per cultura. Il pensiero tende ad essere “impraticabile” sia da parte di chi, come Mr. Stevens rifiuta di ascoltare ed esaminare criticamente i discorsi dei “padroni”, sia da parte di chi divora le idee “date” (quelle di tutti i padroni) con la voracità di un neonato.
In un dialogo fra Mr. Stevens e Miss Kenton, durante un incontro che organizzano dopo circa vent’anni, le loro parole lievi pesano come macigni:
Miss Kenton - Mi capita spesso di pensare che terribile errore sia stata la mia vita.
Mr. Stevens - Sì, ma sono certo che capiti a tutti, di tanto in tanto.
Poi passano ad un altro argomento, senza dirsi nulla.
Il film è la storia di un amore non espresso, di un desiderio negato, di un tempo completamente dedicato a rituali e distrazioni. Un tempo non vissuto dai due personaggi principali.
Gli atteggiamenti dei personaggi del film rinviano facilmente, purtroppo, alle parole di un altro film (Oltre il giardino, di Hal Ashby): “La vita è uno stato mentale”. No: può essere anche reale, se non permettiamo che la paura di provare emozioni intense e di mettere in discussione le emozioni incomprensibili ci faccia ritirare in un mondo puramente mentale e (solo apparentemente) sicuro. Noi viviamo al di sotto delle nostre potenzialità. Concepiamo riduttivamente la nostra identità personale e la società in cui ci muoviamo e in questo modo lasciamo incompiuti aspetti importantissimi della nostra vita. Il nostro potenziale non è meno reale delle nostre azioni: non è un’ipotesi o una fantasia, ma un preciso campo di possibilità che ci definisce come persone. La nostra vita non è incompiuta se non raggiungiamo gli obiettivi di altre persone, ma è incompiuta se non facciamo ciò che noi possiamo fare per rendere “nostra” la nostra vita.
Noi umani non possiamo “semplicemente vivere” come gli altri animali, perché la nostra consapevolezza ci impedisce di vivere “solo nell’attimo”. Possiamo lasciarci andare al flusso delle sensazioni e “vivere l’attimo”, ma solo se abbiamo accettato di vivere nella gioia e nel dolore di quella intera esistenza che include ogni attimo. Purtroppo, normalmente le persone vivono in un tempo opaco, senza attimi. Sarebbe sensato che due persone impegnate sentimentalmente andassero a cena assieme in un ristorante grazioso se si fossero chieste se andare a cena in quel locale oppure se fare uno spuntino a casa e andare a fare il bagno in un laghetto oppure se fare sesso e poi mangiare qualcosa oppure se rileggere assieme alla luce di una candela le lettere con le quali avevano iniziato la loro relazione, oppure … altro. E’ facile che vadano al ristorante semplicemente perché è sabato ed è facile che al ristorante discutano sull’opportunità di fare le ferie con i vicini di casa che sono tanto simpatici. Il “non dirsi niente” degli animali è invece sempre “carico” di qualcosa di realmente comunicato; due cani che fanno un pisolino stando a contatto, pur avendo un’intera stanza a disposizione, “si dicono” almeno qualcosa. Molte coppie fanno cose più complesse e non si dicono nulla.
Ogni giorno al risveglio le persone sanno benissimo se andranno al lavoro o dal dentista o al colloquio con gli insegnanti del figlio o da qualche parente. Dubito però che sappiano perché faranno proprio quelle cose. Non ho mai notato in un/una cliente preoccupato/a per il rendimento scolastico del figlio o della figlia alcuna consapevolezza dei motivi di tale preoccupazione. In genere le persone considerano “automaticamente” come un fatto “positivo” che i figli “vadano bene” a scuola e considerano come un fatto “negativo” che “vadano male”. Io chiedo ai miei clienti le ragioni di questa netta alternativa e non ottengo risposte. Semmai ottengo lo stupore per una domanda così bizzarra. Faccio presente che Einstein non se la cavava benissimo a scuola e che Conrad da bambino nemmeno parlava l’inglese, ma le mie precisazioni sembrano “provocatorie”. Replicano “dovrei forse essere contento se mio figlio venisse bocciato?!”. Faccio notare che non ho detto nulla del genere, ma devo fare molta fatica per chiarire che in genere i figli vengono “mandati” a scuola, o in vacanza con la parrocchia o dai parenti o … in guerra, senza alcun interesse per il significato di tali esperienze nella loro vita. D’altra parte le persone che fanno sesso da anni non sanno perché non si dicano più (o non si siano mai dette) “ti amo”. Le persone che sono tanto “innamorate” e attendono con ansia di sposarsi e di invitare tanti conoscenti non mi spiegano mai per quale motivo, se hanno già provato il piacere di fare l’amore, desiderino tanto suggellare tale realtà con un timbro del sindaco e con una festa a cui inviteranno persone che non hanno voluto frequentare per anni. Non lo sanno proprio e a volte reagiscono anche con irritazione alle mie “candide” domande. Se superano l’irritazione e si interrogano, cominciano a sentire il vuoto … e le lacrime.
All’inizio di ogni giornata ogni persona ha la possibilità di vivere un altro pezzettino della propria vita o di sprecare del tempo prezioso, ma quante persone si chiedono se potranno fare le cose più desiderate nell’ambito di una vita sentita come propria? Quante persone iniziano una giornata chiedendosi se condivideranno la giornata con le persone “giuste”? Mi sono abituato a fare domande “semplici” ai miei clienti e a non trovare risposte comprensibili. Le persone non sanno e soprattutto non vogliono sapere perché fanno ciò che fanno. Lo fanno e basta. Quando disprezzano la vita di altre persone non sanno mai spiegare perché considerino migliore la propria vita. Tirano in ballo “l’onestà” o la normalità o il “buon senso”, ma si stupiscono o si infuriano se chiedo a loro perché quel “buon senso” sia davvero “buono”.
Io credo che non si possano comprendere né i comportamenti più banali, né quelli definiti “patologici” (dagli psicoterapeuti), né quelli definiti “immorali” (dai moralisti) se non si comprende che le persone normalmente vivono una vita che non è la loro vita. Una vita in cui semplicemente si trascinano ora dopo ora e anno dopo anno; e in cui fanno ciò che “danno per scontato” vada fatto e che dipende da decisioni prese nell’infanzia e automaticamente rinnovate. Decisioni antiche e non più ragionevoli anche se razionalizzate con l’idea della “realizzazione” personale o dei “doveri”.
Quando il pianto non viene più temuto, affiora facilmente e, di conseguenza, apre degli squarci nelle difese psicologiche. Il dolore può essere coperto da un sintomo, da pretese di accettazione o da una illusione di autonomia (magari “tormentata”) o persino da pianti fasulli (i cosiddetti piagnistei). Bugie diverse bloccano comunque le lacrime sincere e l’accettazione di una realtà che non include ciò che si vorrebbe. Poco cambia se un maggiordomo riduce la sua intera esistenza all’esecuzione minuziosa di rituali assurdi o se altre persone vivono “per il lavoro” o “per evolvere” o per fare shopping. Poco conta se un maggiordomo si sottomette ciecamente alla “superiorità” del suo “padrone” o se altre persone si sottomettono ad un marito capriccioso o ad una moglie distruttiva o ad un leader “rivoluzionario” o ad un governo ed alla sua TV. Ogni sottomissione rassicura e allontana dal dolore della realtà, ma purtroppo impedisce di cambiare la realtà data (o almeno la propria) e di costruire la felicità possibile.
Tutte le bugie coprono il dolore. Alimentano l’illusione di una vita senza il dolore e senza la morte o di un potere immaginario da esercitare per annullare il dolore e la morte. Le bugie trasformano la bellezza dei bambini (di tutti i bambini) nell’incubo dei bambini “adattati” o “disadattati”, degli adolescenti “complicati” e degli adulti normalmente determinati a non sentire e a non capire ciò che più conta nella loro vita. Poi la vita finisce e … cosa resta del giorno se il giorno è stato un lungo sonno?
10. Truman e l’immaginazione
Hallie - E in questo modo ... tutto il paese sarebbe dalla tua parte
Sonny - Io mi ci trovo molto meglio da solo, dalla mia parte.
(S. Pollack, Il cavaliere elettrico)
Un film “terribile”, ma illuminante. The Truman Show, di Peter Weir, racconta la storia improbabile di un bambino "adottato" da un network televisivo, filmato a sua insaputa in un paesino appositamente costruito, e “sbattuto in onda” ventiquattro ore al giorno in mondovisione. E’ la storia di un possibile crimine sociale, che possiamo ritenere “inconcepibile”, ma che non è davvero impossibile in una società in cui sono stati reali, oltre che possibili, i campi di sterminio. Tutto ciò che “accade” a Truman nell’interminabile unico episodio del telefilm, è pianificato dal regista e reso possibile da centinaia di attori e tutto ciò che Truman fa è la quotidiana semplice reazione ad una realtà che è solo una finzione. Con questa opera Peter Weir narra una storia assurda e mostra nei dettagli come tale assurdità possa risultare socialmente accettata. Cose di questo tipo, e ben più gravi, sono già accadute realmente: tanti “colonizzatori” hanno sfruttato quotidianamente per anni le vite di milioni di persone e non si sono limitati a “metterli in onda”. Altri fatti gravissimi (come l’apartheid, le vendette mafiose, la pubblicità, il catechismo impartito ai bambini, i divorzi vissuti con puro odio, la “globalizzazione” ed anche la “moda autunno”) sono stati o sono accettati da tutti o comunque da molti.
Il regista è riuscito a rappresentare con toni leggeri e, proprio per questo, con un’intensa potenza drammatica, la “consistenza umana” dei telespettatori che seguono sugli schermi le vicende di Truman. Ciò che turba maggiormente è il candore della loro sentita “adesione” al Truman Show. Persone realmente coinvolte, partecipi, profondamente “toccate” dalle scene dell’ultima giornata di Truman. Persone davvero capaci di dare per scontata la normalità dell’orrore. Persone capaci di desiderare che Truman resti lì, intrappolato, ma “stia bene”. Persone che riescono però anche a desiderare che egli fugga e che riescono ad esultare quando egli esce dall'incubo. Nel film di Weir i telespettatori sono persone che gioiscono davvero quando Truman sorride e che si commuovono davvero quando viene ingannato “più del solito”. Trovo apprezzabile l’abilità con cui il regista ha narrato l’intreccio paradossale fra la superficialità ed il coinvolgimento delle persone, ma ciò che mi turba è la “realtà reale” di tale intreccio che non è presente solo nella storia inventata, ma nella vita di tutti i giorni: un intreccio che si realizza attraverso l’esercizio della capacità di “non capire niente”, di desiderare “qualsiasi cosa”, di provare forti emozioni di fronte al “vuoto” dell’assurdità condivisa. Tale diffusa brama di non capire e non sentire mi è ben nota, ma continua a meravigliarmi.
Le vite “finte” (perché non corrispondenti alle potenzialità delle persone) sono comunque vite vissute, vite reali, vite sentite. Nel film di Weir le persone che accendono la TV, che assistono ad una violenza programmata e che sperano sempre “che succeda qualcosa”, sono persone molto simili a quei genitori che nella realtà, e non in un film, in questo momento, da qualche parte, stanno portando la loro bambina da una “esperta” che pratica mutilazioni genitali, o a quei soldati che per fare “il loro dovere” stanno uccidendo altre persone, o ai ragazzini che stanno prendendo in giro un compagno timido o agli amanti che stanno facendo sesso senza precauzioni, pur non volendo alcun figlio. Persone reali che, mentre fanno cose terribili, fanno “pensieri normali”. Persone reali, realmente umane, anche se incompiute. Non incompiute rispetto all’ideale di qualcun altro, ma incompiute rispetto a ciò che potrebbero vivere esprimendo il loro potenziale personale. Persone reali, non personaggi, non “gente”. Capaci però di diventare “gente” e di smarrirsi tutti i giorni nei miti e nei riti di un tessuto relazionale e sociale ritenuto scontato, ovvio, indiscutibile. Persone che pensano, sentono e collezionano attimi che formano una storia vissuta che non ha nulla a che fare con ciò che realmente sono, ma che ha molto a che fare con il loro terrore di capire e sentire. Io temo le persone apertamente violente, ma temo soprattutto quelle diligenti nel dedicarsi ad un lavoro di cui non capiscono il senso, a rituali famigliari condivisi con persone di cui non sanno nulla, a passatempi socialmente istituiti ed anche alla “ovvia”, scontata, indiscutibile frenesia del telecomando.
Weir fa benissimo a presentare il suo collega del film (il regista che organizza l’incubo), come una persona profondamente convinta di fare una cosa buona per il pubblico e persino per Truman, perché normalmente le persone fanno del male senza rendersene conto. Quando questi parla a Truman che sta per entrare nella realtà “reale”, gli dice che “là” troverà altri inganni e non sarà nemmeno “protetto” come nel piccolo mondo artificiale costruito appositamente per lui. Quel regista è grottesco nel decantare i pregi di quel piccolo mondo falso, ma ha anche ragione, perché nel mondo esterno tutti i telespettatori sono stati davvero complici dell’inganno e solo “per pura incoscienza" hanno iniziato a gioire vedendo Truman alla ricerca della libertà. Dunque proprio il mondo reale è l’incubo. Il film di Weir è geniale, perché prima ci porta a riconoscere l’evidente assurdità di una finzione e poi ci costringe a notare che il “mondo reale”, che riconosciamo come “nostro”, costituisce un’assurdità ancora più tragica. Dubito però che tutti i fan di Weir abbiano capito che il film denuncia proprio la loro realtà, la loro vita e la loro società.
Nel mondo reale le persone pensano, desiderano, sentono e fanno cose di cui non comprendono i veri motivi. Nel mondo reale le persone si commuovono davvero ascoltando le parole di giustizia e di speranza pronunciate da “capi spirituali” o leader politici che proprio sottomettendosi per decenni al potere costituito hanno ottenuto ruoli di potere. Nel mondo reale gli atei si scambiano gli auguri di buona pasqua, i credenti non sanno nulla della loro religione, le persone prendono sul serio partiti “contrapposti” che però manifestano divergenze solo sui modi di “aggiustare” una società che comunque accettano come immodificabile nelle sue caratteristiche fondamentali. Nel mondo reale le persone non guardano Truman in TV, ma guardano in TV delle persone reali che recitano come Truman.
Dobbiamo dubitare di tutto ciò di cui siamo convinti, o di tutto ciò che desideriamo, che sentiamo e che stiamo facendo? Non credo. Non abbiamo alcuna necessità di interrogarci sui “veri” motivi per cui troviamo simpatico il barboncino dei vicini di casa, ma abbiamo ottimi motivi per dubitare anche di ciò a cui siamo più “attaccati” se qualcosa “non fila”. Questo dubbio è l’unica arma che abbiamo a disposizione per proteggerci da quel suicidio rateizzato che compiamo ogni giorno alimentando sogni fasulli: il sogno di “appartenere”, di “diventare accettabili”, di “realizzarci”, di “star bene” o anche “di non pensare troppo”. Abbiamo bisogno della razionalità per capire e per sentire chi siamo e cosa possiamo fare oggi di piacevole, creativo, costruttivo, comprensibile. Nel film di Weir, l’uomo che guarda la TV mentre sta nella vasca da bagno, la barista che guarda la TV mentre serve birra al banco, le vecchiette che condividono il divano davanti alla TV farebbero bene a chiedersi se “fila” con il resto della loro vita quella strana passione per un programma televisivo di cui vogliono essere spettatori/spettatrici anche se per nessuna ragione vorrebbero trovarsi al posto di Truman. C’è una profonda bellezza nell’espressione consapevole e coerente di convinzioni, desideri ed emozioni. La vita umana, nel suo aspetto “interiore” ed in quello relazionale è essenzialmente una danza, un’avventura ed una continua scoperta della meraviglia di esistere e di averne consapevolezza. Lo è, però, se si mettono in discussione tutte le “evidenze” che, a conti fatti, “non filano”.
Mi inquieta sempre il pensiero delle vite umane trascorse all’ombra rassicurante di qualche sciocchezza razionalizzata. Le vite di persone reali che non si dicono la verità su ciò che vorrebbero e su ciò che provano. Persone che passano la vita sentendosi “ferite” o “offese” o “indignate”. Persone che passano la vita a lavorare e a “svagarsi” ed anche a sognare di avere più soldi per lavorare un po’ di meno e svagarsi un po’ di più, senza mai immaginare una vita più “grande” del lavoro e delle vacanze. Persone che danno un’occhiata ai figli ogni tanto e poi improvvisamente si accorgono che i figli sono diventati degli adulti di cui non sanno nulla o (peggio) di cui credono di sapere tutto. Persone che a ottant’anni hanno le stesse idee che avevano a quindici. Persone sempre distratte dalle chiacchiere, dallo “sport”, dalle abitudini. Persone che, se fossero nate in Iran, sarebbero musulmane “convinte”. Che succede quando una vita non vissuta finisce? Può il rimpianto di un attimo compensare ottant’anni di incoscienza?
Le persone non dicono “desideravo incontrare Antonio ma mi ha ripetuto che è molto impegnato e ciò mi dispiace, perché per qualche motivo la nostra amicizia (o almeno la sua) sta sfiorendo”. Semmai dicono “Antonio è un mio amico carissimo, ma non ci vediamo più perché ha molti problemi di lavoro”. Le persone non dicono “La mia relazione di coppia è un disastro: niente sesso, niente confidenze, niente tenerezza”, perché dicono “Da quando abbiamo dei figli abbiamo meno tempo per noi”. Non dicono cosa desiderano veramente né agli altri né a sé e con questo artificio riescono a non sapere se provano gioia o dolore. Provano “tensione” o “hanno lo stress” o “sentono l’esigenza di rilassarsi con una vacanza”. E non capiscono che sono già “in vacanza dalla loro vita” proprio drogandosi di tensione, di “stress” e anche di vacanze.
Normalmente le persone sono così abituate a vivere senza accorgersene, oppure a lamentarsi di situazioni a cui, di fatto contribuiscono, che non riescono ad immaginare una vita corrispondente a ciò che sono, a ciò che desiderano, a ciò che amano. L’immaginazione non va intesa come una specie di talento naturale, ma come una semplice conseguenza del rispetto per i propri desideri. L’immaginazione è una cosa bellissima, anche se costa sincerità e dolore. Il semplice fatto di immaginare cambiamenti presuppone il riconoscimento di desideri insoddisfatti e ci porta a considerare anche gli ostacoli che si collocheranno fra il nostro pensiero e la sua realizzazione: ostacoli oggettivi, ma soprattutto ostacoli creati dai nostri simili abituati a non immaginare una vita migliore. In un film di Rob Reiner una frase “spietata” riassume una tragedia purtroppo normale: “La gente non beve la sabbia perché è assetata. Beve la sabbia perché non conosce la differenza” (The American President). Per scegliere occorre immaginare delle possibilità e se manca l’immaginazione le scelte peggiori sembrano accettabili e persino entusiasmanti. E’ passato molto tempo da quando i ragazzi con i capelli lunghi e tanti libri nel tascapane scrivevano sui muri “la fantasia al potere”. In quegli anni la fantasia non era normalmente “praticata”, ma almeno era fantasticata.
Normalmente le persone considerano del tutto accettabili o contestano superficialmente (provando solo un po’ di indignazione) cose che, in realtà, sono molto gravi. Al bar qualcuno dice “Ecco un’altra rogna: possibile che non si trovi un accordo sulla Crimea?!” e un’altra persona replica “E’ per via dei gasdotti”. Poi passano al campionato di calcio. Tuttavia, l’orrore non riesce mai a sradicare la bellezza. Molti anni fa ero a spasso con il mio cane e un bambino, con un sorriso incantevole, mi ha detto: “Che bel cane! Può essere contento se gli faccio una carezza?”. Provo ancora gioia ricordando quell’incontro. Così piccolo, quel bambino ha colto in un attimo la bellezza di un animale, il proprio desiderio di contatto, la soggettività (ignota) dell’animale, la possibilità di non essere accettato e la disponibilità a fare comunque un tentativo. Gioisco ancora per la lucidità e la sensibilità di un bambino che evidentemente non era stato costretto a chiudersi o a sopravvivere superficialmente. Il mio cane non c’è più, prima o poi io morirò, ed anche il bambino, ma in un angolo di questo pianeta questa piccola esperienza ha fatto vibrare le nostre piccole vite ed ha cambiato (almeno un po’) la storia dell’universo. Tutto ciò passerà, ma prima di passare sarà avvenuto. Sarà stato un fatto.
Creare fatti costituisce l’unica opposizione ragionevole e vincente alla morte. Solo la resa totale, incondizionata, disperata alla morte (e quindi ai limiti, al dolore, alla solitudine che sono aspetti “parziali” della morte) lascia intatta la capacità di immaginare una vita migliore e la capacità di realizzarla in qualche misura.
11. Barriere invisibili
"La ragione era una pura questione di statistica."
(G. Orwell, 1984)
Nel film Barriera invisibile (1947), di Elia Kazan, la denuncia sociale dell’antisemitismo strisciante nell’upper-class americana costituisce lo sfondo per l’esame di due temi psicologici scomodi, trattati con molta acutezza e sensibilità: il conformismo e l’importanza dell’impegno condiviso in una relazione di coppia. Purtroppo la traduzione in italiano dei dialoghi più significativi ha letteralmente storpiato il messaggio relativo al secondo tema. Farò quindi qualche osservazione sul conformismo e poi sul tema dell’impegno condiviso nella coppia e sulle possibili ragioni della disastrosa versione italiana del film.
Resteremmo in superficie se considerassimo questo bellissimo film come una semplice denuncia dei pregiudizi e dell’antisemitismo in particolare. Tale lettura sarebbe riduttiva perché il film analizza in modo “sentitamente spietato” l’atteggiamento delle persone che non affermano pregiudizi, ma manifestano pregiudizi senza rendersene conto. Tali persone hanno convinzioni solide, ma sono paralizzate nell’espressione di ciò che pensano e sentono perché il timore dell’emarginazione sociale prevale sulle idee di cui sono coscienti. Tali persone, per sentirsi integrate nel loro ambiente cercano di "non dare fastidio". Hanno un vago terrore di non “appartenere” a “qualcosa”. Provano rabbia per l’ottusità e la chiusura mentale dei loro famigliari o conoscenti o colleghi, ma minimizzano le incompatibilità e fanno ciò che serve a mantenere “buoni rapporti” con tutti. Temono di esprimersi e di rischiare l’esclusione dal club dei benpensanti o “non-pensanti”. Il tema del film non è quindi l’antisemitismo, perché lo stesso film si sarebbe potuto sviluppare su altri temi. Il tema è proprio la paura di farsi conoscere e di verificare se davvero abbiamo degli amici e se davvero abbiamo dei rapporti umani.
Il personaggio principale (Philip Green, interpretato da Gregory Peck) è un giornalista che deve scrivere una serie di articoli sull’antisemitismo e finge di essere ebreo per osservare le reazioni delle altre persone nei suoi confronti. Impara molte cose, ma soprattutto scopre che la sua fidanzata (Kathy Lacey, interpretata da Dorothy McGuire), pur appoggiando incondizionatamente la sua scelta, non osa mantenere il segreto con le persone a cui è più legata. Quando il figlio di Philip viene ingiuriato dai compagni che lo considerano uno “sporco ebreo”, lei lo rassicura nel modo peggiore: gli dice “non ti preoccupare, tu non sei ebreo”, anziché “non ti preoccupare, quei bambini non capiscono niente”. Philip non accetta l’ambiguità di Kathy e la rottura diventa inevitabile. A quel punto, Kathy cerca di chiarirsi le idee parlando con Dave, l’amico di Philip, che è ebreo davvero. Lui l’aiuta a capire che Philip non la considera antisemita, ma debole, conformista, timorosa. Inoltre le chiarisce che Philip non trova in lei un’alleata, una vera compagna di vita. In quel colloquio, Kathy, rendendosi conto di fare del male a sé oltre che all'innamorato con la propria passività, sente il bisogno di fare un cambiamento profondo e, ritrovando se stessa, ritrova in seguito anche la sintonia con Philip.
Nella prospettiva del regista, il tema centrale è quindi costituito dal fatto che anche chi non è intellettualmente contaminato da un pregiudizio può essere emotivamente incline ad una passività complice e in ultima analisi distruttiva. Infatti, è il caso di porre una domanda: quando un pregiudizio inizia ad affermarsi, quante sono le persone così idiote da crederci davvero e quante sono le persone così spaventate da non opporsi? Io credo che il conformismo sia la benzina e che il pregiudizio sia solo il cerino. L’incendio non è devastante a causa del fiammifero, ma a causa dei litri di combustibile che trasformano una fiammella in una follia di massa. Nel film, Philip è il personaggio “positivo” che con la necessaria aggressività e determinazione porta avanti un’idea, mentre Kathy è il personaggio che nasconde la propria umanità e poi la ritrova. Non è importante, in ogni caso, che “lui” sia il personaggio positivo. Nel film di Stanley Kramer Indovina chi viene a cena (1967), infatti, i ruoli sono rovesciati: la moglie (Katharine Hepburn) accetta facilmente il matrimonio della figlia con un uomo di colore, mentre il marito (Spencer Tracy), pur essendo intellettualmente “aperto di idee”, si trova emotivamente in difficoltà e solo alla fine scioglie le proprie resistenze.
Il secondo tema del film di Kazan riguarda la condivisione degli ideali e delle passioni in una relazione di coppia. Nei casi in cui le convinzioni personali sono deboli e in cui non c’è alcuna condivisione sul piano dell’impegno, le coppie risultano “incompiute”. L’emotività, il desiderio, l’amore, sono importanti, ma l’incontro fra due persone è buono anche nella misura in cui tali persone si trovano in sintonia nella vita ed anche nella società. Essere in intimità non significa solo guardarsi negli occhi in un vuoto di rapporti con la realtà. La coppia funziona se in essa due avventure individuali si intersecano e risultano compatibili. Non funziona se le due avventure si riducono ad una passiva adesione alle illusioni della società "data".
Nel film, Kathy riesce a capire proprio questo: non può creare una storia con un’altra persona se non vive una storia personale. Non può “condividere” una vita se non ha una propria vita e ha solo delle idee "politicamente corrette". L’amico Dave l’aiuta con molta benevolenza e partecipazione. Non fa prediche, ma l’aiuta a guardare ciò che lei già comincia a vedere e le fa notare che nessuno, tranne lei stessa, può permetterle o impedirle di esprimersi. Questo è il secondo messaggio del film, ma, purtroppo, la versione italiana rovescia il senso di tale messaggio. Infatti nella versione italiana Dave suggerisce a Kathy di cambiare per compiacere Philip. Un disastro. Con questa traduzione errata crolla l'intero film, poiché il messaggio complessivo diventa paradossale: Kathy non dovrebbe sottomettersi al conformismo sociale, ma dovrebbe “conformarsi” alla causa del marito. Ma che senso ha un “cambiamento” con cui Kathy inizia ad “esprimersi” solo per “adeguarsi” al marito idealista? D’altra parte le parole (in italiano) di Dave sono inequivocabili: “Tu puoi trasformarti come vuoi, come lui vuole, per amore!” In questo quadrettino, Philip combatte e lei gli rammenda i calzini anziché rammendarli ai suoi nemici. L’idea è semplicemente stupida. Le femministe direbbero che è un’idea maschilista, ma il punto è un altro: se il maschilismo nei secoli avesse prodotto saggezza dovremmo essere tutti maschilisti. Poiché ha prodotto assurdità dobbiamo usare la testa (uomini e donne) e non adottare un punto di vista semplicemente “opposto”.
Vedendo il film, mi sono chiesto se lo sceneggiatore e il regista fossero stati davvero tanto acuti e anche tanto ottusi. Ho quindi controllato il dialogo in inglese che traduco, sicuramente con dei limiti, ma fedelmente:
Dave – Tu puoi fare ciò che serve o ciò che vuoi, con te stessa!
Kathy – Io … posso?
Questo dialogo, cioè il “vero” dialogo restituisce al film la sua coerenza: le premesse hanno uno sviluppo logico. Dave aiuta inizialmente Kathy a capire la propria paura, poi l’aiuta a capire che ha bisogno di esprimersi, cioè di fare ciò che desidera nonostante la paura. Ha bisogno di affermare ciò che pensa per essere se stessa e non ha alcun bisogno di trasformarsi né per stare con “la gente” né per stare con un partner. Non solo: può capire che Philip non detesta lei, ma solo la sua accondiscendenza. Quindi, se lei si ritrova può anche ritrovare Philip sul piano della vita vissuta e non solo sul piano delle idee astratte. Lei risponde con una domanda, manifestando un residuo dubbio sulla propria possibilità di affermarsi. Si chiede se può smettere di proteggersi e iniziare a vivere. Non si chiede se può adattarsi al suo uomo per tenerselo stretto. Una cosa è certa: quelli che traducono i film sono più competenti di me nella conoscenza delle lingue. Come possono aver commesso un errore così grave? La svista deve essere stata un errore intenzionale, anche se non necessariamente consapevole. Sottolineo questo aspetto sia per rispetto nei confronti del regista (che è molto apprezzabile anche se non mi è simpatico, per le sue scelte nel periodo del maccartismo), sia per evidenziare come l’irrazionalità spunti ovunque.
Il problema è in realtà molto più ampio e tocca moltissimi ambiti della vita sociale. Noi tendiamo in qualche misura a capire la realtà, ma tendiamo anche ad uniformarci, ad “appartenere”, a non voler sembrare “strani”. Mandrie di persone “a posto”, di “brava gente”, anche di esseri umani sensibili e intelligenti tendono ad adeguarsi alla normale follia pur di non sentire la solitudine. Quella solitudine che c’è comunque, ma che sembra non esistere. Il fatto tragico è che questo bisogno di appartenere è un bisogno dei bambini, ma gli adulti cercano, purtroppo, di sentirsi “al sicuro” nella mandria come se fossero ancora dei bambini: non ottengono alcuna sicurezza reale e perdono semplicemente la consapevolezza di ciò che sono. Vivono a metà, vivono “poco”.
Gli “ismi” contribuiscono in genere a mantenere timori non compresi e forme di disprezzo irrazionale. Quando un “ismo” viene “superato”, in genere viene superato da un “contro-ismo” altrettanto irrazionale. L’unico gruppo sociale contro il quale non mi sembra siano ancora stati inventati pregiudizi negativi è quello formato dai bambini. I bambini sono considerati piccoli, ma non “inferiori”, sono considerati bisognosi ma non “disturbanti”, sono considerati vivaci ma non pericolosi. I bambini sono quindi accettati? No. Sono ignorati. Non subiscono pregiudizi solo perché subiscono l’indifferenza, dato che non hanno il potere di creare problemi. Purtroppo, in questa situazione i bambini si sentono soli e "si corazzano”. Così diventano adulti insopportabili, pieni di emozioni confuse, spaventati dalla possibilità di capire cosa sentono e disposti ad accettare pregiudizi per non sentirsi soli.
12. Hachiko
“I sentimenti fanno paura. E a volte fanno male. Se non riesci a sentire il male, non riuscirai a sentire nient’altro.”
(R. Redford, Gente comune)
Il film Hachiko (di Lasse Hallstrom) ripropone, ambientandola negli Stati Uniti ai giorni nostri, una storia veramente avvenuta nel Giappone degli anni ’20: un cane è andato per molti anni, tutti i giorni, alla stazione ferroviaria ad aspettare il suo padrone, che era deceduto. Una storia semplice, ricca di squisita bellezza, di dolore e di amore. Una storia che, essendo narrata nel film con delicatezza e senza enfasi, ci fornisce l’occasione per confrontarci con i nostri pensieri e i nostri sentimenti.
Hachiko, detto Hàchi è un cane. Semplicemente e autenticamente un cane. Capace “per come è fatto” di stabilire legami intensi e di restare fedele all’interno di una relazione. E’ capace di fare ciò per istinto e, purtroppo, anche per i propri limiti. I cani a volte fanno facilmente cose che per noi sarebbero una scelta molto complessa e il risultato di un’acquisita saggezza. Diventare sinceri e leali come i cani per noi è, in genere, un punto di arrivo: una svolta in cui rinunciamo alle difese psicologiche che ci spingono ad essere superficiali, indifferenti o malvagi. Nel film, Hachi mantiene il contatto emotivo con il proprio desiderio di un legame compiutamente espresso con il suo amico e non fa nulla per dissociarsi da tale desiderio, anche di fronte alla realtà dolorosa: il suo amico non ritorna. Non sa che è morto, ma sa che continua a non ritornare da lui. Non capisce che essendo morto non può più farlo. Accetta tale dolore sperando di ritrovarsi con lui. Resta fedele all’amico ed alle proprie emozioni. Non fa nulla di ciò che noi saremmo tentati (e in grado) di fare: minimizzare o soffocare il desiderio, minimizzare il valore dell’amico e quindi cessare di rimpiangerne la presenza, accusare l’amico di un “tradimento”, accusare la vita di includere tali esperienze. Con questi “imbrogli” noi riusciamo molto spesso ad ammazzare i nostri lutti e ad evitare il dolore per sguazzare in sentimenti brutti ma più superficiali. Per dieci anni, giorno dopo giorno, Hachi si ripropone il desiderio di rivedere l’amico che il giorno prima non si è presentato. Accetta il dolore, mantiene il desiderio, coltiva la speranza, aspetta e ritrova il dolore rispettandosi con quel dolore. Fa ciò senza distruggere nulla di sé, dell’amico e della propria vita. Fa ciò rispettando ciò che rende la propria vita una vita: il sentimento di amicizia, di lealtà, di amore.
Il film può disturbare chi è abituato a dissociarsi dai desideri e dal dolore. Può però anche far sentire alle persone che vivono con il proprio amore e con il proprio dolore, che non sono completamente sole. Varie persone hanno infatti contribuito alla realizzazione di un film che è un omaggio a quel tipo di consapevolezza così raramente condivisibile con altri esseri umani. C’è quindi qualcuno “là fuori” che non parla di emozioni nei modi contorti cari agli intellettuali e agli psicologi o nei modi riduttivi cari alle persone superficiali. Entrare nel film comporta il dolore di ricordare tutte le persone amate che sono morte. Oppure che hanno soffocato dei sentimenti, hanno bloccato delle risposte empatiche, non hanno voluto capire cose scomode e sono “un po' morte” pur rimanendo vive. Persone che abbiamo aspettato giorni, mesi, anni e che vorremmo ancora ritrovare. Entrare nel film equivale a riconoscere il valore dei nostri lutti che sono importanti perché sono nostri e non perché “belli”. Entrare nel film significa farci quella compagnia che avremmo voluto ricevere in un lontano o recente passato e che oggi tocca prima di tutto a noi stessi concederci, per danzare con la vita, assecondando il suo flusso e accettando il fatto che la felicità è gioia, ma anche dolore.
La sceneggiatura presenta degli errori. Ciò va sottolineato, perché tali errori potevano essere evitati con un minimo di attenzione. Tuttavia, tali errori non "pesano" troppo perché rientrano in una narrazione in cui la “materialità” del rapporto è, a mio parere, volutamente trascurata. Un professore trova un cucciolo presumibilmente smarrito, che può anche aver viaggiato per molto tempo; infatti il cucciolo viene trovato in una stazione ferroviaria, vicino ad una gabbia rotta. Il professore porta il cucciolo a casa, lo sistema sul divano del salotto e va a dormire. Se i cani non mangiano da un giorno o più, hanno fame come noi e soprattutto soffrono se non hanno sempre a disposizione dell’acqua. Quindi, il quadretto iniziale dell’accudimento si traduce, di fatto, in un comportamento tanto superficiale da risultare crudele. Più avanti nella storia, il professore abitua il cane ad accompagnarlo alla stazione ferroviaria e a tornare a casa da solo: una scelta forse accettabile nel Giappone di un secolo fa (negli anni in cui la storia realmente si verificò), ma decisamente irresponsabile in una città degli Stati Uniti di oggi: i proprietari dei cani sono responsabili della sicurezza dei loro beniamini … ed anche delle persone che potrebbero fare incidenti stradali a causa di un cane lasciato libero. Non solo. Il rapporto fra questo padrone e questo cane è un rapporto molto intenso, ma il cane non vive in casa: sta in una baracca ai margini del giardino, come la maggior parte dei cani poco accuditi e poco amati. Gli esempi si potrebbero moltiplicare e preciserebbero ulteriormente i contorni di una storia narrata in modo poco accurato. Tuttavia, la cosa più curiosa sta proprio nel fatto che questi “errori”, contribuiscono al “rafforzamento” del tema centrale: il semplice ed essenziale rapporto fra due esseri. Tale rapporto è “stilizzato”, non “raccontato”. E’ “messo a fuoco”, non “sviluppato” nei particolari.
Il padrone del cane è presentato come un compagno di passeggiate e una figura che accoglie sempre con un caldo abbraccio il suo amico. Il cane è presentato come un soggetto che cerca e offre un contatto fisico ed emotivo. Padrone e cane sono colti sempre e soltanto nella loro “pura presenza”: sono esseri interiori, non esseri viventi, sono esseri affettivi, non esseri biologici, sono descritti semplicemente nel loro rapporto. Questa riduzione all’essenziale esalta gli aspetti che il racconto deve evidenziare. Non so se il regista abbia volutamente “amputato” tanti aspetti "concreti" di un reale rapporto fra uomo e cane, ma queste amputazioni narrative, unite alla sensibilità con cui è descritto il desiderio di contatto dei due personaggi, rende la storia quasi ipnotica. Siamo “costretti a smarrirci” in una storia ridotta all’osso, in cui l’incontro diventa intimità e in cui la separazione diventa un rimpianto "assoluto". In tale storia non c’è altro. C’è solo la ricerca del contatto, il contatto, il dolore per la perdita del contatto.
Richard Gere, in un’intervista ha detto di aver scoperto con il regista, alla fine della produzione, di aver fatto un film non per bambini, ma … per cani. Sicuramente non è un film per bambini, dato che il tema della morte è troppo evidenziato per essere proposto ai bambini. Sicuramente non è nemmeno un film per cani. E’ invece un film per adulti, o almeno per adulti capaci di comprenderlo e di non “respingerlo” come una semplice “cosa carina”. E’ un film per adulti perché riguarda una capacità normalmente smarrita dagli adulti: la capacità di desiderare, apprezzare, manifestare ed eventualmente rimpiangere il contatto emotivo con un altro essere umano. I cani non hanno bisogno di riflettere sulle difese psicologiche che non hanno, ma gli esseri umani hanno un bisogno disperato di riflettere proprio sulla loro tendenza ad evitare il semplice, intenso e compiutamente espresso contatto emotivo.
Normalmente, gli esseri umani adulti vivono per non sentire il desiderio di una buona intimità e per evitare esperienze intense (e quindi "rischiose") di contatto emotivo. Gli adulti in genere sentono prevalentemente il bisogno di un contatto “nutriente”, cioè quello di cui sono stati privati nella loro infanzia e che ovviamente non possono recuperare nei rapporti con altri adulti. Gli adulti “ri-sentono” continuamente bisogni “antichi” che non possono più soddisfare, ma passano la vita o a cercare di soddisfare tali bisogni (attualmente insoddisfacibili), oppure a negare di sentirli. In entrambi i casi sono “piantati nel passato” e fanno cose strane nel presente per ottenere l’impossibile o per negare ciò che sentono. Gli adulti vivono nel terrore di (ri)sentire il loro vecchio dolore e rendono i loro rapporti interpersonali appiccicosi o distaccati. Vivono “poco” perché il piacere di vivere comporta anche dolore. Protetti da una finta passionalità o da finte forme di “indipendenza” non sentono più nulla di autentico, ma sentono un mucchio di “emozioni-spazzatura” consistenti in complesse miscele di ansia, rabbia e indifferenza.
Gli spettatori, vedendo un film come Hachiko, possono facilmente concedersi un pizzico di tenerezza per quel “povero cane” (non notando che il cane rappresenta loro stessi), oppure possono trattare con superiorità il problema “troppo elementare” narrato dal regista. In realtà, il problema è un problema fondamentale, non per i cani, ma per gli esseri umani. Se tollerassimo ed esprimessimo il nostro dolore (quello della nostra infanzia e quello del presente) vivremmo in un mondo “pulito”, senza disturbi psicologici, senza conflitti inutili, senza irrazionalità sociale, senza violenze, senza quella “cultura di massa” in cui siamo immersi ed anche senza una bella fetta di quella “grande cultura” che costituisce solo l’intellettualizzazione di un pantano psicologico spacciato per angoscia “esistenziale”. Vivremmo senza guerre, senza religioni, patriottismi, localismi e senza governi indecenti. Vivremmo da persone con altre persone in una comunità.
Normalmente evitiamo di ammettere, accettare ed esprimere il nostro coinvolgimento nei rapporti significativi. Minimizziamo ciò che sentiamo e manifestiamo agli altri solo una parte di quel pochino che riusciamo a sentire. Nel film, anche se forse la cosa non deriva da una consapevole scelta del regista, è evidente che il rapporto fra Parker (il padrone del cane) e la moglie è più “misurato” del rapporto con il cane. In una scena, Parker si esprime in modo caldo e diretto con la sua compagna dicendole di amarla e di provare gratitudine per ciò che lei gli dona ogni giorno. Lei risponde di ricambiarlo. Questa è intimità espressa. Tuttavia lui interrompe il contatto facendo una battutina che abbassa il livello della comunicazione: le risponde “meno male!”. In pratica, dal “crescendo” del “Ti amo!-Anche io!” si passa al ridanciano “Meno male!”. Lei poi esaspera il “ribasso” dicendo che lo ama soprattutto quando non ha odore di cane, e i due ridono. Niente di grave. Si può anche ridere quando si è innamorati, ma non è un caso che una comunicazione diretta e intensa sia stata stroncata da due battutine “amichevoli”. Con il cane, invece, Parker mantiene sempre alto il livello della comunicazione emotiva. Quando i due giocano, giocano seriamente. Quando passeggiano, si muovono “assieme”. Quando si incontrano dopo una separazione, si abbracciano. Il cane usa le zampe anteriori come due braccia. Parker accoglie sempre con le sue braccia le “braccia” di Hachiko.
Hachiko e Parker rappresentano l’essere “compagni di vita”. Quando Parker è vivo, Hachiko sente il desiderio di stargli vicino, ma sta tranquillo quando non è con lui. Parker è sempre disponibile verso Hachiko, ma in sua assenza si occupa della propria vita, dei suoi cari e dei suoi studenti. La storia è quindi la metafora di buoni rapporti di coppia, di amicizia, professionali e famigliari. Rapporti con una dipendenza psicologica accettata, ma senza dipendenze psicologiche “strane”. Rapporti senza doveri, senza colpevolizzazioni, senza pretese, senza ricatti, senza rancori, senza gelosie, senza noia, senza modalità “appiccicose” di contatto e senza artificiose distanze. La storia è una celebrazione dell’intimità.
La realtà è più “reale” dell’idea di essa che spesso abbiamo in mente: noi viviamo fondamentalmente per godere di buoni rapporti e per costruire buoni rapporti. Questa è la vera avventura della vita umana. Sicuramente abbiamo anche bisogno di risolvere problemi, dato che abbiamo un cervello, abbiamo bisogno di nutrirci (e quindi di lavorare, guadagnare, ecc.), dato che abbiamo uno stomaco e abbiamo bisogno di riposarci, di svagarci, ecc. Ma i problemi che desideriamo risolvere hanno sempre dei risvolti interpersonali. Se non siamo troppo dissociati da noi stessi, comprendiamo facilmente che il succo della vita non sta né nella semplice accumulazione di cultura, né nella buona cucina, né nelle tappe della carriera. Il succo è l'intimità e il resto è … il resto. Se tendiamo a “piantarci” in passatempi intellettuali o lavorativi o “sociali” non necessari o addirittura distruttivi, di fatto, siamo spinti dalla paura dell’intimità. L’intimità, il piacere della “presenza” delle persone care e anche il piacere del nostro rapporto con noi stessi, orienta il tempo delle nostre giornate e delle stagioni della nostra vita. Per questo, proprio il film Hachiko ci ricorda chi siamo. Ci ricorda che siamo liberi di gioire con chi amiamo e che siamo capaci di rimpiangere chi amiamo e non è più con noi. Ci ricorda che la nostra dignità non consiste nel dimostrare che siamo come gli altri ci vogliono, ma nell’essere ciò che realmente siamo: più teneri, più generosi e più vulnerabili di quanto normalmente gli altri riescono ad immaginare.
Hachiko non è stato un cane “generoso”: ha semplicemente vissuto la propria vita e nel fare ciò ha reso migliore quella del suo padrone e di tanti altri. Per questo, anche se è passato quasi un secolo dalla morte del vero Hachiko, un film sulla sua storia ci tocca ancora. Il comportamento di Hachi nel film deriva da un equivoco. Egli non sa che il suo amato amico è morto. Per quel motivo aspetta e continua ad aspettare. La consapevolezza della morte lo renderebbe triste, ma non ostinato ad aspettare inutilmente. Noi umani, abbiamo un vantaggio rispetto ad Hachiko: in genere sappiamo come stanno le cose. Abbiamo però uno svantaggio: normalmente seguiamo un copione di vita in cui lo scopo principale è “non sentire il dolore”, e perseguiamo tale scopo a costo di creare altro dolore a noi stessi ed alle persone care. La morte ci coglie preparati o impreparati, ma ci raggiunge sempre e anche la distruttività nei rapporti affettivamente significativi è una manifestazione della morte: fa morire qualche sviluppo vitale di tali rapporti. La rabbia nei rapporti affettivamente significativi è sempre una difesa. Sempre e comunque. Quando ci arrabbiamo con una persona cara non siamo “presi” da una forza irresistibile, ma scegliamo di dire cose che creano sofferenza piuttosto che accettare una nostra sofferenza. Se amiamo qualcuno possiamo anche separarcene, ma con amore, chiarendo le cose e non vendicandoci di presunte “ingiustizie”.
Restare vivi, a dispetto della morte che ci incalza con la distruttività di tante persone che amiamo e da cui vorremmo essere riamati è compito nostro. Siamo in ogni istante liberi di “rovinare tutto” con rancori, vendette e svalutazioni, ma siamo anche liberi di salvare i nostri sentimenti profondi e la nostra vita. Risulta chiaro, quindi, che il film Hachiko ci aiuta (se ci permettiamo di farlo) a riflettere sul nostro modo di vivere. La reiterazione della presenza all’appuntamento alla stazione non ci ricorda solo ciò che quel cane non aveva capito, ma ci indica la possibilità di non dissociarci dal desiderio di chi ci manca e dalla benevolenza nei suoi confronti; è la metafora della nostra possibile fedeltà a ciò che sentiamo. Se non ci assumiamo la responsabilità personale di essere fedeli a noi stessi chi potrà farlo per noi? La nostra vita include dei dispiaceri e, se uccidiamo quelli, uccidiamo in qualche misura noi stessi e la nostra felicità.
John - Che cosa fa la gente?
Alicia - E’ la vita, John; esistono infinite possibilità; basta aggiungere il significato.
(R. Howard, A Beautiful Mind)
“Il dotor Strauss dicie che dovrei skrivvere quello che penso e riccordo e tutto quello che mi sucederà dora inavanti. Non lo so il perché ma lui dicie che importante perché così vedranno se potrò servire a cualcosa. Spero di sì perché Miss Kinnian dicie che forse riusiranno a farmi diventare inteligiente. Vollio esere inteligiente. Michiamo Charlie Gordon e lavvoro nela paneteria di Donner indove che il signor Donner mi dà 11 dollari a la setimana e pane o torta se volio. Ho 32 anni e il mese prossimo sarà il mio compleanno. O detto al dotor Strauss e al profesor Nemur che non so skrivvere bene ma non a importanza dicono loro doverei soltanto skrivvere come che parlo e come skrivvo comprosizzione al centro scollastco per addulti ritardatati, nela clase de la Miss Kinnian dove che vado tre volta a la setimana ne le mie ore libbere. Il dotor Strauss dicie di skrivvere tanto di tuto quelo che penso e di tuto quelo che mi suciede ma a me non mi vene in mente altro perché non ci ho gnente da skrivvere e così perogi chiudo … il vostro a fezionato Charlie Gordon”.
Questo brano costituisce l’inizio di un libro molto prezioso, scritto da Daniel Keyes nel 1966 e intitolato Fiori per Algernon Il testo ha avuto un’anticipazione nel 1959: la pubblicazione con lo stesso titolo, di un racconto breve (una trentina di pagine). Il racconto vinse il premio Hugo nel 1960 e ciò motivò l’Autore a riscrivere il lavoro, con poche variazioni e molti approfondimenti psicologici, e a farlo diventare un romanzo. Anche il libro ha avuto un certo successo ma, a mio parere, non quello che meritava. Dallo scritto di Keyes, Ralph Nelson ha ricavato un film intitolato I due mondi di Charly, nel 1968. Nonostante l’ottima interpretazione di Cliff Robertson (premiato con un Oscar), il regista non è riuscito però, a mio parere, a cogliere lo spessore umano e la delicatezza del “mondo interno” di Charlie e nemmeno la complessità dei sentimenti di Alice.
La storia è in fondo semplice. Charles Gordon, che tutti chiamano Charlie, è un ritardato a cui viene offerta la possibilità di sviluppare l’intelligenza con un nuovo tipo di intervento chirurgico fino ad ora sperimentato solo su animali. All’inizio della storia Charlie è molto frustrato perché il topolino Algernon (che ha triplicato la sua capacità intellettiva con l’intervento) lo supera sempre nella prova del labirinto. L’operazione riesce bene e i resoconti di Charlie (che costituiscono l'intelaiatura del libro) mutano gradualmente sia sul piano grammaticale, sia su quello della comprensione dei fatti, sia perché includono sempre maggiori collegamenti con le conoscenze gradualmente assimilate. Dalla vetta raggiunta, però, Charlie comprende prima degli studiosi che lo avevano operato e seguito, che Algernon sta regredendo e che egli stesso dovrà inevitabilmente ritornare al suo livello originario di intelligenza. Nel libro, più che nel racconto breve, viene descritto nei dettagli il mondo interno di Charlie in tutte le sue sfumature e viene analizzato con cura il rapporto fra Charlie e la sua famiglia d’origine e il rapporto fra Charlie e Alice Kinnian, l’insegnante che lo accompagna sia nella scuola per ritardati all’inizio, sia nei suoi studi successivi. Tra i due nascerà un amore struggente, complicato ovviamente dalla stranezza di tutta la situazione e dai cambiamenti manifestati da Charlie. La storia è intrigante e offre spunti di riflessione su alcuni temi: il rapporto fra le persone che hanno dei deficit intellettivi e le persone normali, i rischi della ricerca scientifica, le ambizioni personali dei ricercatori, l’attesa della morte (che, nel caso del personaggio, è l’attesa del ritorno alla condizione iniziale).
Cercherò ora di “scavare” un po’ nel testo di Keyes (utilizzando citazioni tratte dal romanzo, non dal racconto breve) per evidenziare alcuni temi importanti e in genere trascurati da filosofi e psicologi. Il libro si presta ad un equivoco, ovvero all’idea secondo cui la nostra lucida e profonda partecipazione alle esperienze della vita dipende dalla nostra intelligenza, poiché le vicende narrate si sviluppano in relazione allo sviluppo ed all’involuzione del quoziente intellettivo di Charlie. Tuttavia tale lettura sarebbe superficiale e fuorviante. In realtà, tutti conosciamo persone indiscutibilmente intelligenti, ma decisamente “povere” sul piano umano. Tutti conosciamo anche persone che sicuramente non brillano per il loro Q.I. o per la loro cultura, ma che sono profondamente sagge. Ci si deve chiedere, quindi, se implicitamente l’Autore volesse davvero suggerire l’idea banale secondo cui le nostre “capacità umane” sono riconducibili alle nostre capacità intellettive. Alcuni brevi passaggi possono indurci ad appoggiare questa interpretazione: Alice nota, quando Charlie è diventato un genio, di essere “distante” da lui come quando egli era uno stupido e quindi sente di non poter avere un rapporto sentimentale con lui. Inoltre, i due si amano proprio nella “fase discendente” di Charlie, quando intellettivamente si ritrovano sullo stesso livello. Tuttavia, sarebbe riduttivo attribuire all’Autore una sopravvalutazione dell’intelligenza nelle relazioni interpersonali. Di fatto, Alice non si concede a Charlie nella sua “fase ascendente” per due motivi ben diversi: in tale fase Charlie è emotivamente “scombussolato” dai continui cambiamenti e soprattutto egli stenta a raggiungere una maturazione psicologica analoga a quella intellettiva. I due si incontreranno, quindi nel momento in cui Charlie avrà acquisito una maggior consapevolezza di sé ed anche un reale rispetto per sé. La comprensione del declino in corso rende Charlie più compassionevole, cioè più “umano” e quindi capace di amare se stesso e una donna. Solo in questa nuova, dolorosa, ma intensa e positiva situazione, Alice sente, nel romanzo, di potersi fidare di lui e di poter manifestare un affetto che era già divenuto attrazione, ma non era stato espresso.
All’inizio Charlie risultava privo di fascino, non perché “meno intelligente” di Alice, ma perché non abbastanza intelligente da essere consapevole di sé e degli altri. Egli rideva con i suoi colleghi di lavoro quando gli facevano scherzi crudeli perché non comprendeva le loro intenzioni. Non era “meno intelligente”, ma era come un bambino. Ciò che rende buono un rapporto di coppia o di amicizia non è una simile condizione intellettiva, ma una buona capacità di contatto emotivo. Purtroppo l’idea che elevati standard di intelligenza (o, in altri casi, elevati standard di bellezza o di successo) ci rendano amabili è un’idea molto diffusa. Le persone hanno “ambizioni” proprio perché normalmente, in un mondo normalmente folle, credono di poter essere amabili per via di qualità che le rendono semplicemente stimabili.
E’ ovvio che per certi incarichi si richiedano particolari competenze intellettive e conoscenze, che le persone di bell’aspetto cerchino in genere dei/delle partner fisicamente attraenti e che le banche concedano prestiti più alti a chi offre maggiori garanzie, ma questo non significa che le aziende amino i loro funzionari o che le persone belle amino sempre i/le loro partner o che le banche amino i loro clienti. Questo culto (pagano) di massa relativo alle “capacità personali” (anche intellettive) che porta tanta gente a provare imbarazzo con persone “superiori” sotto qualche aspetto, non sta in piedi. Resta in piedi pur non avendo solide basi, perché ha basi psicologiche profonde, anche se irrazionali. I genitori, quando rifiutano i figli, non conoscono il motivo della loro ostilità e quindi trovano delle scuse: “sei il solito stupido”, “fatti onore”, “non deludermi”, “non far soffrire la mamma”. I bambini, proprio perché sono piccoli, vogliono credere di essere rifiutati per i loro limiti pur di non accettare che sono poco amati. Vogliono credere che se saranno più bravi, più buoni o più ordinati, saranno anche amati. Si aggrappano (inconsapevolmente) a queste sciocchezze e ne fanno una ragione di vita, sia nell’infanzia, sia nelle epoche successive: cercano amore impegnandosi più del necessario prima a scuola o nello sport e poi sul lavoro, cercano amore “parlando difficile” anche se non serve, cercano amore “ritoccandosi le rughe” quando invecchiano. Il libro di Keyes è quindi, in fondo, un antidoto per questa “droga mentale”, dal momento che quando Charlie diventa un genio ci tiene a precisare che era un essere umano anche prima e che meritava quindi lo stesso rispetto.
Nel romanzo viene evidenziato che l’attaccamento iniziale di Charlie all’idea di diventare “inteligiente” aveva le sue radici nelle chiusure psicologiche di sua madre, una donna fragile emotivamente e incapace di accettare il ritardo mentale del figlio. Una donna orientata a scaricare sul figlio la propria mancanza di rispetto per se stessa. Il padre era molto più sereno nei confronti dei limiti del figlio, ma non riusciva a “fare il padre” e ad intervenire quindi in modi opportuni. Nel corso della storia, Charlie comprende il nesso (illusorio e difensivo) fra il proprio passato e la propria esigenza di “progredire”: “Ma io, suppongo, non smisi mai di desiderare di essere il bambino intelligente che lei avrebbe voluto, affinché potesse amarmi” (p. 128).
Se vediamo il libro da questa angolazione, riusciamo a trovare in esso proprio un profondo riconoscimento dell'importanza degli aspetti “semplicemente umani” degli esseri umani, al di là dei loro pregi o limiti intellettivi o di altro tipo. Non a caso, quando Charlie inizia a sentire attrazione sessuale per Alice, si accorge di non avere una “solidità interiore” paragonabile alla solidità culturale ormai raggiunta e riflette sulla cosa in questi termini: “Come fa un uomo a imparare il modo di comportarsi con una donna? I libri non servono un gran che” (p. 75). Si impara, infatti, crescendo in un ambiente famigliare emotivamente equilibrato e ricco di intimità. Si impara prima ad essere amati e poi ad amare. La capacità di amare sessualmente si sviluppa in seguito, naturalmente.
Quando Charlie si accorge di avere poco tempo prima di tornare nel “buio”, nella “non consapevolezza di sé” da cui era emerso, si accorge di dover “vivere la propria vita”. Sente di aver poco tempo, ma di voler fare alcune esperienze che gli mancano e, tra queste, l’esperienza di amare una donna. Questa esperienza gli sembra importante perché, pur essendo riuscito a fare sesso con un’amica, non si era mai lasciato andare ad una persona veramente amata. Dopo aver fatto l’amore con Alice, scrive queste parole: “Non pretendo di capire il mistero dell’amore, ma questa volta è stato più del puro sesso. Mi sono sentito sollevare dalla oscura cella della mia mente e sono divenuto parte di qualcos’altro” (p. 255). Non a caso, questo cambiamento interiore è reso possibile a Charlie dall’esperienza di lasciarsi andare ad un donna, e non dagli studi compiuti. Questa è la vera “scoperta” di Charlie, la vera scoperta di questo povero ingenuo divenuto un uomo eccezionale che comprende l’importanza di essere semplicemente un essere umano.
Lo sviluppo intellettivo porta Charlie a capire cose che nemmeno gli studiosi che lo avevano guidato riuscivano a capire, ma ciò che di meraviglioso egli raggiunge, uscendo dal tunnel della propria ottusità iniziale, è soprattutto la capacità di accettare sia ciò che è diventato, sia ciò che era. E di accettare Algernon anche sulla via del declino e dopo la sua morte. Assistendo al declino di Algernon egli prova compassione per quell’animaletto che gli era stato tanto vicino. E decide che il topolino suo amico non deve finire nell’inceneritore del laboratorio. Dopo la sua morte lo seppellisce nel proprio giardino e continua a deporre fiori sulla piccola tomba. Da qui il titolo del libro. Questa ricchezza interiore diventa un elemento stabile di Charlie che, infatti, manterrà l’affetto per Alice e per Algernon anche quando tornerà a scrivere delle pagine sgrammaticate. L’ultima di queste, che è anche l’ultima pagina del libro, riguarda proprio il suo sentimento per l’amico sepolto nel giardino e la speranza che, quando egli morirà, altri depongano fiori sulla tomba del topolino: “per piacere se posono metano cualke fiore su la tomba di Algernon nel kortile”.
14. Piccole grandi storie
"E la vita non è fatta di idee. La maggior parte delle cose viventi nemmeno le ha, le idee. Quello che conta succede prima delle idee."
(Sydney Pollack, Havana)
Anche se l’espediente delle situazioni “estreme” facilita agli scrittori ed ai registi il compito di rappresentare la "profondità" dell’esistenza umana, in alcuni casi gli autori scelgono di descrivere tale profondità proprio raccontando piccole storie ambientate nella semplice vita quotidiana. In un certo senso, tale scelta è “ardita”, perché il minimalismo spesso esprime una visione distaccata della vita, ma quando tale scelta non implica distacco e l’autore è capace di usare le parole della passione e della compassione, i risultati sono davvero preziosi. Alcuni romanzi e film di questo tipo mi sono particolarmente cari, anche perché, non avendo mai dovuto affrontare scenari di guerra o persecuzioni politiche o ricatti mafiosi o grandi sfide scientifiche, trovo confortante che qualcuno riesca a “dimostrare” che anche le piccole vite come la mia sono in qualche modo preziose.
Sherwood Anderson (1876-1941), con il suo modo di scrivere scarno ed essenziale non ha solo influenzato (con Gertrude Stein) i migliori scrittori americani della “generazione perduta” (Ernest Hemingway, William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, John Steinbeck e altri), ma ha fatto qualcosa di molto importante sul piano umano: ha trovato le parole giuste per raccontare come le persone ogni giorno possono vivere la loro vita o vivere "poco". I Racconti dell’Ohio (1919) di Anderson scuotono la nostra sensibilità fin dalle prime pagine, da cui voglio trarre alcuni brani.
“Il vecchio scrittore, come chiunque altro al mondo, aveva raccolto nella propria mente durante la lunga vita molti pensieri (…). A tavolino, lo scrittore lavorò per un’ora. Alla fine scrisse un libro che chiamò Il libro delle caricature. (...) C’era nel libro un pensiero centrale, molto singolare, che mi è sempre rimasto in mente (…). Il pensiero, naturalmente, non era espresso, ma una semplice esposizione di esso suonerebbe press’a poco così: In principio, quando il mondo era giovane, c’erano molti pensieri ma non esisteva nulla di simile a una verità. Le verità le fabbricò l’uomo, e ogni verità fu composta da un grande numero di pensieri imprecisi. Così in tutto il mondo ci furono verità. Ed erano meravigliose. Il vecchio aveva elencato nel suo libro centinaia di verità. Io non cercherò di riferirvele tutte. C’erano la verità della verginità e la verità della passione, la verità della ricchezza e quella della povertà, della modestia e dello sperpero, dell’indifferenza e dell’entusiasmo. Centinaia e centinaia erano le verità, ed erano meravigliose. Poi veniva la gente. Ognuno, appena compariva, si gettava su una delle verità e se ne impadroniva; alcuni, molto forti, arrivavano a possederne una dozzina contemporaneamente. Erano le verità che trasformavano la gente in caricature grottesche. Il vecchio aveva una sua complessa teoria a questo proposito. Era sua opinione che quando qualcuno s’impossessava di una verità, e diceva che quella era la sua verità e si sforzava di vivere secondo essa, allora costui si trasformava in una caricatura, e la verità che egli abbracciava, in una menzogna” (pp. 8-10).
Anderson chiude così, bruscamente, la sua riflessione sulla nostra capacità di nascondere ciò che siamo, proprio aggrappandoci avidamente a delle certezze. Egli ci lascia, senza certezze anche alla fine della serie di racconti dedicati ad alcuni abitanti di Winesburg, un paesino dell’Ohio. Senza certezze, ma con un senso di calore. Forse con la “certezza morbida” secondo cui ogni persona è un mondo, una soggettività fatta di vita vissuta e per questo preziosa. Anderson non ci spiega molto dei suoi personaggi; li delinea rapidamente, lasciandoci il compito di riempire gli spazi vuoti con la nostra tenerezza. Egli ci “indica” le cose più private senza permettersi mai di “sviscerarle”, come se fossero troppo fragili per essere afferrate dalle parole. Ogni capitolo del libro è dedicato ad un abitante di Winesburg e le storie narrate sono storie di persone spesso abbastanza confuse. In ogni caso l’autore si astiene dal giustificare e anche dal condannare. Anderson cerca piuttosto di narrare vite con il rispetto di chi capisce che ogni scelta cruciale degli esseri umani rientra in un progetto esistenziale, magari confuso o illusorio, ma sentito come necessario. E’ questo tratto lieve della filosofia dell’autore che, unito ad uno stile esasperatamente “essenziale”, ci permette di “entrare in punta di piedi” in queste esistenze, a volte isolate dalle altre e a volte intrecciate alle altre. Fin dal primo racconto, Anderson spiega che, nonostante l’età, lo scrittore aveva una cosa dentro di lui che era giovane e che era vitale. Era “come una donna pregna” (p. 8) e proprio tale “cosa giovane” era responsabile di quella specie di sogno che aveva ispirato il suo nuovo libro.
Perché il "contenuto" o "messaggio" di una narrazione non sia superficiale occorre che l'autore oltre a saper raccontare abbia anche "qualcosa" da raccontare. I racconti “sentimentali” o polizieschi, in genere non ci conducono da nessuna parte, se non all'auspicato matrimonio o alla scoperta dell'assassino. Quelli "veri", invece, parlano della vita reale delle persone e quindi delle loro battaglie interiori. Qui casca l'asino, perché non sta scritto da nessuna parte che le battaglie interiori debbano necessariamente essere costituite da tormenti moralistici. L'idea dell'uomo "lacerato" o “inquieto” non è un'idea "profonda", ma un'idea fasulla che nasce a sua volta da una lacerazione, da idee e da emozioni confuse. Ciò che rende "tragica" la vita umana non è la presenza di equivoci psicologici, ma la consapevolezza dell'inevitabile compresenza di gioia e dolore nella trama dell'esistenza personale. E' quindi irrilevante che una storia realmente interessante sia lineare o complessa, o che abbia un lieto fine o un finale triste.
Tornando al libro di Anderson, anche se molte vicende raccontate sono storie di fallimenti personali, di rassegnazione, di ostinazione o di confusione mentale, l’autore le attraversa tenendo sempre presente che le persone hanno quella "cosa giovane" nella loro più profonda interiorità e che non sono caricature: diventano caricature solo quando tradiscono se stesse per gettarsi avidamente su qualche "verità". E' quindi il primo racconto sulla visione del vecchio scrittore a darci la chiave di lettura di tutti gli altri. Il penultimo racconto rafforza tale prospettiva: infatti George ed Helen, due ragazzi che hanno sperimentato un certo disorientamento, riescono ad incontrarsi senza falsità e mostrano, implicitamente, che anche noi possiamo sempre sconfiggere le nostre paure e i nostri fantasmi. "Fu così che scesero la collina. Al buio si misero a giocare come due splendidi esseri giovani in un mondo giovane. Una volta, correndogli avanti, Helen fece inciampare e cadere George. Lui rotolò e rise. Sempre ridendo forte, si buttò a scendere la collina. Helen gli corse dietro. Per un attimo si fermò al buio. Non è possibile sapere quali pensieri da donna le passassero per il capo, certo è che quando arrivò in fondo e raggiunse il ragazzo, gli prese il braccio e camminò accanto a lui, con molta dignità, in silenzio. Per motivi che non avrebbero saputo spiegare, entrambi ebbero, da quella sera silenziosa trascorsa insieme, la cosa di cui avevano bisogno" (p. 236-237).
Vi sono anche altri romanzi importanti, in cui i rapporti fra le persone vengono arricchiti da sentimenti comprensibili e non da difese psicologiche scambiate per “stati d’animo profondi”. Jack London, nel libro Il richiamo della foresta è riuscito a ricapitolare metaforicamente la determinazione con cui le persone possono lottare non solo per sopravvivere, ma per stabilire legami contrassegnati da lealtà, fedeltà e amore. David Herbert Lawrence, invece, ha creato una storia (L’amante di Lady Chatterley) tanto semplice da risultare quasi fantascientifica in un mondo in cui le relazioni di coppia ruotano attorno a sentimenti irrazionali e quindi difensivi: la storia di un uomo e una donna che si incontrano, rinunciano alle loro chiusure psicologiche, si lasciano conoscere esprimendo ciò che realmente sentono, si apprezzano, si desiderano, manifestano liberamente il loro desiderio sessuale, si permettono anche di amarsi e di fare le scelte che riflettono il loro semplice amore. E’ un romanzo troppo bello per essere facilmente compreso e, non a caso, è stato considerato un testo “pornografico” ed è stato poi rivalutato, ma non adeguatamente riconosciuto come radicalmente diverso da tanti altri. D’altra parte, 1984 di George Orwell è stato apprezzato come romanzo “politico” anche se è prezioso proprio per ciò che coglie nella dimensione personale.
Anche nell’ambito del cinema, sia alcuni maestri della regia, sia alcuni semplici artigiani, ci hanno lasciato storie semplici e convincenti come quelle di Anderson. Mi riferisco a film come Una storia vera, di David Lynch, in cui un vecchietto decide di riconciliarsi col fratello e di arrivare da lui senza l’aiuto di nessuno. Nel viaggio, alla guida di un tosaerba a cui ha agganciato un rimorchio contenente coperte e scorte alimentari, il personaggio, interpretato da uno splendido Richard Fainsworth a fine carriera, incontra varie persone. Ad ognuna di esse lascia alcune parole schiette e il suo calore umano. Nel film Smoke, diretto da Wayne Wang e Paul Auster i personaggi riescono a stabilire un contatto davvero autentico facendo cose normalissime, ma soprattutto manifestando la capacità di trattare gli altri come soggetti e non come oggetti. E’ commovente la storia che il tabaccaio racconta alla fine del film all’amico scrittore per aiutarlo a scrivere una bella “storia di Natale”.
Come nelle corse automobilistiche i piloti sono bravissimi nel guidare su una pista che non conduce da nessuna parte, i film e i romanzi troppo spesso raccontano delle vicende in cui i personaggi non vanno da nessuna parte. Per questo sono tanto preziose le storie in cui i personaggi agiscono esprimendo ciò che sono. Storie belle, quindi, per il modo in cui sono confezionate, ma soprattutto per i contenuti che riflettono. Grazie a tali storie possiamo immergerci in una finzione per uscirne più consapevoli della delicatezza della nostra vita reale e più determinati a rinunciare alla comoda abitudine di "vivere poco".
Considerazioni conclusive
Non si può semplicemente “star bene”: si può stare “tanto” (bene e male) oppure stare “poco” (bene e male). In altre parole, non possiamo impedire che la vita ci dispensi gioie e dolori, ma possiamo vivere con le gioie e i dolori o restare poco sensibili ai dolori e, inevitabilmente, anche alle gioie.
Non solo. E’ errato credere che fare del male dia soddisfazione: si fa del male per paura e non per ottenere un reale appagamento. Quindi, non serve che controlliamo inesistenti pulsioni distruttive se superiamo la paura di sentire le nostre emozioni. Sentendo tutto comprendiamo la realtà e facciamo tutto il bene che ci è possibile fare.
Per far crescere bene i bambini non è sensato spaventarli e poi indurli a controllare le loro reazioni. E’ più sensato amarli e permettere a loro di esprimere la loro voglia di vivere.
Per invecchiare bene non è ragionevole credere che il tempo sia ingiusto. E’ più sensato costruire una vita buona fin dagli anni della gioventù e invecchiare con dei buoni ricordi.
Le lacrime sono il carburante che ci permette di realizzare una storia personale realmente sentita, realmente compresa e realmente “nostra”. Il premio non ci sarà dato alla fine, poiché è costituito da ciò che siamo e da ciò che ogni giorno riusciamo a fare.
Riferimenti bibliografici
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