In
un romanzo scritto nel 1948 e ambientato in un immaginario futuro (e per tale
motivo intitolato 1984), George
Orwell ha delineato molti aspetti di una società possibile, organizzata in modo
da esasperare le tendenze peggiori che già il nazismo e la dittatura stalinista
avevano manifestato. Ha quindi prospettato non una società utopica, ma
distopica, cioè una anti-utopia o utopia negativa per far riflettere sul fatto
che la sconfitta del regime nazista non aveva eliminato le radici profonde di
quell’incubo e che tali radici potevano, quindi, produrre nuove mostruosità.
Altri scrittori hanno concepito e descritto in altri momenti scenari distopici
sperando che la paura di un futuro possibile inducesse le persone ad affrontare
il presente in modi costruttivi. In questo filone letterario possiamo includere
La macchina del tempo (1895) di H. G.
Wells, Il tallone di ferro (1907) di
Jack London, Noi (1921) di Evgénij
Zamjatin, Il mondo nuovo (1932) di
Aldous Huxley e altri, ma George Orwell è stato particolarmente acuto nel
descrivere i punti in cui si incontrano le istanze sociali di controllo delle
masse e i bisogni individuali di “appartenenza” alla comunità ed anche ad una
comunità assolutamente folle. Tale sensibilità ha caratterizzato tutti i
romanzi di Orwell, perché questo autore, pur non avendo una specifica
formazione filosofica e psicologica ha sempre descritto in modo impeccabile
l’irrazionalità sociale e le difese psicologiche individuali.
Credo
che un’analisi dell’opera complessiva di Orwell sia importante, perché gli
estimatori dei suoi romanzi e articoli hanno purtroppo ridotto Orwell ad un
acuto scrittore politico, sottovalutando i suoi più preziosi contributi che
consistono proprio nell’analisi del terreno sul quale l’autoritarismo sociale
si fonde con le difese psicologiche individuali. Nella società totalitaria
immaginata da Orwell, l’irrazionalità delle masse è concepita come il risultato
di un progetto attuato dal Grande Fratello, e quindi, dal potere costituito.
Orwell ha però analizzato sia le
strategie di manipolazione attuate dalle autorità, sia il bisogno dei cittadini di farsi manipolare. Nel futuro
immaginato da Orwell l’autoritarismo è l’attuazione sistematica del progetto di
un gruppo di potere, ma nella realtà attuale (certamente più inquietante)
l’autoritarismo non è attivamente pianificato, perché si realizza in gran parte
grazie ad atteggiamenti difensivi inconsapevolmente manifestati sia da chi ha
un ruolo dominante sia dalle masse che hanno una posizione subalterna. Solo in
ambiti circoscritti della politica, della pubblicità e delle relazioni umane
alcune persone cercano consapevolmente di indurre gli altri a pensare, sentire
e agire in certi modi e anche in questi casi, comunque, i manipolatori sanno
cosa stanno facendo, ma non sono coscienti delle ragioni della loro
distruttività. In tutti gli altri ambiti ciò non è necessario, purtroppo,
perché la paura di capire, di sentire e di accettare il dolore, rende le
persone di tutti gli strati sociali propense a consolidare una realtà sociale
basata su rapporti di potere e su illusioni di potere. Resta il fatto che la
descrizione orwelliana della follia di massa corrisponde a ciò che gli esseri
umani fanno “in piena incoscienza”. Di questo Orwell era convinto, dato che
anche i personaggi degli altri suoi romanzi si ostinano a vivere “poco”
manifestando strategie difensive individuali molto diverse, ma terribilmente
“efficaci”.
George Orwell (1903-1950), il cui
vero nome era Eric Arthur Blair, nacque a Motihari, nel Bengala, dove il padre
era impiegato nell'Indian Civil Service. Lì trascorse la sua infanzia
fino al 1907, anno in cui si trasferì con la famiglia in Inghilterra. Fin da
bambino pensò di diventare scrittore e, in seguito, collegò questa sua iniziale
aspirazione al senso di isolamento ed all'impressione di essere sottovalutato
che lo accompagnarono fino all'adolescenza. Particolarmente dolorosa fu per lui
la permanenza presso il collegio di St. Cyprian a cui fu iscritto nel 1911.
Conclusi gli studi nella prestigiosa Public School di Eton, alla quale
era stato ammesso con una borsa di studio, rinunciò agli studi universitari per
arruolarsi nella Indian Imperial Police in Birmania e nel 1929, dopo
circa cinque anni di servizio si congedò e ritornò in Europa per iniziare la
sua carriera di scrittore. Per molti anni scrivere romanzi non gli diede alcuna
sicurezza economica e solo nel 1945, con la pubblicazione de La fattoria
degli animali, raggiunse una fama internazionale ed anche una tranquillità
finanziaria che gli permisero di scrivere esclusivamente quello che voleva.
Negli anni precedenti, infatti, si era guadagnato da vivere svolgendo del
lavoro giornalistico per varie riviste e curando trasmissioni per la BBC; ancor
prima aveva fatto il lavapiatti a Parigi, era stato commesso di libreria a
Londra, aveva insegnato presso scuole private, aveva gestito per un breve
periodo un negozio, era stato bracciante nei campi di luppolo ed aveva persino
vagabondato con i mendicanti.
Questo elenco di attività è
indicativo non solo della precarietà economica che Orwell, come molti
scrittori, sperimentò agli inizi della carriera letteraria, ma anche di un
interesse personale a condividere le condizioni
di vita degli strati sociali più umili. Si è detto molto a proposito del
"senso di colpa" maturato dal giovane Orwell, poliziotto imperiale,
nei confronti delle vittime dell'imperialismo e più in generale maturato, per
via della sua provenienza dal ceto medio, nei confronti del proletariato e
degli emarginati. Egli stesso ha spiegato nel libro La strada di Wigan Pier
questo suo abbassarsi al livello degli "infimi fra gli infimi" come
bisogno di "espiare" e di conoscere dall'interno l'altra faccia del
mondo, quella in cui non era nato. Tuttavia, come opportunamente Peter Lewis ha
messo in evidenza, sembra "più plausibile vedere questi eventi come una serie
di deliberate fughe dai modelli prevedibili della vita inglese" (1981, p.
4). L'itinerario personale di Orwell non è infatti comprensibile solo in
funzione di conflitti psicologici ideologizzati, ma soprattutto, in positivo,
come ricerca di esperienze incompatibili con gli schemi mentali ed i valori
socialmente istituiti. Orwell non fu solo distante dall'orizzonte ideologico
della borghesia, ma anche dai dogmi e dai conformismi degli ambienti di
sinistra. Infatti, si oppose a tutti i modelli di pensiero e di comportamento
adatti ad occultare i bisogni e le aspirazioni umane più profonde. L'assidua
analisi dei miti della borghesia e la sofferta comprensione dei drammi degli
sfruttati e dei poveri segnarono in maniera evidente il percorso interiore ed
intellettuale di Orwell, ma, nonostante i continui riferimenti al piano
politico, egli non ridusse mai il suo impegno esclusivamente a tale piano.
Molti critici di sinistra
rimproverarono ad Orwell una concezione più umanistica che "teoricamente
rigorosa" del socialismo. Tuttavia, a tanti anni di distanza, queste
critiche risultano decisamente datate. La concezione orwelliana, infatti non
riflette una delle varie "anime" del socialismo, ma costituisce una
lettura più che politica dei problemi sociali. Anche se Orwell si è
sempre schierato politicamente, al punto di dichiarare in Why I Write di
aver scritto "libri senza vita" quando gli era mancata una chiara
"intenzione politica" (in CEJL, vol. I, p. 30), ha sempre
sottolineato l'intreccio fra il conformismo sociale e le tensioni interne
all'individuo. Quando preparava la seconda stesura del suo ultimo romanzo, 1984,
uno dei più significativi sul piano politico, Orwell scrisse a George Woodcock
di essere convinto che nella vita degli uomini fosse presente una solitudine
irriducibile alle circostanze esterne socialmente definite (in CEJL, vol. IV,
p. 480). Per questo motivo Orwell non è stato solo uno dei primi intellettuali
di sinistra a denunciare lo stalinismo: egli, da un lato ha denunciato il
totalitarismo nelle sue manifestazioni storiche e nei suoi potenziali sviluppi
e, da un altro lato, ha descritto con acutezza i fattori che possono rendere le
persone complici dell'autoritarismo sociale.
Il totalitarismo non consiste nella
semplice negazione delle libertà individuali, ma soprattutto nella capacità di
condizionare le persone in modo che esse non desiderino esercitare alcuna
libertà. Le opposizioni puramente politiche al totalitarismo erano per Orwell
destinate al fallimento perché si opponevano solo alle sue manifestazioni più
evidenti ed esteriori. In un saggio su Arthur Koestler Orwell ha sottolineato
che gli esponenti della sinistra commettevano l'errore di "essere
antifascisti senza essere antitotalitari" (in CEJL, vol. III, p. 273),
sottovalutando o non comprendendo il fatto che il totalitarismo non è violento
solo per ciò che nega, ma soprattutto per il suo operare in positivo. In Literature
and Totalitarism, infatti egli nota che il totalitarismo "non solo
proibisce l'espressione –e talvolta la stessa formulazione- di certi pensieri,
ma indica anche cosa si dovrebbe pensare, crea una ideologia per le
persone, tenta di governare la loro vita emozionale ed anche di stabilire
precisi codici di condotta. (…) Lo stato totalitario tenta in ogni caso di
controllare i pensieri e le emozioni dei cittadini almeno quanto controlla le
loro azioni" (in CEJL, vol. II, p. 162). In questa comprensione profonda
delle possibilità di manipolazione psicologica dello Stato totalitario, va
individuata la vera specificità di 1984, il romanzo più famoso di
Orwell. Nell'incubo fantascientifico lì descritto, l'autorità dell'Oceania
cerca di imporre un linguaggio inadatto all'espressione delle capacità critiche
delle persone. Cerca quindi di abituare le menti umane alla tolleranza per le
contraddizioni logiche che caratterizzano la propaganda politica del Grande
Fratello, e cerca di canalizzare l'emotività individuale nelle sole direzioni
utilizzabili per la riproduzione dell'ordine sociale. Orwell ha presentato in
modo così accurato i processi mentali ("bispensiero") e le strutture
linguistiche ("neolingua") funzionali all'irrazionalismo sociale
totalitario, che 1984 è diventato una citazione d'obbligo nei manuali di
psicologia sociale e negli studi sulla comunicazione interpersonale.
Tutto ciò riguarda solo la prima parte della concezione orwelliana
del totalitarismo: la tesi secondo cui questo manipola le masse oltre a
reprimerle. Orwell ha però sottolineato un fatto ancora più scomodo da
accettare: gli individui sono effettivamente un terreno fertile sul quale il
seme dell'irrazionalità sociale riesce a svilupparsi. Questa seconda parte della concezione
orwelliana chiarisce che il totalitarismo non crea dal nulla gli atteggiamenti
gregari, ma li attiva facendo leva sul terrore inconscio della non accettazione
e della “non appartenenza” che spinge le persone a non manifestare una reale
autonomia di giudizio. In altre parole, i (dis)valori del totalitarismo vengono
veicolati dalle manipolazioni psicologiche, ma tale processo è possibile in
quanto le persone in fondo desiderano sentirsi parte della società più di
quanto desiderano esprimere ciò che sono. Orwell non ha mai approfondito né
discusso le teorie relative allo sviluppo psicologico individuale, ma ha
mostrato di capire con molta chiarezza varie manifestazioni delle difese
psicologiche e di cogliere i modi in cui il potere può utilizzarle per ottenere
il consenso. Indicativa di tale consapevolezza è il fatto che in varie
occasioni ha sottolineato che l’antisemitismo ha radici molto profonde che
sarebbe errato sottovalutare (cfr. CEJL, vol. III, pp. 112-115; CEJL, vol. IV,
pp. 511-513; CEJL, vol. III, pp. 378-388; CEJL, vol. III, pp.410-431). Proprio
per questo tipo di analisi, la posizione di Orwell è risultata particolarmente
scomoda nell'ambito della sinistra, dato che presentava gli individui, oltre
che come vittime del totalitarismo, come potenziali suoi complici. Consapevole
del proprio isolamento, Orwell non rinunciò a criticare la miopia delle
contestazioni puramente esterne del totalitarismo, sostenendo che esse da
un lato erano limitate e da un altro lato non prevenivano adeguatamente la
possibilità di sviluppi autoritari nell'ambito delle stesse organizzazioni
politiche di sinistra.
Orwell ha sostenuto in 1984
che la repressione e la distorsione della sessualità contribuiscono
all'irrazionalismo di massa. La "neolingua" introdotta dal Grande
Fratello riduceva a due gli elementi del lessico riguardanti il sesso: sesbuono
e reasesso. Il primo riguardava la castità e la sessualità procreativa
non accompagnata da piacere; il secondo indicava tutte le altre manifestazioni
della sessualità. In tale prospettiva, la dimensione sessuale della vita umana
veniva negata in blocco in quanto legata al piacere ed ai sentimenti. Orwell ha
fornito una spiegazione per tale programma sessuorepressivo, ricorrendo ad una
conversazione fra Winston (il personaggio principale del romanzo che
gradualmente prende coscienza di sé) e Julia, la sua donna. Le ragioni, per
Julia, non stavano solo nel fatto che la sessualità delimitava una sfera d'esperienza
inaccessibile al controllo del partito, ma erano più profonde:
"l'astinenza sessuale produceva l'isterismo, un fenomeno da favorirsi,
perché lo si poteva facilmente trasformare nell'infatuazione per la guerra e
nell'adorazione dei capi. (…) C'era un rapporto diretto ed intimo fra
l'astinenza sessuale e l'ortodossia politica. In che modo si sarebbero potute
mantenere sempre eccitate la paura, l'odio, la folle credulità di cui il
Partito abbisognava, nelle persone dei suoi membri, se non coll'imbottigliare
un istinto potente come quello del sesso, e sfruttarlo invece, come una forza
motrice? L'istinto sessuale era un pericolo per il Partito, e il Partito
l'aveva messo a frutto snaturandolo" (pp. 159-160).
A torto si è detto che nel romanzo è
ingenuamente attribuita alla sessualità una potenzialità eversiva che essa non
ha, dal momento che sia il permissivismo superficiale, sia il moralismo, oggi
risultano perfettamente compatibili con l'ordine costituito. Tali
considerazioni, in realtà, sono state fatte proprio da Orwell: egli ha
attribuito al Partito del Grande Fratello un orientamento favorevole alle
manifestazioni sessuali sganciate dal coinvolgimento personale un'intera
sottosezione del Ministero della Verità, detta Pornosez, curava
la stampa di basso materiale pornografico destinato ai prolet, lo strato
più oppresso della popolazione. Per Orwell, quindi, la repressione sessuale
congeniale ad un sistema totalitario non è una forma elementare di moralismo
ideologico, ma un più ampio programma di impoverimento delle capacità critiche
e di quelle emotive. Per Orwell, un'intensa e fluida vita emotiva, leggibile
nella "grazia" dei movimenti corporei (p. 54), rende possibile un
interiore senso di libertà incompatibile con l'ottusa accettazione dell'ordine
costituito e dell'irrazionalismo ideologico, mentre la miseria emozionale e
sessuale, intuibile dalla rigidità degli atteggiamenti e dalla stessa rigidità
muscolare (p. 90 e p. 320), rende gli individui incapaci di sentirsi vivi,
interi, e li induce facilmente a sentirsi privi di dignità e bisognosi
dell’accettazione di un gruppo rappresentato da un'autorità.
La concezione del socialismo
espressa da Orwell riflette più l'aspirazione ad un mondo giusto che
un'adesione al marxismo o ad una rielaborazione teorica di tale dottrina. Il
tempo ha dato ragione ad Orwell sul fatto che il socialismo inteso come
umanesimo ha più ragioni del socialismo inteso come teoria
"scientifica" delle trasformazioni sociali. Gli ideali di Orwell sono
rimasti, mentre le previsioni del materialismo storico non sono state
confermate. Un'altra forte istanza della concezione socialista di Orwell, non
radicata nella tradizione marxista, è quella che potremmo indicare come non
riduzionista (o anti-sociologica): nel saggio su Charles Dickens, Orwell
evidenzia che, al di là dell'indiscutibile peso dei condizionamenti sociali
sulle idee e sugli atteggiamenti personali, un'autentica emancipazione degli
individui non può derivare meccanicamente dai cambiamenti sociali, ma richiede
un processo di maturazione interiore (in CEJL, vol. I, p. 469). Ciò che però
rende Orwell più acuto di qualsiasi moralista è la consapevolezza del fatto che
le persone tendono in qualche misura a frenare l'espressione delle loro
potenzialità. Anche se questi freni non vengono da Orwell spiegati come difese
psicologiche, essi sono perfettamente descritti nel loro operare. Milton
Rokeach (1960) ha citato espressamente Orwell per evidenziare che la sua
descrizione del "bispensiero" coglie in pieno un aspetto fondamentale
della "mente chiusa", ovvero della coesistenza di convinzioni
logicamente contraddittorie entro un unico "sistema di credenze"
(cfr. p. 36). Nel corso della vita di Orwell vennero pubblicati alcuni testi su
questi argomenti e Wilhelm Reich (1946) già negli anni '20 e ’30 aveva
aperto un dibattito teorico e politico sui rapporti fra repressione sessuale e autoritarismo sociale. Sebbene Orwell, attribuendo ad O'Brien, in 1984,
la tesi secondo cui "gli uomini in massa sono deboli e vili creature che
non sanno sopportare la libertà" (p. 290), facesse eco al titolo del libro
Fuga dalla libertà di Erich Fromm (1941) e sebbene i riferimenti in 1984
all'irrigidimento difensivo, anche muscolare (cfr. p. 320) contro la
spontaneità facciano venire in mente il concetto di "corazza
caratteriale" (Reich, 1945), sembra che egli non fosse al corrente di questi
sviluppi postfreudiani della psicologia sociale. Ciononostante, la comprensione
di Orwell delle remore soggettive all'espressione emotiva ed all'esercizio
delle capacità critiche si è tradotta in lucidissime descrizioni dei conflitti
interiori delle persone. Orwell ha evidenziato il fatto che forti istanze
distruttive sono presenti in tutti gli schieramenti politici e che le tendenze
irrazionali ed autoritarie possono essere presenti nelle stesse persone
politicamente impegnate a favore della democrazia, della libertà e del
socialismo. Tuttavia, se pure non ci si può liberare di questo fardello solo
con la ragione, Orwell ha sottolineato in una lettera a Richard Rees che è
compito specifico dell'intellettuale politicamente impegnato l'uso della
ragione contro l'irrazionalità di massa e contro le componenti irrazionali che
in lui stesso possono annidarsi (cfr. CEJL, vol. IV, p. 539).
Per comprendere meglio le idee di
Orwell sui fattori che rendono le persone capaci di sottomettersi
all’autoritarismo sociale o capaci di non piegarsi ad esso, è opportuno
chiarire meglio la sua concezione del piacere e della ricerca del piacere. In
alcuni scritti Orwell ha considerato l'edonismo come un atteggiamento che porta
inevitabilmente a scelte distruttive nei rapporti sociali e ad un impoverimento
del progetto esistenziale della persona. Formulando questa convinzione egli non
ha tenuto conto del fatto che l’edonismo ha due facce: può essere inteso come
una ragionevole ricerca del piacere, dell’intimità e della felicità (antitetica
alla svalutazione religiosa della gioia di vivere) e può essere inteso come una
ricerca (difensiva) di gratificazioni impossibili e quindi come una vorace e
ottimistica illusione di appagamento. Nella storia della cultura occidentale
(ma anche di quella orientale) la ricerca del piacere è sempre stata analizzata
in modi confusi proprio per la mancanza di una distinzione fra modi di vivere
espressivi e difensivi. Le convinzioni di Orwell sulla questione possono quindi
essere classificate come anti-edonistiche non per via di un atteggiamento
svalutativo nei confronti del piacere, ma perché non ha avuto a disposizione
gli strumenti concettuali per uscire dalla riflessione etica. L’etica ha, nel
tempo, talmente imbrigliato le idee che anche i pensatori più lucidi e
sensibili, come ad esempio Albert Camus (1942, 1951), hanno finito per
affermare la loro sensibilità ai margini dell’etica, ma sempre entro il suo
orizzonte.
Per Orwell, l’edonismo porta inevitabilmente alla delusione, al nichilismo, alla fuga
dall'impegno. In queste riflessioni Orwell sottolinea una grande verità, ma si
riferisce alla ricerca avida, infantile e difensiva della felicità e quindi
all’edonismo “povero” di chi pretende e si illude e non all’edonismo di chi
desidera, gioisce e sa anche elaborare il dolore. Giustamente Orwell sottolinea
che l'impossibilità di realizzare una condizione di appagamento di tutti i
desideri caratterizza la dimensione esistenziale umana e la rende
intrinsecamente tragica. Non la rende priva di valore, né priva di piacere, ma
tragica in quanto essenzialmente caratterizzata sia dal piacere, sia dal dolore. La morte e le sue
anticipazioni parziali (le varie sofferenze) definiscono l'esistenza umana
quanto gli aspetti vitali, piacevoli e creativi. Esprimere il meglio di sé,
costruire ciò che è possibile ed anche godere di ciò che è possibile in una
realtà comunque anche dolorosa rende la vita umana un'esperienza
creativa piuttosto che un illusorio tentativo di schivare la sofferenza.
L'edonismo contestato da Orwell è quindi quello che deriva dalle difese psicologiche
“ottimistiche”. Nel saggio Lear, Tolstoj and the Fool egli scrive: "La maggior parte
della gente ottiene una discreta dose di piacere dalla vita, ma tutto sommato
la vita è sofferenza e soltanto chi è molto giovane o molto sciocco può essere
di opinione diversa"( in CEJL, vol. IV, p. 344). In queste parole Orwell
manifesta una certa amarezza, ma nella sua vita ha mostrato concretamente di
poter amare e di potersi impegnare nonostante la presenza del dolore.
Secondo Orwell il pessimismo di
Arthur Koestler (che abbandonò i suoi ideali politici dopo l'involuzione
staliniana della rivoluzione sovietica) si spiegava proprio considerando che
gli ideali politici di Koestler erano stati affermati sulla base di premesse
edonistiche (in CEJL, vol. III, pp. 270-282). L’analisi di Orwell è corretta,
se si considera l’edonismo nella sua versione difensiva. Per Orwell, l'unico
modo di uscire dal senso di fallimento a cui conduce tale edonismo consiste nell'accettare i limiti
dell'esistenza umana ed entro tali limiti accogliere e offrire le gioie
possibili. Tuttavia, tale obiettivo contraddice solo all’edonismo ottimistico
e difensivo. Contraddice la ricerca di una felicità illusoria, non la
ricerca della felicità intesa come realizzazione di esperienze piacevoli, di
relazioni intime e di impegno sociale nell’accettazione del dolore inevitabile.
Sempre nel saggio dedicato ad Arthur Koestler egli scrive: "Il problema
reale è come ristabilire un atteggiamento religioso unito all'accettazione
della morte come meta finale. Gli uomini possono essere felici solo se non
assumono che lo scopo della loro vita sia la felicità"(in CEJL, vol. III,
p. 281). In tale affermazione egli, in realtà, esprime la necessità di cercare
una felicità razionale e realistica anziché difensiva. Per questo è possibile
interpretare il suo pensiero non come una sorta di filosofia antiedonistica,
moralistica e svalutativa, ma come una radicale accettazione della realtà. Di
fatto egli ha sempre cercato la felicità: non quella illusoria, ma quella
derivante dal rispetto per sé e per gli altri. Proprio accettando il dolore
come aspetto inevitabile dell'esistenza Orwell ha sempre cercato con entusiasmo
il piacere possibile (per sé e per gli altri) e si è dedicato a costruire un
mondo migliore, anche se non perfetto. L'idea di costruire una vita buona anziché
pretendere quell’appagamento possibile solo nell’infanzia è la chiave di volta
del suo anti-edonismo. Nel pensiero e nella vita di Orwell, infatti, la logica
del fare rimpiazza tutte le possibili pretese difensive e infantili. Sempre nel saggio su Koestler egli afferma che se tutte le rivoluzioni sono dei
fallimenti, non tutti i fallimenti sono uguali (cfr. p. 282) e in As I Please del 24 Dicembre 1943 afferma
che lo scopo del socialismo non è quello di rendere il mondo perfetto, ma di
renderlo migliore (in CEJL, vol. III, pp.81-84). Sullo stesso tono, Albert
Camus, partendo da una sofferta analisi dell’esistenza individuale, è approdato
all'affermazione di ideali più che condivisibili: la lucida resistenza ad ogni
ideologia consolatoria, l'affermazione della dignità personale, il rispetto per
la vita di ogni uomo. Egli capiva bene che se fondiamo la nostra adesione alla
vita sulla pretesa di un futuro
migliore ogni ostacolo ai nostri progetti personali o politici può portarci ad
una fuga dall'impegno. L'atteggiamento che Camus riconduce al concetto di
"rivolta" (1951) è in realtà radicalmente positivo e presuppone il
riconoscimento della morte (in tutti i suoi aspetti) nella vita umana. Questo
radicale rifiuto dell'ingenuo edonismo avvicina Camus ad Orwell e, proprio per
questo, pur affermando la “assurdità” della vita, Camus ha potuto vivere una
vita intensa ed impegnata sul piano personale, intellettuale e sociale.
Ciò che rende le persone immuni
rispetto al nichilismo è la capacità emotiva
di tollerare il dolore che (come il piacere) è un aspetto essenziale dell'esistenza umana. Orwell è riuscito a convivere con la consapevolezza della
tragicità dell'esistenza umana e quindi ha potuto vivere senza alcun ottimismo
illusorio. Ha riconosciuto in Why I Write
che un acuto senso di fallimento, di solitudine e di infelicità ha permeato la
sua infanzia (cfr. CEJL, vol. I, pp. 23-30), ma ciò che conta è che egli sia
riuscito a rielaborare la sua storia personale in termini positivi. Pur essendo
estraneo all'orizzonte culturale della psicologia, come ha notato Richard Rees
(cfr. 1961, pp. 12-13 e pp.145-146 ), è stato uno dei più perspicaci analisti
delle chiusure emotive delle persone e dell'irrazionalità presente nell'organizzazione sociale e nelle ideologie. I temi più cari ad Orwell
sono sempre stati quelli psicologici e filosofici relativi al modo di
affrontare il dolore e la realtà. Egli ha ammesso in Why I Write di essere stato costretto dalle drammatiche vicende
politiche del suo tempo a diventare un saggista ed un polemista, anche se
avrebbe preferito scrivere su altri temi a lui più congeniali (cfr. CEJL, vol.
I, pp. 26-28). Ha tuttavia cercato di portare nell'impegno politico la sua
consapevolezza della vita interiore delle persone e di capire in modo acuto e
originale i rapporti fra l’irrazionalità sociale e quella individuale. In
questo senso, 1984 è un'opera fondamentale che si collega sia ai suoi
saggi di denuncia politica, sia ai romanzi centrati sui conflitti personali.
Ambientato nei luoghi in cui Orwell
aveva prestato servizio nella polizia imperiale, Giorni in Birmania
(1934) è il primo romanzo di Orwell ed ha come centro di interesse la coscienza
tormentata di John Flory, commerciante di legname, il cui stato di decadimento
interiore si traduce in una indecisione cronica di fronte alle scelte di vita.
E' un individuo pienamente consapevole del fatto che tutta la retorica della
colonizzazione civilizzatrice copre semplicemente una politica di sfruttamento,
ma a differenza del giovane Orwell che, nella realtà lasciò la Birmania per
costruirsi una vita compatibile con le idee ed i principi in cui credeva, il
personaggio del romanzo, si trascina con rassegnazione, anno dopo anno, in un
mondo che disprezza, senza fare le scelte che produrrebbero la perdita di
alcuni modesti privilegi. Flory si trascina tra il lavoro, le conversazioni
superficiali con ottusi militari, commercianti o amministratori locali, le
periodiche ubriacature, gli occasionali rapporti con un’amante indigena e gli
sfoghi verbali con l'amico Veraswami. Solo l'incontro con Elizabeth, nipote
dell’amministratore di una società di legnami, sembra scuotere Flory dal suo
torpore. Ella è però una giovane a caccia di marito, non meno razzista di ogni
inglese medio catapultatosi in Birmania per avere vantaggi più difficilmente
ottenibili in Inghilterra. Elizabeth adora ciò che Flory detesta ed è distante
da lui al punto da non sospettare nemmeno il tipo di distanza esistente fra i
loro pensieri. Pur trovandosi spesso vagamente a disagio con Flory, si sente in
certe occasioni attratta da alcune sue qualità, o meglio da qualità che sulla
base di certi fraintendimenti finisce per attribuirgli. Impacciato, timido,
sempre esitante, reso tale anche dal timore di risultare repellente per una
voglia che deturpa il suo viso (simbolo della sua diversità dagli altri
individui integratisi nell'ambiente sociale), Flory sogna una donna presso la
quale rifugiarsi e da cui sentirsi accettato per quel suo mondo interiore che non
osa esporre all'ottusità delle altre persone, ma che egli stesso non accetta
davvero. Egli non cerca una donna da amare e da cui essere amato, ma cerca una
donna che “lo salvi”. Come tutte le persone che nella vita scommettono sulla
sicurezza e si aggrappano alle illusioni, Flory è destinato a fallire. Orwell
presenta il progressivo compiersi di tale disastro fino al suicidio. Il filo
conduttore del racconto è quindi costituito dall'analisi delle conseguenze
distruttive dell'atteggiamento vittimista e rinunciatario del personaggio. Ciò
che accomuna Flory a vari altri personaggi dei romanzi di Orwell è infatti la
paura di accettare e manifestare le convinzioni e le emozioni più profonde.
Dorothy Hare, la figlia del
reverendo Charles Hare, rettore della parrocchia di St. Athelstan, viene
descritta fin dalle prime pagine del secondo romanzo di Orwell (1935) come una
donna infelice, ma aggrappata a poche solide certezze. Ella vive esclusivamente
in funzione di un piccolo universo chiuso che ha come centro la parrocchia del
padre. Questo universo ha le caratteristiche di una roccaforte capace di
proteggerla dal mondo esterno, da cui si sente costantemente minacciata. Il
racconto si sviluppa fino al raggiungimento di una possibilità di cambiamento
del personaggio e si conclude con la rinuncia all'utilizzazione di tale
opportunità e con il ritorno alla rassicurante prigione quotidiana. Come nel
precedente romanzo, la descrizione degli eventi è rigorosamente subordinata
all'approfondimento del conflitto psicologico del personaggio principale. In
Dorothy, il conflitto fra espressione emotiva ed autocontrollo è presentato
come conflitto sessuale, ovvero come negazione costante della sessualità. Molti
comportamenti bizzarri della ragazza costituiscono distrazioni da qualsiasi
possibile eccitazione emotiva o sessuale, oppure forme di autopunizione
giustificate da ipotetici "peccati". Alla base di tutto ciò sta il
terrore del contatto e del piacere. Il fatto che Orwell metta Dorothy nella
condizione di scegliere fra matrimonio e vita in parrocchia dopo la
perdita della fede e che faccia optare il personaggio del suo romanzo per una
castità priva persino di una giustificazione religiosa, indica una chiara
decisione di descrivere un conflitto di tipo psicologico e non di tipo etico-ideologico.
Orwell era infatti convinto che le idee delle persone fossero spesso la parte
più superficiale di profonde realtà emotive: "Le convinzioni cambiano, i
pensieri cambiano, ma esiste qualche intima parte dell'anima che non cambia"
(1935, pp. 347-348). Come Flory, anche se in modo diverso, Dorothy perde la sua
occasione di vivere la propria vita e sceglie di soffocare la spontaneità, le
convinzioni personali, i desideri adulti.
Gordon Comstock, personaggio
principale del romanzo Fiorirà l'aspidistra, (1936) rappresenta un altro
caso di fallimento individuale. Per la sua ostinazione a vivere in modo
autodistruttivo e a giustificare tale comportamento con confuse
razionalizzazioni, più che suscitare compassione (come in certi momenti Flory o
Dorothy), Gordon conduce il lettore all'irritazione. A volte fa anche
sorridere, ma sempre da lontano. Ultimo membro di una famiglia numerosa di
falliti, unico figlio maschio di uno dei tanti figli dell'unico Comstock che
aveva generato e si era arricchito, Gordon rappresenta per il padre, la madre e
la sorella l'ultima possibilità di salvezza di fronte all'estinzione biologica
ed al decadimento sociale della famiglia. Ma egli, a dispetto della missione
affidatagli (arricchirsi e procreare) sviluppa un atteggiamento ribelle nei
confronti della società che disprezza in quanto dominata dal denaro e dal
conformismo. Il suo atteggiamento ribelle non emerge da una consapevolezza
sentita della vita umana e della realtà sociale, ma è un semplice lamento
prolungato. Gordon si licenzia da un impiego ben remunerato e, considerandosi
un poeta, decide di vivere scrivendo. In realtà scrive poco e pubblica ancor
meno. Nei suoi versi fondamentalmente si lamenta. Esprimendo la sua
insoddisfazione interiore cerca di alimentare un'immagine irrealistica e
grandiosa di sé. Per sentirsi artefice della propria vita e indipendente dagli
altri, diventa artefice della propria catastrofe. Ormai prossimo al punto di
non ritorno, reagisce positivamente ad un'occasione imprevista: Rosemary, la
fidanzata, aspetta un figlio. Da solo Gordon non sarebbe uscito dalla sua
palude, ma una spinta esterna consente alla sua parte vitale di raccogliere le
energie residue e di impiegarle costruttivamente. Ridimensiona la sua immagine
di sé (sentendosi più liberato da un peso che “sconfitto”) e getta via gli
appunti che mai sarebbero diventati il poema a cui pensava continuamente da due
anni. La storia, tuttavia, non procede verso un facile lieto fine, e mostra
piuttosto che le chiusure emotive in genere vengono semplicemente trasformate
in chiusure di altro tipo. Gordon aveva sempre considerato l'aspidistra, la
tipica pianta delle famiglie inglesi, come il simbolo del perbenismo,
dell'ordine domestico e dei valori borghesi che tanto detestava. Ora, nella
nuova casa in cui Rosemary è semplicemente felice di vivere con lui, Gordon
vuole a tutti i costi anche un'aspidistra: egli vuole così onorare
simbolicamente l'ordine sociale in cui si è inserito diventando padre e
ritornando al vecchio lavoro pubblicitario. Egli, quindi, interrompe la
ribellione sterile e il vittimismo, ma interrompe anche qualsiasi atteggiamento
critico nei confronti della società. Non sarà più un inquieto
"poeta", ma sarà un conformista.
Il centro tematico del romanzo Una
boccata d'aria (1939), è
ancora una volta costituito dal conflitto fra l’espressione di sé e gli
atteggiamenti difensivi. Tuttavia, se potevamo solo immaginare le potenzialità
(inespresse) di Flory, Dorothy e Gordon, abbiamo la possibilità di conoscere
direttamente la sensibilità umana del personaggio principale di
questo romanzo. George Bowling, detto anche Fatty Bowling per via della sua
obesità, è un funzionario quarantenne di una società di assicurazioni che
conduce un tipo di vita molto comune fra le persone della sua età e del suo
ambiente sociale. Egli condivide la routine famigliare con una moglie che ha
deciso di perdere il suo fascino e con dei figli che spesso sono solo
fastidiosi. Abita in un quartiere in cui centinaia di persone vivono in case
quasi identiche e condividono lo stesso grigiore esistenziale. Orwell è severo
nel tratteggiare la quotidianità di tante persone che si sono impegnate a risultare normali dimenticando tutti i loro sogni. George Bowling è
psicologicamente ed intellettualmente un "uomo medio" di mezza età,
ma con quel tanto di sensibilità che gli permette di comprendere i propri
limiti e quelli del mondo in cui si è perfettamente integrato. Il racconto
descrive la maturazione e l'attuazione di una (temporanea) rottura delle regole
di questo gioco. Tale rottura non consiste in un radicale capovolgimento della
situazione, che risulterebbe peraltro poco credibile, ma in una piccola
apertura interiore profondamente sentita e nella accurata organizzazione di una
giornata diversa dalle altre. Orwell ha la delicatezza di farci sperimentare le
sensazioni soggettive di un’intensa "rivoluzione interiore"
coinvolgendoci in una trasgressione incredibilmente modesta sul piano pratico.
George Bowling non fa altro che nascondere alla moglie un'entrata extra di
diciassette sterline e decide poi di spenderle da solo dedicandosi alla pesca
presso un laghetto a lui familiare quando era bambino. Il racconto è condotto
in prima persona ed è essenzialmente un continuo flusso di ricordi, sensazioni
e pensieri del personaggio. Nonostante Orwell considerasse l'uso della prima
persona una pecca in termini di tecnica narrativa, ha mostrato in questo
romanzo di raggiungere risultati letterariamente superiori a quelli dei
precedenti ed anche molto apprezzabili. Focalizzando tutto il racconto su una
vicenda circoscritta e banale come la scappatella al paese d'origine, riesce
(senza risultare didattico) a trasmetterci l'esperienza di una profonda e
positiva apertura al contatto con la natura, le persone, la vita in generale.
Se volessimo sapere cos'ha provato un uomo che ha sconfitto la paura, la
rassegnazione o l'indifferenza, potremmo trovare in molte biografie o in
racconti relativi a situazioni drammatiche molti spunti adatti a farci
riflettere. Tuttavia, possiamo anche leggere la storia di Fatty Bowling che
torna a pescare in un remoto laghetto per scoprire egualmente l'intensità dei
sentimenti che accompagnano qualsiasi reale cambiamento interiore.
Un'esperienza breve come un battito d'ali prima del ritorno alla normalità, ma
capace di illuminare una vita dedicata alla ricerca illusoria della sicurezza.
Anche in questo racconto la vicenda individuale si sviluppa in un ambiente ben
definito ed esplicitamente interpretato. La guerra è alle porte e Orwell non
nasconde la propria opposizione ai valori del ceto medio e soprattutto alla follia
nazista. Anche questa volta, tuttavia, Orwell cerca non tanto di mettere a
fuoco una problematica sociale, quanto di analizzare l'intima lotta di un
individuo che desidera uscire dai consueti schemi di comportamento per
ritrovare la propria verità.
In questo racconto è il tempo, il
passare del tempo, che costituisce l'elemento esterno solidale con i freni
interiori. George Bowling ritorna in un paese che il tempo ha letteralmente
sconvolto. Le case a lui note sono state demolite, interi quartieri sono sorti
dal nulla, molte persone sono morte o andate a vivere altrove e lui non è
riconosciuto dai pochi "superstiti". Il laghetto è scomparso: è stato
trasformato in un punto di raccolta dei rifiuti. Il cambiamento, (che nei
progetti si riduceva comunque ad un'avventura davvero modesta), viene
realizzato solo interiormente: George Bowling, proprio accettando incondizionatamente il desiderio di libertà che
lo animava, cambia in qualche modo la propria vita.
Il viaggio di George Bowling matura
in seguito ad alcuni fatti e pensieri: l'impressione di invecchiare e il
timore di una guerra. Egli ritrova
le emozioni, l'entusiasmo, la forza che si era abituato a non esprimere perché
il suo ruolo sociale contemplava un copione d'altro tipo. Opponendosi al
proprio ordine mentale e quindi agli atteggiamenti difensivi che lo proteggono, ma che lo imprigionano, George Bowling ritrova l'armonia fra le proprie
emozioni e la vita dell'intero universo: "Quello che sentivo è così
insolito, oggi, che dirlo sembra una follia. Mi sentivo felice. (…) Dite pure,
se volete, che era soltanto perché era il primo giorno di primavera. Effetto
stagionale sugli ormoni o che so io. Ma c'era qualcosa di più. (…) Mi alzai e
posi il mazzolino di primule sul cancello. Poi, d'impulso, mi sfilai la
dentiera e le diedi un'occhiata. (…) Ma la cosa che mi colpì mentre davo
un'ultima occhiata alla protesi prima d'infilarmela in bocca di nuovo, fu che non
importa nulla. Neppure i denti finti importano. Sono grasso, sì. Sembro il
fratello mal riuscito di un contabile, sì. Nessuna donna verrà più a letto con
me, se non la pago, lo so. Ma vi dico che non me ne importa. Non voglio donne,
non voglio nemmeno tornar giovane. Soltanto essere vivo. Ed ero vivo nel
momento in cui guardavo le primule e la brace rossa sotto la siepe. E' una
sensazione interna, una sensazione pacifica, che tuttavia mi brucia come una
fiamma" (1939, pp. 203-204). Questa conquista è solo interiore e
temporanea e in seguito George Bowling si riadatterà alla moglie ed alla
routine in cui non c'è posto per quello che ha scoperto nel suo viaggio.
Egli, come personaggio, non è destinato a cambiar vita, ma a prendere "una
boccata d'aria".
Per Orwell, in Flory, Dorothy,
Gordon e George Bowling, come in milioni di esseri umani, qualcosa scorre
interiormente, ma in qualche misura viene frenato. In tale misura, ciò che
“scorre” non diventa consapevolezza e azione creativa, costruttiva. George
Woodcock, nel saggio Prose Like a Window-Pane ha giustamente messo in
evidenza il contrasto fra la passività dei personaggi di Orwell e
l'atteggiamento attivo mostrato dallo scrittore in una vita dedicata
all'impegno (in R. Williams –Editor-, 1974, p. 167).). Quando i personaggi dei
romanzi di Orwell tentano di cambiare la loro vita, falliscono o realizzano
solo una minima parte di ciò che avevano progettato. Per Woodcock, Orwell
sembra suggerire con ciò che il tentativo di vivere conta comunque più della
rinuncia. Tuttavia, l'opposizione fra scrittore e personaggi dice forse
qualcosa sul modo in cui Orwell ha affrontato le proprie inclinazioni profonde
all'isolamento e sul modo in cui ha superato queste tendenze: ammettendo il
proprio coinvolgimento con le persone e con la vita in generale. Proprio
coinvolgendosi con gli altri, accettando di essere parte di un mondo imperfetto
ed impegnandosi intellettualmente ed anche praticamente, Orwell ha
"rinunciato alle rinunce", ha evitato la sicurezza del distacco, ha
accettato di sperare senza illudersi ed ha, quindi, accettato di soffrire e di
gioire. Ha, in altre parole, cercato di spendere la sua vita anziché "risparmiarla"
e, proprio in questo modo, si è dimostrato “edonista” nell’accezione migliore
del termine.
La critica è sostanzialmente unanime
nel ricondurre la riflessione orwelliana ad una radicale denuncia dei "tre
mali" della società contemporanea: il classismo, l'oppressione e la
miseria. Secondo Alex Zwerdling tale sensibilità ai problemi sociali starebbe
alla base della stessa sperimentazione di differenti generi letterari; infatti,
prima di approdare al romanzo fantastico Orwell, cercando "di rendere arte
lo scrivere di argomenti politici … aveva usato il romanzo documantario ed il
romanzo realistico per mostrare i mali della società in cui viveva" (in S.
Hynes –Editor-, 1971, p. 89). L'impegno politico di Orwell, ovviamente è
indiscutibile, come pure la scelta dell'autore di manifestare il suo interesse
per le questioni sociali anche in romanzi centrati sull'analisi dei conflitti
interiori. Inoltre, opere letterarie come La fattoria degli animali e 1984
sono state concepite proprio per denunciare il totalitarismo. Resta il fatto,
però, che Orwell non ha denunciato semplicemente gli aspetti più grossolani e
tangibili delle società autoritarie, ma soprattutto le implicazioni personali
del totalitarismo. E, come ho già sottolineato, tali implicazioni riguardano
sia le modalità rigide del pensiero e della comunicazione, sia le
chiusure emozionali, ovvero le varie componenti delle difese psicologiche.
Pochi fra gli studiosi di Orwell
hanno riconosciuto che la sensibilità di Orwell andava al di là del piano sociale e
politico. Bernard Crick afferma che se anche l'opera di Orwell "non è
stata sempre direttamente politica sul piano degli argomenti affrontati ha
sempre rivelato una consapevolezza politica" (1982, p.16) e, più
esplicitamente, Keith Aldritt ha sostenuto che la concezione politica è stata
in Orwell creata e sostenuta dalla volontà e da una forte istanza morale. In
tal modo George Orwell avrebbe forzato Eric Blair, fondamentalmente incline a
cogliere gli elementi di crisi nell'esistenza individuale, in accordo con la
tendenza più diffusa fra gli scrittori del tempo (1969, pp.176-177).
I dibattiti e i saggi su Orwell
pubblicati su riviste specializzate come su periodici "di largo
consumo" hanno spesso concentrato l'attenzione sui pregi e i limiti della
"profezia orwelliana" (nonostante 1984 non fosse stato
concepito come una profezia) ed in alcuni casi Orwell è stato un pretesto per
affermare specifiche tesi politiche. Anche nei contributi più apprezzabili
in quanto analisi complessive dell'opera di Orwell, la riconduzione
dell'impegno umano e letterario di Orwell alla problematica sociale è quasi
unanime. Ad esempio, Stefano Manferlotti ritiene che il "problema di
Orwell" sia fondamentalmente "una crisi di identità che nasce dal
rifiuto dell'ideologia della propria classe di appartenenza" (1979, p. 7).
Egli sottolinea quindi l'esistenza di costanti formali nei romanzi di Orwell
riconducibili ad una loro omogeneità tematica: "Flory, antiimperialista, è
un agente dell'imperialismo; Dorothy Hare, che si oppone all'alienazione
religiosa è bigotta e figlia di un parroco; Gordon Comstock, contestatore della
società dei consumi è un agente pubblicitario e così via, fino a George Bowling
di Coming Up for Air che tenta una distruzione dei miti piccolo-borghesi
ed è un assicuratore. La critica di un particolare aspetto del sistema, se
formulata da chi ne subisce direttamente gli effetti, serve non solo a dare
oggettività alla narrazione, rendendola 'realistica' ma anche a rendere
ugualmente oggettivo il giudizio negativo emesso dal personaggio. Ciò che, in
ultima analisi, interessa ad Orwell è infatti proprio il giudizio finale, lo
smascheramento dei miti e dei riti del mondo moderno" (pp. 62-63). Sempre
presupponendo un'uniformità tematica di tipo sociale, anche Peter Lewis
evidenzia una costante nella struttura dei romanzi di Orwell: "il ribelle
o l'emarginato che tenta di evadere da una società ostile e monolitica al fine
di trovare una vita più semplice adatta a lui, e che finisce per essere forzato
ad occupare nuovamente il posto assegnatogli dal sistema" (1981, p. 16).
Queste interpretazioni, anche se
giustificate da osservazioni accurate, restano riduttive proprio perché i
personaggi dei romanzi citati, pur essendo collocati in un ambiente che
l'autore descrive in modo non politicamente neutro, non sono in realtà
presentati come rappresentanti di una particolare ideologia. In Flory e in
Gordon le affermazioni politiche sono semplici ruminazioni mentali che
evidenziano più il disagio psicologico dei personaggi che la loro collocazione
sociale. A leggere i pensieri di Gordon Comstock viene voglia di diventare
conservatori. Anche Dorothy non manifesta una reale opposizione all'alienazione
religiosa e George Bowling non intende minimamente attaccare i miti della
borghesia, ma semplicemente sottrarsi ad essi per un po', perché li sente
soffocanti. Inoltre tali personaggi non tentano realmente di evadere da un
certo tipo di società, ma tentano più che altro di evadere dalle proprie
chiusure che sono essenzialmente psicologiche.
In tutt'altra direzione Giovanni
Zanmarchi evidenzia nei romanzi di Orwell un filo conduttore non riconducibile
all'affermazione di valori e di ideali politici. Secondo Zanmarchi, "se ci
si concentra soltanto sui lati immediatamente politici e sociali della sua
produzione si rischia di perdere di vista il centro effettivo della sua
tematica: la preoccupazione, direi addirittura l'ossessione, di conoscere la
realtà oggettiva delle cose (1975, p. 125). Per questo, "Le decisioni di
affrontare la povertà tra i vagabondi di Parigi e Londra, di scendere in fondo
alle miniere di carbone del Lancashire, di arruolarsi nella milizia del
P.O.U.M., probabilmente anche quella di andare in Birmania … furono prima di
tutto un tentativo di entrare in contatto con l'essenza della realtà, di
conoscerla, di sentirla" (p. 128). Zanmarchi sviluppa questo tipo di
analisi in maniera convincente, riconducendo ad essa l'attenzione di Orwell per
il linguaggio e persino il significato da questi attribuito al passato.
Tuttavia, questa sofferta tensione verso il contatto con la realtà (esterna) si
spiega proprio come estensione di un più originario bisogno di contatto con la
"realtà interna" degli esseri umani. Credo si possa, quindi,
affermare che il "secondo Orwell" (quello che "completa" il
giornalista ed il polemista politicamente impegnato) è un acuto e partecipe
osservatore dei conflitti interiori degli esseri umani. Se Orwell-politico
denuncia i modi in cui il capitalismo e qualsiasi forma di totalitarismo
possono impedire alle persone di realizzare le loro legittime aspirazioni, l'altro
Orwell descrive i modi in cui gli esseri umani nascondono a se stessi e agli
altri i loro desideri e i sentimenti più profondi, riducendo così l'intensità
della loro esperienza umana.
Orwell ha sempre cercato di
analizzare con lucidità i rapporti umani e le vicende sociali, ma è stato anche
costantemente animato da una profonda compassione per i suoi simili e,
soprattutto ha vissuto in piena coerenza con ciò che sentiva e capiva. Già
queste qualità lo rendono un autore molto apprezzabile, ma altre sue qualità lo
rendono davvero un punto di riferimento indispensabile: egli non ha solo “fatto
politica con umanità”, ma ha vissuto tutta la sua vita con passione e per
questo ha accettato anche di fare
politica. L’intreccio fra il suo sentire, i suoi interessi e il suo impegno è
stato, quindi, strettissimo e per tale motivo egli tocca il cuore del lettore
anche quando non tratta dei temi particolarmente intimi: in lui la passione per
le persone e per la convivenza sociale sono inscindibili. Inoltre non ha mai
assunto atteggiamenti di superiorità, non ha manifestato svalutazioni taglienti
e ha sempre cercato di offrire spunti di riflessione e sollecitazioni emotive,
non per ottenere ammirazione, ma per
regalare qualcosa di sé. Da qui l’immensa gratitudine per un maestro che
non si atteggiava a maestro e per un compagno di strada generoso e affidabile.
Al di là degli apprezzamenti per la
persona e la sua opera, voglio sottolineare che le questioni da lui affrontate
sono state impostate in modo corretto e illuminante. Egli ha individuato il
nodo centrale della tragedia in cui l’umanità si dibatteva ai suoi tempi e in
cui si dibatte ancora: il vivere “poco” delle persone è strettamente legato
all’irrazionalità della società, al punto che non è possibile comprendere le
persone senza capire alcuni aspetti della società (proprio quelli meno compresi
dai sociologi) e non è possibile comprendere la società senza capire alcuni
aspetti delle persone (proprio quelli meno compresi dagli psicologi). Nell’analisi
spietata e compassionevole di Orwell,
la società non include semplicemente delle ingiustizie, ma è strutturata in modo da
generare ingiustizie e da disattivare la consapevolezza delle ingiustizie.
Inoltre le ingiustizie sociali più evidenti (lo sfruttamento e la repressione)
sono estensioni dell’ingiustizia più profonda: l’avvilimento della
consapevolezza delle persone. Non solo la società produce lusso e miseria, ma
produce il gusto del lusso e la rassegnazione alla miseria. Non solo i singoli
subiscono l’autoritarismo sociale e le manipolazioni psicologiche programmate
da chi ha più potere nella società, ma sono complici attivi ed entusiasti di un
sistema che li incatena sul piano materiale e psicologico. Proprio la
consapevolezza dell’intreccio fra la paura delle persone e l’organizzazione
della convivenza sociale rende Orwell un autore che contrasta tutte le letture
schematiche dei fatti sociali. Da quel che mi risulta egli conosceva poco la
filosofia e la psicologia, ma la sua analisi del rapporto fra linguaggio e
pensiero è estremamente lucida e la sua analisi delle difese psicologiche è
impeccabile. Egli ha anche sottolineato che l’intimità sessuale e la passione
per la vita sociale sono strettamente collegate e che fin dall’infanzia le persone
strutturano la loro tendenza ad esprimersi o a bloccare l’espressione delle
loro potenzialità. Proprio per questi motivi il contributo di Orwell ad una
comprensione delle ragioni dell’irrazionalità è particolarmente prezioso.
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