sabato 7 luglio 2018

L'altro Orwell







In un romanzo scritto nel 1948 e ambientato in un immaginario futuro (e per tale motivo intitolato 1984), George Orwell ha delineato molti aspetti di una società possibile, organizzata in modo da esasperare le tendenze peggiori che già il nazismo e la dittatura stalinista avevano manifestato. Ha quindi prospettato non una società utopica, ma distopica, cioè una anti-utopia o utopia negativa per far riflettere sul fatto che la sconfitta del regime nazista non aveva eliminato le radici profonde di quell’incubo e che tali radici potevano, quindi, produrre nuove mostruosità. Altri scrittori hanno concepito e descritto in altri momenti scenari distopici sperando che la paura di un futuro possibile inducesse le persone ad affrontare il presente in modi costruttivi. In questo filone letterario possiamo includere La macchina del tempo (1895) di H. G. Wells, Il tallone di ferro (1907) di Jack London, Noi (1921) di Evgénij Zamjatin, Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley e altri, ma George Orwell è stato particolarmente acuto nel descrivere i punti in cui si incontrano le istanze sociali di controllo delle masse e i bisogni individuali di “appartenenza” alla comunità ed anche ad una comunità assolutamente folle. Tale sensibilità ha caratterizzato tutti i romanzi di Orwell, perché questo autore, pur non avendo una specifica formazione filosofica e psicologica ha sempre descritto in modo impeccabile l’irrazionalità sociale e le difese psicologiche individuali.
Credo che un’analisi dell’opera complessiva di Orwell sia importante, perché gli estimatori dei suoi romanzi e articoli hanno purtroppo ridotto Orwell ad un acuto scrittore politico, sottovalutando i suoi più preziosi contributi che consistono proprio nell’analisi del terreno sul quale l’autoritarismo sociale si fonde con le difese psicologiche individuali. Nella società totalitaria immaginata da Orwell, l’irrazionalità delle masse è concepita come il risultato di un progetto attuato dal Grande Fratello, e quindi, dal potere costituito. Orwell ha però analizzato sia le strategie di manipolazione attuate dalle autorità, sia il bisogno dei cittadini di farsi manipolare. Nel futuro immaginato da Orwell l’autoritarismo è l’attuazione sistematica del progetto di un gruppo di potere, ma nella realtà attuale (certamente più inquietante) l’autoritarismo non è attivamente pianificato, perché si realizza in gran parte grazie ad atteggiamenti difensivi inconsapevolmente manifestati sia da chi ha un ruolo dominante sia dalle masse che hanno una posizione subalterna. Solo in ambiti circoscritti della politica, della pubblicità e delle relazioni umane alcune persone cercano consapevolmente di indurre gli altri a pensare, sentire e agire in certi modi e anche in questi casi, comunque, i manipolatori sanno cosa stanno facendo, ma non sono coscienti delle ragioni della loro distruttività. In tutti gli altri ambiti ciò non è necessario, purtroppo, perché la paura di capire, di sentire e di accettare il dolore, rende le persone di tutti gli strati sociali propense a consolidare una realtà sociale basata su rapporti di potere e su illusioni di potere. Resta il fatto che la descrizione orwelliana della follia di massa corrisponde a ciò che gli esseri umani fanno “in piena incoscienza”. Di questo Orwell era convinto, dato che anche i personaggi degli altri suoi romanzi si ostinano a vivere “poco” manifestando strategie difensive individuali molto diverse, ma terribilmente “efficaci”.
George Orwell (1903-1950), il cui vero nome era Eric Arthur Blair, nacque a Motihari, nel Bengala, dove il padre era impiegato nell'Indian Civil Service. Lì trascorse la sua infanzia fino al 1907, anno in cui si trasferì con la famiglia in Inghilterra. Fin da bambino pensò di diventare scrittore e, in seguito, collegò questa sua iniziale aspirazione al senso di isolamento ed all'impressione di essere sottovalutato che lo accompagnarono fino all'adolescenza. Particolarmente dolorosa fu per lui la permanenza presso il collegio di St. Cyprian a cui fu iscritto nel 1911. Conclusi gli studi nella prestigiosa Public School di Eton, alla quale era stato ammesso con una borsa di studio, rinunciò agli studi universitari per arruolarsi nella Indian Imperial Police in Birmania e nel 1929, dopo circa cinque anni di servizio si congedò e ritornò in Europa per iniziare la sua carriera di scrittore. Per molti anni scrivere romanzi non gli diede alcuna sicurezza economica e solo nel 1945, con la pubblicazione de La fattoria degli animali, raggiunse una fama internazionale ed anche una tranquillità finanziaria che gli permisero di scrivere esclusivamente quello che voleva. Negli anni precedenti, infatti, si era guadagnato da vivere svolgendo del lavoro giornalistico per varie riviste e curando trasmissioni per la BBC; ancor prima aveva fatto il lavapiatti a Parigi, era stato commesso di libreria a Londra, aveva insegnato presso scuole private, aveva gestito per un breve periodo un negozio, era stato bracciante nei campi di luppolo ed aveva persino vagabondato con i mendicanti.
Questo elenco di attività è indicativo non solo della precarietà economica che Orwell, come molti scrittori, sperimentò agli inizi della carriera letteraria, ma anche di un interesse personale a condividere le condizioni di vita degli strati sociali più umili. Si è detto molto a proposito del "senso di colpa" maturato dal giovane Orwell, poliziotto imperiale, nei confronti delle vittime dell'imperialismo e più in generale maturato, per via della sua provenienza dal ceto medio, nei confronti del proletariato e degli emarginati. Egli stesso ha spiegato nel libro La strada di Wigan Pier questo suo abbassarsi al livello degli "infimi fra gli infimi" come bisogno di "espiare" e di conoscere dall'interno l'altra faccia del mondo, quella in cui non era nato. Tuttavia, come opportunamente Peter Lewis ha messo in evidenza, sembra "più plausibile vedere questi eventi come una serie di deliberate fughe dai modelli prevedibili della vita inglese" (1981, p. 4). L'itinerario personale di Orwell non è infatti comprensibile solo in funzione di conflitti psicologici ideologizzati, ma soprattutto, in positivo, come ricerca di esperienze incompatibili con gli schemi mentali ed i valori socialmente istituiti. Orwell non fu solo distante dall'orizzonte ideologico della borghesia, ma anche dai dogmi e dai conformismi degli ambienti di sinistra. Infatti, si oppose a tutti i modelli di pensiero e di comportamento adatti ad occultare i bisogni e le aspirazioni umane più profonde. L'assidua analisi dei miti della borghesia e la sofferta comprensione dei drammi degli sfruttati e dei poveri segnarono in maniera evidente il percorso interiore ed intellettuale di Orwell, ma, nonostante i continui riferimenti al piano politico, egli non ridusse mai il suo impegno esclusivamente a tale piano.
Molti critici di sinistra rimproverarono ad Orwell una concezione più umanistica che "teoricamente rigorosa" del socialismo. Tuttavia, a tanti anni di distanza, queste critiche risultano decisamente datate. La concezione orwelliana, infatti non riflette una delle varie "anime" del socialismo, ma costituisce una lettura più che politica dei problemi sociali. Anche se Orwell si è sempre schierato politicamente, al punto di dichiarare in Why I Write di aver scritto "libri senza vita" quando gli era mancata una chiara "intenzione politica" (in CEJL, vol. I, p. 30), ha sempre sottolineato l'intreccio fra il conformismo sociale e le tensioni interne all'individuo. Quando preparava la seconda stesura del suo ultimo romanzo, 1984, uno dei più significativi sul piano politico, Orwell scrisse a George Woodcock di essere convinto che nella vita degli uomini fosse presente una solitudine irriducibile alle circostanze esterne socialmente definite (in CEJL, vol. IV, p. 480). Per questo motivo Orwell non è stato solo uno dei primi intellettuali di sinistra a denunciare lo stalinismo: egli, da un lato ha denunciato il totalitarismo nelle sue manifestazioni storiche e nei suoi potenziali sviluppi e, da un altro lato, ha descritto con acutezza i fattori che possono rendere le persone complici dell'autoritarismo sociale.
Il totalitarismo non consiste nella semplice negazione delle libertà individuali, ma soprattutto nella capacità di condizionare le persone in modo che esse non desiderino esercitare alcuna libertà. Le opposizioni puramente politiche al totalitarismo erano per Orwell destinate al fallimento perché si opponevano solo alle sue manifestazioni più evidenti ed esteriori. In un saggio su Arthur Koestler Orwell ha sottolineato che gli esponenti della sinistra commettevano l'errore di "essere antifascisti senza essere antitotalitari" (in CEJL, vol. III, p. 273), sottovalutando o non comprendendo il fatto che il totalitarismo non è violento solo per ciò che nega, ma soprattutto per il suo operare in positivo. In Literature and Totalitarism, infatti egli nota che il totalitarismo "non solo proibisce l'espressione –e talvolta la stessa formulazione- di certi pensieri, ma indica anche cosa si dovrebbe pensare, crea una ideologia per le persone, tenta di governare la loro vita emozionale ed anche di stabilire precisi codici di condotta. (…) Lo stato totalitario tenta in ogni caso di controllare i pensieri e le emozioni dei cittadini almeno quanto controlla le loro azioni" (in CEJL, vol. II, p. 162). In questa comprensione profonda delle possibilità di manipolazione psicologica dello Stato totalitario, va individuata la vera specificità di 1984, il romanzo più famoso di Orwell. Nell'incubo fantascientifico lì descritto, l'autorità dell'Oceania cerca di imporre un linguaggio inadatto all'espressione delle capacità critiche delle persone. Cerca quindi di abituare le menti umane alla tolleranza per le contraddizioni logiche che caratterizzano la propaganda politica del Grande Fratello, e cerca di canalizzare l'emotività individuale nelle sole direzioni utilizzabili per la riproduzione dell'ordine sociale. Orwell ha presentato in modo così accurato i processi mentali ("bispensiero") e le strutture linguistiche ("neolingua") funzionali all'irrazionalismo sociale totalitario, che 1984 è diventato una citazione d'obbligo nei manuali di psicologia sociale e negli studi sulla comunicazione interpersonale.
Tutto ciò riguarda solo la prima parte della concezione orwelliana del totalitarismo: la tesi secondo cui questo manipola le masse oltre a reprimerle. Orwell ha però sottolineato un fatto ancora più scomodo da accettare: gli individui sono effettivamente un terreno fertile sul quale il seme dell'irrazionalità sociale riesce a svilupparsi. Questa seconda parte della concezione orwelliana chiarisce che il totalitarismo non crea dal nulla gli atteggiamenti gregari, ma li attiva facendo leva sul terrore inconscio della non accettazione e della “non appartenenza” che spinge le persone a non manifestare una reale autonomia di giudizio. In altre parole, i (dis)valori del totalitarismo vengono veicolati dalle manipolazioni psicologiche, ma tale processo è possibile in quanto le persone in fondo desiderano sentirsi parte della società più di quanto desiderano esprimere ciò che sono. Orwell non ha mai approfondito né discusso le teorie relative allo sviluppo psicologico individuale, ma ha mostrato di capire con molta chiarezza varie manifestazioni delle difese psicologiche e di cogliere i modi in cui il potere può utilizzarle per ottenere il consenso. Indicativa di tale consapevolezza è il fatto che in varie occasioni ha sottolineato che l’antisemitismo ha radici molto profonde che sarebbe errato sottovalutare (cfr. CEJL, vol. III, pp. 112-115; CEJL, vol. IV, pp. 511-513; CEJL, vol. III, pp. 378-388; CEJL, vol. III, pp.410-431). Proprio per questo tipo di analisi, la posizione di Orwell è risultata particolarmente scomoda nell'ambito della sinistra, dato che presentava gli individui, oltre che come vittime del totalitarismo, come potenziali suoi complici. Consapevole del proprio isolamento, Orwell non rinunciò a criticare la miopia delle contestazioni puramente esterne del totalitarismo, sostenendo che esse da un lato erano limitate e da un altro lato non prevenivano adeguatamente la possibilità di sviluppi autoritari nell'ambito delle stesse organizzazioni politiche di sinistra.
Orwell ha sostenuto in 1984 che la repressione e la distorsione della sessualità contribuiscono all'irrazionalismo di massa. La "neolingua" introdotta dal Grande Fratello riduceva a due gli elementi del lessico riguardanti il sesso: sesbuono e reasesso. Il primo riguardava la castità e la sessualità procreativa non accompagnata da piacere; il secondo indicava tutte le altre manifestazioni della sessualità. In tale prospettiva, la dimensione sessuale della vita umana veniva negata in blocco in quanto legata al piacere ed ai sentimenti. Orwell ha fornito una spiegazione per tale programma sessuorepressivo, ricorrendo ad una conversazione fra Winston (il personaggio principale del romanzo che gradualmente prende coscienza di sé) e Julia, la sua donna. Le ragioni, per Julia, non stavano solo nel fatto che la sessualità delimitava una sfera d'esperienza inaccessibile al controllo del partito, ma erano più profonde: "l'astinenza sessuale produceva l'isterismo, un fenomeno da favorirsi, perché lo si poteva facilmente trasformare nell'infatuazione per la guerra e nell'adorazione dei capi. (…) C'era un rapporto diretto ed intimo fra l'astinenza sessuale e l'ortodossia politica. In che modo si sarebbero potute mantenere sempre eccitate la paura, l'odio, la folle credulità di cui il Partito abbisognava, nelle persone dei suoi membri, se non coll'imbottigliare un istinto potente come quello del sesso, e sfruttarlo invece, come una forza motrice? L'istinto sessuale era un pericolo per il Partito, e il Partito l'aveva messo a frutto snaturandolo" (pp. 159-160).
A torto si è detto che nel romanzo è ingenuamente attribuita alla sessualità una potenzialità eversiva che essa non ha, dal momento che sia il permissivismo superficiale, sia il moralismo, oggi risultano perfettamente compatibili con l'ordine costituito. Tali considerazioni, in realtà, sono state fatte proprio da Orwell: egli ha attribuito al Partito del Grande Fratello un orientamento favorevole alle manifestazioni sessuali sganciate dal coinvolgimento personale un'intera sottosezione del Ministero della Verità, detta Pornosez, curava la stampa di basso materiale pornografico destinato ai prolet, lo strato più oppresso della popolazione. Per Orwell, quindi, la repressione sessuale congeniale ad un sistema totalitario non è una forma elementare di moralismo ideologico, ma un più ampio programma di impoverimento delle capacità critiche e di quelle emotive. Per Orwell, un'intensa e fluida vita emotiva, leggibile nella "grazia" dei movimenti corporei (p. 54), rende possibile un interiore senso di libertà incompatibile con l'ottusa accettazione dell'ordine costituito e dell'irrazionalismo ideologico, mentre la miseria emozionale e sessuale, intuibile dalla rigidità degli atteggiamenti e dalla stessa rigidità muscolare (p. 90 e p. 320), rende gli individui incapaci di sentirsi vivi, interi, e li induce facilmente a sentirsi privi di dignità e bisognosi dell’accettazione di un gruppo rappresentato da un'autorità.
La concezione del socialismo espressa da Orwell riflette più l'aspirazione ad un mondo giusto che un'adesione al marxismo o ad una rielaborazione teorica di tale dottrina. Il tempo ha dato ragione ad Orwell sul fatto che il socialismo inteso come umanesimo ha più ragioni del socialismo inteso come teoria "scientifica" delle trasformazioni sociali. Gli ideali di Orwell sono rimasti, mentre le previsioni del materialismo storico non sono state confermate. Un'altra forte istanza della concezione socialista di Orwell, non radicata nella tradizione marxista, è quella che potremmo indicare come non riduzionista (o anti-sociologica): nel saggio su Charles Dickens, Orwell evidenzia che, al di là dell'indiscutibile peso dei condizionamenti sociali sulle idee e sugli atteggiamenti personali, un'autentica emancipazione degli individui non può derivare meccanicamente dai cambiamenti sociali, ma richiede un processo di maturazione interiore (in CEJL, vol. I, p. 469). Ciò che però rende Orwell più acuto di qualsiasi moralista è la consapevolezza del fatto che le persone tendono in qualche misura a frenare l'espressione delle loro potenzialità. Anche se questi freni non vengono da Orwell spiegati come difese psicologiche, essi sono perfettamente descritti nel loro operare. Milton Rokeach (1960) ha citato espressamente Orwell per evidenziare che la sua descrizione del "bispensiero" coglie in pieno un aspetto fondamentale della "mente chiusa", ovvero della coesistenza di convinzioni logicamente contraddittorie entro un unico "sistema di credenze" (cfr. p. 36). Nel corso della vita di Orwell vennero pubblicati alcuni testi su questi argomenti e Wilhelm Reich (1946) già negli anni '20 e ’30 aveva aperto un dibattito teorico e politico sui rapporti fra repressione sessuale e autoritarismo sociale. Sebbene Orwell, attribuendo ad O'Brien, in 1984, la tesi secondo cui "gli uomini in massa sono deboli e vili creature che non sanno sopportare la libertà" (p. 290), facesse eco al titolo del libro Fuga dalla libertà di Erich Fromm (1941) e sebbene i riferimenti in 1984 all'irrigidimento difensivo, anche muscolare (cfr. p. 320) contro la spontaneità facciano venire in mente il concetto di "corazza caratteriale" (Reich, 1945), sembra che egli non fosse al corrente di questi sviluppi postfreudiani della psicologia sociale. Ciononostante, la comprensione di Orwell delle remore soggettive all'espressione emotiva ed all'esercizio delle capacità critiche si è tradotta in lucidissime descrizioni dei conflitti interiori delle persone. Orwell ha evidenziato il fatto che forti istanze distruttive sono presenti in tutti gli schieramenti politici e che le tendenze irrazionali ed autoritarie possono essere presenti nelle stesse persone politicamente impegnate a favore della democrazia, della libertà e del socialismo. Tuttavia, se pure non ci si può liberare di questo fardello solo con la ragione, Orwell ha sottolineato in una lettera a Richard Rees che è compito specifico dell'intellettuale politicamente impegnato l'uso della ragione contro l'irrazionalità di massa e contro le componenti irrazionali che in lui stesso possono annidarsi (cfr. CEJL, vol. IV, p. 539).
Per comprendere meglio le idee di Orwell sui fattori che rendono le persone capaci di sottomettersi all’autoritarismo sociale o capaci di non piegarsi ad esso, è opportuno chiarire meglio la sua concezione del piacere e della ricerca del piacere. In alcuni scritti Orwell ha considerato l'edonismo come un atteggiamento che porta inevitabilmente a scelte distruttive nei rapporti sociali e ad un impoverimento del progetto esistenziale della persona. Formulando questa convinzione egli non ha tenuto conto del fatto che l’edonismo ha due facce: può essere inteso come una ragionevole ricerca del piacere, dell’intimità e della felicità (antitetica alla svalutazione religiosa della gioia di vivere) e può essere inteso come una ricerca (difensiva) di gratificazioni impossibili e quindi come una vorace e ottimistica illusione di appagamento. Nella storia della cultura occidentale (ma anche di quella orientale) la ricerca del piacere è sempre stata analizzata in modi confusi proprio per la mancanza di una distinzione fra modi di vivere espressivi e difensivi. Le convinzioni di Orwell sulla questione possono quindi essere classificate come anti-edonistiche non per via di un atteggiamento svalutativo nei confronti del piacere, ma perché non ha avuto a disposizione gli strumenti concettuali per uscire dalla riflessione etica. L’etica ha, nel tempo, talmente imbrigliato le idee che anche i pensatori più lucidi e sensibili, come ad esempio Albert Camus (1942, 1951), hanno finito per affermare la loro sensibilità ai margini dell’etica, ma sempre entro il suo orizzonte.
Per Orwell, l’edonismo porta inevitabilmente alla delusione, al nichilismo, alla fuga dall'impegno. In queste riflessioni Orwell sottolinea una grande verità, ma si riferisce alla ricerca avida, infantile e difensiva della felicità e quindi all’edonismo “povero” di chi pretende e si illude e non all’edonismo di chi desidera, gioisce e sa anche elaborare il dolore. Giustamente Orwell sottolinea che l'impossibilità di realizzare una condizione di appagamento di tutti i desideri caratterizza la dimensione esistenziale umana e la rende intrinsecamente tragica. Non la rende priva di valore, né priva di piacere, ma tragica in quanto essenzialmente caratterizzata sia dal piacere, sia dal dolore. La morte e le sue anticipazioni parziali (le varie sofferenze) definiscono l'esistenza umana quanto gli aspetti vitali, piacevoli e creativi. Esprimere il meglio di sé, costruire ciò che è possibile ed anche godere di ciò che è possibile in una realtà comunque anche dolorosa rende la vita umana un'esperienza creativa piuttosto che un illusorio tentativo di schivare la sofferenza. L'edonismo contestato da Orwell è quindi quello che deriva dalle difese psicologiche “ottimistiche”. Nel saggio Lear, Tolstoj and the Fool egli scrive: "La maggior parte della gente ottiene una discreta dose di piacere dalla vita, ma tutto sommato la vita è sofferenza e soltanto chi è molto giovane o molto sciocco può essere di opinione diversa"( in CEJL, vol. IV, p. 344). In queste parole Orwell manifesta una certa amarezza, ma nella sua vita ha mostrato concretamente di poter amare e di potersi impegnare nonostante la presenza del dolore.
Secondo Orwell il pessimismo di Arthur Koestler (che abbandonò i suoi ideali politici dopo l'involuzione staliniana della rivoluzione sovietica) si spiegava proprio considerando che gli ideali politici di Koestler erano stati affermati sulla base di premesse edonistiche (in CEJL, vol. III, pp. 270-282). L’analisi di Orwell è corretta, se si considera l’edonismo nella sua versione difensiva. Per Orwell, l'unico modo di uscire dal senso di fallimento a cui conduce tale edonismo consiste nell'accettare i limiti dell'esistenza umana ed entro tali limiti accogliere e offrire le gioie possibili. Tuttavia, tale obiettivo contraddice solo all’edonismo ottimistico e difensivo. Contraddice la ricerca di una felicità illusoria, non la ricerca della felicità intesa come realizzazione di esperienze piacevoli, di relazioni intime e di impegno sociale nell’accettazione del dolore inevitabile. Sempre nel saggio dedicato ad Arthur Koestler egli scrive: "Il problema reale è come ristabilire un atteggiamento religioso unito all'accettazione della morte come meta finale. Gli uomini possono essere felici solo se non assumono che lo scopo della loro vita sia la felicità"(in CEJL, vol. III, p. 281). In tale affermazione egli, in realtà, esprime la necessità di cercare una felicità razionale e realistica anziché difensiva. Per questo è possibile interpretare il suo pensiero non come una sorta di filosofia antiedonistica, moralistica e svalutativa, ma come una radicale accettazione della realtà. Di fatto egli ha sempre cercato la felicità: non quella illusoria, ma quella derivante dal rispetto per sé e per gli altri. Proprio accettando il dolore come aspetto inevitabile dell'esistenza Orwell ha sempre cercato con entusiasmo il piacere possibile (per sé e per gli altri) e si è dedicato a costruire un mondo migliore, anche se non perfetto. L'idea di costruire una vita buona anziché pretendere quell’appagamento possibile solo nell’infanzia è la chiave di volta del suo anti-edonismo. Nel pensiero e nella vita di Orwell, infatti, la logica del fare rimpiazza tutte le possibili pretese difensive e infantili. Sempre nel saggio su Koestler egli afferma che se tutte le rivoluzioni sono dei fallimenti, non tutti i fallimenti sono uguali (cfr. p. 282) e in As I Please del 24 Dicembre 1943 afferma che lo scopo del socialismo non è quello di rendere il mondo perfetto, ma di renderlo migliore (in CEJL, vol. III, pp.81-84). Sullo stesso tono, Albert Camus, partendo da una sofferta analisi dell’esistenza individuale, è approdato all'affermazione di ideali più che condivisibili: la lucida resistenza ad ogni ideologia consolatoria, l'affermazione della dignità personale, il rispetto per la vita di ogni uomo. Egli capiva bene che se fondiamo la nostra adesione alla vita sulla pretesa di un futuro migliore ogni ostacolo ai nostri progetti personali o politici può portarci ad una fuga dall'impegno. L'atteggiamento che Camus riconduce al concetto di "rivolta" (1951) è in realtà radicalmente positivo e presuppone il riconoscimento della morte (in tutti i suoi aspetti) nella vita umana. Questo radicale rifiuto dell'ingenuo edonismo avvicina Camus ad Orwell e, proprio per questo, pur affermando la “assurdità” della vita, Camus ha potuto vivere una vita intensa ed impegnata sul piano personale, intellettuale e sociale.
Ciò che rende le persone immuni rispetto al nichilismo è la capacità emotiva di tollerare il dolore che (come il piacere) è un aspetto essenziale dell'esistenza umana. Orwell è riuscito a convivere con la consapevolezza della tragicità dell'esistenza umana e quindi ha potuto vivere senza alcun ottimismo illusorio. Ha riconosciuto in Why I Write che un acuto senso di fallimento, di solitudine e di infelicità ha permeato la sua infanzia (cfr. CEJL, vol. I, pp. 23-30), ma ciò che conta è che egli sia riuscito a rielaborare la sua storia personale in termini positivi. Pur essendo estraneo all'orizzonte culturale della psicologia, come ha notato Richard Rees (cfr. 1961, pp. 12-13 e pp.145-146 ), è stato uno dei più perspicaci analisti delle chiusure emotive delle persone e dell'irrazionalità presente nell'organizzazione sociale e nelle ideologie. I temi più cari ad Orwell sono sempre stati quelli psicologici e filosofici relativi al modo di affrontare il dolore e la realtà. Egli ha ammesso in Why I Write di essere stato costretto dalle drammatiche vicende politiche del suo tempo a diventare un saggista ed un polemista, anche se avrebbe preferito scrivere su altri temi a lui più congeniali (cfr. CEJL, vol. I, pp. 26-28). Ha tuttavia cercato di portare nell'impegno politico la sua consapevolezza della vita interiore delle persone e di capire in modo acuto e originale i rapporti fra l’irrazionalità sociale e quella individuale. In questo senso, 1984 è un'opera fondamentale che si collega sia ai suoi saggi di denuncia politica, sia ai romanzi centrati sui conflitti personali.
Ambientato nei luoghi in cui Orwell aveva prestato servizio nella polizia imperiale, Giorni in Birmania (1934) è il primo romanzo di Orwell ed ha come centro di interesse la coscienza tormentata di John Flory, commerciante di legname, il cui stato di decadimento interiore si traduce in una indecisione cronica di fronte alle scelte di vita. E' un individuo pienamente consapevole del fatto che tutta la retorica della colonizzazione civilizzatrice copre semplicemente una politica di sfruttamento, ma a differenza del giovane Orwell che, nella realtà lasciò la Birmania per costruirsi una vita compatibile con le idee ed i principi in cui credeva, il personaggio del romanzo, si trascina con rassegnazione, anno dopo anno, in un mondo che disprezza, senza fare le scelte che produrrebbero la perdita di alcuni modesti privilegi. Flory si trascina tra il lavoro, le conversazioni superficiali con ottusi militari, commercianti o amministratori locali, le periodiche ubriacature, gli occasionali rapporti con un’amante indigena e gli sfoghi verbali con l'amico Veraswami. Solo l'incontro con Elizabeth, nipote dell’amministratore di una società di legnami, sembra scuotere Flory dal suo torpore. Ella è però una giovane a caccia di marito, non meno razzista di ogni inglese medio catapultatosi in Birmania per avere vantaggi più difficilmente ottenibili in Inghilterra. Elizabeth adora ciò che Flory detesta ed è distante da lui al punto da non sospettare nemmeno il tipo di distanza esistente fra i loro pensieri. Pur trovandosi spesso vagamente a disagio con Flory, si sente in certe occasioni attratta da alcune sue qualità, o meglio da qualità che sulla base di certi fraintendimenti finisce per attribuirgli. Impacciato, timido, sempre esitante, reso tale anche dal timore di risultare repellente per una voglia che deturpa il suo viso (simbolo della sua diversità dagli altri individui integratisi nell'ambiente sociale), Flory sogna una donna presso la quale rifugiarsi e da cui sentirsi accettato per quel suo mondo interiore che non osa esporre all'ottusità delle altre persone, ma che egli stesso non accetta davvero. Egli non cerca una donna da amare e da cui essere amato, ma cerca una donna che “lo salvi”. Come tutte le persone che nella vita scommettono sulla sicurezza e si aggrappano alle illusioni, Flory è destinato a fallire. Orwell presenta il progressivo compiersi di tale disastro fino al suicidio. Il filo conduttore del racconto è quindi costituito dall'analisi delle conseguenze distruttive dell'atteggiamento vittimista e rinunciatario del personaggio. Ciò che accomuna Flory a vari altri personaggi dei romanzi di Orwell è infatti la paura di accettare e manifestare le convinzioni e le emozioni più profonde.
Dorothy Hare, la figlia del reverendo Charles Hare, rettore della parrocchia di St. Athelstan, viene descritta fin dalle prime pagine del secondo romanzo di Orwell (1935) come una donna infelice, ma aggrappata a poche solide certezze. Ella vive esclusivamente in funzione di un piccolo universo chiuso che ha come centro la parrocchia del padre. Questo universo ha le caratteristiche di una roccaforte capace di proteggerla dal mondo esterno, da cui si sente costantemente minacciata. Il racconto si sviluppa fino al raggiungimento di una possibilità di cambiamento del personaggio e si conclude con la rinuncia all'utilizzazione di tale opportunità e con il ritorno alla rassicurante prigione quotidiana. Come nel precedente romanzo, la descrizione degli eventi è rigorosamente subordinata all'approfondimento del conflitto psicologico del personaggio principale. In Dorothy, il conflitto fra espressione emotiva ed autocontrollo è presentato come conflitto sessuale, ovvero come negazione costante della sessualità. Molti comportamenti bizzarri della ragazza costituiscono distrazioni da qualsiasi possibile eccitazione emotiva o sessuale, oppure forme di autopunizione giustificate da ipotetici "peccati". Alla base di tutto ciò sta il terrore del contatto e del piacere. Il fatto che Orwell metta Dorothy nella condizione di scegliere fra matrimonio e vita in parrocchia dopo la perdita della fede e che faccia optare il personaggio del suo romanzo per una castità priva persino di una giustificazione religiosa, indica una chiara decisione di descrivere un conflitto di tipo psicologico e non di tipo etico-ideologico. Orwell era infatti convinto che le idee delle persone fossero spesso la parte più superficiale di profonde realtà emotive: "Le convinzioni cambiano, i pensieri cambiano, ma esiste qualche intima parte dell'anima che non cambia" (1935, pp. 347-348). Come Flory, anche se in modo diverso, Dorothy perde la sua occasione di vivere la propria vita e sceglie di soffocare la spontaneità, le convinzioni personali, i desideri adulti.
Gordon Comstock, personaggio principale del romanzo Fiorirà l'aspidistra, (1936) rappresenta un altro caso di fallimento individuale. Per la sua ostinazione a vivere in modo autodistruttivo e a giustificare tale comportamento con confuse razionalizzazioni, più che suscitare compassione (come in certi momenti Flory o Dorothy), Gordon conduce il lettore all'irritazione. A volte fa anche sorridere, ma sempre da lontano. Ultimo membro di una famiglia numerosa di falliti, unico figlio maschio di uno dei tanti figli dell'unico Comstock che aveva generato e si era arricchito, Gordon rappresenta per il padre, la madre e la sorella l'ultima possibilità di salvezza di fronte all'estinzione biologica ed al decadimento sociale della famiglia. Ma egli, a dispetto della missione affidatagli (arricchirsi e procreare) sviluppa un atteggiamento ribelle nei confronti della società che disprezza in quanto dominata dal denaro e dal conformismo. Il suo atteggiamento ribelle non emerge da una consapevolezza sentita della vita umana e della realtà sociale, ma è un semplice lamento prolungato. Gordon si licenzia da un impiego ben remunerato e, considerandosi un poeta, decide di vivere scrivendo. In realtà scrive poco e pubblica ancor meno. Nei suoi versi fondamentalmente si lamenta. Esprimendo la sua insoddisfazione interiore cerca di alimentare un'immagine irrealistica e grandiosa di sé. Per sentirsi artefice della propria vita e indipendente dagli altri, diventa artefice della propria catastrofe. Ormai prossimo al punto di non ritorno, reagisce positivamente ad un'occasione imprevista: Rosemary, la fidanzata, aspetta un figlio. Da solo Gordon non sarebbe uscito dalla sua palude, ma una spinta esterna consente alla sua parte vitale di raccogliere le energie residue e di impiegarle costruttivamente. Ridimensiona la sua immagine di sé (sentendosi più liberato da un peso che “sconfitto”) e getta via gli appunti che mai sarebbero diventati il poema a cui pensava continuamente da due anni. La storia, tuttavia, non procede verso un facile lieto fine, e mostra piuttosto che le chiusure emotive in genere vengono semplicemente trasformate in chiusure di altro tipo. Gordon aveva sempre considerato l'aspidistra, la tipica pianta delle famiglie inglesi, come il simbolo del perbenismo, dell'ordine domestico e dei valori borghesi che tanto detestava. Ora, nella nuova casa in cui Rosemary è semplicemente felice di vivere con lui, Gordon vuole a tutti i costi anche un'aspidistra: egli vuole così onorare simbolicamente l'ordine sociale in cui si è inserito diventando padre e ritornando al vecchio lavoro pubblicitario. Egli, quindi, interrompe la ribellione sterile e il vittimismo, ma interrompe anche qualsiasi atteggiamento critico nei confronti della società. Non sarà più un inquieto "poeta", ma sarà un conformista.
Il centro tematico del romanzo Una boccata d'aria (1939), è ancora una volta costituito dal conflitto fra l’espressione di sé e gli atteggiamenti difensivi. Tuttavia, se potevamo solo immaginare le potenzialità (inespresse) di Flory, Dorothy e Gordon, abbiamo la possibilità di conoscere direttamente la sensibilità umana del personaggio principale di questo romanzo. George Bowling, detto anche Fatty Bowling per via della sua obesità, è un funzionario quarantenne di una società di assicurazioni che conduce un tipo di vita molto comune fra le persone della sua età e del suo ambiente sociale. Egli condivide la routine famigliare con una moglie che ha deciso di perdere il suo fascino e con dei figli che spesso sono solo fastidiosi. Abita in un quartiere in cui centinaia di persone vivono in case quasi identiche e condividono lo stesso grigiore esistenziale. Orwell è severo nel tratteggiare la quotidianità di tante persone che si sono impegnate a risultare normali dimenticando tutti i loro sogni. George Bowling è psicologicamente ed intellettualmente un "uomo medio" di mezza età, ma con quel tanto di sensibilità che gli permette di comprendere i propri limiti e quelli del mondo in cui si è perfettamente integrato. Il racconto descrive la maturazione e l'attuazione di una (temporanea) rottura delle regole di questo gioco. Tale rottura non consiste in un radicale capovolgimento della situazione, che risulterebbe peraltro poco credibile, ma in una piccola apertura interiore profondamente sentita e nella accurata organizzazione di una giornata diversa dalle altre. Orwell ha la delicatezza di farci sperimentare le sensazioni soggettive di un’intensa "rivoluzione interiore" coinvolgendoci in una trasgressione incredibilmente modesta sul piano pratico. George Bowling non fa altro che nascondere alla moglie un'entrata extra di diciassette sterline e decide poi di spenderle da solo dedicandosi alla pesca presso un laghetto a lui familiare quando era bambino. Il racconto è condotto in prima persona ed è essenzialmente un continuo flusso di ricordi, sensazioni e pensieri del personaggio. Nonostante Orwell considerasse l'uso della prima persona una pecca in termini di tecnica narrativa, ha mostrato in questo romanzo di raggiungere risultati letterariamente superiori a quelli dei precedenti ed anche molto apprezzabili. Focalizzando tutto il racconto su una vicenda circoscritta e banale come la scappatella al paese d'origine, riesce (senza risultare didattico) a trasmetterci l'esperienza di una profonda e positiva apertura al contatto con la natura, le persone, la vita in generale. Se volessimo sapere cos'ha provato un uomo che ha sconfitto la paura, la rassegnazione o l'indifferenza, potremmo trovare in molte biografie o in racconti relativi a situazioni drammatiche molti spunti adatti a farci riflettere. Tuttavia, possiamo anche leggere la storia di Fatty Bowling che torna a pescare in un remoto laghetto per scoprire egualmente l'intensità dei sentimenti che accompagnano qualsiasi reale cambiamento interiore. Un'esperienza breve come un battito d'ali prima del ritorno alla normalità, ma capace di illuminare una vita dedicata alla ricerca illusoria della sicurezza. Anche in questo racconto la vicenda individuale si sviluppa in un ambiente ben definito ed esplicitamente interpretato. La guerra è alle porte e Orwell non nasconde la propria opposizione ai valori del ceto medio e soprattutto alla follia nazista. Anche questa volta, tuttavia, Orwell cerca non tanto di mettere a fuoco una problematica sociale, quanto di analizzare l'intima lotta di un individuo che desidera uscire dai consueti schemi di comportamento per ritrovare la propria verità.
In questo racconto è il tempo, il passare del tempo, che costituisce l'elemento esterno solidale con i freni interiori. George Bowling ritorna in un paese che il tempo ha letteralmente sconvolto. Le case a lui note sono state demolite, interi quartieri sono sorti dal nulla, molte persone sono morte o andate a vivere altrove e lui non è riconosciuto dai pochi "superstiti". Il laghetto è scomparso: è stato trasformato in un punto di raccolta dei rifiuti. Il cambiamento, (che nei progetti si riduceva comunque ad un'avventura davvero modesta), viene realizzato solo interiormente: George Bowling, proprio accettando incondizionatamente il desiderio di libertà che lo animava, cambia in qualche modo la propria vita.
Il viaggio di George Bowling matura in seguito ad alcuni fatti e pensieri: l'impressione di invecchiare e il timore di una guerra. Egli ritrova le emozioni, l'entusiasmo, la forza che si era abituato a non esprimere perché il suo ruolo sociale contemplava un copione d'altro tipo. Opponendosi al proprio ordine mentale e quindi agli atteggiamenti difensivi che lo proteggono, ma che lo imprigionano, George Bowling ritrova l'armonia fra le proprie emozioni e la vita dell'intero universo: "Quello che sentivo è così insolito, oggi, che dirlo sembra una follia. Mi sentivo felice. (…) Dite pure, se volete, che era soltanto perché era il primo giorno di primavera. Effetto stagionale sugli ormoni o che so io. Ma c'era qualcosa di più. (…) Mi alzai e posi il mazzolino di primule sul cancello. Poi, d'impulso, mi sfilai la dentiera e le diedi un'occhiata. (…) Ma la cosa che mi colpì mentre davo un'ultima occhiata alla protesi prima d'infilarmela in bocca di nuovo, fu che non importa nulla. Neppure i denti finti importano. Sono grasso, sì. Sembro il fratello mal riuscito di un contabile, sì. Nessuna donna verrà più a letto con me, se non la pago, lo so. Ma vi dico che non me ne importa. Non voglio donne, non voglio nemmeno tornar giovane. Soltanto essere vivo. Ed ero vivo nel momento in cui guardavo le primule e la brace rossa sotto la siepe. E' una sensazione interna, una sensazione pacifica, che tuttavia mi brucia come una fiamma" (1939, pp. 203-204). Questa conquista è solo interiore e temporanea e in seguito George Bowling si riadatterà alla moglie ed alla routine in cui non c'è posto per quello che ha scoperto nel suo viaggio. Egli, come personaggio, non è destinato a cambiar vita, ma a prendere "una boccata d'aria".
Per Orwell, in Flory, Dorothy, Gordon e George Bowling, come in milioni di esseri umani, qualcosa scorre interiormente, ma in qualche misura viene frenato. In tale misura, ciò che “scorre” non diventa consapevolezza e azione creativa, costruttiva. George Woodcock, nel saggio Prose Like a Window-Pane ha giustamente messo in evidenza il contrasto fra la passività dei personaggi di Orwell e l'atteggiamento attivo mostrato dallo scrittore in una vita dedicata all'impegno (in R. Williams –Editor-, 1974, p. 167).). Quando i personaggi dei romanzi di Orwell tentano di cambiare la loro vita, falliscono o realizzano solo una minima parte di ciò che avevano progettato. Per Woodcock, Orwell sembra suggerire con ciò che il tentativo di vivere conta comunque più della rinuncia. Tuttavia, l'opposizione fra scrittore e personaggi dice forse qualcosa sul modo in cui Orwell ha affrontato le proprie inclinazioni profonde all'isolamento e sul modo in cui ha superato queste tendenze: ammettendo il proprio coinvolgimento con le persone e con la vita in generale. Proprio coinvolgendosi con gli altri, accettando di essere parte di un mondo imperfetto ed impegnandosi intellettualmente ed anche praticamente, Orwell ha "rinunciato alle rinunce", ha evitato la sicurezza del distacco, ha accettato di sperare senza illudersi ed ha, quindi, accettato di soffrire e di gioire. Ha, in altre parole, cercato di spendere la sua vita anziché "risparmiarla" e, proprio in questo modo, si è dimostrato “edonista” nell’accezione migliore del termine.
La critica è sostanzialmente unanime nel ricondurre la riflessione orwelliana ad una radicale denuncia dei "tre mali" della società contemporanea: il classismo, l'oppressione e la miseria. Secondo Alex Zwerdling tale sensibilità ai problemi sociali starebbe alla base della stessa sperimentazione di differenti generi letterari; infatti, prima di approdare al romanzo fantastico Orwell, cercando "di rendere arte lo scrivere di argomenti politici … aveva usato il romanzo documantario ed il romanzo realistico per mostrare i mali della società in cui viveva" (in S. Hynes –Editor-, 1971, p. 89). L'impegno politico di Orwell, ovviamente è indiscutibile, come pure la scelta dell'autore di manifestare il suo interesse per le questioni sociali anche in romanzi centrati sull'analisi dei conflitti interiori. Inoltre, opere letterarie come La fattoria degli animali e 1984 sono state concepite proprio per denunciare il totalitarismo. Resta il fatto, però, che Orwell non ha denunciato semplicemente gli aspetti più grossolani e tangibili delle società autoritarie, ma soprattutto le implicazioni personali del totalitarismo. E, come ho già sottolineato, tali implicazioni riguardano sia le modalità rigide del pensiero e della comunicazione, sia le chiusure emozionali, ovvero le varie componenti delle difese psicologiche.
Pochi fra gli studiosi di Orwell hanno riconosciuto che la sensibilità di Orwell andava al di là del piano sociale e politico. Bernard Crick afferma che se anche l'opera di Orwell "non è stata sempre direttamente politica sul piano degli argomenti affrontati ha sempre rivelato una consapevolezza politica" (1982, p.16) e, più esplicitamente, Keith Aldritt ha sostenuto che la concezione politica è stata in Orwell creata e sostenuta dalla volontà e da una forte istanza morale. In tal modo George Orwell avrebbe forzato Eric Blair, fondamentalmente incline a cogliere gli elementi di crisi nell'esistenza individuale, in accordo con la tendenza più diffusa fra gli scrittori del tempo (1969, pp.176-177).
I dibattiti e i saggi su Orwell pubblicati su riviste specializzate come su periodici "di largo consumo" hanno spesso concentrato l'attenzione sui pregi e i limiti della "profezia orwelliana" (nonostante 1984 non fosse stato concepito come una profezia) ed in alcuni casi Orwell è stato un pretesto per affermare specifiche tesi politiche. Anche nei contributi più apprezzabili in quanto analisi complessive dell'opera di Orwell, la riconduzione dell'impegno umano e letterario di Orwell alla problematica sociale è quasi unanime. Ad esempio, Stefano Manferlotti ritiene che il "problema di Orwell" sia fondamentalmente "una crisi di identità che nasce dal rifiuto dell'ideologia della propria classe di appartenenza" (1979, p. 7). Egli sottolinea quindi l'esistenza di costanti formali nei romanzi di Orwell riconducibili ad una loro omogeneità tematica: "Flory, antiimperialista, è un agente dell'imperialismo; Dorothy Hare, che si oppone all'alienazione religiosa è bigotta e figlia di un parroco; Gordon Comstock, contestatore della società dei consumi è un agente pubblicitario e così via, fino a George Bowling di Coming Up for Air che tenta una distruzione dei miti piccolo-borghesi ed è un assicuratore. La critica di un particolare aspetto del sistema, se formulata da chi ne subisce direttamente gli effetti, serve non solo a dare oggettività alla narrazione, rendendola 'realistica' ma anche a rendere ugualmente oggettivo il giudizio negativo emesso dal personaggio. Ciò che, in ultima analisi, interessa ad Orwell è infatti proprio il giudizio finale, lo smascheramento dei miti e dei riti del mondo moderno" (pp. 62-63). Sempre presupponendo un'uniformità tematica di tipo sociale, anche Peter Lewis evidenzia una costante nella struttura dei romanzi di Orwell: "il ribelle o l'emarginato che tenta di evadere da una società ostile e monolitica al fine di trovare una vita più semplice adatta a lui, e che finisce per essere forzato ad occupare nuovamente il posto assegnatogli dal sistema" (1981, p. 16).
Queste interpretazioni, anche se giustificate da osservazioni accurate, restano riduttive proprio perché i personaggi dei romanzi citati, pur essendo collocati in un ambiente che l'autore descrive in modo non politicamente neutro, non sono in realtà presentati come rappresentanti di una particolare ideologia. In Flory e in Gordon le affermazioni politiche sono semplici ruminazioni mentali che evidenziano più il disagio psicologico dei personaggi che la loro collocazione sociale. A leggere i pensieri di Gordon Comstock viene voglia di diventare conservatori. Anche Dorothy non manifesta una reale opposizione all'alienazione religiosa e George Bowling non intende minimamente attaccare i miti della borghesia, ma semplicemente sottrarsi ad essi per un po', perché li sente soffocanti. Inoltre tali personaggi non tentano realmente di evadere da un certo tipo di società, ma tentano più che altro di evadere dalle proprie chiusure che sono essenzialmente psicologiche.
In tutt'altra direzione Giovanni Zanmarchi evidenzia nei romanzi di Orwell un filo conduttore non riconducibile all'affermazione di valori e di ideali politici. Secondo Zanmarchi, "se ci si concentra soltanto sui lati immediatamente politici e sociali della sua produzione si rischia di perdere di vista il centro effettivo della sua tematica: la preoccupazione, direi addirittura l'ossessione, di conoscere la realtà oggettiva delle cose (1975, p. 125). Per questo, "Le decisioni di affrontare la povertà tra i vagabondi di Parigi e Londra, di scendere in fondo alle miniere di carbone del Lancashire, di arruolarsi nella milizia del P.O.U.M., probabilmente anche quella di andare in Birmania … furono prima di tutto un tentativo di entrare in contatto con l'essenza della realtà, di conoscerla, di sentirla" (p. 128). Zanmarchi sviluppa questo tipo di analisi in maniera convincente, riconducendo ad essa l'attenzione di Orwell per il linguaggio e persino il significato da questi attribuito al passato. Tuttavia, questa sofferta tensione verso il contatto con la realtà (esterna) si spiega proprio come estensione di un più originario bisogno di contatto con la "realtà interna" degli esseri umani. Credo si possa, quindi, affermare che il "secondo Orwell" (quello che "completa" il giornalista ed il polemista politicamente impegnato) è un acuto e partecipe osservatore dei conflitti interiori degli esseri umani. Se Orwell-politico denuncia i modi in cui il capitalismo e qualsiasi forma di totalitarismo possono impedire alle persone di realizzare le loro legittime aspirazioni, l'altro Orwell descrive i modi in cui gli esseri umani nascondono a se stessi e agli altri i loro desideri e i sentimenti più profondi, riducendo così l'intensità della loro esperienza umana.
Orwell ha sempre cercato di analizzare con lucidità i rapporti umani e le vicende sociali, ma è stato anche costantemente animato da una profonda compassione per i suoi simili e, soprattutto ha vissuto in piena coerenza con ciò che sentiva e capiva. Già queste qualità lo rendono un autore molto apprezzabile, ma altre sue qualità lo rendono davvero un punto di riferimento indispensabile: egli non ha solo “fatto politica con umanità”, ma ha vissuto tutta la sua vita con passione e per questo ha accettato anche di fare politica. L’intreccio fra il suo sentire, i suoi interessi e il suo impegno è stato, quindi, strettissimo e per tale motivo egli tocca il cuore del lettore anche quando non tratta dei temi particolarmente intimi: in lui la passione per le persone e per la convivenza sociale sono inscindibili. Inoltre non ha mai assunto atteggiamenti di superiorità, non ha manifestato svalutazioni taglienti e ha sempre cercato di offrire spunti di riflessione e sollecitazioni emotive, non per ottenere ammirazione, ma per regalare qualcosa di sé. Da qui l’immensa gratitudine per un maestro che non si atteggiava a maestro e per un compagno di strada generoso e affidabile.
Al di là degli apprezzamenti per la persona e la sua opera, voglio sottolineare che le questioni da lui affrontate sono state impostate in modo corretto e illuminante. Egli ha individuato il nodo centrale della tragedia in cui l’umanità si dibatteva ai suoi tempi e in cui si dibatte ancora: il vivere “poco” delle persone è strettamente legato all’irrazionalità della società, al punto che non è possibile comprendere le persone senza capire alcuni aspetti della società (proprio quelli meno compresi dai sociologi) e non è possibile comprendere la società senza capire alcuni aspetti delle persone (proprio quelli meno compresi dagli psicologi). Nell’analisi spietata e compassionevole di Orwell, la società non include semplicemente delle ingiustizie, ma è strutturata in modo da generare ingiustizie e da disattivare la consapevolezza delle ingiustizie. Inoltre le ingiustizie sociali più evidenti (lo sfruttamento e la repressione) sono estensioni dell’ingiustizia più profonda: l’avvilimento della consapevolezza delle persone. Non solo la società produce lusso e miseria, ma produce il gusto del lusso e la rassegnazione alla miseria. Non solo i singoli subiscono l’autoritarismo sociale e le manipolazioni psicologiche programmate da chi ha più potere nella società, ma sono complici attivi ed entusiasti di un sistema che li incatena sul piano materiale e psicologico. Proprio la consapevolezza dell’intreccio fra la paura delle persone e l’organizzazione della convivenza sociale rende Orwell un autore che contrasta tutte le letture schematiche dei fatti sociali. Da quel che mi risulta egli conosceva poco la filosofia e la psicologia, ma la sua analisi del rapporto fra linguaggio e pensiero è estremamente lucida e la sua analisi delle difese psicologiche è impeccabile. Egli ha anche sottolineato che l’intimità sessuale e la passione per la vita sociale sono strettamente collegate e che fin dall’infanzia le persone strutturano la loro tendenza ad esprimersi o a bloccare l’espressione delle loro potenzialità. Proprio per questi motivi il contributo di Orwell ad una comprensione delle ragioni dell’irrazionalità è particolarmente prezioso.

Bibliografia

K. Alldritt, 1969, The making of George Orwell, Edward Arnold Ltd., London
A. Camus, 1942, Il mito di Sisifo, trad.it. Bompiani, Milano, 1985
A. Camus, 1951, L'uomo in rivolta, trad. it. Bompiani, Milano,1981
B. Crick, 1982, George Orwell – A Life, Penguin Books Ltd., Harmondsworth
E. Fromm, 1941, Fuga dalla libertà, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano, 1972
A. Huxley, 1932, Il mondo nuovo, in Il mondo nuovo - Ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano, 1977
S. Hynes (Editor), 1971, Twentieth Century Interpretations of 1984, Prentice Hall, Inc.,Englewood Cliffs
P. Lewis, 1981, George Orwell – The Road to 1984, Heinemann/Quixote Press, London
J. London, 1907, Il tallone di ferro, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1979
S. Manferlotti, 1979, George Orwell, La Nuova Italia, Firenze
G. Orwell, 1933, Senza un soldo a Parigi e a Londra, tr. it. Mondadori, Milano, 1981
G. Orwell, 1934, Giorni in Birmania, trad. it. Longanesi, Milano, 1975
G. Orwell, 1935, La figlia del reverendo, trad. it. Garzanti, Milano, 1976
G. Orwell, 1936, Fiorirà l'aspidistra, trad. it. Mondadori,Milano, 1975
G. Orwell, 1937, La strada di Wigan Pier, trad. it. Mondadori, Milano, 1982
G. Orwell, 1938, Omaggio alla Catalogna, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1975
G. Orwell, 1939, Una boccata d'aria, trad. it. Mondadori, Milano, 1966
G. Orwell, 1944, Arthur Koestler, in The Collected Essays, Journalism and Letters of George Orwell, Penguin Books Ldt., 1970 Volume 3, reprinted 1982
G. Orwell, 1945, La fattoria degli animali, trad. it. Mondadori, Milano, 1977
G. Orwell, 1949, 1984, trad. it. Mondadori, Milano, 1976
G. Orwell, CEJL (The Collected Essays, Journalism and Letters of George Orwell), Penguin Books Ldt., 1970
Volume 1 (1920-1940), An Age Like This, reprinted 1982
Volume 2 (1940-1943), My Country Right or Left, reprinted 1980
Volume 3 (1943-1945), As I Please, reprinted 1982
Volume 4 (1945-1950), In Front of Your Nose, reprinted 1980
R. Rees, 1961, George Orwell – Fugitive from the Camp of Victory, Secker & Warburg, London
W. Reich, 1945, (ristampa ampliata, in lingua inglese, dello scritto del 1933), Analisi del carattere, trad. it. Sugar, Milano, 1973
W. Reich, 1946, (ristampa, corretta e ampliata, dello scritto del 1933), Psicologia di massa del fascismo, trad. it. Sugar, Milano, 1972
M. Rokeach, 1960, The Open and Closed Mind, Basic Books, Inc., New York
H. G. Wells, 1895, La macchina del tempo, trad. it. Milano, Rizzoli, 1975
R. Williams (Editor), 1974, George Orwell – A Collection of Critical Essays, Prentice Hall, Inc. Englewood Cliffs
E. Zamjatin, 1922, Noi, trad. it. Garzanti, Milano, 1972
G. Zanmarchi, 1975, Invito alla lettura di Orwell, Mursia, Milano