martedì 10 luglio 2018

Introduzione







In questo lavoro mi propongo di esaminare il tema dell’irrazionalità individuale e sociale e di mostrare che tutti i fenomeni irrazionali costituiscono violazioni intenzionali (anche se inconsce) della razionalità. Cercherò, quindi, di delineare una spiegazione delle ragioni per cui gli esseri umani sono sia capaci di vivere razionalmente, sia normalmente determinati a vivere irrazionalmente.
Le ragioni dell’irrazionalità sono da sempre il mio tormento e la mia passione. Sia studiando filosofia, sia lavorando su me stesso, sia lavorando come analista con altre persone, ho sempre cercato di individuare i fattori che sono operanti non solo quando una persona manifesta specifici disturbi psicologici, ma anche quando si adatta a convenzioni sociali assurde o combatte per ideali che nemmeno sa giustificare o segue dottrine etiche o religiose su cui non ha mai voluto riflettere. Questi modi di pensare e di sentire mi sembravano riconducibili al concetto di irrazionalità, ma non potevo permettermi di etichettare come irrazionale semplicemente ciò che mi risultava soggettivamente disturbante o inaccettabile. Ho quindi cercato di mettere da parte le mie preferenze personali nell’analisi dell’irrazionalità, intesa nell’accezione più ampia del termine, ma in tale impresa ho incontrato una difficoltà: nella storia della filosofia e della scienza, di fatto, il concetto di razionalità è stato applicato con profitto quasi esclusivamente alla ricerca della verità e dell’utilità. La logica si occupa di deduzioni corrette, la filosofia della scienza si occupa di spiegazioni valide e l’analisi delle decisioni valuta le opzioni ottimali rispetto a fini prestabiliti e non sottoposti a loro volta al vaglio della ragione. Tutto ciò che esula da questa concezione “ristretta” della razionalità, di fatto, riguarda gli aspetti più delicati della vita umana: i desideri, le emozioni, le scelte importanti, gli scopi, la strutturazione del tempo nell’esistenza personale. Tali aspetti non sono stati ignorati dalla cultura occidentale, ma sono stati da sempre ricondotti all’etica e, nell’ultimo secolo, alla psicoterapia, ovvero (paradossalmente) a concezioni radicalmente ed irrimediabilmente irrazionali.
Provo a delimitare meglio il problema: quando etichettiamo come irrazionali fenomeni diversi fra loro come il razzismo, la superstizione, la gelosia, il consumismo, l’arroganza, la sottomissione, le fobie, l’avarizia, il moralismo sessuale, lo sfruttamento economico, l’autoritarismo, il conformismo, ecc., intendiamo denunciare in senso stretto una violazione della razionalità o ci limitiamo a manifestare indignazione per ciò che ci risulta soggettivamente sgradito? Di fatto, la persona che si conforma a certi modelli culturali per non provare un “senso di isolamento”, non sta violando la logica, non sta proponendo spiegazioni scientifiche inconsistenti e, sul piano pratico, fa proprio ciò che serve per il raggiungimento del proprio scopo, dato che riesce davvero a sentirsi “socialmente integrata”. Dobbiamo quindi rinunciare a definire irrazionale il conformismo? Se rinunciamo, dobbiamo definirlo razionale o irrilevante per la razionalità, ma finiamo per minimizzare l’importanza di un atteggiamento che è sempre stato il catalizzatore dei più grandi disastri sociali e non capisco perché mai dovremmo utilizzare un concetto di razionalità irrilevante per la comprensione e la valutazione di un fenomeno tanto inquietante.
Partendo da queste difficoltà mi sono trovato propenso a considerare irrazionale il “desiderio di appartenenza” se questo è sganciato da un preciso interesse per forme realmente soddisfacenti di vicinanza, sintonia e collaborazione. Tuttavia, per definire razionali o irrazionali i desideri, le emozioni e le aspirazioni che stanno alla base degli atteggiamenti manifestati nell’ambito interpersonale e sociale dovevo utilizzare criteri di razionalità più ampi di quelli tradizionalmente stabiliti. Cercando di evitare le sabbie mobili dell’etica o il culto della “normalità statistica” praticato dagli psicoterapeuti e cercando anche di evitare sia derive integraliste, sia derive “postmoderne”, ho fatto tesoro di alcuni dati empirici significativi e delle sollecitazioni di alcuni studiosi per chiarire che la spiegazione più convincente dell’irrazionalità dipende dal riconoscimento della radicata tendenza degli esseri umani a dissociarsi dal dolore che l’esistenza necessariamente comporta. Oggi penso che la razionalità pratica sia strettamente legata alla capacità specificamente umana di gestire costruttivamente il lato doloroso dell’esistenza. Sicuramente posso aver tratto conclusioni errate, ma non certo pregiudiziali: infatti, le conclusioni (poco rassicuranti) a cui sono giunto non sono affatto quelle che avevo in mente quando iniziai da giovane ad occuparmi di tali questioni.
Per quasi quarant’anni ho fatto sedute di psicoterapia pur sapendo di non fare nulla di “terapeutico” e di limitarmi ad analizzare gli atteggiamenti irrazionali che disturbavano il contatto emotivo. Ho sempre evidenziato i limiti di vari indirizzi psicoterapeutici, ma oggi preferisco collocare la psicoterapia in quanto tale fra le concezioni della realtà che consolidano l’irrazionalità sociale. Solo ora capisco il motivo per cui negli anni della mia gioventù provavo tanto interesse sia per la filosofia della scienza, sia per la filosofia dell’esistenza: in qualche modo avevo già in mente che fra quei due territori così lontani si potesse e si dovesse costruire un ponte. Un ponte mai costruito dai moralisti e dagli psicoterapeuti. Da sempre, gli esseri umani, pur di non accettare il dolore sono disposti a limitare o a distorcere le loro capacità razionali. Tali capacità, non a caso, affiorano spontaneamente nelle persone in analisi appena queste riescono ad accettare la loro reale sofferenza e ad integrarla nel loro dialogo interno e nella loro idea di sé e della vita. Io non “convinco” i miei clienti ad essere più “buoni” e non “guarisco” alcuna “patologia” facendoli “diventare” più “sani”. Lavoro sulle loro convinzioni infondate, sulle loro scelte giustificate in modi confusi, sui loro sentimenti “incomprensibili” e sui bisogni che loro stessi considerano “strani”. Analizzando le loro bugie, facendo domande “candide” e chiedendo ragguagli, ottengo racconti dolorosi. Facilitando l’elaborazione di un dolore comprensibile, sentito e mai accettato, verifico che le persone si sentono più libere di guardare le cose come sono: più dolorose del previsto e più belle del previsto. Nella misura in cui superano il timore di convivere con il dolore, “liberano” la razionalità che tenevano imbrigliata per non capire certi fatti e per “sentire poco”.
Proprio in questo strano modo ho portato avanti i miei studi di filosofia. Non ho studiato abbastanza i filosofi che trovavo insopportabili e nemmeno i filosofi che apprezzavo e di cui ho approfondito solo alcune idee, ma ho studiato tanti “filosofi non professionali” disposti a mettere in discussione le loro certezze. Dialogando con loro nel mio studio e trattandoli come “filosofi capaci”, anziché come “pazienti incapaci”, ho compreso che su molte questioni marginali potevamo tranquillamente registrare dei disaccordi, ma su quelle fondamentali trovavamo una perfetta sintonia appena le difese venivano accantonate e il dolore veniva accettato. A mio parere gli aspetti della vita delle persone normalmente inquadrati come “immorali” o “patologici” o come “debolezze” o come “eccessi di passione” sono semplici violazioni della razionalità. Tali violazioni si verificano per delle ragioni comprensibili se (e solo se) si riconosce la capacità degli adulti di gestire il dolore e l’incapacità dei bambini di gestire il dolore. L’irrazionalità, infatti, diventa comprensibile se concepita come la razionalità dei bambini trasferita nei pensieri degli adulti.
Proprio adottando questa chiave di lettura possiamo capire perché da sempre gli adulti usano correttamente la ragione per le loro imprese più banali (tecniche) e “sragionano” sulle questioni da cui dipende la qualità della loro esistenza personale e delle loro relazioni interpersonali e sociali: su tali questioni la realtà del dolore si impone e il terrore di un confronto con il dolore (negato nell’infanzia e mai superato) porta le persone a costruire concezioni della realtà non razionali ma rassicuranti. In tale processo il “bisogno di non conoscere” (per non “sentire”) prevale sul bisogno di conoscere. Purtroppo, il lavoro analitico è difficile con persone che chiedono aiuto sentendosi disturbate da sintomi o stati d’animo insopportabili, ma è del tutto impossibile con persone che non chiedono alcun aiuto perché interpretano i propri stati d’animo irrazionali come espressioni autentiche di “valori” e di “ideali”. Tali persone esprimono in articoli, libri, convegni o comizi le stesse idee confuse di chi chiede aiuto, ma si presentano come guide intellettuali, religiose o politiche. Le illusioni socialmente condivise potrebbero almeno essere oggetto di analisi sul piano intellettuale, ma dopo un secolo gli psicologi e gli psicoterapeuti non hanno formulato nemmeno un abbozzo di teoria scientifica dell’irrazionalità e hanno solo cercato di occupare una nicchia del tessuto culturale “dato” evitando, quindi, di mettere in discussione gli aspetti più radicati (normali) dell’irrazionalità.
Mi sono convinto lentamente del fatto che per comprendere le ragioni dell’irrazionalità dovevo utilizzare il concetto di “difese psicologiche” e concepire le difese psicologiche come azioni e strategie esistenziali manifestate dalle persone intenzionalmente, anche se inconsciamente, per limitare o interrompere la percezione, l’accettazione e l’elaborazione del dolore psicologico. Ho quindi rifiutato il concetto psicoanalitico, a mio parere errato e fuorviante, di “meccanismi di difesa” e altri concetti ricorrenti nelle varie concezioni “psicodinamiche”. In altre parole, ho potuto giustificare una utilizzazione non “ristretta” del concetto di irrazionalità proprio chiarendo le ragioni psicologiche (difensive) della rinuncia alla razionalità. Per delineare tale rilettura filosofica e psicologica dei concetti di razionalità e di irrazionalità, mi sono basato sui contributi di autorevoli filosofi e psicologi e, per giustificarla sul piano empirico, ho utilizzato il lavoro analitico sulle difese psicologiche. Ciò mi ha permesso anche di esaminare i fenomeni sociali e culturali normalmente irrazionali e distruttivi senza fare assunzioni speculative.
Solo verso il 2000, a cinquant’anni, ho ritenuto di disporre di una spiegazione coerente ed empiricamente fondata dell’irrazionalità. Fortunatamente gli articoli e libri che ho pubblicato prima del 2000 sono irreperibili: oggi non li riconosco come “miei” e spero che nessuno perda tempo a leggerli. Purtroppo sono ancora reperibili i tre libri scritti dopo il 2000 (L’intenzione ritrovata, Illusioni e realtà nella relazione di coppia e L’analista e il suo cliente) che rispecchiano sostanzialmente le mie attuali convinzioni, ma sono stati scritti in un linguaggio ancora compatibile con il quadro concettuale della psicoterapia, perché in quel periodo cercavo un dialogo sulle questioni che ritenevo più importanti. Oggi riscriverei quei libri in un altro linguaggio. Purtroppo, quei tre libri non sono più modificabili a mia discrezione, perché sono pubblicati ed affidati agli editori. Spero solo che, se vengono letti, siano compresi nel loro nucleo essenziale.
Ciò di cui sono certo è il fatto che normalmente gli esseri umani vivono senza esprimere compiutamente le loro potenzialità e che vivono “poco” proprio perché sono costantemente impegnati a bloccare con le difese psicologiche la consapevolezza del dolore che comunque fa parte della loro esistenza. Inoltre, credo che questa diffusa determinazione a vivere irrazionalmente, generi rapporti interpersonali, strutture sociali e concezioni della realtà in cui l’indifferenza schiaccia la compassione. Queste mie convinzioni sono poco rassicuranti e a loro volta dolorose, ma mi sembrano coerenti e ancorate ai fatti. Mi accompagnano ogni giorno, ma non mi gettano nello sconforto perché non rinuncio mai a tener presente un altro fatto: gli esseri umani hanno costruito un incubo imperfetto. Nonostante le ben radicate tendenze irrazionali, le persone ed anche le società continuano a manifestare inesorabilmente sprazzi abbaglianti di razionalità, di sensibilità e di bellezza. Questo è il lato consolante e non meramente consolatorio di tutta la questione: il peso della normale irrazionalità individuale e sociale non può e (credo) non potrà mai schiacciare la capacità degli esseri umani di vivere umanamente.
Questo lavoro include i testi di due seminari telematici (svolti in rete nel 2015/16 e nel 2017/18). Ho integrato i due testi nel 2018 e poi, con vari tagli e correzioni, ho cercato di ottenere una stesura scorrevole riducendo all’essenziale le considerazioni teoriche e i resoconti di sedute. Sto concludendo la mia attività professionale e non mi propongo di scrivere altri saggi. Per questo motivo ho dedicato tanto impegno a questo libro che raccoglie tutte le cose che ho capito (o almeno credo di aver capito) in cinquant’anni dedicati a mettere in discussione i miei pregiudizi e le mie illusioni e a trattare con cura ciò che trovavo appassionante, in me stesso e negli altri.