In
questo lavoro mi propongo di esaminare il tema dell’irrazionalità individuale e
sociale e di mostrare che tutti i fenomeni irrazionali costituiscono violazioni
intenzionali (anche se inconsce) della razionalità. Cercherò,
quindi, di delineare una spiegazione delle ragioni per cui gli esseri umani
sono sia capaci di vivere
razionalmente, sia normalmente determinati
a vivere irrazionalmente.
Le
ragioni dell’irrazionalità sono da sempre il mio tormento e la mia passione. Sia
studiando filosofia, sia lavorando su me stesso, sia lavorando come analista
con altre persone, ho sempre cercato di individuare i fattori che sono operanti
non solo quando una persona manifesta specifici disturbi psicologici, ma anche
quando si adatta a convenzioni sociali assurde o combatte per ideali che
nemmeno sa giustificare o segue dottrine etiche o religiose su cui non ha mai
voluto riflettere. Questi modi di pensare e di sentire mi sembravano
riconducibili al concetto di irrazionalità, ma non potevo permettermi di
etichettare come irrazionale semplicemente ciò che mi risultava soggettivamente disturbante o
inaccettabile. Ho quindi cercato di mettere da parte le mie preferenze
personali nell’analisi dell’irrazionalità, intesa nell’accezione più ampia del
termine, ma in tale impresa ho incontrato una difficoltà: nella storia della
filosofia e della scienza, di fatto, il concetto di razionalità è stato
applicato con profitto quasi esclusivamente alla ricerca della verità e
dell’utilità. La logica si occupa di deduzioni corrette, la filosofia della
scienza si occupa di spiegazioni valide e l’analisi delle decisioni valuta le
opzioni ottimali rispetto a fini prestabiliti e non sottoposti a loro volta al vaglio della ragione.
Tutto ciò che esula da questa concezione “ristretta” della razionalità, di
fatto, riguarda gli aspetti più delicati della vita umana: i desideri, le
emozioni, le scelte importanti, gli scopi, la strutturazione del tempo
nell’esistenza personale. Tali aspetti non sono stati ignorati dalla cultura
occidentale, ma sono stati da sempre ricondotti all’etica e, nell’ultimo
secolo, alla psicoterapia, ovvero (paradossalmente) a concezioni radicalmente
ed irrimediabilmente irrazionali.
Provo
a delimitare meglio il problema: quando etichettiamo come irrazionali fenomeni
diversi fra loro come il razzismo, la superstizione, la gelosia, il consumismo, l’arroganza, la sottomissione, le fobie, l’avarizia, il moralismo
sessuale, lo sfruttamento economico, l’autoritarismo, il conformismo, ecc.,
intendiamo denunciare in senso stretto una violazione della razionalità o ci
limitiamo a manifestare indignazione per ciò che ci risulta soggettivamente
sgradito? Di fatto, la persona che si conforma a certi modelli culturali per
non provare un “senso di isolamento”, non
sta violando la logica, non sta
proponendo spiegazioni scientifiche inconsistenti e, sul piano pratico, fa
proprio ciò che serve per il raggiungimento del proprio scopo, dato che riesce davvero a sentirsi “socialmente
integrata”. Dobbiamo quindi rinunciare a definire irrazionale il conformismo?
Se rinunciamo, dobbiamo definirlo razionale o irrilevante per la razionalità,
ma finiamo per minimizzare l’importanza di un atteggiamento che è sempre stato
il catalizzatore dei più grandi disastri sociali e non capisco perché mai
dovremmo utilizzare un concetto di razionalità irrilevante per la comprensione
e la valutazione di un fenomeno tanto inquietante.
Partendo
da queste difficoltà mi sono trovato propenso a considerare irrazionale il “desiderio di appartenenza” se questo è
sganciato da un preciso interesse per forme realmente soddisfacenti di
vicinanza, sintonia e collaborazione. Tuttavia, per definire
razionali o irrazionali i desideri, le emozioni e le aspirazioni che stanno alla
base degli atteggiamenti manifestati nell’ambito interpersonale e sociale dovevo
utilizzare criteri di razionalità più
ampi di quelli tradizionalmente stabiliti. Cercando di evitare le sabbie
mobili dell’etica o il culto della “normalità statistica” praticato dagli
psicoterapeuti e cercando anche di evitare sia derive integraliste, sia derive
“postmoderne”, ho fatto tesoro di alcuni dati empirici significativi e delle
sollecitazioni di alcuni studiosi per chiarire che la spiegazione più
convincente dell’irrazionalità dipende dal riconoscimento della radicata
tendenza degli esseri umani a dissociarsi dal dolore che l’esistenza
necessariamente comporta. Oggi penso che la razionalità pratica sia strettamente
legata alla capacità specificamente umana di gestire costruttivamente il lato
doloroso dell’esistenza. Sicuramente posso aver tratto conclusioni errate, ma
non certo pregiudiziali: infatti, le conclusioni (poco rassicuranti) a cui sono
giunto non sono affatto quelle che avevo in mente quando iniziai da giovane ad
occuparmi di tali questioni.
Per
quasi quarant’anni ho fatto sedute di psicoterapia pur sapendo di non fare
nulla di “terapeutico” e di limitarmi ad analizzare gli atteggiamenti irrazionali
che disturbavano il contatto emotivo. Ho sempre evidenziato i limiti di vari
indirizzi psicoterapeutici, ma oggi preferisco collocare la psicoterapia in quanto tale fra le concezioni della
realtà che consolidano l’irrazionalità sociale. Solo ora capisco il motivo per
cui negli anni della mia gioventù provavo tanto interesse sia per la filosofia della scienza, sia per la filosofia dell’esistenza: in qualche modo avevo già in
mente che fra quei due territori così lontani si potesse e si dovesse costruire
un ponte. Un ponte mai costruito dai moralisti e dagli psicoterapeuti. Da
sempre, gli esseri umani, pur di non accettare il dolore sono disposti a
limitare o a distorcere le loro capacità razionali. Tali capacità, non a caso,
affiorano spontaneamente nelle persone in analisi appena queste riescono ad
accettare la loro reale sofferenza e ad integrarla nel loro dialogo interno e
nella loro idea di sé e della vita. Io non “convinco” i miei clienti ad essere
più “buoni” e non “guarisco” alcuna “patologia” facendoli “diventare” più
“sani”. Lavoro sulle loro convinzioni infondate, sulle loro scelte giustificate
in modi confusi, sui loro sentimenti “incomprensibili” e sui bisogni che loro
stessi considerano “strani”. Analizzando le loro bugie, facendo domande
“candide” e chiedendo ragguagli, ottengo racconti dolorosi. Facilitando
l’elaborazione di un dolore comprensibile, sentito e mai accettato, verifico
che le persone si sentono più libere di guardare le cose come sono: più
dolorose del previsto e più belle del previsto. Nella misura in cui superano il
timore di convivere con il dolore, “liberano” la razionalità che tenevano
imbrigliata per non capire certi
fatti e per “sentire poco”.
Proprio
in questo strano modo ho portato avanti i miei studi di filosofia. Non ho
studiato abbastanza i filosofi che trovavo insopportabili e nemmeno i filosofi
che apprezzavo e di cui ho approfondito solo alcune idee, ma ho studiato tanti
“filosofi non professionali” disposti a mettere in discussione le loro
certezze. Dialogando con loro nel mio studio e trattandoli come “filosofi
capaci”, anziché come “pazienti incapaci”, ho compreso che su molte questioni
marginali potevamo tranquillamente registrare dei disaccordi, ma su quelle
fondamentali trovavamo una perfetta sintonia appena le difese venivano
accantonate e il dolore veniva accettato. A mio parere gli aspetti della vita
delle persone normalmente inquadrati come “immorali” o “patologici” o come
“debolezze” o come “eccessi di passione” sono semplici violazioni della
razionalità. Tali violazioni si verificano per delle ragioni comprensibili se
(e solo se) si riconosce la capacità degli adulti di gestire il dolore e
l’incapacità dei bambini di gestire il dolore. L’irrazionalità, infatti,
diventa comprensibile se concepita come la
razionalità dei bambini trasferita nei pensieri degli adulti.
Proprio
adottando questa chiave di lettura possiamo capire perché da sempre gli adulti
usano correttamente la ragione per le loro imprese più banali (tecniche) e
“sragionano” sulle questioni da cui dipende la qualità della loro esistenza
personale e delle loro relazioni interpersonali e sociali: su tali questioni la
realtà del dolore si impone e il terrore di un confronto con il dolore (negato
nell’infanzia e mai superato) porta le persone a costruire concezioni della
realtà non razionali ma rassicuranti. In tale processo il “bisogno di non
conoscere” (per non “sentire”) prevale sul bisogno di conoscere. Purtroppo, il
lavoro analitico è difficile con persone che
chiedono aiuto sentendosi disturbate da sintomi o stati d’animo
insopportabili, ma è del tutto impossibile con persone che non chiedono alcun aiuto perché interpretano i propri stati
d’animo irrazionali come espressioni autentiche di “valori” e di “ideali”. Tali
persone esprimono in articoli, libri, convegni o comizi le stesse idee confuse
di chi chiede aiuto, ma si presentano come guide intellettuali, religiose o
politiche. Le illusioni socialmente condivise potrebbero almeno essere oggetto
di analisi sul piano intellettuale, ma dopo un secolo gli psicologi e gli
psicoterapeuti non hanno formulato nemmeno un abbozzo di teoria scientifica
dell’irrazionalità e hanno solo cercato di occupare una nicchia del tessuto
culturale “dato” evitando, quindi, di mettere in discussione gli aspetti più radicati
(normali) dell’irrazionalità.
Mi
sono convinto lentamente del fatto che per comprendere le ragioni
dell’irrazionalità dovevo utilizzare il concetto di “difese psicologiche” e
concepire le difese psicologiche come azioni
e strategie esistenziali manifestate dalle persone intenzionalmente, anche
se inconsciamente, per limitare o interrompere la percezione, l’accettazione e
l’elaborazione del dolore psicologico. Ho quindi rifiutato il concetto
psicoanalitico, a mio parere errato e
fuorviante, di “meccanismi di difesa” e altri concetti ricorrenti nelle
varie concezioni “psicodinamiche”. In altre parole, ho potuto giustificare una utilizzazione
non “ristretta” del concetto di irrazionalità proprio chiarendo le ragioni
psicologiche (difensive) della rinuncia
alla razionalità. Per delineare tale rilettura filosofica e psicologica dei
concetti di razionalità e di irrazionalità, mi sono basato sui contributi di
autorevoli filosofi e psicologi e, per giustificarla sul piano empirico, ho utilizzato
il lavoro analitico sulle difese psicologiche. Ciò mi ha permesso anche di esaminare
i fenomeni sociali e culturali normalmente irrazionali e distruttivi senza fare
assunzioni speculative.
Solo
verso il 2000, a cinquant’anni, ho ritenuto di disporre di una spiegazione
coerente ed empiricamente fondata dell’irrazionalità. Fortunatamente gli
articoli e libri che ho pubblicato prima del 2000 sono irreperibili: oggi
non li riconosco come “miei” e spero che nessuno perda tempo a leggerli. Purtroppo
sono ancora reperibili i tre libri scritti dopo il 2000 (L’intenzione ritrovata, Illusioni
e realtà nella relazione di coppia e L’analista
e il suo cliente) che rispecchiano sostanzialmente le mie attuali
convinzioni, ma sono stati scritti in un linguaggio ancora compatibile con il
quadro concettuale della psicoterapia, perché in quel periodo cercavo un
dialogo sulle questioni che ritenevo più importanti. Oggi riscriverei quei
libri in un altro linguaggio. Purtroppo, quei tre libri non sono più modificabili
a mia discrezione, perché sono pubblicati ed affidati agli editori. Spero solo
che, se vengono letti, siano compresi nel loro nucleo essenziale.
Ciò
di cui sono certo è il fatto che normalmente gli esseri umani vivono senza
esprimere compiutamente le loro potenzialità e che vivono “poco” proprio perché
sono costantemente impegnati a bloccare con le difese psicologiche la
consapevolezza del dolore che comunque fa parte della loro esistenza. Inoltre,
credo che questa diffusa determinazione a vivere irrazionalmente, generi
rapporti interpersonali, strutture sociali e concezioni della realtà in cui
l’indifferenza schiaccia la compassione. Queste mie convinzioni sono poco
rassicuranti e a loro volta dolorose, ma mi sembrano coerenti e ancorate ai
fatti. Mi accompagnano ogni giorno, ma non mi gettano nello sconforto perché
non rinuncio mai a tener presente un altro fatto: gli esseri umani hanno
costruito un incubo imperfetto.
Nonostante le ben radicate tendenze irrazionali, le persone ed anche le società
continuano a manifestare inesorabilmente sprazzi abbaglianti di razionalità, di
sensibilità e di bellezza. Questo è il lato consolante e non meramente
consolatorio di tutta la questione: il peso della normale irrazionalità individuale e sociale non può e (credo) non
potrà mai schiacciare la capacità degli esseri umani di vivere umanamente.
Questo
lavoro include i testi di due seminari telematici (svolti in rete nel 2015/16 e
nel 2017/18). Ho integrato i due testi nel 2018 e poi, con vari tagli e
correzioni, ho cercato di ottenere una stesura scorrevole riducendo
all’essenziale le considerazioni teoriche e i resoconti di sedute. Sto
concludendo la mia attività professionale e non mi propongo di scrivere altri
saggi. Per questo motivo ho dedicato tanto impegno a questo libro che raccoglie
tutte le cose che ho capito (o almeno credo di aver capito) in cinquant’anni dedicati
a mettere in discussione i miei pregiudizi e le mie illusioni e a trattare con
cura ciò che trovavo appassionante, in me stesso e negli altri.