Chiedendosi
se fosse preferibile la vita di uno stupido in un mondo di persone intelligenti
o quella di una persona intelligente in una “società folle”, Aldous Huxley
(1962, p. 214) ha espresso con un’apparente domanda la sua ferma contestazione
della cultura dominante e dell’intera organizzazione sociale. Il libro in cui
ha posto la questione costituisce sia una riflessione di tipo filosofico,
scientifico e politico sulla società, sia una forte sollecitazione a pensare e
sentire in modi meno “stupidi” di quelli consueti. Tuttavia il vero bersaglio
della critica di Huxley non è la limitata intelligenza degli esseri umani,
perché tutti siamo più stupidi di quanto vorremmo e soprattutto perché la
stupidità frena lo sviluppo della
società, ma raramente produce risultati distruttivi.
In realtà Huxley si è opposto, come Evgenij Zamjatin (1922), George Orwell
(1949) ed altri autori, all’irrazionalità,
cioè a quell’uso dell’intelligenza
che non è finalizzato alla conoscenza, ma all’evitamento di conoscenze “scomode”.
La
conoscenza della realtà è resa possibile, ma è anche limitata, da fattori
biologici, psicologici e culturali. Il cervello è lo strumento che ci permette
di comprendere la realtà, ma solo nei limiti delle sue capacità di acquisizione
e di elaborazione dei dati. Inoltre, per il modo in cui ci siamo sviluppati
psicologicamente e formati culturalmente vediamo sempre la realtà “filtrata” e,
in qualche misura, distorta dalla nostra storia. E’ vantaggioso incontrare un
amico e riconoscerlo, cioè collocare ciò che osserviamo nella grande rete di
pensieri e sentimenti che abbiamo già costruito in passato, ma è meno
vantaggioso incontrare una persona e non stabilire un reale contatto perché un
nostro pregiudizio disturba la comprensione di ciò che osserviamo. Le persone,
in altre parole, in quanto soggetti,
non hanno un contatto diretto con quella realtà che considerano oggettiva.
Nonostante ciò, gli esseri umani manifestano una forte aspirazione ad acquisire
una conoscenza oggettiva della realtà. Questa aspirazione, che coinvolge gli
scienziati, ma in certa misura tutti noi, è sicuramente “nobile” e consiste in
una battaglia costante combattuta contro
la nostra tendenza ad esaminare la realtà dal nostro punto di vista. Tale nobile tendenza conoscitiva si declina
in vari modi: dall’umile cautela con cui chiediamo ad una persona di
controllare se stiamo parcheggiando bene, all’esigenza di richiedere pareri a
persone esperte prima di prendere una decisione importante, all’esigenza di formulare
ipotesi scientifiche falsificabili e di controllare con altri se esse risultano
verificate, all’esigenza di confrontarci con gli altri per ragionare su cosa
stiamo facendo al mondo fra l’attimo della nostra nascita e l’attimo della
nostra morte.
Secondo
Thomas Nagel “L’idea di ragione sorge dal tentativo di distinguere il
soggettivo dall’oggettivo” (1997, p. 29) e in tale prospettiva possiamo
riconoscere che la razionalità ci accomuna e ci unisce nell’esigenza di
trascendere la calda prigione della nostra soggettività e di confrontarci con
gli altri nella valutazione critica di ciò che siamo soggettivamente propensi a
credere o a fare. Se la nostra soggettività consiste nella libertà effimera di
muoverci fra le quattro mura della nostra piccola prigione, la razionalità è la
chiave che ci permette di aprire la porta ed esplorare il grande mondo assieme
ai nostri simili. Nel percorso diventiamo comunità e quindi non dobbiamo
scusarci con nessuno per il nostro angusto punto di vista, ma possiamo impiegarlo
per contribuire alla formazione di una conoscenza condivisa. La razionalità,
quindi, non solo ci avvicina agli altri senza obbligarci a rinnegare ciò che
siamo, ma ci permette anche di comprendere meglio noi stessi. La razionalità
non ci impedisce la spontaneità, la creatività e l’intimità, ma ci impedisce
solo di ritenerci saggi quando ci mettiamo in pericolo, quando ci fidiamo
troppo delle impressioni, quando ci arrendiamo alle abitudini e quando
scordiamo di aver bisogno degli altri come gli altri hanno bisogno di noi.
L’idea che la razionalità debba ingabbiare le nostre “passioni” è un’idea
errata: tale idea sarebbe buona se le persone nascessero con “tendenze
originarie” a non capire nulla e a cercare la propria e/o l’altrui sofferenza,
ma questa lettura della realtà è falsificata da molti dati a nostra
disposizione che cercherò di esaminare con cura.
Trovo
entusiasmante ogni tipo di opposizione all’autoritarismo, al soggettivismo ed
anche a quel soggettivismo confezionato oggi come “relativismo culturale”.
Autoritarismo e soggettivismo sono infatti due facce della stessa medaglia:
nell’autoritarismo un gruppo di potere dispensa “false verità” ottenendo cieca
obbedienza da chi teme la repressione
di ogni dissenso, mentre nelle posizioni soggettiviste un singolo o un gruppo
particolare rivendica il diritto di affermare “false verità” e ottiene
“rispetto” dalle persone propense ad appoggiarsi
ad una persona o ad un gruppo. Nell’autoritarismo il bene e il male si riducono
a ciò che piace o non piace all’autorità costituita e nel soggettivismo il bene
e il male si riducono a ciò che piace o non piace ad un singolo o ad un gruppo.
Mi sembra che in fondo la razionalità per Nagel si riduca alla libertà di
conoscere la realtà e di agire tenendo presente ciò che realmente si conosce e
credo che tale idea costituisca un’ancora di salvezza sia per le persone, sia
per qualsiasi gruppo rispettoso di tutti gli esseri umani. Questa prospettiva non elimina le discussioni, ma le
incoraggia, rendendo possibile anche un’alleanza profonda fra persone che hanno
idee diverse, ma sono disposte ad esaminarle criticamente.
La
razionalità è una capacità particolarmente sviluppata negli esseri umani che si
traduce in strategie finalizzate alla soluzione di problemi e quindi consente
sia di cercare la verità, sia di agire in modi efficaci, utili, costruttivi. La razionalità teorica risponde
all’esigenza di conoscere e include sia la logica, sia l’analisi della coerenza
e della fondatezza delle scienze empiriche. La
razionalità pratica risponde
all’esigenza di agire con efficacia e si caratterizza come razionalità
strumentale in quanto strategia adatta al raggiungimento di obiettivi prefissati.
Distinguiamo le operazioni della “ragione teorica” volte a stabilire cosa
risulti vero, falso o incerto, dalle operazioni della “ragione pratica” volte a
stabilire cosa sia opportuno fare, soprattutto perché la verità è intesa come
oggettiva e atemporale, mentre le scelte (anche se ritenute oggettivamente
valide) sono sempre attuate da un soggetto e sono rivolte al futuro.
La
razionalità rende possibile uno sviluppo cumulativo della conoscenza proprio
attivando la riflessione critica sulle impressioni, valutazioni e convinzioni
soggettive e persino su quelle già condivise con altri. La razionalità ci
permette di comprendere molte cose, ma soprattutto di riflettere su ciò che
crediamo di aver compreso: ci permette di esaminare le limitazioni della nostra
percezione, la coerenza dei nostri ragionamenti e i condizionamenti
psicologici, culturali e sociali che incidono sulle nostre idee e sulle varie
interpretazioni della realtà. La razionalità non consiste nel semplice fatto di
affermare una verità o di agire con efficacia, perché è possibile fare
un’affermazione vera o fare la scelta ottimale per caso e, infatti, anche un
orologio rotto due volte al giorno indica l’ora giusta. La razionalità consiste
nella capacità di cercare in modo rigoroso la soluzione di un problema teorico
o pratico e quindi nel fare argomentazioni corrette, nel fornire spiegazioni
rispettose dei fatti, nel valutare l’efficacia e le conseguenze delle opzioni
possibili. Forse in altre dimensioni o in altre galassie altri esseri ragionano
in altri modi, ma se così fosse e se incontrassimo tali esseri non li potremmo
comprendere perché qualsiasi nostra comprensione presuppone i vincoli della
razionalità, o almeno della nostra razionalità. Noi possiamo mettere in
discussione qualsiasi affermazione ed anche qualsiasi teoria della razionalità,
ma non la razionalità, perché per farlo dovremmo giustificare il nostro punto
di vista e quindi esercitare la razionalità. La razionalità non ci impedisce di
prestare attenzione alle nostre impressioni, o di formulare ipotesi mai
immaginate, o di fare progetti azzardati, ma ci porta a riflettere su ciò che
abbiamo sentito o pensato o deciso e a confrontare le nostre riflessioni con
quelle di altre persone.
Il tema del
rapporto fra oggettività e soggettività è collegato al tema del rapporto fra
razionalità e irrazionalità, ma i due temi sono distinti. Fra la
dimensione oggettiva e quella soggettiva esiste una differenza, ma non un
conflitto, mentre fra la razionalità e l’irrazionalità esiste un conflitto
profondo ed insuperabile. Se quindi l’irrazionalità non coincide con la soggettività, sicuramente ogni tendenza irrazionale esaspera lo scarto fra la dimensione
soggettiva e quella oggettiva perché aggiunge al limite inevitabile (ma in qualche misura e in qualche modo
controllabile o superabile) della soggettività il disastro costituito dalla distorsione del rapporto con la realtà
che si declina in convinzioni, emozioni, atteggiamenti, scelte, comportamenti e
progetti che possono incidere distruttivamente sulla realtà. Ricapitolando,
possiamo già affermare che a) siamo irrimediabilmente condannati alla nostra
soggettività, ma possiamo confrontarci con gli altri per raggiungere in qualche
misura delle conoscenze oggettive, b) siamo irrimediabilmente condannati ad una
conoscenza limitata perché siamo sempre e comunque più stupidi e ignoranti di
quanto vorremmo, anche se possiamo ridurre i danni di questa “condanna”
chiedendo aiuto ad altri o raffinando il nostro sapere, c) siamo anche,
purtroppo, propensi a vivere in modi irrazionali (e quindi, inevitabilmente,
distruttivi), pur disponendo di sufficienti capacità di pensare, sentire ed
agire in modi razionali e costruttivi.
Abbiamo quindi bisogno di chiarire da un lato il concetto di irrazionalità
e dall’altro le ragioni per cui tanto facilmente siamo portati a mettere da
parte le nostre capacità razionali per aggrapparci a convinzioni infondate che
cerchiamo di giustificare a posteriori a costo di arrampicarci sugli specchi.
In ogni caso, le persone cercano di conoscere i fatti oppure di credere ciò che vogliono; si permettono di ammettere i
loro desideri oppure negano i loro
desideri; accettano di provare gioia e dolore oppure si sforzano di sentire “poco” o di stordirsi con emozioni
superficiali o apparentemente “profonde”; esprimono le loro emozioni oppure cercano di non esprimerle. Solo
in alcuni casi si chiedono come mai abbiano convinzioni “strane” o provino
desideri incomprensibili o emozioni confuse, ma in genere non si chiedono nulla
e vivono senza notare che stanno comunque costruendo, minuto dopo minuto,
un’intera esistenza e che stanno anche contribuendo, in qualche misura, al
futuro dell’umanità.
L’irrazionalità
sembra quindi più un’attività che un’incapacità e in particolare sembra un sabotaggio della capacità umana di
sviluppare e di valutare criticamente la conoscenza della realtà. Di fatto, se
ci dedichiamo a questioni astratte otteniamo conoscenze preziose e
sostanzialmente condivise (ad esempio nella logica formale) e se studiamo
questioni empiriche distanti dalla dimensione emozionale riusciamo a produrre
un sapere cumulativo (ad esempio quello delle scienze naturali). Al contrario,
la storia delle “scienze umane” è un’accozzaglia confusa di idee geniali e di
idee assurde. L’irrazionalità, infatti, viene attivata in tutti gli ambiti in
cui le persone affrontano problemi emotivamente significativi. Cercherò quindi
di mostrare che l’irrazionalità dipende dal bisogno di non conoscere e che il
bisogno di non conoscere dipende dal bisogno di “sentire poco” e soprattutto dalla paura di sentire, accettare
ed elaborare il dolore.
La
vita reale è terribile e meravigliosa, ma è soprattutto più “grande” della vita
vissuta dalle persone normalmente determinate a vivere “poco” ed anche della
vita descritta dalle “teorie più comode”.
Sicuramente il modo in cui le persone normalmente vivono è segnato
dall’irrazionalità e tanto le giustificazioni quanto le condanne
dell’irrazionalità costituiscono una rinuncia a capire perché le persone fanno ciò che fanno. Purtroppo, molte riflessioni
intellettuali o “popolari” sulle azioni delle persone sono focalizzate su ciò
che le persone "dovrebbero fare" o sull’idea che i comportamenti normali siano
“sani” e quelli (razionali o irrazionali) insoliti siano “patologici”. Tuttavia,
al di là di tali schemi etici o psicoterapeutici, proprio i normali rapporti interpersonali e
sociali sono irrazionali. In una società in cui un’esigua minoranza controlla
la maggior parte delle risorse e la maggioranza vive a fatica o non sopravvive
nemmeno, gli economisti parlano di “liberismo”, i reazionari parlano della
“naturale” legge del più forte e i “progressisti” si indignano per le
ingiustizie "eccessive" che “non dovrebbero” sussistere. In una società in cui moltissime
persone sentono il “bisogno” di “avere” dei figli e poi li trascurano, li
colpevolizzano e in modi lievi o gravi li maltrattano, ben poche voci si levano
per denunciare il fatto che i bambini vivono normalmente un’infanzia
intollerabile.
Le
manifestazioni dell’irrazionalità nella comunità umana sono quindi poco
studiate e poco comprese. Eppure, è molto importante capire come dei bambini
meravigliosi possano diventare degli adulti insopportabili, come dei bambini
spontanei possano diventare degli adulti che si controllano tanto da diventare
delle caricature di ciò che sono e come dei bambini curiosi di conoscere tutto
possano diventare degli adulti che si rifiutano di esaminare criticamente le
loro idee sulla realtà. L’irrazionalità, in quanto oltraggio alla logica, alla
conoscenza dei fatti ed alla capacità di agire in modi costruttivi, impoverisce
l’esistenza delle singole persone e inquina moltissimi aspetti della cultura e
della società. L’irrazionalità, sia nelle sue particolari espressioni
individuali “strane”, sia nelle sue espressioni più comuni, sia nelle sue
versioni relativamente innocue, sia in quelle più violente, sia nelle sue
manifestazioni “immediate”, sia in quelle ideologizzate, ostacola l’espressione
delle potenzialità umane e determina sprechi
di felicità devastanti.
La
filosofia ha sempre prodotto concezioni indimostrabili relative alla “natura”
dell’essere umano, ma un settore prezioso della filosofia contemporanea a cui
ci si riferisce con l’espressione filosofia
analitica ha rinunciato a suggerire una “visione della realtà” e si è posta
uno scopo più modesto, ma in fondo anche più ambizioso, ovvero quello di
evidenziare le ambiguità e le incongruenze presenti nelle affermazioni sulla
realtà e quindi si è data l’obiettivo di “smascherare teorie assurde” (Urmson,
1956, p. 198). Tuttavia, l’analisi filosofica può identificare l’irrazionalità, ma non le ragioni per cui tante
persone razionali mantengono delle convinzioni assolutamente irrazionali.
L’analisi filosofica deve quindi lasciare spazio proprio all’analisi psicologica delle ragioni per cui le
persone subiscono il fascino dell’irrazionalità. Se anche i migliori filosofi
hanno fatto fatica ad esercitare fino in fondo la razionalità, si può capire
che psicologi e psicoterapeuti abbiano compiuto veri disastri teorici cercando
di offrire conoscenze “quasi mediche” per spiegare ipotetiche “patologie” della
“psiche”. Alcuni hanno cercato di “aggiornare” in termini (pseudo)scientifici
vecchie concezioni metafisiche, mentre i più entusiasti hanno cercato di
scoprire le “leggi della mente” riducendo la vita vissuta delle persone ad
improbabili sequenze causali. Una teoria non è scientifica per il fatto che
individua delle cause e degli effetti, ma per il fatto che formula delle
inferenze falsificabili e verificate. Poiché i sassi cadono per delle cause
facilmente identificabili mentre le persone si abbracciano o si insultano
perché “hanno sempre in mente qualcosa”, ogni concezione causale delle azioni
delle persone è necessariamente speculativa o banale. Ernest Nagel (1957) ha
chiarito in modo abbastanza convincente che non esiste una conflittualità
insanabile fra spiegazioni causali e spiegazioni formulate in termini di scopi
e che non è necessario negare il principio di causalità per ragionare
scientificamente in termini di scopi. Possiamo quindi salvare il principio di
causalità anche rifiutando le semplificazioni causali meccanicistiche e
analizzando rigorosamente gli scopi (razionali o irrazionali) delle persone. In
ogni caso, sicuramente possiamo parlare di spiegazioni intenzionali senza fare
presupposizioni vitalistiche o comunque speculative (cfr. anche Searle, 1983 e
Dennett, 1987).
E’
fin troppo facile definire l’irrazionalità come mancanza di razionalità ed è
facile anche definire la razionalità come uso della ragione. E’ meno scontata,
invece, la definizione di ragione. Nei dizionari filosofici, infatti, il
termine viene in pratica spiegato con l’elenco dei sistemi filosofici che hanno
illustrato il concetto in questione e lo stesso concetto di uomo. Quindi,
abbiamo il logos dei greci, la ratio dei latini, le complicazioni
speculative della scolastica medioevale e i grandi sistemi dei secoli
successivi. Un disastro. Inoltre, nella comunicazione quotidiana spesso si
associa il concetto di razionalità ad atteggiamenti pedanti, anaffettivi,
inutilmente complicati. Pur lasciando da parte questa idea svalutativa della
razionalità che indica solo alcuni usi distorti e inappropriati della ragione,
dobbiamo riconoscere che non è facile definire in modo soddisfacente la razionalità,
anche se sicuramente riteniamo che tale risorsa sia indispensabile quando
dobbiamo risolvere dei problemi.
La
razionalità si manifesta prima di tutto nella logica e ci consente di
argomentare in modi che non dipendono dall’ambiente sociale a cui apparteniamo
o dalle nostre inclinazioni soggettive. L’idea che non possano essere vere due
affermazioni contraddittorie non dipende dalla cultura occidentale o dallo
stato d’animo del momento, ma dal fatto che non possiamo nemmeno immaginare che
siano veri due enunciati contraddittori. La logica però non ci aiuta a
conoscere la realtà. Qualsiasi conoscenza presuppone la logica ed i suoi
vincoli, ma risulta tale solo se descrive o spiega “adeguatamente” i fatti. Il
nostro rapporto con la realtà osservabile richiede, quindi, un altro impiego
della razionalità: se la logica è razionale in quanto ci consente di
riconoscere verità assolutamente certe ma anche “vuote”, la conoscenza
scientifica è razionale in quanto ci aiuta a raggiungere delle conoscenze sulla
realtà non assolutamente certe, ma fondate e controllabili. La razionalità, inoltre,
è fondamentale anche nella dimensione pratica: le decisioni si considerano in
genere razionali nella misura in cui a) realizzano i desideri dei soggetti, b)
sono fondate su convinzioni a loro volta razionali, c) richiedono costi
accettabili per i risultati ottenibili. In questa prospettiva, Bertrand.
Russell ha sottolineato che la ragione non ha a che fare con gli scopi, ma solo
con l’adeguatezza dei mezzi per conseguire gli scopi (cfr. Nozick, 1993, p.
98). Tuttavia, i fatti che abitualmente consideriamo irrazionali e le
loro conseguenze devastanti ci obbligano ad appoggiarci a qualche “straccio di
idea” che non circoscriva la razionalità ai sillogismi, alla scienza e alla
capacità di essere efficienti nel raggiungere un (qualsiasi) obiettivo pratico.
Da un lato, quindi, non possiamo definire “razionali” i campi di concentramento
semplicemente perché erano caratterizzati da una notevole efficienza e da un
altro lato non possiamo etichettare come irrazionale qualsiasi opzione a noi
sgradita. La razionalità è difficile da definire appena si entra nell’ambito delle
scelte, delle valutazioni e delle decisioni. Purtroppo, secondo la “toccante”
immagine di Otto Neurath (1932-1933, p. 56), dobbiamo riparare la nave mentre
siamo in viaggio e lontani da un porto sicuro e attrezzato.
Poiché
proprio sul terreno delle scelte ci
giochiamo la nostra vita reale abbiamo bisogno di individuare un’idea di
razionalità a cui riferirci per valutare non solo l’efficacia delle scelte
rispetto a fini già dati, ma anche la
ragionevolezza dei fini. dei desideri e delle emozioni. Solo così possiamo
mettere in discussione le giustificazioni ideologizzate degli atteggiamenti distruttivi.
L’esigenza di una definizione “dilatata” della razionalità non è un’esigenza
solo mia: è stata espressa anche in ricerche di noti filosofi e psicologi. Jon
Elster, contrapponendo una teoria “parziale” ad una teoria
“completa” della razionalità, ritiene che desideri “non autonomi” possano
essere considerati irrazionali (1983, p. 33), Wilhelm Reich (cfr. 1945; 1946) ha evidenziato
l’aspetto “irrazionale” delle rigidità caratteriali e delle ideologie
autoritarie e Roy Schafer ha interpretato le emozioni come azioni
manifestate dalle persone (cfr. 1976, p. 357) consentendo,
quindi, un approfondimento delle riflessioni sulla razionalità delle emozioni.
Anche Robert Nozick ha avvertito l’esigenza di dilatare l’idea di razionalità
pratica (cfr. 1993, p. 189). Non voglio ora esaminare tali concezioni e i loro limiti, ma
voglio solo sottolineare che l’idea di una possibile razionalità o irrazionalità
di desideri, emozioni, atteggiamenti, scelte, progetti di vita è un’idea che ha
sollecitato interessanti riflessioni in studiosi sicuramente autorevoli e non è
una stramberia partorita dalla mia mente. Quindi, proprio l’idea di una
razionalità riferita a tutti gli ambiti
in cui le persone si esprimono merita di essere sviluppata sul piano filosofico
e su quello empirico-psicologico.
I
sentimenti non possono essere opposti alla razionalità perché, anche se a
volte sono bizzarri, possono risultare perfettamente
comprensibili. Se si considera irrazionale la “folle passione” della gelosia
si deve tener presente che anche l’amore è una passione e risulta
perfettamente comprensibile come disponibilità ad aver cura di sé e degli
altri. Ci deve quindi essere uno spartiacque concettuale che possa
giustificare una distinzione fra emozioni come la gelosia, la litigiosità, l’arroganza, il timore
delle critiche da un lato e l’amore, la gioia, la tristezza da un altro lato. E
che possa anche giustificare una distinzione fra desideri incomprensibili (la brama di potere o il
bisogno di accettare acriticamente qualsiasi sciocchezza) e desideri
comprensibili come la ricerca del piacere per sé e per gli altri, la voglia di
conoscere e la determinazione ad affrontare le situazioni difficili. Ci deve essere anche un concetto adatto a giustificare una distinzione fra modi di vivere
basati sulle abitudini, sulle distrazioni, sui rituali sociali e modi di vivere
basati sulla realizzazione di rapporti intimi e sull’impegno a costruire un
mondo migliore. Io credo che lo spartiacque concettuale che separa tipi molto diversi di emozioni, desideri e scelte sia proprio lo spartiacque
che separa la razionalità dall’irrazionalità. Credo inoltre, come cercherò di dimostrare, che l’irrazionalità dipenda
dalla paura di accettare il dolore che fa parte della realtà.
Procederò
per gradi e cercherò di spiegare in termini semplici dei concetti complessi, di
riportare fatti precisi e di fare argomentazioni articolate. Prima di tutto voglio
riportare una seduta, perché il lavoro svolto chiarirà che l’irrazionalità degli adulti è la razionalità dei bambini esercitata in
un contesto diverso da quello dell’infanzia.