Un
cliente, che chiamerò Daniele, mi parla nel primo colloquio della sua
situazione lavorativa che di recente è peggiorata sensibilmente.
D.
Non ho più molto da offrire alla mia famiglia e mi chiedo dove abbia sbagliato.
Sicuramente avrei dovuto prevedere
alcune difficoltà e correre ai ripari finché ero in tempo. Sono un piccolo
imprenditore e le capacità organizzative costituiscono il nucleo della mia
professionalità. L’idea che mi frulla in testa è che forse non valgo nulla
e che se non valgo nulla potrò solo peggiorare le cose prendendo qualche
decisione. Questo stato d’animo non mi paralizza del tutto, ma mi impedisce di
muovermi in una direzione precisa. Mesi fa ne parlai con un amico che è una
persona religiosa e mi rasserenai un po’, perché dal suo punto di vista le cose
non capitano per caso e sono un’occasione per migliorare se stessi. Io non ho solide
convinzioni religiose, ma quella lettura dei fatti mi diede un po’ di pace.
Presto però tornò il senso di inutilità e di fallimento. Mia moglie (Laura) cerca
di essere comprensiva, ma è più distante, da quando le cose non vanno per il
verso giusto. Di fatto non si coinvolge nelle valutazioni della situazione e
non propone nulla, ma si aspetta qualcosa da me, perché lei è molto presa dalla
gestione della casa e dei figli. Una volta mi ha detto “Decidi come vuoi, ma
decidi qualcosa!”. Io trovo imperdonabile la mia incapacità di lavorare con sufficiente prudenza e lungimiranza e
il fatto di aver messo in difficoltà la mia famiglia. Non posso accettarmi e credo
di non poter essere accettato da mia moglie. Dovrei trovare una soluzione,
magari tardiva, ma tale da farmi sentire meglio e da farmi riconquistare Laura.
Non sopporto di essere semplicemente “sopportato”.
[Ho
messo in corsivo le espressioni “ipnotiche” della comunicazione, quelle che
distolgono dal contatto con la realtà e con le emozioni corrispondenti. Da
questa presentazione dei fatti risulta chiaro che Daniele non prova compassione
e nemmeno benevolenza per sé; ha commesso errori che, a suo parere, lo rendono
non accettabile come persona. In questo grammo di pensiero si coagulano
tonnellate di (cattiva) filosofia. Le più radicate idee metafisiche (quelle
sulla “natura” umana e sul “dover essere”) contribuiscono alla costruzione di
una grande illusione che ammazza la conoscenza e la compassione. Anche le idee
psicoterapeutiche sulla “autostima” servono a poco, perché Daniele ha validi
motivi per stimarsi poco, dato che ha commesso degli errori, ma non ha alcun
motivo per non ritenersi amabile, così come non ha alcun motivo per
maltrattarsi colpevolizzandosi.
La
convinzione disturbante e irrazionale di Daniele non è quella di aver commesso
errori, ma quella di poter essere amato solo per certi “meriti” che non può più
esibire. Tale convinzione, per quanto diffusa, è assurda, perché se fossero
amabili solo le persone utili saremmo portati ad odiare tutte le persone poco
utili (disoccupati, pensionati, disabili, ecc.) e non potremmo concepire alcuna
benevolenza per gli animali non sfruttabili in qualche modo. Soprattutto, non
potremmo amare i bambini, ma li sopporteremmo nell’attesa di vederli cresciuti
e finalmente utilizzabili. La convinzione di Daniele determina inevitabilmente
stati d’animo rabbiosi nei confronti di sé e un timore infondato nei confronti
di Laura, la quale o continua ad amarlo nonostante i suoi limiti, oppure non lo
ha mai davvero amato.
In
genere cerco già nel primo colloquio di iniziare un lavoro volto a mettere in
gioco idee e sentimenti diversi da quelli difensivi che bloccano il contatto
con la realtà, ma con Daniele ho preferito aspettare. Mi aveva fatto il quadro
dettagliato della situazione anche sul piano pratico (la situazione della sua
azienda, le responsabilità proprie e dei soci, le conseguenze di ogni scelta
possibile) e dopo più di tre ore non me la sentii di “aprire delle porte” su
scenari che comunque ci avrebbero richiesto riflessioni impegnative. Concordai
con lui un secondo colloquio senza limiti di tempo, perché volevo rendere
possibile a me e a Daniele la comprensione di alcuni aspetti emotivi non
considerati. Iniziai quindi il secondo colloquio proponendogli un lavoro che
forse avrebbe consentito di acquisire una maggior consapevolezza di alcuni
fatti.]
GF.
Vorrei chiederle di fare una piccola “recita”, come a teatro, solo per farle osservare
cosa sente in quella situazione immaginaria. Poi verificheremo se tale esperienza
può far luce sui suoi sentimenti disturbanti. Questo lavoro non è un test, con
risposte giuste o sbagliate, perché l’obiettivo delle sedute è capire come
stanno le cose. Vorrei quindi mettere a fuoco assieme a lei le cose che “da
qualche parte” già conosce.
D.
D’accordo.
GF.
Allora, immagini di essere sua moglie. Non deve pensare a sua moglie, ma
mettersi nei suoi panni, nella sua pelle, nel suo corpo. Deve provare a sentire
che le sue gambe accavallate sono femminili come quelle di Laura e che ciò che
prova interiormente è di Laura. Da quella nuova prospettiva cerchi di vedere
Daniele di fronte a sé.
D.
E’ difficile.
GF.
Abbiamo tempo. Mi faccia un cenno quando si sente calato in Laura e da allora
agisca e mi parli come Laura.
D.
(…) OK.
GF.
Ora, guardi Daniele. Lo osservi in un momento in cui è particolarmente avvilito
e mi dica cosa prova nella posizione di Laura.
D.
(Laura) Mi sento preoccupata. Daniele non prende una decisione. Possiamo
muoverci in direzioni molto diverse e le conseguenze saranno importanti. Ho
paura che faccia la scelta sbagliata. Sono preoccupata per i bambini e sento
ansia. Io non mi sento bene nell’incertezza e Daniele è sempre stato un punto
di riferimento per me.
GF.
Quindi è lui che deve decidere?
D.
(L) Certamente! Abbiamo personalità diverse. Io non sono portata a decidere.
GF.
Cosa sente, ora?
D.
(L) Ansia. Mi sento anche sola, come se Daniele fosse lontano.
GF.
E come crede che si senta Daniele?
D.
(L) Che strana domanda! Non lo so. Vedo che è preoccupato.
GF.
E cosa sente per lui?
D.
(L) Beh, vorrei fosse tranquillo. Se lui è tranquillo siamo tranquilli tutti. Temo
che Daniele crolli, che si arrenda. Che mi lasci nell’incertezza.
[Nei
panni di Laura, Daniele non riesce proprio a preoccuparsi per Daniele. Questa
stranezza non è notata e sembra data per scontata. Voglio quindi provare a
chiarire le ragioni dei sentimenti di entrambi.]
GF.
Si è mai sentita nell’incertezza?
D.
(L) [Commozione, occhi arrossati, una lacrima, poi si riprende]. Sì. Da piccola
mi occupavo di mio fratello perché i miei lavoravano. Una volta cadde e
sbiancò. Era pallido come un lenzuolo e temevo morisse. Non sapevo che fare. In
un certo senso non sapevo mai che fare con lui. Non era come giocare con una
bambola. Non finiva mai di piangere e io non sapevo che fare.
GF.
Lo sapevano i suoi genitori?
D.
No. Quelli non sanno un cazzo di niente!
GF.
Chi sta parlando? Daniele o Laura?
D.
Scusi, è una mia idea. La lasciavano sola, la incolpavano di essere una
bambina. E’ così bella quando è allegra, ma quegli idioti non sanno cosa sia la
bellezza.
GF.
Mi sembra che lei sia molto sensibile alla sofferenza di Laura.
D.
Sì. Ha un sorriso bellissimo e quando sta male quel sorriso scompare nel buio.
GF.
Provi a tornare nei panni di Laura e trovi le
parole di Laura per descrivere quella sofferenza.
D.
(L) Le parole potrebbero essere “non ce la faccio”. [Lacrime. Poi si riprende.]
GF.
Di chi sono quelle lacrime? Di Laura o di Daniele?
D.
Non lo so. Forse di entrambi.
GF.
Forse è presto, ma possiamo darci del tu?
D.
Per me è meglio.
GF.
OK. C’è una storia? C’è una storia che conduce alle lacrime di Daniele?
D.
Può essere.
GF.
Se non hai ricordi, inventa una storia.
D.
E’ una storia breve. Non c’è niente di niente. Niente da raccontare, nessuno
che ascolta. Nessuno che sente. Però non mi piace piangermi addosso.
GF.
Nemmeno a me piace. Piangere però non equivale necessariamente a “piangersi
addosso”.
D.
Ho pianto una volta al Pronto Soccorso quando portammo mio figlio. Per fortuna
non risultò nulla di grave, ma mi sembrava di impazzire vedendolo star male,
così piccolo.
GF.
Ti commuovi facilmente per gli altri, non per te. Tu sei mai stato piccolo?
D.
Ho capito dove vuoi arrivare. E’ questo l’inconscio da “scavare”?
GF.
No, non fare queste battute con me. Abbiamo l’obiettivo comune di capire una
situazione delicata e non di giocare con le parole per dimostrare chi è più
furbo fra noi due. Forse ora sei un po’ stanco, ma ti chiedo un altro piccolo
sforzo, poi proveremo a delineare il quadro generale. Ti chiedo di rispondermi
“così come viene”. Non cercare di darmi risposte intelligenti o convincenti.
Nella prospettiva religiosa del tuo amico, la tua vicenda rientrava in un piano
e tu hai tratto serenità dall’idea di un piano che potesse includere la tua
difficoltà come occasione di crescita e quindi come tappa di un percorso
spirituale. Ti chiedo di immaginare, come bambino, non come laureato o imprenditore,
cosa succede alla fine di quel lungo percorso spirituale.
D.
(Sorride). Mi siedo su un sasso. C’è molto verde nella valle. Mi trovo in un
paradiso un po’ bucolico.
GF.
C’è qualcuno con te?
D.
(Commosso) C’è una mano sulla mia spalla. (Piange sommessamente, ancora un po’
a disagio).
GF.
(…) Cosa senti?
D.
Mi sento malissimo. Però mi sento anche più in pace … E’ strano: in questo
stato d’animo non riesco più a detestarmi per i problemi che non ho risolto sul
lavoro. Non so nemmeno se riuscirò a sistemare le cose, ma ora non sento più la
“pressione” delle mie accuse. Spero di prendere decisioni sensate, ma ho già
molte pressioni esterne e non è bello che io aggiunga ad esse il peso delle mie
pressioni. Non so se c’entra: ho sempre considerato i miei soci come degli
ostacoli da affrontare. Per certi aspetti lo sono sicuramente, ma non ho mai
ammesso, fra me e me, di aver bisogno del loro aiuto. Ho sempre pensato a ciò
che io avrei potuto fare per trovare soluzioni ai problemi che loro creavano e
solo ora penso che vorrei fossero una risorsa e non un problema.
[Questo
secondo colloquio è proseguito con il racconto della storia personale di
Daniele. Una storia di responsabilità, in cui nessuno considerava Daniele come
un soggetto, cioè un bambino, un ragazzo o un uomo con esigenze e sentimenti.
Una storia in cui anche Daniele si pensava come l’artefice della felicità o
dell’infelicità degli altri. Sua madre era depressa e suo padre era infelice
per la propria situazione. L’unica infelicità “irrilevante” o “impensabile” era
quella di Daniele: era considerato troppo piccolo per soffrire “davvero” ed era
“per definizione” anche abbastanza grande per arrangiarsi.]
A
questo punto voglio sottolineare quattro aspetti del lavoro svolto.
1.
Non ho tentato di “diagnosticare” il disagio che Daniele mi ha “portato” (cioè
di ricondurlo a qualche “patologia” lieve o grave) e non ho architettato nulla
per ridurre tale disagio e per promuovere uno stato di “benessere” o di
“rilassamento” o per aumentare la sua “autostima”. Ho cercato di capire cosa
stesse facendo Daniele con sé e con
la moglie, quali pensieri attivasse
fra i mille possibili, quali comportamenti scegliesse
fra i mille possibili; ho cercato soprattutto di capire per quali ragioni, di
fronte alle difficoltà oggettive del momento, costruisse un approccio poco ragionevole, inconcludente e
auto-svalutativo.
2.
Per capire le ragioni di ciò che Daniele faceva ho cercato informazioni da Daniele e non ho cercato di inserire
nella sua storia i processi universali della psiche individuati da qualche intellettuale.
Ho utilizzato una delle tante tecniche possibili, ma solo strumentalmente, per
capire meglio cosa Daniele sentisse. La tecnica usata è l’aspetto meno
significativo di tutto il colloquio, perché avrei potuto cercare risposte alle
stesse domande lavorando in altri modi (più “discorsivi” e focalizzati
sull’analisi dei ruoli o più “fisici” e focalizzati sullo stare “in alto” o “in
basso”).
3.
Sono stato informato su alcuni fatti antichi
(di Laura e di Daniele) e su alcuni fatti recenti: la scarsa attenzione di
Laura verso Daniele, la scarsa attenzione di Daniele verso se stesso e la sua
estrema sensibilità nei confronti di altre
persone in condizioni di debolezza. Ad essere pignoli, la scarsa empatia verso
Daniele da parte di Laura non è un fatto accertato, ma è un fatto la
convinzione di Daniele su ciò che sente Laura. Ad essere pignoli, anche la
estrema empatia di Daniele per i “deboli” non è autentica o è solo in parte
autentica, perché è strumentale all’interno di un gioco rassicurante che lo
mantiene dissociato dal proprio desiderio
di ricevere sostegno e lo allontana dalla consapevolezza dei propri vissuti dolorosi.
4.
Solo alla fine mi sono permesso di formulare una congettura, ma allo scopo di
falsificarla o di confermarla. Nelle sedute, le conferme e le falsificazioni, si
ricavano dalle reazioni dei clienti a certi fatti. In questo caso ho suggerito
a Daniele la possibilità che la sofferenza attribuita a Laura potesse essere la
propria. Mostrandosi commosso, egli ha confermato la congettura e ha messo a
fuoco la tendenza a negare il proprio
antico bisogno insoddisfatto di un sostegno. Se gli avessi fatto considerare
ipotetici affanni dovuti alla competizione con il padre, mi avrebbe
semplicemente risposto “può essere”. Daniele ha invece aggiunto ulteriori considerazioni ed ha risposto emotivamente in modo significativo.
Nel
lavoro analitico credo sia utile aiutare le persone ad esplicitare ciò che già
sanno, “da qualche parte”, sui motivi per cui fanno cose non ragionevoli.
Chiarire come stanno le cose comporta sempre un dolore, cioè un’emozione con
cui le persone hanno poca familiarità e che la stessa cultura tende a negare o
a deformare. Il lavoro analitico diventa un processo di cambiamento se (e solo
se) il cliente accetta il dolore della sua storia personale e decide di vivere
la vita che ha a disposizione e non solo quella parte di essa che esclude il
dolore. Vorrei ora esaminare due possibili letture del lavoro iniziale svolto
con Daniele. Due possibili letture alternative alla mia, ovvero due tentativi
diversi (e scorretti) di mettere in ordine gli stessi fatti.
Prima
lettura causale della seduta. Daniele era depresso a causa
del mancato accudimento infantile e alla fine della seduta si è sentito meglio
perché ha fatto con me un’esperienza “riparativa”: è stato accolto, ascoltato,
confermato nel suo diritto di provare bisogni e sentimenti. Francamente, l’idea
che dopo quarant’anni Daniele si senta meglio con se stesso perché una persona
gentile e disponibile, mai conosciuta prima, fornisce in poche ore
un’esperienza correttiva o riparativa, mi sembra bizzarra, anche se
“gratificante” per un mio (eventuale)
bisogno di sentirmi indispensabile. Mi sembra soprattutto contraddetta dai
fatti, dato che anche l’amico religioso di Daniele era stato gentile e
disponibile. Resto quindi dell’idea che Daniele abbia provato emozioni diverse
da quelle abituali in seguito alla comprensione delle ragioni per cui tendeva
ad essere molto sensibile verso gli altri e distaccato da sé.
Seconda
lettura causale della seduta. Daniele provava emozioni disfunzionali
perché esercitava pressioni eccessive su di sé e si è sentito meglio
ristrutturando il proprio quadro cognitivo della situazione. Questa ipotesi
interpretativa mi sembra più ragionevole dell’idea di un mio ruolo “nutriente.
Tuttavia, dubito che la semplice comprensione della propria eccessiva tendenza
a farsi pressioni possa essere stata determinante, dato che molti alcolisti
sanno benissimo di bere “troppo” e alcuni sono anche convinti di aver sofferto
nella vita, ma continuano a bere. Daniele ha sentito (con facilità) il dolore di Laura ed ha poi sentito (in seguito alle mie
sollecitazioni) che quel dolore attribuito a Laura era il proprio dolore, da sempre negato. Solo la comprensione di una
situazione accettata in termini emozionali è di aiuto. E non serve a “star
bene”, ma a stare con se stessi. Quasi tutti i clienti che lavorano con me dopo
aver fatto psicoterapia per mesi o anni sono consapevoli di aver sofferto molto
da piccoli, ma conservano immutati i loro atteggiamenti non analizzati come
strategie difensive. La conoscenza di un generico rapporto fra passato e
presente, a mio parere, è irrilevante, perché la sofferenza evitata con sintomi
e difese di vario tipo è una sofferenza attuale
e non è il semplice “ricordo” di sofferenze antiche. Infatti, nel presente le
persone continuano a sentire il bisogno
di accudimento e, come nell’infanzia, non possono soddisfarlo: da bambini non
potevano trovare appagamento perché i genitori erano indisponibili e nel
presente non possono trovare quel tipo di appagamento perché, anche se ricevono
amore, fanno un’esperienza bellissima fra
pari, ma non fanno un’esperienza rassicurante (possibile solo se si è
piccoli con persone “grandi”). Proprio l’accettazione del dolore attuale rende superflue le manovre difensive e genera un nuovo dialogo interno compassionevole
ed emotivamente ricco.
Entrambe
le letture causali (e molte altre possibili) trascurano un fatto importante:
Daniele ha provato un’emozione nota, ma abitualmente non riconosciuta come
propria, perché riconosciuta solo negli altri. Egli ha espresso un’emozione attuale,
anche se sollecitata da un esame dei bisogni “antichi” di Laura e da un
collegamento fra i bisogni di Laura ed i propri
bisogni. Qualsiasi concezione causale dell’autosvalutazione di Daniele trascura
il fatto che il colloquio svolto non ha “aggiustato” nulla che fosse
“danneggiato”: ha consentito a Daniele (grazie ad uno dei tanti possibili
espedienti tecnici) di comprendere che nel presente provava una sofferenza
simile a quella che attribuiva solo agli altri e che sapeva di aver
provato anche da bambino, ma che non sentiva fin dall’infanzia. Questo
collegamento fra esperienza emotiva e comprensione della strategia difensiva porta
a considerare errate anche le “spiegazioni” causali di tipo “energetico”,
secondo le quali lo “sblocco” dell’emotività è capace di “curare” squilibri o
antiche “ferite”. Non a caso, tante persone che hanno fatto esperienze
“terapeutiche” consistenti in massicce manipolazioni fisiche o intense
attivazioni della respirazione (senza chiarire il significato espressivo o
difensivo delle loro emozioni) ricordano di aver urlato, pianto e apprezzato
molto il lavoro svolto, ma riconoscono di non aver poi cambiato nulla nella
loro vita.
Il
pianto ha senso solo se esprime l’accettazione di una mancanza realmente
sentita e compresa. Come mai proprio il pianto (quello “vero”, e non il
“piangersi addosso”) scioglie il nodo costituito da idee sballate
autosvalutative e da sentimenti sballati di rabbia colpevolizzante? Il pianto
aiuta ad arrendersi ad una mancanza reale, compresa e sentita, ma non può
“sanare” ciò che è accaduto. L’idea che piangere oggi “curi” una patologia
causata da esperienze passate o da fattori attuali non sta in piedi perché il
pianto, nel lutto, esprime semplicemente la resa ad un fatto. Il lutto non
cambia i fatti avvenuti. Le “vere” terapie sono gestite dai medici (quelli
veri) e alterano i fatti (le patologie organiche che includono anche quelle
neurologiche), mentre i cambiamenti dei progetto di vita difensivi sono gestiti
dalle persone stesse e non cambiano i fatti. Il lavoro analitico (non
psicoanalitico o psicoterapeutico) che svolgo fornisce solo spunti utili per le
ridecisioni personali, ma non “cura”
proprio nulla. Anche la psicoterapia non cura nulla, ma gli psicoterapeuti sono
convinti del contrario.
Negli
incontri successivi Daniele ha cercato di distaccarsi da ciò che aveva compreso
e sentito ed ha anche trovato altri modi per colpevolizzarsi. Ho quindi dovuto
fare il possibile per fargli mantenere la rotta. I clienti, infatti, desiderano
cambiare ma hanno anche paura di cambiare davvero. Ho scelto di esaminare
questo colloquio proprio perché è stato lineare e in un certo senso “facile”,
ma tale esempio consente di capire un processo che si verifica anche in
situazioni più complesse e stratificate.
Il
lavoro svolto con Daniele consente di “toccare con mano” il collegamento strettissimo fra il dolore
negato e un insieme di convinzioni, desideri, emozioni e comportamenti che
possiamo sicuramente considerare irrazionali. Affermare che una persona è
“affetta” da attacchi di panico a causa
di particolari maltrattamenti subiti in un lontano passato è logico come
affermare che oggi i provvedimenti bizzarri del governo sono l’effetto
dell’invasione degli Unni o della prima guerra mondiale. Noi possiamo zoppicare
a causa di un trauma fisico risalente ad un lontano passato, ma non possiamo agire oggi a causa di ciò che ci è capitato nell’infanzia. Semmai
possiamo agire in un certo modo perché nel presente inconsciamente manteniamo un progetto da noi costruito
nell’infanzia. La “lettura” della seduta svolta con Daniele non ha radici
nella storia della filosofia occidentale ed orientale e non ha nemmeno radici
nella storia della psicologia e della psicoterapia. Anzi, ha solide radici in alcune componenti marginali della storia della filosofia, della psicologia ed anche
della psicoterapia. Le concezioni filosofiche, psicologiche e psicoterapeutiche
più note, tuttavia, schivano il tema del dolore di vivere. Il tipico filosofo
nichilista è “distaccato” dal dolore come il “terapeuta” che applica protocolli
di terapia “evidence based” volti a produrre benessere. Il tipico filosofo che
rimugina sulla “angoscia esistenziale” o cerca forme di salvezza trascendenti è
“ottimista” come il “terapeuta” che cerca di offrire “sostegno” ai “pazienti”.
Daniele
si era inventato di essere amabile a
condizione di far finta di essere un altro (un bambino senza bisogni
affettivi e “responsabile”). Inoltre, non avendo potuto appagare da bambino il
bisogno di un’accettazione incondizionata e non avendo mai elaborato (e
superato) quel dolore, continuava a provare anche nella sua vita adulta un
bisogno “antico” di accettazione “protettiva”. Non solo: continuando a
provare quel bisogno e continuando a temere di provare frustrazioni dolorose
(classificate fin dall’infanzia come insopportabili), continuava inconsciamente
anche a relazionarsi con gli altri (e con Laura) in modo da non sembrare se
stesso. Viveva “poco” pur di non soffrire.
Di fatto creava ulteriori sofferenze, ma superficiali
e intrise di vaghe speranze.
Questa lettura dei fatti funziona anche se si analizzano le difese di persone
inclini a sentirsi “confuse” o “bisognose” o sempre allegre.
Moltissime
persone (e non solo i miei clienti) sono aggrappate alla pretesa di soddisfare
un particolare bisogno che costituisce
l’unico vero e reale interesse di tutta la loro vita: ottenere da qualcuno
“qualcosa” che le faccia sentire bene, “a posto”, “al sicuro”, “importanti”, e
così via. Questo bisogno, che è “il” bisogno di tutti i bambini e che non è quasi
mai appagato dai genitori, è un bisogno doloroso e spaventa terribilmente i
bambini. Gli adulti possono interessarsi realmente
a qualcosa (a se stessi, ai loro cari, alla realtà sociale) solo se danno una
risposta a quel bisogno. E l’unica risposta razionale nella vita adulta si
riduce sempre e comunque all’accettazione dell’impossibilità di un appagamento
ed alla dolorosa rinuncia a qualsiasi pretesa ed a qualsiasi speranza di poter
“essere fatti felici”. La felicità possibile agli adulti, infatti, non è quella
possibile ai bambini e riguarda il fare,
non il ricevere. Chi accetta il dolore inizia a farsi compagnia, a sentire
che non è solo mentre elabora, con il pianto, i propri vissuti di solitudine.
Grazie a tale esperienza può iniziare ad amarsi e anche ad amare gli altri.
Lavorando
per anni su convinzioni che i clienti mantenevano ma non giustificavano, su
desideri confusi, su emozioni incomprensibili e su inconsci progetti di vita
limitativi o distruttivi ho notato che l’irrazionalità si riduce essenzialmente
a macro o micro-strategie di cui le persone non hanno consapevolezza, volte a
mantenere un contatto con la realtà limitato o distorto. Da tali elementari, ma
non ovvie, osservazioni ho potuto sviluppare un’idea di razionalità che ha a
che fare con l’espressione compiuta delle
potenzialità personali in una realtà accettata per quello che è. La
razionalità investe, quindi, in tale accezione del termine, la capacità di
ragionare, spiegare i fatti, prendere decisioni utili, ma anche di elaborare il dolore, attivare desideri comprensibili,
esprimere emozioni comprensibili, mantenere un dialogo interno rispettoso,
provare empatia per gli altri, agire costruttivamente per il bene proprio e
degli altri, vivere con compassione, passione, benevolenza, senso della
meraviglia e commozione per ciò che si è e per la vita in cui si è immersi.