martedì 10 luglio 2018

3. L'elaborazione del dolore







Nella comunicazione quotidiana ed anche nei testi di psicologia si parla spesso di dolore psicologico (o tristezza) e di elaborazione del dolore (o “lavoro del lutto”), ma in modi approssimativi. Inoltre, nella letteratura specialistica, autori diversi hanno sempre dato e continuano a dare significati diversi a tali termini. Non potendo quindi disporre di definizioni precise e condivise, voglio esplicitare a cosa mi riferisco esattamente parlando del dolore e dell’elaborazione del dolore. Poiché le persone “stanno male” in modi molto diversi e non descrivono con chiarezza i loro stati d’animo spiacevoli voglio utilizzare il termine “dolore psicologico” come sinonimo di “tristezza” per indicare l’emozione con cui gli esseri umani accettano (senza attivare le difese psicologiche) la compresenza di un desiderio e dell’impossibilità di soddisfarlo. La parola “compresenza” è molto importante nella definizione che ho suggerito perché la semplice presenza di un desiderio non è dolorosa quando il desiderio è soddisfacibile e la semplice presenza di un’impossibilità non è dolorosa in assenza di un desiderio. Una persona può “distrarsi” (o dissociarsi) dal dolore bloccando le sensazioni che danno consistenza ad un desiderio oppure bloccando la consapevolezza di un’impossibilità e convincendosi “ottimisticamente” di poter “rendere possibile l’impossibile”: in entrambi i casi la persona continua a provare “da qualche parte” del dolore, ma non è in contatto con il proprio dolore. La negazione del dolore è deleteria, ma è molto frequente. Ad esempio chi porta a casa un cucciolo dopo la morte del proprio cane si ubriaca (più o meno consapevolmente, ma intenzionalmente) di nuove sensazioni piacevoli proprio per “soffocare” sia l’inevitabile permanenza del desiderio della presenza dell’amico scomparso, sia la consapevolezza dell’impossibilità di sostituire quel particolare animale con una qualsiasi simpatica bestiola. Una parte notevole dei pensieri individuali è costituita da strenui sforzi (intenzionali ma inconsci) volti ad alterare la consapevolezza dei desideri e/o dell’impossibilità di appagarli e tali sforzi hanno conseguenze disastrose a livello personale, interpersonale e sociale.
Lavorando negli anni con tante persone ho capito che i più consueti modi di “star male” costituiscono varianti “complicate” dell’ansia e della rabbia e interrompono la lucida e sentita consapevolezza del dolore, peggiorando gravemente la qualità della vita individuale e delle relazioni interpersonali. Il lavoro del lutto che cercherò di descrivere non è quindi uno dei tanti modi di reagire alle perdite dolorose, ma l’unico modo che non compromette la lucidità e la sensibilità delle persone e che quindi non determina ulteriori (inutili) sofferenze. In altre parole, il lavoro del lutto costituisce un aspetto essenziale della razionalità.
Consideriamo una situazione in cui una persona qualsiasi (che indicherò con la lettera X), sperimenta una perdita (come ad esempio la morte di una persona cara o il deterioramento della propria salute o l’impossibilità di realizzare un obiettivo a cui dava molta importanza). Indicherò questa perdita con la lettera P. Tale situazione è molto dolorosa perché il desiderio (che indicherò con la lettera D) era e resta intenso, mentre la risposta (P) della realtà è netta e immodificabile. Se la risposta fosse incerta X proverebbe ansia e cercherebbe di capire meglio come stanno le cose. Se la risposta fosse modificabile, X si attiverebbe con determinazione, con pazienza, con rabbia se necessario, ma non avrebbe motivo di arrendersi al dolore. Proverebbe solo il dolore di dover iniziare una battaglia che avrebbe preferito risparmiarsi, ma non proverebbe il dolore di una perdita perché la perdita sarebbe ancora incerta.
Nella nostra situazione ipotetica, X si trova a vivere la vita di prima che però ora non include più un elemento che sentiva come essenziale. La “cosa” ora mancante era stata un elemento qualificante del progetto di vita di X. Ora X ha ancora “una vita”, ma non quella che considerava la propria vita. Ora il progetto di vivere quella vita è stato annullato e “la vita che resta” non è quella che X aveva intenzione di vivere. Se X mantiene la propria lucidità, se non cerca di confondersi su ciò che sente e se non cerca nemmeno di “distrarsi”, giunge a rendersi conto del fatto che “è finito tutto”. Non proprio tutto, ma il “tutto” che aveva in mente. Sente che D permane e che in ogni istante P costituisce la risposta non gradita a D. Tale resa è razionale perché l’attesa ansiosa non serve quando si ha una certezza e l’attivazione combattiva non serve quando la battaglia è persa in partenza. Tale resa si traduce soprattutto nella contemplazione della propria vita che non corrisponde più a quella “prevista” e desiderata. In ogni momento D “chiama” e ogni volta P fornisce la risposta non voluta. Non è difficile accettare che un affare non sia andato in porto o che una proposta sia stata respinta: in questi casi si accetta una perdita che rientra “nella stessa vita”. X si trova invece ad avere un D profondamente legato alla “propria” vita e una P che sancisce l’inizio di un’altra vita. La resa a questo fatto è razionale perché rispetta la realtà del permanere di D e di P ed anche perché costituisce l’unico modo di trovare gradualmente una quiete: non la quiete dell’appagamento, ma quella dell’adattamento ad una situazione che è comunque data, anche se non è quella desiderata. Tale quiete è l’unico “miglioramento” ragionevolmente ipotizzabile della condizione iniziale di dolore acuto e straziante. Non elimina il dolore, ma consente di integrarlo e di renderlo gradualmente meno intenso. Consente anche di trovare prima o poi un coinvolgimento emotivo nella “vita che resta”.
E’ certamente “comodo” ma inutile e dannoso “ridimensionare” D (ingannando se stessi) oppure sostituire la semplice consapevolezza di P con l’idea “brillante” che P “non doveva accadere” o con l’illusione che un evento futuro “potrà compensare” la perdita subita. A volte P dipende da una vicenda che è stata ingiusta, ma il punto essenziale sta nel fatto che P è un fatto definitivo. Che una persona cara sia morta per colpa di un pirata della strada o per un infarto non modifica la perdita di chi amava tale persona. Anche il fatto che la perdita di un/una partner avvenga in seguito ad un decesso o ad una separazione lascia lo stesso vuoto se non ci si distrae pensando ai dettagli irrilevanti. In ogni caso, solo l’accettazione della “propria” vita (persa) e dell’insoddisfazione per la “nuova” vita consente di prendere gradualmente confidenza con tale nuova vita ed anche con i suoi aspetti apprezzabili. Ci vuole tempo per abituarsi ad una situazione nuova e per vederne i lati positivi, ma questa confidenza può essere reale solo se permane il rimpianto per la vita che è stata annullata da P. Frasi banali come “devi fartene una ragione” o “cerca di distrarti” sono purtroppo normali, ma assurde. Il lavoro del lutto, inteso come costante, lucida e sofferta attenzione a D e P, è un processo molto lento e doloroso, ma salva la vita che resta, mentre la dissociazione dal dolore lascia la persona “bloccata” e rovina la vita che resta. Ogni lutto non attraversato costringe la persona a mantenere attive delle rigidità nel pensiero, nelle manifestazioni emotive ed anche nel corpo, che costituiscono reali intralci al godimento (prima o poi possibile) di nuove situazioni. Noi possiamo superare anche perdite devastanti, ma solo se non prendiamo la scorciatoia della finzione: del fingere che ciò che abbiamo perso non fosse importante o del fingere che possa essere rimpiazzato.
A volte viene voglia di pensare “Ma cosa ho fatto di male per meritarmi tutto ciò?”, oppure “Non posso mica piangere tutto il giorno!”, oppure “Ma perché capitano proprio a me queste cose?”, oppure “Avrei dovuto, avrebbe dovuto, avrebbero dovuto …”, oppure “Non posso crederci!”, oppure “Devo ‘tirarmi su’ con qualcosa di allegro”, oppure “Forse potrei rilassarmi leggendo il giornale (o facendo meditazione o bevendo un grappino)”, oppure “Ho bisogno di parlare con qualcuno perché da solo non ce la faccio”, e così via. La lista delle sciocchezze è lunga e tutti hanno sviluppato nell’infanzia una particolare propensione a drogarsi di particolari sciocchezze. Di fatto, distrarsi con una sciocchezza “mentale” o con una “canna” o con una lite o con la TV non cambia i fatti: la “vita che resta” non corrisponde a quella desiderata. Se abbiamo perso un figlio, vediamo dei bambini e pensiamo a lui, vediamo degli adulti e pensiamo che sarebbe diventato un adulto meraviglioso, vediamo una gelateria e pensiamo che era goloso di gelato, vediamo un ospedale e pensiamo alla sala parto in cui era nato. In pratica “siamo sempre lì”. Questa non è ostinazione, “farsi del male” o “depressione”, ma pura e semplice consapevolezza di un attrito reale ed attuale fra D e P. L’attrito deve “procedere” ed essere favorito perché tale processo riduce con il tempo il dolore, così come la carta vetrata lentamente smussa le asperità di un pezzo di legno. Il dolore elaborato con il lavoro del lutto, prima o poi si riduce. Non si annulla mai, ma si attenua. Dopo mesi o anni il dolore resta, ma sullo sfondo. Non costituisce più la “figura” al centro della consapevolezza di sé. Prima o poi accade qualcosa, senza sforzo: non ci si sveglia con il pensiero di D e il dolore di P e non si sente il bisogno di piangere prima di prendere il caffè. Si pensa alla giornata che inizia come ad una giornata in cui si faranno delle cose e non come ad una giornata in cui non si potrà fare ciò che “davvero” si vorrebbe. Si inizia a provare interesse per cose nuove che all’inizio del lutto sembravano solo l’elemento carino di un incubo e ci si sente disponibili ad aver cura di ciò che comincia a risultare significativo nella vita che resta.
L’elaborazione del dolore si realizza nel pianto. Il pianto è fondamentalmente una “resa” sul piano fisiologico, così come l’orgasmo. Nell’orgasmo ci si arrende al piacere ed alla persona che soddisfa il nostro desiderio, mentre nel pianto ci si arrende al dolore e ad una realtà che non soddisfa il nostro desiderio. Nel pianto e nell’orgasmo un’onda attraversa ripetutamente tutto il corpo (dando forma ai singhiozzi del pianto o ai movimenti involontari dell’orgasmo) e lascia la persona fisicamente priva di tensioni fisiche e interiormente “morbida”. Nell’orgasmo la persona accetta il proprio piacere e il/la partner e nel pianto accetta il proprio dolore e la realtà. In entrambi i casi la persona accetta (con gioia o con dolore) che le cose sono “a posto” così come sono. Tutti i trucchi con cui si evita il lutto (restando distaccati o drammatizzando le cose o attivando rabbia) sono efficaci perché riducono la percezione del dolore, ma sono inutili. Creano inoltre tensioni fisiche e stati d’animo inutilmente spiacevoli.
L’elaborazione del dolore non ha nulla a che fare con la depressione, il senso di colpa o il vittimismo perché questi atteggiamenti costituiscono semplicemente una negazione del dolore ed esprimono una profonda indisponibilità a svolgere il lavoro del lutto. Gli psicoterapeuti che concepiscono la depressione come una terribile tristezza o come un’emozione complessa di cui la tristezza è una componente, purtroppo non comprendono la distinzione fra lavoro del lutto e difese psicologiche. I miei clienti mi hanno aiutato a distinguere le varie sfaccettature di moltissime strategie difensive. Mi hanno poi aiutato a verificare che le persone possono rinunciare a qualsiasi tipo di difesa psicologica e possono elaborare qualsiasi tipo di dolore. Le conoscenze che ho acquisito sulle differenze fra il dolore e i vari modi di “star male” riguardano un aspetto centrale del percorso esistenziale di tutti gli esseri umani. O si procede nella gioia e nel dolore e con la libertà di conoscere la realtà e di impegnarsi nella realtà, oppure ci si chiude, ci si tormenta, si guasta la propria vita e ci si dedica a guastare la vita degli altri. L’indisponibilità ad accettare il dolore inevitabile e a capire la differenza fra il dolore e altre emozioni confuse rovina la qualità della vita personale e sociale e determina anche la proliferazione di teorie psicologiche errate e di concezioni filosofiche, sociologiche e pedagogiche inconsistenti. L’indisponibilità a gestire il dolore genera “mostri” di tutti i tipi: il distacco “nobile” degli stoici (o dei buddhisti) e il distacco “banale” della contro-dipendenza, i “tormenti” di Kierkegaard e i tormenti di tanti ragazzini nell’età “difficile”, il nichilismo e la depressione, l’ottimismo di chi si proietta nell’armonia assoluta della rivoluzione (futura) o di un paradiso (trascendente). Tutte queste modalità “intellettuali” o “quotidiane” di disconoscere la realtà costituiscono strategie per non capire, non accettare e non superare il lato doloroso dell’esistenza.
Anche se normalmente si considerano luttuose solo le situazioni in cui una persona muore, è opportuno considerare come luttuose molte situazioni in cui si sperimentano altri tipi di perdita. La conclusione di una relazione di coppia concepita come la condivisione dell’intera vita comporta un annullamento di tutta la vita immaginata e desiderata con l’altra persona. La perdita di sicurezze economiche che si consideravano scontate ed altre esperienze dolorose possono tradursi nella consapevolezza che la vita che si voleva vivere è finita. Le manifestazioni rabbiose di disprezzo per la vita che resta sono difese dal dolore per ciò che si è perso perché, proprio in quanto “proteste”, aprono una “vertenza sindacale” immaginaria con la realtà intesa come ingiusta e mantengono la convinzione che le cose “non possano” o “non debbano” essere quelle che sono. Sono “distrazioni” dalla consapevolezza dolorosa della compresenza di una perdita “data” e di un bisogno che permane. Va notato che un lutto non consiste necessariamente nella perdita di qualcosa che si aveva, ma può consistere nel fallimento di un progetto molto importante che si riteneva realizzabile. Il dolore, inoltre, in questo caso è sentito indipendentemente dal fatto che il progetto fallito fosse ragionevole oppure difensivo. Ad esempio può essere doloroso non poter aver figli sia per persone che desideravano con il/la partner “estendere” il loro rapporto d’amore ad una nuova vita, sia per persone che si illudevano con il/la partner di realizzare sogni infantili “appoggiandosi” ad una nuova creatura. Quando falliscono dei progetti già difensivi, la reazione è inevitabilmente difensiva, mentre quando falliscono dei progetti ragionevoli, amorevoli e costruttivi, la reazione può consistere nella ragionevole elaborazione del dolore oppure nell’attivazione di processi difensivi (depressivi, colpevolizzanti, rabbiosi, ecc.).
L’intera vita delle persone è colma di gioie (che spesso non sono apprezzate e vengono date per scontate) ed è anche intrisa di dolore e richiede quindi una costante elaborazione (più o meno profonda) di perdite più o meno dolorose. Anche nei periodi migliori il dolore è sullo sfondo e a volte affiora. Continua ad affiorare anche il dolore di lutti già “completati”, poiché l’elaborazione del dolore non equivale ad un azzeramento del dolore, ma ad una integrazione e ad un’attenuazione dell’intensità del dolore. Purtroppo quasi tutte le persone vivono “in fuga” dal dolore della loro infanzia e da situazioni dolorose successive. Ciò vale anche (e, in genere, soprattutto) per molte persone che credono di aver avuto un’infanzia meravigliosa, mentre in realtà coprono le loro esperienze penose con modalità difensive compatte e rigide. In pratica, nel mondo reale in cui viviamo, le persone che non piangono mai o piangono solo ai funerali, o piangono di rabbia, vivono con una tensione costante volta a bloccare la consapevolezza, l’accettazione e l’espressione (nel pianto), del “dolore di sempre”. Se gli psicoterapeuti fossero in contatto con questo “normale disastro” scriverebbero libri sul dolore e sulla felicità del vivere nella gioia e nel dolore e non scriverebbero libri sulle patologie e le terapie volte a produrre “benessere” o “sicurezza di sé”. L’unica sicurezza realistica delle persone riguarda il fatto di provare inevitabilmente gioie e dolori e quindi di essere fragili, delicate, preziose. La cosa buona della vita adulta non consiste in un immaginario “benessere”, ma consiste nel fatto che la felicità di “esserci” e di “essere con gli altri” (nella gioia e nel dolore) si può realizzare elaborando e superando le esperienze dolorose senza “crollare” come i bambini. Purtroppo questa capacità, a disposizione di tutti è normalmente disattivata e sostituita dalla capacità di mantenere difese psicologiche di tutti i tipi.
Il lavoro del lutto non ci consente solo di attenuare col tempo il dolore e di favorire, col tempo, una reale accettazione della vita “che resta”, ma ci consente anche di mantenere il contatto con noi stessi, cioè di non spezzare quell’esperienza interna che è la condizione di possibilità dell’empatia, della compassione, della benevolenza e quindi dell’amore per gli altri. Chi è in lutto prova compassione per sé, per il proprio dolore e quindi continua ad amare gli altri. Chi è depresso non ama nessuno anche se piange tutto il giorno; chi si sente vittima di un’ingiustizia è disturbato dall’allegria degli altri; chi si sente in colpa svaluta anche gli altri oppure li invidia; chi “sta male” in modi confusi, rabbiosi e “agitati” non si accetta e non accetta gli altri. Nei periodi di lutto non si desidera prendere nuove iniziative, ma si mantengono gli impegni già presi perché il dolore non spinge a deludere le aspettative degli altri. Chi “soffre tanto” e quindi non si interessa a nessuno, non si congratula con chi è più fortunato, resta indifferente alle sofferenze altrui, dorme fino a tardi perché non ha voglia di fare nulla, di fatto non sta provando dolore e non sta elaborando alcun dolore, ma prova solo ansia e rabbia, cioè rifiuta di accettare che permane D e che purtroppo P è un fatto immodificabile. Gli stati d’animo irrazionali e inutilmente penosi che si possono ricapitolare in un generico “star male” e che, di fatto, escludono il dolore, vanno ovviamente rispettati, ma non vanno “compresi”. Le persone inclini ad ascoltare i piagnistei di persone che calpestano il proprio dolore esibendo di essere vittime di un’ingiustizia cosmica, non sono realmente empatiche, ma sono determinate a “sentirsi buone” e a “dimostrarsi disponibili”. Molti psicoterapeuti, interessati a “sentirsi psicoterapeuti” più che ad accettare la realtà ed il proprio e l’altrui dolore perdono intere sedute a “dare ascolto” a queste sciocchezze e così non aiutano i loro clienti (o “pazienti”) a capire che stanno calpestando il loro (vero) dolore.
La capacità di svolgere il lavoro del lutto fa parte della “dotazione” biologica e psicologica degli esseri umani e non è una “qualità” speciale come quella delle persone che hanno una memoria eccezionale. Tuttavia, la lunga permanenza in uno stato di “incompiutezza” che caratterizza la lunghissima infanzia degli esseri umani rende alcune esperienze indispensabili per la gestione del dolore. Cani, gatti e cavalli crescono in fretta, mentre gli esseri umani diventano adulti solo dopo diversi anni. Ciò significa che i bambini hanno bisogno dei genitori sia per essere protetti e quindi per evitare molte situazioni dolorose, sia per essere “sostenuti” nelle situazioni dolorose inevitabili. I genitori servono proprio a questo, perché anche i servizi sociali o la tribù potrebbero garantire ai bambini il cibo, un tetto e un’istruzione di base. I bambini possono facilmente gioire da soli, ma non possono accettare la compresenza di D e P da soli. Non possono piangere da soli. I bambini che “piangono sempre” in realtà, sono arrabbiati, fanno “capricci” e quindi “frignano”, ma non piangono. I bambini possono piangere (e verificare che è possibile piangere senza “sprofondare”) solo fra le braccia dei genitori. Fra le braccia di genitori che dicono con le parole e con il corpo “mi dispiace”, o “so che ti dispiace”, o “piangi pure, sono qui con te”. Non sono di sostegno i genitori che nemmeno si accorgono del dolore dei figli, o che hanno provocato tale dolore o che appena osservano l’inizio di un pianto lo stroncano minimizzando ciò che è accaduto o svalutando la “debolezza” di chi piange. Se i bambini non vengono sostenuti nell’elaborazione del dolore si bloccano. Non si bloccano perché “condizionati dal modello genitoriale”, ma perché percepiscono (correttamente) che il pianto che li scuote e li attraversa è “intollerabile” senza il sostegno dei genitori.
Non potendo elaborare da soli il dolore, i bambini lo evitano costruendo strategie psicologiche difensive. In pratica iniziano a vivere “per non sentire” e interrompono il percorso esistenziale che per loro, come per ogni essere umano, consiste nel capire, sentire e costruire una buona vita, nei limiti del possibile. Cambiano rotta. Ma come? In molti modi: si distraggono, si creano illusioni, si contraggono anche sul piano fisico. Se il pianto sale e un bambino teme di sprofondare con le lacrime nel buco nero del dolore, può “pensare ad altro”: può distrarsi con la TV o dandosi delle colpe o prendendosela con un fratellino. Oppure può pensare che P non sia una realtà definitiva.
Queste strategie difensive non proteggono dal dolore ma solo dalla consapevolezza del dolore. Il dolore continua a “fare pressione” come un creditore quando un debito non è stato pagato e le difese devono costantemente essere riattivate. Lo spreco di energia è terribile, ma soprattutto i danni collaterali sono devastanti: il dialogo interno viene alterato perché permane l’imperativo di non considerare il dolore. Quindi, il dialogo interno verte su banalità, illusioni, colpe, ecc. e non consente lo sviluppo della compassione per sé e (per estensione) dell’amore per gli altri. Il blocco del rapporto con il dolore non è solo intenzionale, ma è anche inconscio: il bambino non decide lucidamente di evitare il dolore perché, se lo facesse, resterebbe in contatto con il dolore; prende questa decisione “storica” inconsciamente. Questo fatto rende le strategie difensive immodificabili: noi possiamo “cambiare idea” quando abbiamo un’idea “in mente”, ma quando abbiamo idee di cui non siamo coscienti le conserviamo “in piena incoscienza”. L’esempio più ovvio di questo terribile fatto è costituito dai cambiamenti dell’adolescenza. I bambini, nella “età difficile” a volte cambiano radicalmente sentendosi più “forti”, ma cambiano solo superficialmente. Un bambino “obbediente” che diventa un ribelle non è cambiato affatto e continua a mantenere una relazione falsa con l’autorità. Restando sottomesso o diventando ribelle non diventa “padrone della propria vita”.
In un mondo senza lacrime, col dolore bandito dai dialoghi interni, dalle relazioni interpersonali e dalla cultura, emettere lacrime “è già qualcosa” così come in un deserto spremere qualche goccia da un cactus è meglio di niente. In genere però chi lacrima ha paura di piangere o non immagina nemmeno di poter piangere. Il blocco del pianto si stabilizza anche con tensioni fisiche che interrompono trasversalmente l’onda che scuote la persona verso l’alto e verso il basso. Tale onda (nel senso fisico del termine) sorge con sensazioni nella zona del cuore, sale, “eccita” gli occhi e scende fino in basso. Poi si riattiva ad ondate successive, fino a quando la persona non trova pace. Questa compiuta espressione fisica del pianto è però liberatoria solo se è la manifestazione esterna di una mancanza o perdita realmente accettata; i pianti di chi fa pensieri depressivi o colpevolizzanti servono invece solo a mantenere il circolo vizioso dell’ansia e della rabbia.
Le tensioni muscolari croniche (che non a caso non riguardano i bicipiti o altri muscoli irrilevanti sul piano dell’espressione emotiva) bloccano “a valle” il pianto che normalmente è bloccato “a monte” con un dialogo interno difensivo. Quando in analisi le convinzioni irrazionali vengono dissolte, le persone sfiorano il dolore, ma si accorgono spesso di provare delle difficoltà fisiche a piangere. Il “nodo” alla gola, il “peso” sul cuore, lo stomaco “aggrovigliato” indicano la percezione soggettiva di tensioni muscolari oggettive che non sono né il pianto né il dolore ma il blocco di un pianto autentico. E’ significativo che i trattati di psicoterapia non contemplino osservazioni sul dolore e sul pianto. L’unico autore che ha affrontato la questione e che ha anche individuato l’esistenza di una “corazza muscolare” o “armatura caratteriale” è Wilhelm Reich (1945); egli però non ha davvero capito ciò che aveva scoperto. Ha concepito la corazza come difesa dall’orgasmo, come se l’orgasmo fosse un problema per gli esseri umani. Certamente lo diventa facilmente, ma solo perché prima di avere la possibilità di far sesso le persone hanno dovuto bloccare il pianto. L’onda che scuote l’intero corpo nell’orgasmo “sorge” nell’area dei genitali, “scalda” il cuore, “illumina” il volto e scende come un terremoto verso il basso. All’età in cui possono far sesso, le persone hanno già imparato a nuotare, a saltare e ad andare in moto. Non hanno ragioni per temere l’orgasmo. Hanno invece serie ragioni per temere ciò che precede l’orgasmo: provare desiderio, fidarsi di un/una partner, lasciarsi andare al piacere e, se necessario, al dolore. Proprio il timore di soffrire e di piangere si traduce in irrigidimenti muscolari cronici che nella sessualità adulta circoscrivono il piacere sessuale all’area genitale ed ostacolano quindi l’esperienza del “lasciarsi andare”. Tale timore è così diffuso e disturba tanto spesso la sessualità che persino i sessuologi non distinguono l’acme dall’orgasmo. Ora, Reich è riuscito a comprendere la differenza fra l’acme e l’orgasmo, ma ha interpretato i “blocchi” della corazza come il risultato di un timore inconscio dell’orgasmo. La questione è però più complessa. Normalmente i bambini non ricevono un accudimento adeguato e quando in seguito si scontrano con la repressione sessuale, anziché stupirsi per l’irrazionalità dei moralisti, provano vergogna, si sentono in colpa, cercano di controllarsi e, se decidono comunque di cercare il piacere sessuale, non sanno come lasciarsi andare. Questo però non è il problema originario, dato che è solo una conseguenza delle difese dal dolore e dal pianto.
Voglio ora riportare un esempio che può chiarire che anche nei momenti più autentici siamo lacerati dalla compresenza di due “spinte” opposte: l’esigenza di esprimerci e la tendenza a dissociarci dal dolore. Questa volta non riporterò una seduta, ma un dialogo tratto da un film (Viaggio in Inghilterra di Richard Attenborough) in cui un adulto ed un bambino riescono a comunicare e ad incontrarsi senza l’aiuto “tecnico” di un analista. Arrivano ad esprimersi compiutamente proprio superando gradualmente degli ostacoli da loro stessi posti.
Dopo la morte di Joy, il suo secondo marito (Jack) e suo figlio (Douglas) si trovano a parlare di ciò che sentono. Numererò le “tappe” del dialogo per evidenziare alcune cose in seguito.
1. [Jack racconta a Douglas che alla sua stessa età perse sua madre. Gli confida di aver tanto sperato di salvarla pregando con fede, ma di aver comunque dovuto accettare la sua morte.]
2. Douglas – … Non funziona?
3. Jack – No. Non funziona.
4. D. - Non mi importa.
5. J. – Io amavo molto tua madre. Forse l’amavo troppo … Non sembra giusto.
6. D. – Non capisco perché si è dovuta ammalare.
7. J. – No, neanche io, ma non si può restare aggrappati alle cose, Douglas. Bisogna lasciarle andare.
8. D. – Jack, tu credi al paradiso?
9. J. – Sì. Ci credo.
10. D. – Io non ci credo, al paradiso.
11. J. – Non fa niente.
12. D. – Vorrei tanto rivederla …
13. J. – [Si lascia andare ai primi singhiozzi del pianto] Anche io.
14. D. – [Piange]
15. [Jack stringe a sé Douglas ed entrambi piangono, con lacrime e singhiozzi, teneramente abbracciati, fino ad acquietarsi].
Il dialogo si sviluppa producendo una buona intimità fra i due personaggi, che restano “al loro posto”: Jack mantiene una posizione protettiva, mentre Douglas cerca e trova sostegno. La linearità della comunicazione è però interrotta alcune volte. Al punto 4, dicendo “Non mi importa”, il bambino cerca di sottrarsi ad un dialogo doloroso. Jack lo riporta al contatto senza fare obiezioni, ma riaffermando il sentimento che lo legava a Joy. Poi è lui stesso a “svicolare” tirando in ballo l’idea che la morte di Joy non sia stata “giusta”. Senza accorgersene offre al bambino una scappatoia, ma questi non ne approfitta e si limita a porre una domanda sulle ragioni della morte della madre. Jack evita di “scappare” con sproloqui sul significato della morte e, proprio ammettendo di non conoscere il perché, torna al tema della perdita. Resta però ad una certa distanza dal nucleo doloroso dispensando buoni consigli sull’opportunità di “lasciare andare le cose”. E Douglas resta “posizionato” su tale distanza chiedendo a Jack se crede al paradiso. Quando afferma di non credere al paradiso parla in generale, ma allude alla propria “di-sperazione”. Al punto 11 Jack è splendido: lascia cadere la questione generale o metafisica e così consente a Douglas di esprimere il sentimento della mancanza. Al punto 13 Jack rispetta e conferma il sentimento di Douglas, proprio lasciandosi andare al pianto. Molti genitori, soprattutto madri, piangono con i figli per i propri “problemi” e compiono un vero crimine contro l’umanità sollecitando i figli ad offrire un sostegno che non possono ovviamente dare. Jack, invece mostra il proprio dolore nel momento in cui il bambino, pur esitando, è pronto ad esprimere il pianto. Jack dà sostegno proprio liberando per primo il pianto. Douglas accetta questo incoraggiamento ed inizia a piangere e Jack lo stringe a sé. Esprime il proprio dolore, ma per il bene del bambino. A quel punto il bambino può lasciarsi andare perché può “appoggiarsi” a Jack per esprimere il dolore che da solo non avrebbe potuto gestire. Il percorso quindi è incerto per entrambi, ma viene condotto fino alla sua unica ragionevole e rispettosa conclusione.
Sembra che il pianto sia una cosa “troppo psicologica” per incuriosire i filosofi e una cosa “troppo fisiologica” per incuriosire gli psicologi. Di fatto queste due comunità di studiosi hanno contribuito ben poco alla comprensione del ruolo fondamentale dell’elaborazione del dolore nell’esistenza umana. Se si cerca in rete una voce qualsiasi relativa agli aspetti cognitivi o emozionali della “mente” o della “psiche” degli esseri umani si trovano migliaia di riferimenti a trattati, libri, scuole di pensiero. Se si digita “libri sul pianto” si giunge immediatamente al deserto dei Tartari. Solo sul pianto dei bambini si trova qualcosa e soprattutto si trovano manualetti volti a spiegare le coliche dei bambini, il dolore per i denti che spuntano e i modi per calmare il pianto dei piccoli. Manca, di fatto, una cultura del pianto e sembra proprio che la cultura aborrisca il pianto.
Ho trovato alcuni anni fa un libro intitolato Storia delle lacrime che, forse non a caso, è stato scritto da un docente di Letteratura (Lutz, 1999) e non da un filosofo o da uno psicoterapeuta. Il libro è utile perché raccoglie la storia delle idee più assurde sul pianto, ed anche qualche informazione utile. Il libro include alcune nozioni basilari di fisiologia, tra le quali mi ha colpito (p. 81) il fatto che la composizione chimica delle lacrime “di commozione” è diversa da quella delle lacrime “riflesse” (provocate ad esempio dalle cipolle tagliate). Il volume riporta anche l’elenco dei pochi libri di autori che qualcosa hanno detto sull’argomento (da Darwin agli psicologi contemporanei). L’autore riconosce che “Non esiste forse un’attività umana altrettanto fondamentale che abbia ricevuto un’attenzione così scarsa e superficiale” (p. 17) e con ciò mostra di essersi posto delle domande sincere e sentite sull’argomento. Purtroppo la rassegna delle sue accurate ricerche non conduce alla fine del libro ad una comprensione del ruolo del dolore e del pianto nell’esistenza delle persone, ma non è colpa dell’autore se i trattati di fisiologia o di psicologia che ha consultato non includono idee illuminanti.
Marsha M. Linehan ha pubblicato un volume sulla “Terapia dialettico-comportamentale” (TDC) che costituisce uno sviluppo del filone comportamentale-cognitivo della psicoterapia, in cui afferma che “Nella TDC imparare a sopportare adeguatamente il dolore è molto importante” (p. 126). Tale idea è interessante, anche se le persone non hanno bisogno di “imparare” il lavoro del lutto, ma piuttosto di capire come mai abbiano già imparato ad evitarlo. Purtroppo la prospettiva “terapeutica” delineata nel libro è sconfortante: “Quattro sono le strategie di superamento delle crisi insegnate nella TDC: distrarsi svolgendo altre attività (…), prendersi cura di sé (…), superare il momento (attraverso l’immaginazione, la ricerca di significati, la preghiera, il rilassamento …) e considerare i pro e i contro” (p. 127). E’ davvero inquietante che una “terapia” consista nella prescrizione dei più normali atteggiamenti difensivi delle persone che tentano già di evitare il contatto con il dolore, ma si può anche pensare che l’Autrice forse suggerisca (temporaneamente) il ricorso a tali “tecniche” per i pazienti (gravi) che sono soggetti, appunto, a “crisi” di pianto più che in contatto con esperienze dolorose. Si può capire che in certe situazioni di profonda confusione e distruttività uno psicoterapeuta voglia semplicemente ridimensionare una “crisi”. Tuttavia, questa interpretazione della TDC non è giustificata, dato che l’Autrice non ha proprio in mente una distinzione chiara fra il lutto (cioè l’elaborazione del dolore) e le difese dal dolore: “le seguenti manifestazioni sintomatologiche si presentano con una frequenza tale da poter essere considerate parte del fisiologico processo del lutto, quando riscontrate nel singolo individuo: sensazione di vuoto allo stomaco, di costrizione toracica, o di chiusura alla gola, difficoltà di deglutizione, dispnea” (p. 86). Ho interrotto la lunghissima citazione che includeva solo sintomi, ovvero difese dal dolore. Le sensazioni di chiusura o di oppressione alla gola ed al torace non sono componenti del lutto perché sono dovute a spasmi attivati per contrastare l’espressione del pianto.
Purtroppo scuole psicoterapeutiche molto diverse non contemplano la contrapposizione basilare fra elaborazione del dolore e difese dal dolore. Farò qualche altro esempio per chiarire che non voglio far polemiche gratuite con qualche autore, ma voglio chiarire che in generale la psicoterapia non aiuta né a comprendere il dolore, né a favorire l’elaborazione del dolore.
Nelle prime pagine del libro di Anna Gorrese, I volti della tristezza (2003), compaiono due affermazioni significative: "la tristezza ci aiuta ad adattarci a una perdita personale" (p. 3) e "occorre sottolineare e mantenere ferma, anche nel linguaggio comune, la differenza fra la tristezza e la depressione" (p. 4), dato che quest’ultima è un “disturbo psichico". Purtroppo, la limpidezza di queste due frasi coesiste nel libro con l’opacità di altre in cui viene espressa l’idea che la tristezza possa anche "comparire" negli stati depressivi. L'Autrice (in accordo con alcuni studiosi citati nel suo volume) non chiarisce, quindi, che la depressione è uno stato d’animo rabbioso che impedisce l'esperienza della tristezza, cioè del dolore.
Un saggio di Steven C. Hayes e Spencer Smith (2005) è stato pubblicato con un brutto titolo (Get Out of your Mind and Into your Life) ed è stato tradotto in italiano con un titolo peggiore: "Smetti di soffrire e inizia a vivere". Gli Autori, di orientamento cognitivo-comportamentale (cfr. p. 14), scrivono all’inizio del libro: "Piuttosto che attendere di vincere la lotta interna con se stessi, perché la vita possa avere inizio, questo libro invita a vivere adesso, vivendo pienamente con il proprio passato, con i propri ricordi, con le proprie paure e con la propria tristezza" (p. 13). Questo discorso è incoraggiante, ma nel testo non viene fatta alcuna distinzione fra la tristezza (da accettare e da “elaborare”) e le emozioni difensive (da analizzare e dissolvere). Gli Autori, mettono assieme gli stati d’animo corrispondenti ad una perdita o mancanza e quelli difensivi come la vergogna, le reazioni depressive, gli attacchi di panico, ecc. Il loro approccio consiste, quindi, semplicemente in una tecnica volta ad evitare gli “avvitamenti” nelle emozioni spiacevoli (di qualsiasi tipo) favorendo un’accettazione del fatto che esse esistono. Gli Autori sottolineano le trappole mentali in cui ci si può bloccare se ci si impone di non pensare a qualcosa, ma lo scopo per cui gli Autori utilizzano queste conoscenze è quello di ridurre la tensione eccessiva e non quello di favorire il contatto emotivo.
Tale approccio psicoterapeutico può essere confrontato con la Coherence Threrapy di Bruce Ecker e Laurel Hulley (presentata nel sito http://www.coherencetherapy.org/). Questi autori sviluppano un discorso molto più articolato. Teorizzando i disturbi psicologici come processi intenzionali che limitano il contatto (doloroso) con la realtà, di fatto, svolgono un lavoro utile: aiutano i loro pazienti a capire che tendono ad “attivarsi” (inconsapevolmente) in una direzione “pro-sintomo”, anche se consapevolmente vorrebbero sbarazzarsi dei sintomi. L’impegno degli autori nel favorire tale presa di coscienza consente, quindi, ai loro pazienti di scegliere fra la loro complessiva strategia psicologica “pro-sintomo” ed una strategia alternativa (razionale e realistica). In questo percorso gli Autori mostrano ai pazienti che la strategia pro-sintomo li porta a dissociarsi da vissuti dolorosi che invece possono utilmente essere accettati. Tuttavia, l’approccio è molto superficiale perché non include una vera elaborazione del dolore: la “terapia” è breve e mira ad ottenere il massimo dei cambiamenti nel minimo del tempo, col minimo di impegno necessario e con una prevalenza del lavoro cognitivo su quello emozionale. Si rivela quindi un approccio teoricamente complesso e sicuramente efficace, che però è finalizzato più ad un “riconoscimento” che ad una reale elaborazione del dolore.
Nel libro Un tempo per il dolore (2002) Tonia Cancrini pur esprimendosi nell’orizzonte teorico della psicoanalisi cerca di mostrare che il confronto con il lato doloroso della vita può essere positivo. In questo intento sta, appunto, il merito del libro. “Nell’esperienza psicoanalitica noi cerchiamo di riattivare la vita affettiva e quelle parti della personalità che sono rimaste soffocate e chiuse per paura della sofferenza, e cerchiamo di rendere vivibili ed esprimibili quei sentimenti più profondi che non riescono ad emergere” (p. 126). L’Autrice lavora di cesello per ricavare spunti di saggezza dagli scritti di Freud, della Klein e di molti altri psicoanalisti, ma non arriva a fare una netta distinzione fra il dolore e le difese dal dolore. L’idea freudiana secondo cui dovremmo “accettare” la nostra innata distruttività, per controllarla in modo cosciente, infatti, da un lato facilita l’esplorazione di vari stati emotivi (compreso il dolore), ma da un altro lato ostacola la comprensione del fatto che con la distruttività e i sensi di colpa noi ci siamo già dissociati dal dolore.
L’idea che gli esseri umani normalmente possano mangiare, dormire, giocare e anche piangere è un’idea ovvia, ma normalmente negata. Risulta ovvia se ci si dedica ad indagare con cura sulle ragioni per cui le persone fanno ciò che fanno e soprattutto sulle ragioni per cui fanno tante cose irrazionali. Le difficoltà nella comprensione del lato doloroso della vita riguardano sia la morte (sempre incombente anche quando non è prevista in tempi brevi), sia i moltissimi casi in cui ci si confronta con la perdita di ciò che si aveva o si contava di poter avere. Irvin D. Yalom ha esplicitamente preso le distanze dai tanti approcci psicoterapeutici volti a “schivare” il problema della morte: “La morte si presenta in ogni psicoterapia. Ignorare la sua presenza equivale ad affermare implicitamente che è una cosa tanto brutta che non va esaminata. Tuttavia moltissimi terapeuti evitano di discutere il tema della morte. Perché? Alcuni evitano la questione perché non sanno come affrontarla. Pensano ‘Qual è il problema? Occupiamoci dei processi nevrotici sui quali si può fare qualcosa’. Altri terapeuti mettono in discussione la rilevanza della questione per il processo terapeutico (…) Altri ancora evitano di sollevare un problema che genera molta ansia nei pazienti già ansiosi (ed anche nei loro terapeuti)” (2002, pp. 124-125). Il fatto che uno psicoterapeuta autorevole come Yalom riconosca che consistenti settori della psicoterapia tendono ad evitare i problemi fondamentali delle persone può, quindi, dare un sostegno alle mie affermazioni e far pensare che non siano del tutto sballate. La consapevolezza del dolore e della morte, contrastata rozzamente dalla cultura popolare e in modi più sofisticati dalla cultura accademica e psicoterapeutica, è sempre affiorata qua e là e continua ad affiorare. Persino un autore “inclassificabile” come Carlos Castaneda ha inserito nelle sue strane storie di “stregoni” l’idea che la morte possa essere la nostra più affidabile “consigliera” e ci accompagni nel percorso della vita (cfr. 1972, pp. 42-43).
La cappa soffocante che allontana gli esseri umani dal dolore e dalla consapevolezza del dolore allontana gli esseri umani anche dalla gioia e dalla felicità. Mi soffermo in modo particolare sul dolore semplicemente perché proprio le difese dal dolore ci portano a vivere “poco”. Quando affermo che il dolore è la benzina della felicità non penso a quella specie di “affare vantaggioso” che molti clienti immaginano (“Beh! Voglio piangere un po’ così dopo starò davvero bene”), ma penso a una realtà concreta che riguarda l’intera esistenza. L’elaborazione del dolore ci fa sentire disperati, ma ci permette anche di sperimentare la nostra capacità adulta di “sostenerci” nel dolore e quindi ci permette di riconoscere la delicatezza e la profondità della nostra dimensione interiore e di costruire relazioni significative con gli altri.