martedì 10 luglio 2018

4. Compassione e benevolenza







L’elaborazione del dolore ci porta a provare compassione per noi stessi e ci permette di considerare gli altri come soggetti e non solo come oggetti. In altre parole, la compassione per noi stessi non solo ci fa sentire amati e amabili, ma ci rende capaci di amare gli altri. Proprio il fatto che il dolore abbia a che fare con la benevolenza (o amore) spiega perché l’amore sia comunemente concepito nei modi più strani.
Quando si usa il termine “amore” (per un/una partner, o per i figli, gli animali, la natura, “gli altri” o per cose più astratte come la giustizia o l’arte o la cultura), o quando si usano termini meno “forti” ma simili come “affetto”, o “amicizia”, si delimita un’area abbastanza precisa della dimensione umana: il voler bene o volere il bene di qualcuno. Purtroppo, i confini di tale sentimento vengono spesso allargati, come accadrebbe se si definissero “arte” gli scarabocchi dei bambini. Gli esseri umani hanno in qualche modo l’idea di un sentimento amorevole ben distinto dal desiderio di ricevere qualcosa o addirittura dalla “possessività”. Tuttavia, nonostante questo uso del concetto di amore, spesso si parla di “grandi amori” che “appassiscono” o che “finiscono in tragedia”. Si parla di “amore” per un figlio anche quando il bambino viene “soffocato” da “cure” del tutto inutili o viene pensato come “oggetto” capace di “dare senso” alla vita del genitore o più brutalmente come “bastone della vecchiaia”. Se non ci permettiamo di dire che Genova è più o meno in Francia, come mai ci permettiamo di dire “Ti amo tanto che non riesco a stare senza te”, esprimendo un attaccamento vorace e facilmente molesto? Come mai un libro basato sulla basilare confusione fra l’amore e la sopportazione rabbiosa e vittimistica del partner manifestata da certe donne (Norwood, 1985) non solo è stato accettato da una casa editrice, ma è diventato un best seller? A mio parere le persone accettano spesso una definizione sfumata e anche contraddittoria del concetto di amore per non ammettere che l’amore è un sentimento raro e che si sentono poco amate.
Non c’è nulla di strano nel fatto che i bambini abbiamo bisogno della presenza e del sostegno dei genitori, ma quando scrivono i bigliettini “Cari mamma e papà vi voglio tanto bene”, di fatto mentono, perché non hanno ancora sviluppato completamente l’idea che quelle due persone siano persone con una loro soggettività e possano essere amate indipendentemente dal fatto di risultare indispensabili; per i bambini i genitori sono oggetti del loro desiderio e sono “oggetti grandi” e quindi rassicuranti. Ciò fa parte del loro sviluppo, che gradualmente li porta a sentirsi soggetti e quindi ad attribuire anche agli altri una soggettività. Di fatto, in quei biglietti i bambini dicono in qualche misura anche la verità, perché l’empatia e la compassione emergono, come vedremo, anche prima dell’età scolare, ma solo nell’adolescenza si consolidano consentendo di concepire gli altri come entità amabili per ciò che sono e non solo desiderabili per ciò che possono dare. Possiamo quindi riconoscere che il significato più ragionevole del concetto di amore è quello di benevolenza (volere il bene di qualcuno), dato che per indicare l’apprezzamento di qualcuno che ci può gratificare disponiamo già del concetto di stima. Stimiamo/apprezziamo chi ci fa del bene, ma amiamo quando noi vogliamo il bene di qualcuno. Le due esperienze si possono sovrapporre e possiamo anche stimare chi amiamo e ricavare piacere dalla sua vicinanza, ma abbiamo bisogno di usare i concetti in modo preciso. Gli esseri umani sono esseri dotati della più elevata capacità di amare, ma sono anche inclini a manifestare tale capacità in modi limitati e persino a distorcerla o a soffocarla.
In molti casi le persone utilizzano il termine “amore” per coprire o “giustificare” veri e propri maltrattamenti. I genitori attuano atroci ricatti affettivi nei confronti dei figli “per il loro bene”, li svalutano o li deridono o li puniscono per indurli a “diventare qualcuno”, implicando che a certe condizioni “non sarebbero nessuno” e quindi non sarebbero “amati” e nemmeno “amabili”. Queste assurdità vengono espresse candidamente da persone di elevata intelligenza che capiscono benissimo che un minorato può essere amato da qualcuno ed è quindi amabile, mentre un artista molto famoso può non essere amato da nessuno e avere solo degli ammiratori. I genitori che svalutano e ricattano i figli affermando di “offrire” stimoli con “dedizione amorevole” sono in genere in buona fede, ma esercitano una violenza e non lo fanno certamente per amore. Proprio la diffusione degli atteggiamenti manipolativi rende comprensibile il fatto che le persone non vogliono rendersi conto dei rifiuti che subiscono anche da parte di persone molto vicine.
Con queste riflessioni non sto cercando di giungere ad una definizione “etica” dell’amore. L’amore è un sentimento, come la felicità, la paura, la rabbia, la gioia ed il dolore. Abbiamo l’esigenza di distinguere gli elettroni dai protoni ed anche le manifestazioni dell’amore dalle manifestazioni di altri stati d'animo. Per indicare la ricerca di gratificazioni dagli altri abbiamo a disposizione i concetti di stima o apprezzamento (che riguardano il “valore d’uso” dell’oggetto desiderato) e il concetto di desiderio (del soggetto che desidera). Se una persona stima un falegname desidera che sia proprio lui a fabbricare i suoi mobili. Può anche nutrire sentimenti di profonda amicizia oltre che di stima per il falegname, ma le due cose non coincidono, anche se coesistono. Infatti potrebbe essere amico di quel falegname ma rivolgersi ad un suo collega (più apprezzato) per un lavoro molto importante. Nelle relazioni di coppia è auspicabile la compresenza di amore e desiderio e quindi la considerazione del/della partner come soggetto amabile e oggetto apprezzabile, ma quando si inizia una relazione, si prova attrazione e quindi si stima (si apprezza) il/la possibile partner come molto desiderabile. Dicendo che si ama un/una partner quando si prova un desiderio intenso si fa solo confusione.
La normale confusione che porta ad utilizzare il termine “amore” impropriamente porta anche a concepire in modi a dir poco bizzarri i fattori che  dovrebbero favorire lo sviluppo della benevolenza. In alcuni casi si considera l’amore come il risultato di pressioni educative (esempi, prediche, ricatti, ingiunzioni, colpevolizzazioni, minacce o punizioni). In altri casi si considera l’amore come il risultato di uno sforzo interno volto a contrastare le tendenze “egoistiche”. In altri casi ancora si considera l’amore come il risultato “meccanico” del “benessere” psicologico o “spirituale” prodotto da tecniche di “evoluzione interiore” (meditazione, massaggi “energetici”, ecc.). Questi programmi “formativi” non producono i risultati auspicati, ma presuppongono comunque l’idea (errata) che la capacità di amare debba essere in qualche modo sollecitata.
A questo proposito vanno ricordate le ricerche di Michael Tomasello: “Si crede comunemente che i bambini manifestino comportamenti pro-sociali in seguito ad incoraggiamenti e premi offerti dagli adulti. Tuttavia, in un recente studio, quando dei bambini di 20 mesi vennero materialmente ricompensati per un particolare comportamento utile ad altri, la tendenza da essi manifestata venne abbandonata quando le ricompense cessarono; al contrario, i bambini non ricompensati o che avevano avuto solo un cenno di approvazione, mantennero il loro alto livello di disponibilità verso gli altri (…) ciò suggerisce che la motivazione dei bambini piccoli ad aiutare sia intrinseca e non dipendente dai premi ricevuti o, addirittura, sia disturbata da tali interventi” (2013, pp. 241-242). Tale ricerca è molto significativa perché dimostra la basilare indipendenza delle risposte empatiche e quindi della benevolenza dagli interventi “educativi” che sono tali in quanto offrono premi o instillano la paura del rifiuto. E ovvio che un bambino, anche piccolo, non tragga alcun piacere dalla sofferenza di un compagno e che quindi, proprio in quanto essere sociale, sia propenso ad offrire aiuto ed anche a fare alcune rinunce per il bene degli altri. Quando l’educatore approva sta solo prospettando il possibile rifiuto di un comportamento diverso e quando l’educatore disapprova sta manifestando un rifiuto. Quindi, nella cosiddetta “educazione morale” i bambini imparano solo una cosa: si rendono conto di non poter contare sull’accettazione di cui hanno bisogno.
Tutti capiscono che la spontaneità non può essere imposta o appresa, ma quasi tutti si rifiutano di ammettere che la spontaneità degli esseri umani non è affatto “pericolosa”. Anzi, proprio l’autocontrollo (inteso come autosvalutazione) ha conseguenze negative. Un mio cliente mi ha aiutato a capire il nocciolo del problema su cui voleva lavorare e che aveva definito come la “debolezza” di “bere troppo” in certe occasioni sociali. La moglie lo accusava di scarso autocontrollo ed egli voleva “fare psicoterapia” per diventare più controllato e “accettabile”. Ovviamente non ha ottenuto da me alcuna complicità in tale progetto “psicoterapeutico”, ma ha ottenuto alcuni spunti di riflessione ed è quindi arrivato a capire (e a spiegarmi) che proprio con l’alcol si controllava: si “stimolava” per esibire con gli amici una maschera da “allegrone”, riproducendo così l’antica resa all’ingiunzione dei genitori i quali, pur essendo infelici e rabbiosi, pretendevano che i figli fossero soddisfatti di crescere in una famiglia “perfetta”. L’idea di controllare il controllo (il bere) costituiva quindi l’esasperazione del sintomo, perché portava questa persona a credere di poter (e di dover) “star bene” nonostante il dolore e senza nemmeno “l’aiuto dell’alcol”. Questo esempio evidenzia che le persone non hanno “tendenze” da controllare con il pentimento o con le “terapie”, perché, proprio con i sintomi, con i sensi di colpa e con l’illusione di poter “migliorare”, controllano l’espressione del loro potenziale personale che, nella realtà oggettiva “data”, costa inevitabilmente dolore. Se le persone smettono di svalutarsi e di “pungolarsi” scoprono di essere in grado di piangere e gioire, cioè di esprimere ciò che, in assenza di “incubi educativi”, avrebbero espresso da sempre.
Ovviamente le concezioni metafisiche dell’originaria antisocialità degli esseri umani (da quella del peccato originale all’istinto di morte fantasticato da Freud) non spiegano la malvagità e le concezioni metafisiche dell’originaria “bontà” umana sono altrettanto infondate. La concezione antica ripresa da Hobbes dell’uomo inteso come homini lupus è, infatti, arbitraria come quella di Spinoza dell’uomo inteso come homini deus, anche se Spinoza ha compreso meglio di Hobbes le potenzialità espressive degli esseri umani. Gli orientamenti pedagogici tradizionali (da quelli più severi a quelli più orientati all’uso della manipolazione e del ricatto affettivo) sottolineano i risultati a volte conseguiti, ma non riconoscono un fatto ovvio: la (pseudo)benevolenza “appresa” per paura del disprezzo non ha nulla a che fare con il sentimento di benevolenza nei confronti degli altri. Chi è stato “educato con successo” alla benevolenza, non considera affatto gli altri come dei soggetti delicati e preziosi, ma mette in atto comportamenti benevoli per proteggersi da rifiuti interiorizzati. L’etica, la pedagogia direttiva, le prediche religiose, le affermazioni (laiche o religiose) dei “valori”, e la psicologia popolare convergono nell’auspicare la benevolenza senza comprenderla e, paradossalmente, favoriscono proprio quelle dissociazioni interiori che si traducono facilmente in distruttività e malvagità. La reale conoscenza delle ragioni della benevolenza e della malvagità è fondamentale, perché il male è alimentato proprio dalle concezioni irrazionali del bene e del male e dalle loro applicazioni “educative”. Se gli psicoterapeuti avessero fatto e facessero davvero cultura (e scienza) avrebbero demolito il moralismo così come gli scienziati hanno demolito tante (pseudo)spiegazioni metafisiche dei fenomeni fisici. Di fatto, ciò non è accaduto, ma alcuni aspetti (trascurati o sottovalutati) delle scienze sociali, della pedagogia non direttiva e persino di alcuni indirizzi della psicoterapia ci consentono di usare il termine “amore” o “benevolenza” senza fare confusione.
Alexander Neill (1960), mettendo a frutto un grande talento personale, ha condotto esperienze educative basate sul concetto di autoregolazione, e quindi orientate a garantire accettazione, sicurezza e libertà ai bambini. Tali esperienze radicalmente libertarie (non semplicemente “permissive” e quindi non risultanti da indifferenza e trascuratezza) hanno evidenziato che in tale clima umano i bambini crescono manifestando spontaneamente amicizia, collaborazione e persino curiosità e interesse per la conoscenza. A Summerhill, nella scuola di Neill, proprio l’assenza di insegnamenti etici favoriva lo sviluppo spontaneo della benevolenza e l’assenza di direttività favoriva l’interesse genuino per lo studio. Inoltre, l’assenza di repressione sessuale favoriva la maturazione di una sessualità non ambivalente, promiscua o disturbata. Con Neill, le idee di Rousseau (1762) sono diventate sperimentazioni coerenti e controllate, perché la scuola di Summerhill, che continua l’attività dopo la morte del suo fondatore, non afferma “buone idee”, ma mostra cosa accade realmente se gli adulti si comportano da adulti con i bambini, senza pretendere, imporre, minacciare i soggetti in crescita di cui sono responsabili. L’idea è semplice, dato che nessun contadino prende a martellate un alberello urlando che deve dare buoni frutti, ma si limita a sostenerlo con un palo finché è esile e a dare acqua se piove poco. Tale idea semplice non ha però rivoluzionato l’educazione famigliare e scolastica e tuttora i genitori incitano i figli a “comportarsi bene” senza accompagnarli e sostenerli nella loro crescita.
La buona socialità e la curiosità si manifestano spontaneamente nei bambini, a condizione che lo sviluppo della loro affettività non sia disturbato e la loro sicurezza psicologica sia garantita incondizionatamente dagli adulti. Nel secolo scorso, l’antropologia culturale ha registrato significativi successi che hanno consentito agli studiosi di tutte le discipline umanistiche e sociali di esaminare i modi di vivere e di pensare in società primitive molto diverse dalla nostra. Le ricerche di Bronislaw Malinowski (1927) spiccano per la loro originalità. Questo antropologo ha studiato nella Melanesia Nord Occidentale una società in cui si attuava un circolo virtuoso, anziché un circolo vizioso, fra la cultura intesa come dimensione interpersonale/sociale e l’insieme delle convinzioni, dei desideri, delle emozioni e dei comportamenti individuali. Al centro di questo paradiso si collocava un accudimento dei neonati, dei bambini e degli adolescenti radicalmente diverso da quello che caratterizza sia la nostra società “evoluta”, sia tante società primitive: nessuna pressione e repressione, nessuna svalutazione e colpevolizzazione, insegnamenti basilari e accettazione incondizionata. Poiché la popolazione trobriandese ignorava il meccanismo biologico della fecondazione, i figli erano riconosciuti in linea matrilineare e siccome la fecondazione era ritenuta opera di uno spirito, il compagno della madre (il padre) aveva solo un ruolo affettivo, mentre i (pochissimi) obblighi sociali erano trasmessi ai bambini dai fratelli delle loro madri. Questa ignoranza non è certamente responsabile delle caratteristiche portanti della società trobriandese perché le società matrilineari non sono necessariamente meravigliose e perché nulla impediva al fratello della madre di esercitare forme violente o subdole di autoritarismo nei confronti dei bambini. Il punto è un altro: nella società trobriandese il piacere dei bambini e degli adulti non era svalutato, ma semplicemente accettato.
I bambini venivano allattati a lungo, giocavano liberamente e venivano guidati, ma non pungolati, nel loro sviluppo. Da adolescenti esprimevano liberamente la loro sessualità e continuavano ad esprimere il meglio di sé da adulti. Il circolo virtuoso era costituito da un accudimento ottimale che lasciava emergere una ragionevole accettazione di sé; ciò si traduceva in un’accettazione degli altri e quindi in una capacità di accudire adeguatamente le nuove generazioni. I trobriandesi non avevano idee religiose terrificanti e colpevolizzanti e, pur essendo a conoscenza di società simili alla loro per sviluppo tecnico, ma culturalmente diverse (caratterizzate da autoritarismo, angosce religiose, violenza, disturbi sessuali), non le disprezzavano e si limitavano a considerare strano e insoddisfacente il modo di vivere che le caratterizzava. Non so se oggi quella popolazione sia riuscita a restare “intatta”, ma dove arrivano gli antropologi arrivano prima o poi anche gli affaristi, i sacerdoti e gli insegnanti. Temo che i discendenti di quella meravigliosa comunità lavorino per i turisti, guardino la televisione, maltrattino i figli e poi li educhino a diventare “buoni”, facciano sesso senza passione e vivano senza sapere che fare della loro vita. In ogni caso l’esperienza di un angolo di mondo in cui le persone vivevano da persone è “agli atti”. Non ha turbato le menti dei reazionari, dei “progressisti” e nemmeno degli psicologi, ma è un fatto, un dato empirico su cui possiamo riflettere.
Purtroppo, Neill ha cambiato il mondo meno di Al Capone e Malinowski è meno conosciuto di chi ha lanciato Facebook. Le conoscenze importanti non producono necessariamente cambiamenti significativi nella cultura accademica e popolare perché in genere gli intellettuali e le persone comuni si pongono solo le domande che nell’infanzia non hanno ritenuto pericolose. Le opere che incrinano la compattezza della normale irrazionalità sociale vengono relegate in anguste nicchie della cultura ufficiale oppure vengono svuotate del loro significato. Chi crede che Orwell nel suo più celebre romanzo (1949) abbia scritto una storia fantascientifica o abbia manifestato una pregevole denuncia dell’autoritarismo, riconosce la grandezza dell’autore, ma non capisce che questi ha fatto ben più di ciò: ha descritto con precisione chirurgica i processi psicologici che strutturano la sottomissione delle persone all’autoritarismo sociale. Egli non ha denunciato qualche aspetto “eccezionale” della società del suo tempo e non ha descritto una società ipotetica, ma ha descritto i processi costitutivi di tutte forme di irrazionalità individuale e sociale.
Le osservazioni di Neill e Malinowski hanno avuto conferme sperimentali. Le ricerche neurofisiologiche sull’attività dei neuroni specchio scoperti all’inizio degli anni ’90 e altre ricerche evidenziano aspetti della nostra neurobiologia che favoriscono la cura non solo della prole, ma anche degli altri in generale (cfr. Churchland, 2011, p. 24, p. 90 e p. 232). Al di là dell’importanza di tali indagini sui meccanismi fisiologici, mi sembra decisiva proprio l’osservazione delle manifestazioni di cura per gli altri (e quindi di empatia e benevolenza) in fasi precoci dello sviluppo in cui i bambini non sono ancora influenzati da pressioni educative (cfr. Tomasello, 2009; Warneken-Tomasello, 2006).
I risultati delle operazioni difensive possono essere manifestazioni di crudeltà o di indifferenza, ma anche espressioni apparentemente amorevoli. Infatti, alcune persone sono capaci di commuoversi per animali maltrattati, ma sono incapaci di provare compassione per gli esseri umani che loro stesse maltrattano in una relazione di coppia o in famiglia o sul lavoro. Altre persone possono essere apparentemente “empatiche” nei confronti dei bambini, ma si dimostrano facilmente indifferenti o crudeli con gli adulti. Tale mescolanza di sensibilità e insensibilità fa sospettare che ci sia qualcosa di molto strano anche nelle manifestazioni apparentemente convincenti di “empatia”, perché, se la sofferenza e la sensibilità altrui fossero realmente percepite, verrebbero identificate in tutti i casi. Chi realmente accetta ed esprime il proprio dolore, lo riconosce nei derelitti ma anche nei ricchi, nei figli ma anche nel/nella partner, negli amici ma anche nei nemici. Quando questo non avviene, anche le manifestazioni di protettività, di indignazione per le ingiustizie o di impegno nei confronti di un segmento circoscritto della società non possono essere autentiche e ciò rende ancor più drammatica la convivenza sociale. Sicuramente è socialmente più utile una persona che fa volontariato con i bambini extracomunitari per sentirsi “altruista” di quanto lo sia una persona che li considera spazzatura, ma se la persona “impegnata” socialmente si sente libera di colpevolizzare i figli quando non studiano, evidentemente non è davvero in contatto nemmeno con i “poveri extracomunitari”. In ogni caso, sia l’indifferenza, sia la benevolenza simulata, sia la crudeltà sono più presenti di quanto vorremmo perché le persone, sia individualmente, sia “tutte assieme”, non accettano il dolore che attraversa la loro esistenza.
Ho cercato finora di riportare il tema dell’amore e della benevolenza sul terreno delle competenze emozionali e quindi ho cercato di toglierlo dal terreno delle concezioni metafisiche, religiose, etiche e “patologizzanti”. I concetti dell’etica e della psicoterapia non spiegano ciò che le persone comprendono immediatamente se gestiscono il proprio dolore, se si fanno compagnia, se si sentono preziose e quindi pensano che anche le altre persone siano preziose. Se ho un panino e Paolo ha fame come me e non ha nulla, dividendo il panino mi gusto mezzo panino, gioisco per Paolo e per il nostro rapporto che si consolida. Se divoro di nascosto il mio panino, soffro perché assisto alla frustrazione di Paolo, soffro perché incrino un rapporto di fiducia a cui tengo e soffro perché mi sono inflitto da solo tali sofferenze. Se non sono già dissociato dal mio bisogno di buoni rapporti con gli altri non posso gioire per il fatto di essere stato “furbo”. La dissociazione spiega qualsiasi condotta classificata arbitrariamente come “immorale” o “patologica” perché se non siamo dissociati sentiamo abbastanza dolore da favorire, per quanto possibile, sia il nostro bene, sia quello degli altri.
La gioia ci rende preziosi gli attimi, ma solo la compassione per il nostro dolore e per quello di chi amiamo ci rende preziosa la vita nei momenti in cui i nostri attimi di gioia scarseggiano. La gioia rende colorata la vita, ma solo la compassione e la benevolenza rendono vivibile la vita. Dopo queste riflessioni sull’amore (o benevolenza), sui desideri e sulle difese psicologiche, resta da chiarire un punto importante che non ho toccato: posto che l’amore va distinto dai desideri o dai bisogni e posto che l’amore dipende dalla compassione per sé, perché amiamo qualcuno? Perché desideriamo il suo bene? Perché siamo appagati dalla felicità di qualcuno e siamo disposti anche a fare dei sacrifici per renderla possibile?
Perché proviamo benevolenza per qualcuno e non per qualsiasi persona? Possiamo anche dire di amare l’intera umanità, ma questa dichiarazione molto “poetica” non toglie nulla al fatto che la sofferenza di una persona cara “ci lacera dentro”, mentre la notizia di un genocidio o di un terremoto che ha colpito moltissime persone ci scuote solo un po’. Ovviamente, il fatto di frequentare qualcuno e anche di ricevere gratificazioni ci aiuta a fare osservazioni più accurate. Ma cosa scopriamo conoscendo intimamente una persona? Cosa abbiamo scoperto nella persona amata che ci rende incondizionatamente “aperti” nei suoi confronti? Io credo che quando arriviamo a provare amore, e quindi una genuina “bene-volenza”, abbiamo visto la bellezza di quella persona. Facendo questa affermazione, ovviamente non ho spiegato nulla: infatti, se davvero amo una persona vedendo la sua bellezza, devo ancora definire la “bellezza”. E devo basarmi su dati empirici se non voglio essere risucchiato in una spirale di speculazioni metafisiche. Procederò per gradi.
Quando pensiamo ad una “bella persona” non ci riferiamo alle sue qualità “utilizzabili”. Mentre le sue competenze o il suo fascino ci risultano attraenti e gratificanti, la sua delicatezza, fragilità e anche la forza che ha usato a beneficio di altri ma di cui non abbiamo bisogno, ci fanno sentire che “è” una bella persona e che resterebbe tale per noi anche se smettessimo di frequentarla. Quindi, possiamo dire che una persona è eccellente come musicista, ma ciò non la rende per noi una bella persona. Semmai ciò che la rende per noi una bella persona è il modo in cui suona o ciò che cerca di esprimere nella musica. Tutte qualità che avrebbe anche se fosse priva di talento musicale. Quindi, possiamo avviare una definizione per esclusione: troviamo semplicemente “belle” le qualità “inutili”. Ora possiamo procedere escludendo altri aspetti irrilevanti.
Non c’è alcuna bellezza nelle difese caratteriali delle persone e nemmeno nelle loro manifestazioni biologiche o bio-sociali. Che c’è di bello in una persona timida che non sta nemmeno nel presente, ma cerca ancora l’accettazione non ricevuta in un passato ormai remoto? Che c’è di bello in chi vive nel rancore? In chi è prepotente? In chi ha paura quando non ci sono pericoli? E cosa c’è di bello in una persona che si nutre per sopravvivere? O che suda perché è caldo? O che recupera liquidi bevendo? La bellezza sta al di là delle difese psicologiche e della sopravvivenza: la bellezza delle persone riguarda ciò che le persone sono in quanto persone: non oggetti che sopravvivono, ma soggetti che sentono, non soggetti ricoperti di difese, ma soggetti “nudi” che, come tali, fanno eco a ciò che siamo. Questa mi sembra l’unica definizione empirica, non speculativa, della bellezza. La bellezza di chi prova una paura irrazionale si vede solo se tale persona getta via il sintomo e racconta il dolore da cui si proteggeva con il sintomo. La bellezza di chi è arrogante si vede solo quando tale persona si spoglia della sua maschera e racconta di non essersi mai sentita amata. La bellezza di chi si lamenta in continuazione affiora se tale persona smette di piagnucolare, piange il proprio dolore “reale” e mostra la propria determinazione ad affrontare la vita.
Siamo facilmente portati a pensare che la bellezza delle persone riguardi ciò che le persone sono “in profondità”, ma questa espressione è molto vaga e fuorviante. Infatti, senza difese psicologiche la normalità sarebbe sempre profonda e la profondità sarebbe normale. Io mi rifiuto di definire piani più o meno profondi di una interiorità immaginata da menti speculative. Noi siamo persone e sentiamo delle cose. La nostra “normale grandezza” sta nel sentire e nella coscienza di sentire, dato che sentiamo davvero “tanto”. La profondità è semplicemente la nostra realtà umana. Parliamo di “emozioni profonde” solo perché, purtroppo, ci ubriachiamo di difese psicologiche che coprono la nostra sensibilità con emozioni fasulle. Però noi non abbiamo alcuna “profondità” da raggiungere perché abbiamo solo bisogno di toglierci il filtro deformante delle difese psicologiche.
Al di là di tutta la spazzatura costituita dalle convinzioni pregiudiziali, dai desideri divenuti capricci, dalle emozioni divenute caotiche e dalle azioni distruttive, noi siamo semplicemente noi stessi. Se ci lasciamo conoscere mettendo da parte le difese psicologiche e se gli altri ci guardano mettendo da parte le loro difese psicologiche, siamo semplicemente meravigliosi. E amabili. Possiamo sembrare in certi momenti persone molto profonde solo in un mondo soffocato dalle difese, così come appariremmo dei geni in una comunità di imbecilli. Non c’è alcuna “profondità” da scoprire, ma solo una massa informe di difese da disattivare. Il crollo delle difese libera ciò che è da sempre “nostro”: la gioia, il dolore, la compassione, la passione, la sessualità, la ricerca dell’intimità, l’entusiasmo e l’ozio, il gioco e l’impegno, la contemplazione e la lotta, la quiete della vita vissuta con amore. Se il semplice repertorio delle azioni volte alla sopravvivenza biologica è subumano il repertorio delle difese psicologiche è disumano. Proprio “il resto” è umano e noi troviamo bello ciò che è umano. Troviamo belli anche degli aspetti della natura che rispecchiano qualche aspetto della nostra umanità: la grazia dei movimenti di un animale, le onde del mare, ma non un sasso in mezzo ad un sentiero. In pratica, l’espressione delle potenzialità personali e di ciò che nella natura o nell’arte o nella socialità è riconducibile a tali qualità, ci risulta bella e amabile perché rispecchia le nostre potenzialità personali.
In fondo l’idea che la bellezza rifletta qualche corrispondenza fra ciò che “siamo” e ciò che “è là fuori” ha qualche giustificazione (non speculativa). E’ un fatto che su molte valutazioni estetiche il dissenso sia praticamente nullo fra gli esseri umani, dato che non conosco né immagino persone capaci di considerare brutto il sorriso di un bambino, il sorgere del sole o alcune grandi opere d’arte, ed è un fatto che i dissensi sulla “bellezza” sorgono soprattutto a proposito di aspetti circoscritti o del tutto irrazionali della realtà (l’accostamento di una cravatta ad una camicia, un tatuaggio, una “opera d’arte” che è soltanto intellettualmente provocatoria, ecc.). Probabilmente, quindi, la traduzione su un piano empirico delle speculazioni dell’estetica filosofica, anche se difficile, è possibile. In questo senso l’esperienza della bellezza è un’esperienza di armonia con ciò che ci rende davvero “noi stessi”, non con la nostra biologia o con l’insieme delle nostre difese psicologiche. Quando un artista ha l’impressione che la sua opera si sviluppi “da sola”, quando ci “arrendiamo” alla dolcezza di un paesaggio, quando leggiamo una poesia e siamo convinti che qualsiasi correzione sarebbe intollerabile, quando siamo con una persona e non vorremmo essere con nessun altro al mondo, stiamo osservando qualcosa che ci appare bello proprio perché rispecchia ciò che siamo. Non ciò che abbiamo fatto un’ora fa e che potremmo sicuramente rifare meglio, ma ciò che siamo. L’esperienza della bellezza ci consente di restare ciò che siamo, ma anche di trascendere ciò che siamo senza sentirci smarriti. Sperimentiamo una sintonia anziché una fastidiosa dissonanza o una semplice diversità. Trovando bella una persona non possiamo non volere il suo bene e, anzi, siamo disponibili a fare anche dei sacrifici per la felicità di tale persona. Io non credo si possa dare una definizione assoluta della bellezza, perché credo che consideriamo bello ciò che ci riporta in qualche modo a noi stessi. A ciò che siamo “davvero” e quindi al di là della nostra semplice tendenza a sopravvivere e di qualsiasi atteggiamento difensivo.
Cosa sta alla base del nostro continuare a vivere anche nei momenti più difficili, in cui il piacere è davvero poco e il dolore sembra addirittura troppo? Nei momenti più bui, non ci opponiamo alla vita (come nelle situazioni depressive), ma continuiamo ad affrontare le cose perché amiamo qualcuno o qualcosa. Possiamo, infatti, vivere per il nostro piacere, ma anche per aver cura delle persone che amiamo. Le due possibilità non sono affatto delle alternative che si escludono, ma se una di esse non trova alcun appagamento, l’altra costituisce una valida ragione per continuare ad attraversare l’orrore di un periodo della vita contrassegnato quasi esclusivamente dal dolore. E’ fuori discussione che noi cerchiamo il piacere, ma quando il piacere non è sufficiente, proprio la benevolenza, il voler bene, l’amare ci conduce ad un altro piacere: il piacere di aver cura di chi amiamo. Possiamo amarci anche nel dolore ed essere felici di essere noi stessi anche quando tutto ci crolla addosso e possiamo amare altre persone anche nel dolore ed essere felici della loro presenza o del loro “esserci” anche se tutto continua a crollarci addosso. Se non raggiungiamo questa sensazione di “compiutezza” perdiamo la voglia di vivere appena il dolore supera aritmeticamente il piacere.
L’etica e la psicoterapia rassicurano, ma non danno alcuna reale sicurezza agli esseri umani che tali sono proprio perché sono (e restano) vulnerabili e precari nel grande mondo e quindi hanno la necessità di imparare a vivere senza sicurezze. Proprio nell’accettazione della nostra basilare precarietà possiamo abbracciare noi stessi e gli altri. Se ci conosciamo, come possiamo non provare benevolenza per quella cosa delicata, piccola e immensa, tremante e caldissima che siamo? E come possiamo non pensare agli altri come a persone simili a noi?
La bellezza è il nostro “richiamo della foresta”: proprio nell’amore per ciò che è come noi e al di là di noi possiamo esistere e non restare imprigionati nell’orizzonte della sopravvivenza e delle difese psicologiche. Il fascino dell’ululato dei lupi descritto da Jack London riguarda anche noi, ma nel nostro caso ci spinge ad esprimerci più che a cercare la sicurezza del branco: “Ma soprattutto gli piaceva correre nel cupo crepuscolo delle mezzanotti estive, ascoltando i soffocati e sonnolenti sussurri della foresta, interpretando segni e suoni così come un uomo può leggere un libro, e cercando quella misteriosa cosa che continuava, continuava a chiamarlo, nel sogno e nella veglia, ad ogni ora, perché la raggiungesse” (1903, p. 79). Il richiamo della nostra foresta ci porta a salvare noi stessi incontrando gli altri.