L’elaborazione
del dolore ci porta a provare compassione per noi stessi e ci permette di considerare
gli altri come soggetti e non solo come oggetti. In altre parole, la
compassione per noi stessi non solo ci fa sentire amati e amabili, ma ci rende
capaci di amare gli altri. Proprio il fatto che il dolore abbia a che fare con
la benevolenza (o amore) spiega perché l’amore sia comunemente concepito nei
modi più strani.
Quando
si usa il termine “amore” (per un/una partner, o per i figli, gli animali, la
natura, “gli altri” o per cose più astratte come la giustizia o l’arte o la cultura),
o quando si usano termini meno “forti” ma simili come “affetto”, o “amicizia”,
si delimita un’area abbastanza precisa della dimensione umana: il voler bene o
volere il bene di qualcuno. Purtroppo, i confini di tale sentimento vengono
spesso allargati, come accadrebbe se si definissero “arte” gli scarabocchi dei
bambini. Gli esseri umani hanno in qualche modo l’idea di un sentimento amorevole
ben distinto dal desiderio di ricevere qualcosa o addirittura dalla “possessività”.
Tuttavia, nonostante questo uso del concetto di amore, spesso si parla di
“grandi amori” che “appassiscono” o che “finiscono in tragedia”. Si parla di
“amore” per un figlio anche quando il bambino viene “soffocato” da “cure” del
tutto inutili o viene pensato come “oggetto” capace di “dare senso” alla vita
del genitore o più brutalmente come “bastone della vecchiaia”. Se non ci
permettiamo di dire che Genova è più o meno in Francia, come mai ci permettiamo
di dire “Ti amo tanto che non riesco a stare senza te”, esprimendo un attaccamento
vorace e facilmente molesto? Come mai un libro basato sulla basilare confusione
fra l’amore e la sopportazione rabbiosa e vittimistica del partner manifestata
da certe donne (Norwood, 1985) non solo è stato accettato da una casa editrice,
ma è diventato un best seller? A mio parere le persone accettano spesso una
definizione sfumata e anche contraddittoria del concetto di amore per non
ammettere che l’amore è un sentimento raro e che si sentono poco amate.
Non
c’è nulla di strano nel fatto che i bambini abbiamo bisogno della presenza e
del sostegno dei genitori, ma quando scrivono i bigliettini “Cari mamma e papà
vi voglio tanto bene”, di fatto mentono, perché non hanno ancora sviluppato
completamente l’idea che quelle due persone siano persone con una loro
soggettività e possano essere amate indipendentemente dal fatto di risultare
indispensabili; per i bambini i genitori sono oggetti del loro desiderio e sono
“oggetti grandi” e quindi rassicuranti. Ciò fa parte del loro sviluppo, che
gradualmente li porta a sentirsi soggetti e quindi ad attribuire anche agli
altri una soggettività. Di fatto, in quei biglietti i bambini dicono in qualche
misura anche la verità, perché l’empatia e la compassione emergono, come
vedremo, anche prima dell’età scolare, ma solo nell’adolescenza si consolidano
consentendo di concepire gli altri come entità amabili per ciò che sono e non solo desiderabili per ciò che
possono dare. Possiamo quindi
riconoscere che il significato più ragionevole del concetto di amore è quello di
benevolenza (volere il bene di qualcuno), dato che per indicare l’apprezzamento
di qualcuno che ci può gratificare disponiamo già del concetto di stima. Stimiamo/apprezziamo chi ci fa
del bene, ma amiamo quando noi vogliamo il bene di qualcuno. Le due esperienze
si possono sovrapporre e possiamo anche stimare chi amiamo e ricavare piacere
dalla sua vicinanza, ma abbiamo bisogno di usare i concetti in modo preciso. Gli
esseri umani sono esseri dotati della più elevata capacità di amare, ma sono anche inclini a manifestare tale
capacità in modi limitati e persino a distorcerla o a soffocarla.
In
molti casi le persone utilizzano il termine “amore” per coprire o
“giustificare” veri e propri maltrattamenti. I genitori attuano atroci ricatti
affettivi nei confronti dei figli “per il loro bene”, li svalutano o li
deridono o li puniscono per indurli a “diventare qualcuno”, implicando che a
certe condizioni “non sarebbero nessuno” e quindi non sarebbero “amati” e
nemmeno “amabili”. Queste assurdità vengono espresse candidamente da persone di
elevata intelligenza che capiscono benissimo che un minorato può essere amato
da qualcuno ed è quindi amabile, mentre un artista molto famoso può non
essere amato da nessuno e avere solo degli ammiratori. I genitori che svalutano
e ricattano i figli affermando di “offrire” stimoli con “dedizione amorevole”
sono in genere in buona fede, ma esercitano una violenza e non lo fanno
certamente per amore. Proprio la diffusione degli atteggiamenti manipolativi rende
comprensibile il fatto che le persone non vogliono rendersi conto dei rifiuti
che subiscono anche da parte di persone molto vicine.
Con
queste riflessioni non sto cercando di giungere ad una definizione “etica”
dell’amore. L’amore è un sentimento, come la felicità, la paura, la rabbia, la
gioia ed il dolore. Abbiamo l’esigenza di distinguere gli elettroni dai protoni
ed anche le manifestazioni dell’amore dalle manifestazioni di altri stati d'animo. Per indicare la ricerca di gratificazioni dagli altri abbiamo a
disposizione i concetti di stima o
apprezzamento (che riguardano il “valore d’uso” dell’oggetto desiderato) e il
concetto di desiderio (del soggetto
che desidera). Se una persona stima un falegname desidera che sia proprio lui a
fabbricare i suoi mobili. Può anche
nutrire sentimenti di profonda amicizia oltre che di stima per il falegname, ma
le due cose non coincidono, anche se coesistono. Infatti potrebbe essere amico
di quel falegname ma rivolgersi ad un suo collega (più apprezzato) per un
lavoro molto importante. Nelle relazioni di coppia è auspicabile la compresenza
di amore e desiderio e quindi la considerazione del/della partner come soggetto
amabile e oggetto apprezzabile, ma quando si inizia una relazione, si prova
attrazione e quindi si stima (si apprezza) il/la possibile partner come molto desiderabile.
Dicendo che si ama un/una partner quando si prova un desiderio intenso si fa
solo confusione.
La
normale confusione che porta ad utilizzare il termine “amore” impropriamente
porta anche a concepire in modi a dir poco bizzarri i fattori che dovrebbero favorire lo sviluppo della
benevolenza. In alcuni casi si considera l’amore come il risultato di pressioni educative (esempi, prediche, ricatti,
ingiunzioni, colpevolizzazioni, minacce o punizioni). In altri casi si considera
l’amore come il risultato di uno sforzo
interno volto a contrastare le tendenze “egoistiche”. In altri casi ancora si
considera l’amore come il risultato “meccanico” del “benessere” psicologico o
“spirituale” prodotto da tecniche di “evoluzione interiore” (meditazione,
massaggi “energetici”, ecc.). Questi programmi “formativi” non producono i
risultati auspicati, ma presuppongono comunque l’idea (errata) che la capacità
di amare debba essere in qualche modo sollecitata.
A
questo proposito vanno ricordate le ricerche di Michael Tomasello: “Si crede
comunemente che i bambini manifestino comportamenti pro-sociali in seguito ad
incoraggiamenti e premi offerti dagli adulti. Tuttavia, in un recente studio,
quando dei bambini di 20 mesi vennero materialmente ricompensati per un
particolare comportamento utile ad altri, la tendenza da essi manifestata venne
abbandonata quando le ricompense cessarono; al contrario, i bambini non
ricompensati o che avevano avuto solo un cenno di approvazione, mantennero il
loro alto livello di disponibilità verso gli altri (…) ciò suggerisce che la
motivazione dei bambini piccoli ad aiutare sia intrinseca e non dipendente dai
premi ricevuti o, addirittura, sia disturbata da tali interventi” (2013, pp.
241-242). Tale ricerca è molto significativa perché dimostra la basilare
indipendenza delle risposte empatiche e quindi della benevolenza dagli
interventi “educativi” che sono tali in quanto offrono premi o instillano la
paura del rifiuto. E ovvio che un bambino, anche piccolo, non tragga alcun
piacere dalla sofferenza di un compagno e che quindi, proprio in quanto essere
sociale, sia propenso ad offrire aiuto ed anche a fare alcune rinunce per il
bene degli altri. Quando l’educatore approva sta solo prospettando il possibile
rifiuto di un comportamento diverso e quando l’educatore disapprova sta
manifestando un rifiuto. Quindi, nella cosiddetta “educazione morale” i bambini
imparano solo una cosa: si rendono conto
di non poter contare sull’accettazione di cui hanno bisogno.
Tutti
capiscono che la spontaneità non può essere imposta o appresa, ma quasi tutti
si rifiutano di ammettere che la spontaneità degli esseri umani non è affatto
“pericolosa”. Anzi, proprio l’autocontrollo (inteso come autosvalutazione) ha
conseguenze negative. Un mio cliente mi ha aiutato a capire il nocciolo del
problema su cui voleva lavorare e che aveva definito come la “debolezza” di
“bere troppo” in certe occasioni sociali. La moglie lo accusava di scarso
autocontrollo ed egli voleva “fare psicoterapia” per diventare più controllato
e “accettabile”. Ovviamente non ha ottenuto da me alcuna complicità in tale
progetto “psicoterapeutico”, ma ha ottenuto alcuni spunti di riflessione ed è
quindi arrivato a capire (e a spiegarmi) che proprio con l’alcol si
controllava: si “stimolava” per esibire con gli amici una maschera da
“allegrone”, riproducendo così l’antica resa all’ingiunzione dei genitori i
quali, pur essendo infelici e rabbiosi, pretendevano che i figli fossero
soddisfatti di crescere in una famiglia “perfetta”. L’idea di controllare il
controllo (il bere) costituiva quindi l’esasperazione del sintomo, perché portava questa persona a credere di poter (e di
dover) “star bene” nonostante il dolore e senza nemmeno “l’aiuto dell’alcol”.
Questo esempio evidenzia che le persone non hanno “tendenze” da controllare con
il pentimento o con le “terapie”, perché, proprio con i sintomi, con i sensi di
colpa e con l’illusione di poter “migliorare”, controllano l’espressione del
loro potenziale personale che, nella realtà oggettiva “data”, costa
inevitabilmente dolore. Se le persone smettono di svalutarsi e di “pungolarsi”
scoprono di essere in grado di piangere e gioire, cioè di esprimere ciò che, in
assenza di “incubi educativi”, avrebbero espresso da sempre.
Ovviamente
le concezioni metafisiche dell’originaria antisocialità degli esseri umani (da
quella del peccato originale all’istinto di morte fantasticato da Freud) non
spiegano la malvagità e le concezioni metafisiche dell’originaria “bontà” umana
sono altrettanto infondate. La concezione antica ripresa da Hobbes dell’uomo inteso
come homini lupus è, infatti,
arbitraria come quella di Spinoza dell’uomo inteso come homini deus, anche se Spinoza ha compreso meglio di Hobbes le
potenzialità espressive degli esseri umani. Gli orientamenti pedagogici
tradizionali (da quelli più severi a quelli più orientati all’uso della
manipolazione e del ricatto affettivo) sottolineano i risultati a volte
conseguiti, ma non riconoscono un fatto ovvio: la (pseudo)benevolenza “appresa”
per paura del disprezzo non ha nulla a che fare con il sentimento di benevolenza
nei confronti degli altri. Chi è stato “educato con successo” alla benevolenza,
non considera affatto gli altri come dei soggetti delicati e preziosi, ma mette
in atto comportamenti benevoli per proteggersi da rifiuti interiorizzati.
L’etica, la pedagogia direttiva, le prediche religiose, le affermazioni (laiche
o religiose) dei “valori”, e la psicologia popolare convergono nell’auspicare
la benevolenza senza comprenderla e, paradossalmente, favoriscono proprio
quelle dissociazioni interiori che si traducono facilmente in distruttività e
malvagità. La reale conoscenza delle ragioni della benevolenza e della
malvagità è fondamentale, perché il male è alimentato proprio dalle concezioni
irrazionali del bene e del male e dalle loro applicazioni “educative”. Se gli
psicoterapeuti avessero fatto e facessero davvero cultura (e scienza) avrebbero
demolito il moralismo così come gli scienziati hanno demolito tante
(pseudo)spiegazioni metafisiche dei fenomeni fisici. Di fatto, ciò non è
accaduto, ma alcuni aspetti (trascurati o sottovalutati) delle scienze sociali,
della pedagogia non direttiva e persino di alcuni indirizzi della psicoterapia
ci consentono di usare il termine “amore” o “benevolenza” senza fare
confusione.
Alexander
Neill (1960), mettendo a frutto un grande talento personale, ha condotto
esperienze educative basate sul concetto di autoregolazione, e quindi orientate
a garantire accettazione, sicurezza e libertà ai bambini. Tali esperienze
radicalmente libertarie (non semplicemente “permissive” e quindi non risultanti
da indifferenza e trascuratezza) hanno evidenziato che in tale clima umano i
bambini crescono manifestando spontaneamente amicizia, collaborazione e persino
curiosità e interesse per la conoscenza. A Summerhill, nella scuola di Neill,
proprio l’assenza di insegnamenti etici favoriva lo sviluppo spontaneo della
benevolenza e l’assenza di direttività favoriva l’interesse genuino per lo
studio. Inoltre, l’assenza di repressione sessuale favoriva la maturazione di
una sessualità non ambivalente, promiscua o disturbata. Con Neill, le idee di
Rousseau (1762) sono diventate sperimentazioni coerenti e controllate, perché
la scuola di Summerhill, che continua l’attività dopo la morte del suo
fondatore, non afferma “buone idee”, ma mostra
cosa accade realmente se gli adulti si comportano da adulti con i bambini,
senza pretendere, imporre, minacciare i soggetti in crescita di cui sono
responsabili. L’idea è semplice, dato che nessun contadino prende a martellate
un alberello urlando che deve dare buoni frutti, ma si limita a sostenerlo con
un palo finché è esile e a dare acqua se piove poco. Tale idea semplice non ha
però rivoluzionato l’educazione famigliare e scolastica e tuttora i genitori
incitano i figli a “comportarsi bene” senza accompagnarli e sostenerli nella
loro crescita.
La
buona socialità e la curiosità si manifestano spontaneamente nei bambini, a
condizione che lo sviluppo della loro affettività non sia disturbato e la loro
sicurezza psicologica sia garantita incondizionatamente
dagli adulti. Nel secolo scorso, l’antropologia culturale ha registrato
significativi successi che hanno consentito agli studiosi di tutte le
discipline umanistiche e sociali di esaminare i modi di vivere e di pensare in società
primitive molto diverse dalla nostra. Le ricerche di Bronislaw Malinowski
(1927) spiccano per la loro originalità. Questo antropologo ha studiato nella
Melanesia Nord Occidentale una società in cui si attuava un circolo virtuoso,
anziché un circolo vizioso, fra la cultura intesa come dimensione interpersonale/sociale
e l’insieme delle convinzioni, dei desideri, delle emozioni e dei comportamenti
individuali. Al centro di questo paradiso si collocava un accudimento dei
neonati, dei bambini e degli adolescenti radicalmente diverso da quello che caratterizza
sia la nostra società “evoluta”, sia tante società primitive: nessuna pressione
e repressione, nessuna svalutazione e colpevolizzazione, insegnamenti basilari
e accettazione incondizionata. Poiché la popolazione trobriandese ignorava il
meccanismo biologico della fecondazione, i figli erano riconosciuti in linea
matrilineare e siccome la fecondazione era ritenuta opera di uno spirito, il
compagno della madre (il padre) aveva solo un ruolo affettivo, mentre i
(pochissimi) obblighi sociali erano trasmessi ai bambini dai fratelli delle
loro madri. Questa ignoranza non è certamente responsabile delle
caratteristiche portanti della società trobriandese perché le società
matrilineari non sono necessariamente meravigliose e perché nulla impediva al
fratello della madre di esercitare forme violente o subdole di autoritarismo
nei confronti dei bambini. Il punto è un altro: nella società trobriandese il piacere dei bambini e degli adulti non era svalutato, ma semplicemente accettato.
I
bambini venivano allattati a lungo, giocavano liberamente e venivano guidati,
ma non pungolati, nel loro sviluppo. Da adolescenti esprimevano liberamente la
loro sessualità e continuavano ad esprimere il meglio di sé da adulti. Il
circolo virtuoso era costituito da un accudimento ottimale che lasciava
emergere una ragionevole accettazione di sé; ciò si traduceva in
un’accettazione degli altri e quindi in una capacità di accudire adeguatamente
le nuove generazioni. I trobriandesi non avevano idee religiose terrificanti e
colpevolizzanti e, pur essendo a conoscenza di società simili alla loro per
sviluppo tecnico, ma culturalmente diverse (caratterizzate da autoritarismo,
angosce religiose, violenza, disturbi sessuali), non le disprezzavano e si
limitavano a considerare strano e insoddisfacente il modo di vivere che le
caratterizzava. Non so se oggi quella popolazione sia riuscita a restare
“intatta”, ma dove arrivano gli antropologi arrivano prima o poi anche gli
affaristi, i sacerdoti e gli insegnanti. Temo che i discendenti di quella meravigliosa
comunità lavorino per i turisti, guardino la televisione, maltrattino i figli e
poi li educhino a diventare “buoni”, facciano sesso senza passione e vivano
senza sapere che fare della loro vita. In ogni caso l’esperienza di un angolo
di mondo in cui le persone vivevano da persone è “agli atti”. Non ha turbato le
menti dei reazionari, dei “progressisti” e nemmeno degli psicologi, ma è un
fatto, un dato empirico su cui possiamo riflettere.
Purtroppo,
Neill ha cambiato il mondo meno di Al Capone e Malinowski è meno conosciuto di
chi ha lanciato Facebook. Le conoscenze importanti non producono necessariamente
cambiamenti significativi nella cultura accademica e popolare perché in genere gli
intellettuali e le persone comuni si pongono solo le domande che nell’infanzia
non hanno ritenuto pericolose. Le opere che incrinano la compattezza della
normale irrazionalità sociale vengono relegate in anguste nicchie della cultura
ufficiale oppure vengono svuotate del loro significato. Chi crede che Orwell
nel suo più celebre romanzo (1949) abbia scritto una storia fantascientifica o
abbia manifestato una pregevole denuncia dell’autoritarismo, riconosce la
grandezza dell’autore, ma non capisce che questi ha fatto ben più di ciò: ha
descritto con precisione chirurgica i processi psicologici che strutturano la
sottomissione delle persone all’autoritarismo sociale. Egli non ha denunciato
qualche aspetto “eccezionale” della società del suo tempo e non ha descritto
una società ipotetica, ma ha descritto i processi costitutivi di tutte forme di
irrazionalità individuale e sociale.
Le
osservazioni di Neill e Malinowski hanno avuto conferme sperimentali. Le
ricerche neurofisiologiche sull’attività dei neuroni specchio scoperti
all’inizio degli anni ’90 e altre ricerche
evidenziano aspetti della nostra neurobiologia che favoriscono la cura non solo
della prole, ma anche degli altri in generale (cfr. Churchland, 2011, p. 24, p.
90 e p. 232). Al di là dell’importanza di tali indagini sui meccanismi fisiologici,
mi sembra decisiva proprio l’osservazione delle manifestazioni di cura per gli
altri (e quindi di empatia e benevolenza) in fasi precoci dello sviluppo in cui
i bambini non sono ancora influenzati da pressioni educative (cfr. Tomasello, 2009; Warneken-Tomasello, 2006).
I
risultati delle operazioni difensive possono essere manifestazioni di crudeltà
o di indifferenza, ma anche espressioni apparentemente amorevoli. Infatti,
alcune persone sono capaci di commuoversi per animali maltrattati, ma sono
incapaci di provare compassione per gli esseri umani che loro stesse
maltrattano in una relazione di coppia o in famiglia o sul lavoro. Altre
persone possono essere apparentemente “empatiche” nei confronti dei bambini, ma
si dimostrano facilmente indifferenti o crudeli con gli adulti. Tale mescolanza
di sensibilità e insensibilità fa sospettare che ci sia qualcosa di molto
strano anche nelle manifestazioni apparentemente convincenti di “empatia”,
perché, se la sofferenza e la sensibilità altrui fossero realmente percepite,
verrebbero identificate in tutti i casi. Chi realmente accetta ed esprime il
proprio dolore, lo riconosce nei derelitti ma anche nei ricchi, nei figli ma
anche nel/nella partner, negli amici ma anche nei nemici. Quando questo non
avviene, anche le manifestazioni di protettività, di indignazione per le
ingiustizie o di impegno nei confronti di un segmento circoscritto della
società non possono essere autentiche e ciò rende ancor più drammatica la
convivenza sociale. Sicuramente è socialmente più utile una persona che fa
volontariato con i bambini extracomunitari per sentirsi “altruista” di quanto
lo sia una persona che li considera spazzatura, ma se la persona “impegnata”
socialmente si sente libera di colpevolizzare i figli quando non studiano,
evidentemente non è davvero in contatto nemmeno con i “poveri extracomunitari”.
In ogni caso, sia l’indifferenza, sia la benevolenza simulata, sia la crudeltà
sono più presenti di quanto vorremmo perché le persone, sia individualmente,
sia “tutte assieme”, non accettano il dolore che attraversa la loro esistenza.
Ho
cercato finora di riportare il tema dell’amore e della benevolenza sul terreno
delle competenze emozionali e quindi ho cercato di toglierlo dal terreno delle
concezioni metafisiche, religiose, etiche e “patologizzanti”. I concetti
dell’etica e della psicoterapia non spiegano ciò che le persone comprendono
immediatamente se gestiscono il proprio dolore, se si fanno compagnia, se si
sentono preziose e quindi pensano che anche le altre persone siano preziose. Se
ho un panino e Paolo ha fame come me e non ha nulla, dividendo il panino mi gusto mezzo panino, gioisco per Paolo e per il nostro
rapporto che si consolida. Se divoro di nascosto il mio panino, soffro perché assisto alla frustrazione
di Paolo, soffro perché incrino un
rapporto di fiducia a cui tengo e soffro
perché mi sono inflitto da solo tali sofferenze. Se non sono già dissociato dal
mio bisogno di buoni rapporti con gli altri non posso gioire per il fatto di
essere stato “furbo”. La dissociazione spiega qualsiasi condotta classificata
arbitrariamente come “immorale” o “patologica” perché se non siamo dissociati
sentiamo abbastanza dolore da favorire, per quanto possibile, sia il nostro
bene, sia quello degli altri.
La
gioia ci rende preziosi gli attimi, ma solo la compassione per il nostro dolore
e per quello di chi amiamo ci rende preziosa la vita nei momenti in cui i
nostri attimi di gioia scarseggiano. La gioia rende colorata la vita, ma solo
la compassione e la benevolenza rendono vivibile la vita. Dopo queste
riflessioni sull’amore (o benevolenza), sui desideri e sulle difese
psicologiche, resta da chiarire un punto importante che non ho toccato: posto
che l’amore va distinto dai desideri o dai bisogni e posto che l’amore dipende
dalla compassione per sé, perché amiamo
qualcuno? Perché desideriamo il suo bene? Perché siamo appagati dalla
felicità di qualcuno e siamo disposti anche a fare dei sacrifici per renderla
possibile?
Perché
proviamo benevolenza per qualcuno e non per qualsiasi persona? Possiamo anche
dire di amare l’intera umanità, ma questa dichiarazione molto “poetica” non
toglie nulla al fatto che la sofferenza di una persona cara “ci lacera dentro”,
mentre la notizia di un genocidio o di un terremoto che ha colpito moltissime
persone ci scuote solo un po’. Ovviamente, il fatto di frequentare qualcuno e
anche di ricevere gratificazioni ci aiuta a fare osservazioni più accurate. Ma
cosa scopriamo conoscendo intimamente una persona? Cosa abbiamo scoperto nella
persona amata che ci rende incondizionatamente “aperti” nei suoi confronti? Io
credo che quando arriviamo a provare amore, e quindi una genuina
“bene-volenza”, abbiamo visto la bellezza
di quella persona. Facendo questa affermazione, ovviamente non ho spiegato
nulla: infatti, se davvero amo una persona vedendo la sua bellezza, devo ancora
definire la “bellezza”. E devo basarmi su dati empirici se non voglio essere
risucchiato in una spirale di speculazioni metafisiche. Procederò per gradi.
Quando
pensiamo ad una “bella persona” non ci riferiamo alle sue qualità “utilizzabili”. Mentre le sue competenze o il suo
fascino ci risultano attraenti e gratificanti, la sua delicatezza, fragilità e
anche la forza che ha usato a beneficio di altri ma di cui non abbiamo bisogno,
ci fanno sentire che “è” una bella persona e che resterebbe tale per noi anche
se smettessimo di frequentarla. Quindi, possiamo dire che una persona è eccellente come musicista, ma ciò non la rende per noi una bella persona. Semmai ciò che
la rende per noi una bella persona è il modo in cui suona o ciò che cerca di
esprimere nella musica. Tutte qualità che avrebbe anche se fosse priva di talento
musicale. Quindi, possiamo avviare una definizione per esclusione: troviamo semplicemente
“belle” le qualità “inutili”. Ora possiamo procedere escludendo altri aspetti irrilevanti.
Non
c’è alcuna bellezza nelle difese caratteriali delle persone e nemmeno nelle
loro manifestazioni biologiche o bio-sociali. Che c’è di bello in una persona
timida che non sta nemmeno nel presente, ma cerca ancora l’accettazione non
ricevuta in un passato ormai remoto? Che c’è di bello in chi vive nel rancore? In chi
è prepotente? In chi ha paura quando non ci sono pericoli? E cosa c’è di bello
in una persona che si nutre per sopravvivere? O che suda perché è caldo? O che
recupera liquidi bevendo? La bellezza sta
al di là delle difese psicologiche e della sopravvivenza: la bellezza delle
persone riguarda ciò che le persone sono in quanto persone: non oggetti che
sopravvivono, ma soggetti che sentono, non soggetti ricoperti di difese, ma
soggetti “nudi” che, come tali, fanno eco
a ciò che siamo. Questa mi sembra l’unica definizione empirica,
non speculativa, della bellezza. La bellezza di chi prova una paura irrazionale
si vede solo se tale persona getta via il sintomo e racconta il dolore da cui
si proteggeva con il sintomo. La bellezza di chi è arrogante si vede solo
quando tale persona si spoglia della sua maschera e racconta di non essersi mai
sentita amata. La bellezza di chi si lamenta in continuazione affiora se tale
persona smette di piagnucolare, piange il proprio dolore “reale” e mostra la
propria determinazione ad affrontare la vita.
Siamo
facilmente portati a pensare che la bellezza delle persone riguardi ciò che le
persone sono “in profondità”, ma questa espressione è molto vaga e fuorviante.
Infatti, senza difese psicologiche la normalità sarebbe sempre profonda e la
profondità sarebbe normale. Io mi rifiuto di definire piani più o meno profondi
di una interiorità immaginata da menti speculative. Noi siamo persone e
sentiamo delle cose. La nostra “normale grandezza” sta nel sentire e nella
coscienza di sentire, dato che sentiamo davvero “tanto”. La profondità è
semplicemente la nostra realtà umana. Parliamo di “emozioni profonde” solo
perché, purtroppo, ci ubriachiamo di difese psicologiche che coprono la nostra
sensibilità con emozioni fasulle. Però noi non abbiamo alcuna “profondità” da raggiungere perché abbiamo solo
bisogno di toglierci il filtro deformante
delle difese psicologiche.
Al
di là di tutta la spazzatura costituita dalle convinzioni pregiudiziali, dai desideri
divenuti capricci, dalle emozioni divenute caotiche e dalle azioni distruttive,
noi siamo semplicemente noi stessi. Se ci lasciamo conoscere mettendo da parte
le difese psicologiche e se gli altri ci guardano mettendo da parte le loro
difese psicologiche, siamo semplicemente meravigliosi. E amabili. Possiamo
sembrare in certi momenti persone molto profonde solo in un mondo soffocato
dalle difese, così come appariremmo dei geni in una comunità di imbecilli. Non c’è alcuna “profondità” da scoprire, ma
solo una massa informe di difese da disattivare. Il crollo delle difese
libera ciò che è da sempre “nostro”: la gioia, il dolore, la compassione, la
passione, la sessualità, la ricerca dell’intimità, l’entusiasmo e l’ozio, il
gioco e l’impegno, la contemplazione e la lotta, la quiete della vita vissuta
con amore. Se il semplice repertorio delle azioni volte alla sopravvivenza
biologica è subumano il repertorio
delle difese psicologiche è disumano.
Proprio “il resto” è umano e noi troviamo
bello ciò che è umano. Troviamo belli anche degli aspetti della natura che rispecchiano
qualche aspetto della nostra umanità: la grazia dei movimenti di un animale, le
onde del mare, ma non un sasso in mezzo ad un sentiero. In pratica, l’espressione
delle potenzialità personali e di ciò che nella natura o nell’arte o nella
socialità è riconducibile a tali qualità, ci risulta bella e amabile perché
rispecchia le nostre potenzialità
personali.
In
fondo l’idea che la bellezza rifletta qualche corrispondenza fra ciò che
“siamo” e ciò che “è là fuori” ha qualche giustificazione (non speculativa). E’ un fatto che su molte valutazioni
estetiche il dissenso sia praticamente nullo fra gli esseri umani, dato che non
conosco né immagino persone capaci di considerare brutto il sorriso di un
bambino, il sorgere del sole o alcune grandi opere d’arte, ed è un fatto che i
dissensi sulla “bellezza” sorgono soprattutto a proposito di aspetti
circoscritti o del tutto irrazionali della realtà (l’accostamento di una
cravatta ad una camicia, un tatuaggio, una “opera d’arte” che è soltanto
intellettualmente provocatoria, ecc.). Probabilmente, quindi, la traduzione su
un piano empirico delle speculazioni dell’estetica filosofica, anche se
difficile, è possibile. In questo senso l’esperienza della bellezza è
un’esperienza di armonia con ciò che ci
rende davvero “noi stessi”, non con la nostra biologia o con l’insieme
delle nostre difese psicologiche. Quando un artista ha l’impressione che la sua
opera si sviluppi “da sola”, quando ci “arrendiamo” alla dolcezza di un
paesaggio, quando leggiamo una poesia e siamo convinti che qualsiasi correzione
sarebbe intollerabile, quando siamo con una persona e non vorremmo essere con nessun
altro al mondo, stiamo osservando qualcosa che ci appare bello proprio perché
rispecchia ciò che siamo. Non ciò che abbiamo fatto un’ora fa e che potremmo
sicuramente rifare meglio, ma ciò che siamo. L’esperienza della bellezza ci
consente di restare ciò che siamo, ma
anche di trascendere ciò che siamo senza sentirci smarriti. Sperimentiamo
una sintonia anziché una fastidiosa dissonanza o una semplice diversità.
Trovando bella una persona non possiamo non volere il suo bene e, anzi, siamo
disponibili a fare anche dei sacrifici per la felicità di tale persona. Io non
credo si possa dare una definizione assoluta della bellezza, perché credo che
consideriamo bello ciò che ci riporta in qualche modo a noi stessi. A ciò che
siamo “davvero” e quindi al di là della nostra semplice tendenza a sopravvivere
e di qualsiasi atteggiamento difensivo.
Cosa
sta alla base del nostro continuare a vivere anche nei momenti più difficili,
in cui il piacere è davvero poco e il dolore sembra addirittura troppo? Nei
momenti più bui, non ci opponiamo alla vita (come nelle situazioni depressive),
ma continuiamo ad affrontare le cose perché
amiamo qualcuno o qualcosa. Possiamo, infatti, vivere per il nostro piacere, ma anche per
aver cura delle persone che amiamo. Le due possibilità non sono affatto
delle alternative che si escludono, ma se una di esse non trova alcun
appagamento, l’altra costituisce una valida ragione per continuare ad
attraversare l’orrore di un periodo della vita contrassegnato quasi
esclusivamente dal dolore. E’ fuori discussione che noi cerchiamo il piacere,
ma quando il piacere non è sufficiente, proprio la benevolenza, il voler bene,
l’amare ci conduce ad un altro
piacere: il piacere di aver cura di chi amiamo. Possiamo amarci anche nel
dolore ed essere felici di essere noi stessi anche quando tutto ci crolla
addosso e possiamo amare altre persone anche nel dolore ed essere felici della
loro presenza o del loro “esserci” anche se tutto continua a crollarci addosso.
Se non raggiungiamo questa sensazione di “compiutezza” perdiamo la voglia di
vivere appena il dolore supera aritmeticamente il piacere.
L’etica
e la psicoterapia rassicurano, ma non
danno alcuna reale sicurezza agli
esseri umani che tali sono proprio perché sono (e restano) vulnerabili e
precari nel grande mondo e quindi hanno la
necessità di imparare a vivere senza sicurezze. Proprio nell’accettazione
della nostra basilare precarietà possiamo abbracciare noi stessi e gli altri. Se
ci conosciamo, come possiamo non provare benevolenza per quella cosa delicata,
piccola e immensa, tremante e caldissima che siamo? E come possiamo non pensare
agli altri come a persone simili a noi?
La
bellezza è il nostro “richiamo della foresta”: proprio nell’amore per ciò che è
come noi e al di là di noi possiamo esistere e non restare imprigionati
nell’orizzonte della sopravvivenza e delle difese psicologiche. Il fascino
dell’ululato dei lupi descritto da Jack London riguarda anche noi, ma nel nostro caso ci spinge ad esprimerci più che a cercare la sicurezza del branco: “Ma soprattutto gli piaceva
correre nel cupo crepuscolo delle mezzanotti estive, ascoltando i soffocati e
sonnolenti sussurri della foresta, interpretando segni e suoni così come un
uomo può leggere un libro, e cercando quella misteriosa cosa che continuava,
continuava a chiamarlo, nel sogno e nella veglia, ad ogni ora, perché la raggiungesse” (1903, p. 79). Il richiamo
della nostra foresta ci porta a salvare noi stessi incontrando gli altri.