Ciò che sentiamo dipende da ciò
che accade, ma anche da ciò che facciamo con noi stessi nel nostro dialogo
interno, perché proprio in tale processo orientiamo la nostra attenzione in una
certa direzione, ordiniamo i fatti in modi più o meno razionali ed espandiamo o
limitiamo le nostre possibilità di capire, sentire e agire.
Immaginiamo, ad esempio, di
aspettare la telefonata di un amico (Paolo) e di aspettare più del previsto.
Possiamo dialogare con noi stessi in moltissimi modi, più o meno razionali e
costruttivi, ma ne voglio descrivere tre abbastanza significativi.
a1. Vorrei che Paolo avesse già
telefonato
a2. vorrei conoscere le ragioni di questo
ritardo
a3. è il
caso che chiami Paolo per sapere qualcosa?
a4. se
Paolo ha dei problemi e chiamo, finisco per creargli un problema in più
a5. forse è meglio che aspetti
ancora un po’.
Con gli stessi elementi a
disposizione posso dirmi altre cose:
b1. Paolo doveva
chiamarmi
b2. perché
mi tratta così?!
b3. potrei
chiamarlo per sapere come mai non ha mantenuto l’impegno
b4. è già
stato scorretto, ma se lo chiamo subito faccio la figura di uno che sta sulle
spine per lui
b5. forse è meglio che aspetti
ancora prima di dirgli che non deve permettersi di trattarmi così.
Con gli stessi elementi a
disposizione posso anche dirmi cose di questo tipo:
c1. Paolo
non ha telefonato e io, come al solito, non sono nei pensieri degli altri
c2. cosa sbaglio
per meritarmi questo trattamento?
c3. è il
caso che lo chiami per sapere se ha scordato l’appuntamento con me?
c4. se lo
chiamo e ha da fare forse si arrabbierà
c5. forse è meglio che aspetti
ancora prima di seccarlo con una telefonata.
In questi tre casi di dialogo
interno, provo il desiderio di conoscere le ragioni del ritardo e decido
comunque di aspettare prima di fare una telefonata, ma attivo emozioni diverse. Nel primo dialogo interno riconosco un
desiderio e una frustrazione. Evito interpretazioni pregiudiziali poiché
non ho elementi per sapere cosa sia accaduto e sperimento quindi, un piccolo
dolore ed un po’ d’ansia. Grazie all’accettazione del dolore dovuto al ritardo posso
mantenere il rispetto per me stesso e per Paolo. Nel secondo dialogo metto
da parte il desiderio e il dolore concentrandomi sul fatto che Paolo non ha
mantenuto un impegno. Il dialogo è all’insegna della svalutazione. Colloco
l’amico nel ruolo del colpevole da punire e attivando la rabbia mi sento
“forte”. Il terzo dialogo è speculare al secondo: in questo caso attribuisco a
me stesso il ruolo della “persona sbagliata”. Anche in questo caso non provo né
il dolore della frustrazione reale, né l’ansia per l’attesa, perché sento (come
al solito) di valere poco, ma anche di poter, forse, “diventare accettabile” evitando
di disturbare.
I vantaggi del secondo e del
terzo dialogo sono del tutto irreali, perché Paolo non è né un imputato né un giudice.
L’interpretazione pregiudiziale di una situazione non conosciuta serve solo a
non rendere percepibile il dispiacere per il fatto che le cose non procedono
secondo le aspettative. Le persone arroganti contano di “vincere” umiliando gli
altri e le persone “deboli” contano di “vincere” mostrandosi sottomesse. Solo
se comprendiamo che tali strategie sono state sviluppate nell’infanzia possiamo
capire che, stando male in questi modi strani, le persone cercano, come i
bambini rifiutati, di non riconoscere un bisogno e l’impossibilità di
soddisfarlo. Analoghe operazioni psicologiche (volte a soffocare il dolore) intervengono anche nelle relazioni delle persone con la cultura e la società e favoriscono l'affermazione delle illusioni condivise e dell'autoritarismo politico. La diffusione delle ideologie più stupide non dipende dalla stupidità delle persone, ma dalla loro paura disconosciuta.
La caratteristica basilare di
ogni dialogo interno consiste nell’attivazione di due ruoli. Gli adulti fanno
sempre due cose alla volta: se faccio una telefonata, oltre a telefonare
autorizzo la telefonata. Se non la faccio, oltre a fare altre cose vieto la
telefonata. I bambini non sono in grado di condurre un dialogo interno e
proprio per questo hanno bisogno del sostegno dei genitori. Raggiungono
gradualmente, nel corso degli anni, la completa capacità di farsi compagnia, ma
nel frattempo hanno bisogno di essere sostenuti da un “dialogo esterno” con le
figure genitoriali. In assenza di un dialogo esterno amorevole i bambini
riescono ad affrontare le situazioni piacevoli, ma non quelle dolorose. Se sono
soli nel dolore o addirittura sperimentano il dolore proprio con i genitori,
non potendo elaborare il dolore, costruiscono inconsapevolmente delle difese
psicologiche: si distraggono, si dissociano, si creano illusioni, fanno azioni
volte a negare la realtà. Crescendo, sviluppano un dialogo interno inquinato
dalle difese psicologiche già attivate: in pratica, anziché parlare fra sé e sé di come stanno le cose e
di come si sentono, svalutano gli altri o si svalutano, si concentrano su
fatti irrilevanti per distrarsi da quelli rilevanti, e così via. Il dialogo
interno difensivo è inutile e dannoso perché produce sentimenti irrazionali,
produce ulteriori giustificazioni (infondate) di tali sentimenti irrazionali e
produce comportamenti irrazionali che incidono negativamente sulle relazioni
interpersonali. Il dialogo interno irrazionale non è “l’effetto” del dialogo
instaurato nell’infanzia dai genitori, ma è la
risposta del bambino al
rapporto con i genitori.
Immaginiamo un bambino alle
prese con un oggetto che non riesce ad utilizzare. Il padre (o la madre)
interviene mostrando fastidio per quelle azioni “inconcludenti”, toglie
l’oggetto dalle mani del figlio e mostra “come si fa”. In questo dialogo
“esterno” fra genitore e figlio i messaggi sono di due ordini, perché riguardano
il contenuto e la relazione. Al primo livello il genitore insegna come usare un
oggetto, mentre al secondo livello il genitore mostra un rifiuto del figlio
come persona. Un rifiuto che è il caso particolare di un più generale rapporto
non “sicuro”. Si dirà che questa piccola esperienza non è grave, ma tale
minimizzazione è ingiustificata. Anche una piccola svastica sulla giacca può
essere considerata come un semplice ricamo, ma in realtà è molto di più. Il
bambino viene respinto nel momento in cui mostra una particolare
mancanza di abilità, ma non a causa di tale mancanza. E’ respinto
proprio perché il genitore è indisponibile a fare il genitore e cerca
semplicemente di far agire il figlio in un certo modo: se questi “non funziona”
pensa di provocarlo, deriderlo o reprimerlo pur di farlo “funzionare”.
L’unico vero bisogno
psicologico degli adulti è quello di condurre continuativamente un buon dialogo
interno. Da bambini abbiamo bisogno dei genitori per non dissociarci e da
adulti abbiamo bisogno di un buon dialogo interno per non dissociarci. Il
dialogo interno ci accompagna mentre siamo soli, mentre stiamo con altre
persone, mentre lavoriamo e mentre ci svaghiamo. Il dialogo interno, se non è rovinato dalle difese psicologiche, ci permette
di non sentirci soli anche se stiamo piangendo per antichi vissuti di
solitudine. Ci aiuta ad accettare la realtà e a cambiarla quando è possibile.
Soprattutto ci fa provare compassione per noi stessi e ci rende capaci di
amarci e di amare.
Vorrei riportare una poesia di
D. H. Lawrence, intitolata Self-pity (inclusa nella raccolta Selected Poems)
Non ho mai visto un animale
dispiaciuto per sé.
Un piccolo uccello cadrà
morto di freddo da un ramo
senza aver mai provato
compassione per sé.
Non so se a noi possa sembrare
preferibile vivere nel flusso della vita senza autocoscienza, come è normale
per un uccellino, oppure vivere sapendo che siamo soggetti unici, con una
particolare sensibilità, una memoria del nostro passato, un’idea del nostro
futuro, ma anche sapendo che siamo limitati, fragili e destinati a scomparire.
L’uccellino di Lawrence sente sofferenza e poi non sente più nulla. Noi
possiamo provare sofferenza sapendo cosa accade e possiamo anche aspettare la
nostra morte, ma in questo processo, forse più doloroso (proprio perché
consapevole), l’abbraccio della nostra compassione bilancia la pena. Perché ci
risulta così toccante l’immagine dell’uccellino che muore senza capire ciò che
sta accadendo e quindi senza provare compassione per sé? Credo che tale
immagine ci risulti così penosa proprio perché noi siamo più coscienti degli
altri animali, ma spesso ci neghiamo l'aspetto più prezioso dell’autocoscienza,
cioè la compassione per noi stessi. L’uccellino
di Lawrence ci turba perché in esso ritroviamo noi stessi, o almeno ciò
che siamo diventati: persone che brancolano nello spazio e nel tempo senza un
dialogo interno compassionevole. La (purtroppo) normale mancanza di compassione
per noi stessi ci rende la vita arida e ricca di “tensioni” strane, oppure
“agitata” e caoticamente penosa. Gli esseri umani hanno la possibilità di
vivere “poco” come gli altri animali, ma in tal modo vivono peggio di loro
proprio per la presenza ingombrante di una coscienza attiva, ma divenuta opaca.
E’ lo stesso Lawrence che ci
ricorda la nostra capacità di “perderci” con una poesia intitolata Prigioniero del proprio ego, inclusa
nella raccolta Mattino di primavera e altre poesie:
Come una pianta diventa prigioniera del suo
vaso, l’uomo diventa prigioniero
del suo ego, chiuso
nella sua limitata coscienza mentale.
Allora non può più sentire
o amare, o gioire, o provare
dolore.
Lawrence aveva ben chiaro che
abbiamo la capacità di esprimerci e, purtroppo, anche quella di bloccare o
limitare o distorcere tale capacità. L’idea della persona come entità capace di
esprimere delle specifiche potenzialità non è nuova, come non lo è l’idea che
sia possibile ed importante non ostacolare nei bambini lo sviluppo delle loro potenzialità
personali. In ambito psicoterapeutico tali idee sono state trasmesse da vari
esponenti della "psicoterapia umanistica” influenzata dalla filosofia
esistenzialista, dallo spiritualismo o da tradizioni religiose. Purtroppo,
l’esistenzialismo, sia in filosofia che in psicoterapia non offre spiegazioni,
ma esprime idee vaghe e stati d’animo confusi.
Poche parole del libro più noto
di Abraham H. Maslow che, come Carl R. Rogers (1951) e Rollo May (1969), è uno
degli esponenti principali di tale indirizzo, mostrano che l’integrazione di
principi “umanistici” e idee “terapeutiche” ha prodotto risultati davvero modesti.
L’autore esamina particolari esperienze “di vetta” (peak experiences) e più stabili manifestazioni di
“autorealizzazione” personale per identificare una condizione in cui la persona
è più aperta all’esperienza, più creativa e così via: “La persona diviene,
durante tali episodi, più autentica rispetto a se stessa, attua in modo più
perfetto le proprie potenzialità, è più vicina al nucleo del suo Essere e più
pienamente umana. Tali condizioni o episodi, possono, in teoria, giungere in
qualsiasi momento nella vita di qualsiasi persona. Quanto sembra
contraddistinguere quegli individui che ho chiamato persone auto realizzanti è
che, in essi, tali episodi appaiono assai più frequenti, più intensi e più
perfetti che nella media della popolazione” (1962, p. 103). Questo brano è
un’accozzaglia di banalità, di espressioni “poetiche” e di svalutazioni. Maslow
non collega questi stati d’animo a modi di pensare e agire delle persone. Egli
parla anche di “bisogni inferiori” e offre una formulazione misticheggiante di
esperienze preziose che meritano invece un’analisi attenta. La psicologia di
Maslow include anche un esame critico della normalità psicologica, ma non mette
in discussione la logica “clinica” e quindi pseudo-medica della psicoterapia,
perché mantiene intatta l’idea che gli esseri umani “pienamente funzionanti”
siano, come tali,“sani” (cfr. op. cit. p. 81). Anche se tale indirizzo
psicoterapeutico include contributi preziosi, come ad esempio quelli di Irvin
D. Yalom (1980), nel suo insieme non ha prodotto quel cambiamento di paradigma
che sarebbe stato auspicabile. Ciò che qui però voglio sottolineare non è
l’inadeguatezza della psicoterapia in generale o della psicoterapia umanistica
in particolare, ma la necessità di esaminare la questione delle “potenzialità”
espressive personali sul piano empirico
per chiarire alcuni aspetti significativi della razionalità e
dell’irrazionalità.
Trattando
il tema dell’empatia e della benevolenza ho già evidenziato che i bambini hanno
effettivamente un potenziale espressivo che si sviluppa in assenza di
impedimenti e viene invece limitato dalle pressioni “educative”. Credo che
seguendo questa linea di pensiero sia possibile giungere ad una concezione non
speculativa delle potenzialità espressive. Di fatto, il lavoro analitico,
essendo focalizzato sull’analisi delle difese, procede in negativo: interrompendo le interruzioni del contatto e smontando
le convinzioni infondate libera una strada ostruita. Toglie qualcosa lasciando
espandere ciò che già c’era. Il lavoro analitico, dissolvendo gli intoppi
difensivi, recupera ciò che si sarebbe sviluppato in assenza di difese. Un
esempio può chiarire bene questo fatto.
Una
cliente inizia la seduta dicendomi che dopo il nostro ultimo incontro aveva
pianto più volte. Aveva capito e accettato che poteva
essere amata, ma da persone grandi come lei e che, quindi, non poteva trovare il
sostegno protettivo che aveva sempre cercato. Poi mi dice: “Sono stata a pranzo
dai miei genitori e lasciando la loro casa non ho provato quell’irritazione che
ero abituata a provare constatando la loro freddezza e la loro superficialità.
Loro ovviamente non erano cambiati, ma ero cambiata io: non li confrontavo più
con il modello al quale pensavo si dovessero conformare, ma li vedevo così come
erano, così anziani, così soli e incapaci di stare bene con me. Io non stavo
bene con loro, ma per la prima volta ho pensato che loro non erano mai riusciti
a stare bene con me. Ho pensato agli anni in cui non si erano accorti del fatto
che crescevo, che soffrivo, che ero così bella”.
Se
le difese psicologiche non ci rendessero allettante uno stile di vita
irrazionale vivremmo da persone perché siamo persone, così come i pellicani e
le giraffe vivono in modi che riflettono le loro caratteristiche specifiche e
quindi le loro potenzialità. Pur essendo in grado di provare compassione e di
aver cura di noi e dei nostri simili, limitiamo intenzionalmente queste capacità per paura di sentire “troppo”. A mio parere la selezione naturale è
stata spietata con chi pensava che una belva feroce fosse innocua, impedendo a
questi pensatori “originali” di lasciare una numerosa prole. E’ stata invece
più flessibile con chi accarezzava illusioni rassicuranti. La selezione
naturale ha decimato i creatori di “sciocchezze intellettive”, ma non i
creatori di “sciocchezze emotive”. L’irrazionalità individuale e sociale ha
seguito come un’ombra la razionalità nel suo progressivo dispiegamento. In
fondo consideriamo come spiriti elevati delle semplici persone di buon cuore
come Martin Luther King o Nelson Mandela proprio perché continuiamo a considerare
normali i loro avversari.
Nel
passaggio dalla sua concezione iniziale del totalitarismo come “male radicale”
(1948, p. 628) alle riflessioni sulla “banalità” del male (1963), Hannah Arendt
si è avvicinata moltissimo ad una comprensione delle “ragioni” del male.
Assistendo al processo di Eichmann e osservando incredula l’autodifesa di un
uomo che “in buona fede” si riteneva responsabile solo di aver fatto il proprio
dovere eseguendo con zelo gli ordini ricevuti, ha capito che l’unica colpa
imputabile a tale persona era una basilare “mancanza di immaginazione” (1963,
p. 290). L’imputato stentava davvero ad immaginare
una propria personale “presa di posizione” nei confronti di quanto avveniva
nella società e nel suo campo di concentramento e di ciò che gli veniva
richiesto dai superiori. Il concetto di banalità applicato al male è
sicuramente tagliente, ma, restando collocato nel territorio della filosofia
morale, non risulta esplicativo. Sfiora una comprensione del male, ma non
spiega nulla e forse proprio per questo ha affascinato molti intellettuali.
Tanti
anni di lavoro analitico mi hanno portato a vedere che le difese psicologiche
sono simili ai vestiti: appena ce ne liberiamo risultiamo fondamentalmente
simili. Ognuno ha lineamenti più o meno regolari, ma senza vestiti, “nudi come
vermi” ci assomigliamo molto. Sul piano psicologico, la perdita delle difese
rende le persone altrettanto simili ed anche più belle. La vita umana è
estremamente complessa e le storie individuali sono uniche e ciò rende le
persone altrettanto uniche. Tuttavia il potenziale espressivo delle persone è
simile. Tra un falegname povero, privo di cultura classica, ma intelligente e
appassionato, che costruisce un’arpa per la figlia (penso al padre di una
persona che ho conosciuto) e uno scienziato che, colpito da un male incurabile,
insegna agli studenti nella sua ultima lezione quanto sia preziosa la vita umana
(Pausch, 2008) le differenze sono notevoli, ma anche le somiglianze. La
somiglianza non sta nel fatto che anche quel falegname era (davvero) un po’
geniale, perché tale somiglianza si potrebbe estendere ad una persona poco
intelligente che fa ore di straordinario per i figli. La somiglianza sta nella
comprensione della delicatezza della propria vita e della vita degli altri e
nella cura dedicata alla propria vita ed a quella degli altri. L’indebolimento delle difese psicologiche
mette in risalto somiglianze profonde fra le persone: in tale processo i
passatempi vengono sostituiti dalle passioni, la “vita sociale” viene
rimpiazzata da rapporti rispettosi e intensi, la sessualità meccanica,
“stentata” o “complicata” viene rimpiazzata dalla ricerca del piacere e
dell’intimità, l’ambizione viene sostituita dal perseguimento di obiettivi
condivisi, la rabbia diventa più esplicita quando proprio è necessaria, ma non
viene quasi mai attivata e la paura diventa più realistica e meno pervasiva.
Quel misto di benevolenza, curiosità, spontaneità e impegno si realizza a
partire dall’accettazione del dolore da sempre intenzionalmente, ma
inconsciamente, ignorato.
Non
credo serva a molto un “ideale” di “autorealizzazione” o di realizzazione del
“potenziale umano” costruito a tavolino mescolando Epicuro, Spinoza, Rousseau e
aggiungendo un pizzico di ottimismo. La vita delle persone è un’avventura
tragica e affascinante, perché le persone sono
in grado di contemplare la bellezza della vita, di apprezzare il piacere
dell’intimità e di costruire una storia personale volta a migliorare le storie
personali di tutti. Tuttavia, normalmente vivono come se non disponessero di
tale capacità. Il potenziale personale è
ciò che ogni persona esprime se rinuncia alle proprie strategie difensive. Sto
parlando del potenziale “espressivo”, ovvero della capacità di manifestare
atteggiamenti e comportamenti risultanti dall’accettazione della realtà (e del
dolore che fa parte della realtà).
Fino
ad ora ho delineato l’ambito della razionalità e, più in generale,
dell’espressione delle potenzialità personali “per sottrazione”: osservando ciò che resta se nell’accudimento dei
bambini e nella pratica educativa si eliminano i rifiuti, le svalutazioni e le
pressioni o se, nel lavoro analitico, si dissolvono le difese. Vorrei ora accennare
alla “costruzione” di tali potenzialità nel corso dell’evoluzione delle specie.
Ripercorrendo le tappe dell’evoluzione possiamo facilmente capire come siamo
giunti a disporre di particolari capacità cognitive ed emotive che ci
consentono sia di conoscere la realtà oggettiva, sia di realizzare rapporti
interpersonali e sociali soddisfacenti. L’empatia
sta alla base di qualsiasi relazione ragionevole e costruttiva.
L’empatia
può essere definita come “la capacità dell’individuo di rappresentarsi gli
stati mentali altrui, di attribuire agli altri conoscenze, credenze ed emozioni
e di riconoscere differenze e similitudini tra gli stati mentali propri ed
altrui” (Changeux, 2008, p. 321). Tale definizione rinvia quindi ad una capacità o competenza o abilità e non ad
un sentimento, come la simpatia o la benevolenza. Infatti possiamo renderci
conto in qualche misura di ciò che pensa e sente un’altra persona pur
disapprovando il suo modo di porsi e persino provando antipatia nei suoi
confronti. E’ indispensabile distinguere questi concetti, anche per capire che
le capacità empatiche (di cui sono ormai note le basi neurologiche) hanno accresciuto le possibilità di “compatire” gli altri e quindi di provare
benevolenza.
Parlando
di simpatia indichiamo un’attrazione o inclinazione o intesa nei confronti di
qualcuno e parlando della benevolenza (che si declina nelle sfumature
dell’affetto e dell’amore) indichiamo il desiderio che l’altra persona sia
felice e la nostra disponibilità a favorire il suo bene, anche a costo di
sacrifici. Il termine compassione (patire con), nell’uso comune che mi sembra
più appropriato, indica soprattutto il provare dispiacere per il dispiacere di
un’altra persona e, in tal senso, la compassione presuppone capacità empatiche
e comporta un minimo di benevolenza. Le capacità empatiche stanno alla base di
questi vari stati emotivi che rendono possibile la convivenza fra gli esseri umani.
Lo
sviluppo della specie umana si è attuato nell’arco di centinaia di migliaia di
anni e la teoria dell’evoluzione collega in uno schema plausibile e coerente le
scoperte paleoantropologiche, lo studio dei primati, la biologia e la
psicologia. Nel libro L’origine delle
specie, (1859) Darwin si era limitato ad affermare che “Molta luce sarà
fatta sull’origine dell’uomo e sulla sua storia” (p. 552), ma approfondì tale
questione ne L’origine dell’uomo e la
selezione sessuale (1871). Dalla pubblicazione di quel volume e di molte
altre ricerche, vari studiosi hanno cercato di rendere conto delle
caratteristiche particolari degli esseri umani, soprattutto delle loro capacità
cognitive e dell’uso del linguaggio. Le conoscenze relative all’evoluzione del
pensiero, della socialità e del linguaggio sono già notevoli, anche se
persistono delle incertezze su varie questioni. L’argomento che però mi sta più
a cuore è quello riguardante l’evoluzione della specie umana sul piano delle
emozioni e della socialità.
Le
più recenti scoperte dei primatologi, hanno contraddetto l’idea di una
opposizione originaria fra la tendenza al “bene” della “coscienza” degli esseri
umani e la tendenza della loro “natura bestiale” al “male” (ricondotto agli
“istinti egoistici”). Persino Konrad Lorenz (1963) che ha chiarito moltissimi
aspetti delle radici “antiche” della nostra “umanità”, ha mantenuto l’idea che
la distruttività umana possa essere collegata al fatto che i nostri antenati
hanno cementato la socialità in un gruppo contrapponendosi agli altri gruppi.
Ciò non è credibile, perché nei gruppi siamo diventati animali culturali e
siamo divenuti capaci di decidere se e quando lottare. Oggi nessun uomo è
distruttivo per il bene della sua comunità (soprattutto quando lo afferma)
perché lo è solo per una paura irrazionale. Noi non abbiamo alcun bisogno di
combatterci. Questa dicotomia fra il bene e il male è sempre stata devastante
e, purtroppo, in passato è stata contrastata solo da isolate concezioni
ideologiche (come quella del “buon selvaggio” e dell’uomo “corrotto” dalla
società, espressa da Jean-Jacques Rousseau), ma l’idea che non dovessimo vivere
“come bruti” ha purtroppo sedotto sia Dante, sia moltissimi pensatori che lo
hanno preceduto e lo hanno seguito. Per questo motivo, le scoperte relative
alla capacità empatiche delle scimmie antropomorfe e degli animali sociali sono
preziose e ci permettono di superare il pregiudizio secondo cui la “natura”
delle persone debba essere controllata e repressa.
Frans
de Waal, zoologo ed etologo olandese, ha sottolineato che “la pressione della
selezione sulla necessità di prestare attenzione agli altri deve essere stata
enorme” (2006, p. 47) e che l’empatia costituisce la forma prelinguistica dei
rapporti interindividuali che in un secondo tempo sono stati influenzati dalla
cultura. Nello stesso libro riferisce casi davvero significativi, come quello
dei ratti che avevano appreso a schiacciare una barra per ottenere del cibo, ma
“smettevano di farlo se il loro intervento era accompagnato dall’emissione di
una scarica elettrica su un ratto vicino, a loro visibile” (p. 51), o quello
delle scimmie reso, che si rifiutavano anche per diversi giorni di tirare una catenella che erogava del cibo
ma produceva anche una scarica elettrica ad un compagno. La conclusione tratta
da questi e da molti altri esempi è quindi convincente: “l’empatia non è un
fenomeno che c’è o non c’è: comprende un’ampia gamma di modalità del legame
emozionale” (p. 65). Per questo motivo dobbiamo studiare le manifestazioni più
elementari dell’empatia se vogliamo comprendere i fenomeni che l’evoluzione ha
gradualmente reso possibili. Frans de Waal riporta anche il caso di uno
scimpanzé che ha addirittura cercato di aiutare a volare un uccellino ferito
(2006, p. 12): la scimmia antropomorfa, in questo caso ha manifestato empatia
persino nei confronti di un animale molto diverso ed ha cercato di capire quali
fossero le sue specifiche esigenze per poi offrire aiuto.
Tutto
ciò mostra che la mappatura delle competenze emotive e cognitive che condividiamo
con gli altri primati e di quelle che sembrano caratterizzare in modo specifico
gli esseri umani richiede molta attenzione e i primatologi sono oggi in grado
di mettere assieme i vari tasselli del quadro complessivo. In pratica, le
ricerche recenti confermano l’idea già espressa da Darwin che un desiderio di
contatto emotivamente significativo stia alla base della benevolenza umana e
che diventi semplicemente più complessa con l’aumento delle competenze
cognitive: “qualsiasi animale, dotato di istinti sociali ben marcati, compresi
quelli verso i genitori e i figli, acquisirebbe inevitabilmente un senso morale
o una coscienza, non appena i suoi poteri intellettuali fossero divenuti tanto
sviluppati, o quasi altrettanto sviluppati, che nell’uomo. Infatti, per prima cosa, gli istinti sociali
portano un animale a compiacersi della compagnia dei suoi simili, a sentire un
certo grado di simpatia per loro, e a compiere per essi vari servizi” (1871, p.
86). Darwin, purtroppo, come molti studiosi che lo hanno seguito, concepisce
come “morale” proprio quella sensibilità che l’etica ha sempre frainteso e
addirittura ostacolato.
La
comprensione della contrapposizione basilare (culturale, non “naturale”) fra
potenzialità espressive e difese psicologiche consente di collocare sul piano
empirico tutte le tradizionali concezioni del “male”. La razionalità pratica
non può quindi riguardare solo l’efficacia dell’agire rispetto ad uno scopo, ma
gli stessi scopi: è nel nostro potenziale espressivo la ricerca della felicità per
noi e per i nostri simili. Non è il peccato originale e nemmeno la “zavorra”
della nostra “natura animale” o “tribale” a renderci irrazionali e distruttivi,
ma l’insieme dei processi intenzionali e
inconsci costituito dalle difese psicologiche.