martedì 10 luglio 2018

5. Dialogo interno e potenzialità espressive







Ciò che sentiamo dipende da ciò che accade, ma anche da ciò che facciamo con noi stessi nel nostro dialogo interno, perché proprio in tale processo orientiamo la nostra attenzione in una certa direzione, ordiniamo i fatti in modi più o meno razionali ed espandiamo o limitiamo le nostre possibilità di capire, sentire e agire.
Immaginiamo, ad esempio, di aspettare la telefonata di un amico (Paolo) e di aspettare più del previsto. Possiamo dialogare con noi stessi in moltissimi modi, più o meno razionali e costruttivi, ma ne voglio descrivere tre abbastanza significativi.
a1. Vorrei che Paolo avesse già telefonato
a2. vorrei conoscere le ragioni di questo ritardo
a3. è il caso che chiami Paolo per sapere qualcosa?
a4. se Paolo ha dei problemi e chiamo, finisco per creargli un problema in più
a5. forse è meglio che aspetti ancora un po’.
Con gli stessi elementi a disposizione posso dirmi altre cose:
b1. Paolo doveva chiamarmi
b2. perché mi tratta così?!
b3. potrei chiamarlo per sapere come mai non ha mantenuto l’impegno
b4. è già stato scorretto, ma se lo chiamo subito faccio la figura di uno che sta sulle spine per lui
b5. forse è meglio che aspetti ancora prima di dirgli che non deve permettersi di trattarmi così.
Con gli stessi elementi a disposizione posso anche dirmi cose di questo tipo:
c1. Paolo non ha telefonato e io, come al solito, non sono nei pensieri degli altri
c2. cosa sbaglio per meritarmi questo trattamento?
c3. è il caso che lo chiami per sapere se ha scordato l’appuntamento con me?
c4. se lo chiamo e ha da fare forse si arrabbierà
c5. forse è meglio che aspetti ancora prima di seccarlo con una telefonata.
In questi tre casi di dialogo interno, provo il desiderio di conoscere le ragioni del ritardo e decido comunque di aspettare prima di fare una telefonata, ma attivo emozioni diverse. Nel primo dialogo interno riconosco un desiderio e una frustrazione. Evito interpretazioni pregiudiziali poiché non ho elementi per sapere cosa sia accaduto e sperimento quindi, un piccolo dolore ed un po’ d’ansia. Grazie all’accettazione del dolore dovuto al ritardo posso mantenere il rispetto per me stesso e per Paolo. Nel secondo dialogo metto da parte il desiderio e il dolore concentrandomi sul fatto che Paolo non ha mantenuto un impegno. Il dialogo è all’insegna della svalutazione. Colloco l’amico nel ruolo del colpevole da punire e attivando la rabbia mi sento “forte”. Il terzo dialogo è speculare al secondo: in questo caso attribuisco a me stesso il ruolo della “persona sbagliata”. Anche in questo caso non provo né il dolore della frustrazione reale, né l’ansia per l’attesa, perché sento (come al solito) di valere poco, ma anche di poter, forse, “diventare accettabile” evitando di disturbare.
I vantaggi del secondo e del terzo dialogo sono del tutto irreali, perché Paolo non è né un imputato né un giudice. L’interpretazione pregiudiziale di una situazione non conosciuta serve solo a non rendere percepibile il dispiacere per il fatto che le cose non procedono secondo le aspettative. Le persone arroganti contano di “vincere” umiliando gli altri e le persone “deboli” contano di “vincere” mostrandosi sottomesse. Solo se comprendiamo che tali strategie sono state sviluppate nell’infanzia possiamo capire che, stando male in questi modi strani, le persone cercano, come i bambini rifiutati, di non riconoscere un bisogno e l’impossibilità di soddisfarlo. Analoghe operazioni psicologiche (volte a soffocare il dolore) intervengono anche nelle relazioni delle persone con la cultura e la società e favoriscono l'affermazione delle illusioni condivise e dell'autoritarismo politico. La diffusione delle ideologie più stupide non dipende dalla stupidità delle persone, ma dalla loro paura disconosciuta.
La caratteristica basilare di ogni dialogo interno consiste nell’attivazione di due ruoli. Gli adulti fanno sempre due cose alla volta: se faccio una telefonata, oltre a telefonare autorizzo la telefonata. Se non la faccio, oltre a fare altre cose vieto la telefonata. I bambini non sono in grado di condurre un dialogo interno e proprio per questo hanno bisogno del sostegno dei genitori. Raggiungono gradualmente, nel corso degli anni, la completa capacità di farsi compagnia, ma nel frattempo hanno bisogno di essere sostenuti da un “dialogo esterno” con le figure genitoriali. In assenza di un dialogo esterno amorevole i bambini riescono ad affrontare le situazioni piacevoli, ma non quelle dolorose. Se sono soli nel dolore o addirittura sperimentano il dolore proprio con i genitori, non potendo elaborare il dolore, costruiscono inconsapevolmente delle difese psicologiche: si distraggono, si dissociano, si creano illusioni, fanno azioni volte a negare la realtà. Crescendo, sviluppano un dialogo interno inquinato dalle difese psicologiche già attivate: in pratica, anziché parlare fra sé e sé di come stanno le cose e di come si sentono, svalutano gli altri o si svalutano, si concentrano su fatti irrilevanti per distrarsi da quelli rilevanti, e così via. Il dialogo interno difensivo è inutile e dannoso perché produce sentimenti irrazionali, produce ulteriori giustificazioni (infondate) di tali sentimenti irrazionali e produce comportamenti irrazionali che incidono negativamente sulle relazioni interpersonali. Il dialogo interno irrazionale non è “l’effetto” del dialogo instaurato nell’infanzia dai genitori, ma è la risposta del bambino al rapporto con i genitori.
Immaginiamo un bambino alle prese con un oggetto che non riesce ad utilizzare. Il padre (o la madre) interviene mostrando fastidio per quelle azioni “inconcludenti”, toglie l’oggetto dalle mani del figlio e mostra “come si fa”. In questo dialogo “esterno” fra genitore e figlio i messaggi sono di due ordini, perché riguardano il contenuto e la relazione. Al primo livello il genitore insegna come usare un oggetto, mentre al secondo livello il genitore mostra un rifiuto del figlio come persona. Un rifiuto che è il caso particolare di un più generale rapporto non “sicuro”. Si dirà che questa piccola esperienza non è grave, ma tale minimizzazione è ingiustificata. Anche una piccola svastica sulla giacca può essere considerata come un semplice ricamo, ma in realtà è molto di più. Il bambino viene respinto nel momento in cui mostra una particolare mancanza di abilità, ma non a causa di tale mancanza. E’ respinto proprio perché il genitore è indisponibile a fare il genitore e cerca semplicemente di far agire il figlio in un certo modo: se questi “non funziona” pensa di provocarlo, deriderlo o reprimerlo pur di farlo “funzionare”.
L’unico vero bisogno psicologico degli adulti è quello di condurre continuativamente un buon dialogo interno. Da bambini abbiamo bisogno dei genitori per non dissociarci e da adulti abbiamo bisogno di un buon dialogo interno per non dissociarci. Il dialogo interno ci accompagna mentre siamo soli, mentre stiamo con altre persone, mentre lavoriamo e mentre ci svaghiamo. Il dialogo interno, se non è rovinato dalle difese psicologiche, ci permette di non sentirci soli anche se stiamo piangendo per antichi vissuti di solitudine. Ci aiuta ad accettare la realtà e a cambiarla quando è possibile. Soprattutto ci fa provare compassione per noi stessi e ci rende capaci di amarci e di amare.
Vorrei riportare una poesia di D. H. Lawrence, intitolata Self-pity (inclusa nella raccolta Selected Poems)
Non ho mai visto un animale
dispiaciuto per sé.
Un piccolo uccello cadrà morto di freddo da un ramo
senza aver mai provato compassione per sé.
Non so se a noi possa sembrare preferibile vivere nel flusso della vita senza autocoscienza, come è normale per un uccellino, oppure vivere sapendo che siamo soggetti unici, con una particolare sensibilità, una memoria del nostro passato, un’idea del nostro futuro, ma anche sapendo che siamo limitati, fragili e destinati a scomparire. L’uccellino di Lawrence sente sofferenza e poi non sente più nulla. Noi possiamo provare sofferenza sapendo cosa accade e possiamo anche aspettare la nostra morte, ma in questo processo, forse più doloroso (proprio perché consapevole), l’abbraccio della nostra compassione bilancia la pena. Perché ci risulta così toccante l’immagine dell’uccellino che muore senza capire ciò che sta accadendo e quindi senza provare compassione per sé? Credo che tale immagine ci risulti così penosa proprio perché noi siamo più coscienti degli altri animali, ma spesso ci neghiamo l'aspetto più prezioso dell’autocoscienza, cioè la compassione per noi stessi. L’uccellino di Lawrence ci turba perché in esso ritroviamo noi stessi, o almeno ciò che siamo diventati: persone che brancolano nello spazio e nel tempo senza un dialogo interno compassionevole. La (purtroppo) normale mancanza di compassione per noi stessi ci rende la vita arida e ricca di “tensioni” strane, oppure “agitata” e caoticamente penosa. Gli esseri umani hanno la possibilità di vivere “poco” come gli altri animali, ma in tal modo vivono peggio di loro proprio per la presenza ingombrante di una coscienza attiva, ma divenuta opaca.
E’ lo stesso Lawrence che ci ricorda la nostra capacità di “perderci” con una poesia intitolata Prigioniero del proprio ego, inclusa nella raccolta Mattino di primavera e altre poesie:
Come una pianta diventa prigioniera del suo
vaso, l’uomo diventa prigioniero
del suo ego, chiuso
nella sua limitata coscienza mentale.
Allora non può più sentire
o amare, o gioire, o provare
dolore.
Lawrence aveva ben chiaro che abbiamo la capacità di esprimerci e, purtroppo, anche quella di bloccare o limitare o distorcere tale capacità. L’idea della persona come entità capace di esprimere delle specifiche potenzialità non è nuova, come non lo è l’idea che sia possibile ed importante non ostacolare nei bambini lo sviluppo delle loro potenzialità personali. In ambito psicoterapeutico tali idee sono state trasmesse da vari esponenti della "psicoterapia umanistica” influenzata dalla filosofia esistenzialista, dallo spiritualismo o da tradizioni religiose. Purtroppo, l’esistenzialismo, sia in filosofia che in psicoterapia non offre spiegazioni, ma esprime idee vaghe e stati d’animo confusi.
Poche parole del libro più noto di Abraham H. Maslow che, come Carl R. Rogers (1951) e Rollo May (1969), è uno degli esponenti principali di tale indirizzo, mostrano che l’integrazione di principi “umanistici” e idee “terapeutiche” ha prodotto risultati davvero modesti. L’autore esamina particolari esperienze “di vetta” (peak experiences) e più stabili manifestazioni di “autorealizzazione” personale per identificare una condizione in cui la persona è più aperta all’esperienza, più creativa e così via: “La persona diviene, durante tali episodi, più autentica rispetto a se stessa, attua in modo più perfetto le proprie potenzialità, è più vicina al nucleo del suo Essere e più pienamente umana. Tali condizioni o episodi, possono, in teoria, giungere in qualsiasi momento nella vita di qualsiasi persona. Quanto sembra contraddistinguere quegli individui che ho chiamato persone auto realizzanti è che, in essi, tali episodi appaiono assai più frequenti, più intensi e più perfetti che nella media della popolazione” (1962, p. 103). Questo brano è un’accozzaglia di banalità, di espressioni “poetiche” e di svalutazioni. Maslow non collega questi stati d’animo a modi di pensare e agire delle persone. Egli parla anche di “bisogni inferiori” e offre una formulazione misticheggiante di esperienze preziose che meritano invece un’analisi attenta. La psicologia di Maslow include anche un esame critico della normalità psicologica, ma non mette in discussione la logica “clinica” e quindi pseudo-medica della psicoterapia, perché mantiene intatta l’idea che gli esseri umani “pienamente funzionanti” siano, come tali,“sani” (cfr. op. cit. p. 81). Anche se tale indirizzo psicoterapeutico include contributi preziosi, come ad esempio quelli di Irvin D. Yalom (1980), nel suo insieme non ha prodotto quel cambiamento di paradigma che sarebbe stato auspicabile. Ciò che qui però voglio sottolineare non è l’inadeguatezza della psicoterapia in generale o della psicoterapia umanistica in particolare, ma la necessità di esaminare la questione delle “potenzialità” espressive personali sul piano empirico per chiarire alcuni aspetti significativi della razionalità e dell’irrazionalità.
Trattando il tema dell’empatia e della benevolenza ho già evidenziato che i bambini hanno effettivamente un potenziale espressivo che si sviluppa in assenza di impedimenti e viene invece limitato dalle pressioni “educative”. Credo che seguendo questa linea di pensiero sia possibile giungere ad una concezione non speculativa delle potenzialità espressive. Di fatto, il lavoro analitico, essendo focalizzato sull’analisi delle difese, procede in negativo: interrompendo le interruzioni del contatto e smontando le convinzioni infondate libera una strada ostruita. Toglie qualcosa lasciando espandere ciò che già c’era. Il lavoro analitico, dissolvendo gli intoppi difensivi, recupera ciò che si sarebbe sviluppato in assenza di difese. Un esempio può chiarire bene questo fatto.
Una cliente inizia la seduta dicendomi che dopo il nostro ultimo incontro aveva pianto più volte. Aveva capito e accettato che poteva essere amata, ma da persone grandi come lei e  che, quindi, non poteva trovare il sostegno protettivo che aveva sempre cercato. Poi mi dice: “Sono stata a pranzo dai miei genitori e lasciando la loro casa non ho provato quell’irritazione che ero abituata a provare constatando la loro freddezza e la loro superficialità. Loro ovviamente non erano cambiati, ma ero cambiata io: non li confrontavo più con il modello al quale pensavo si dovessero conformare, ma li vedevo così come erano, così anziani, così soli e incapaci di stare bene con me. Io non stavo bene con loro, ma per la prima volta ho pensato che loro non erano mai riusciti a stare bene con me. Ho pensato agli anni in cui non si erano accorti del fatto che crescevo, che soffrivo, che ero così bella”.
Se le difese psicologiche non ci rendessero allettante uno stile di vita irrazionale vivremmo da persone perché siamo persone, così come i pellicani e le giraffe vivono in modi che riflettono le loro caratteristiche specifiche e quindi le loro potenzialità. Pur essendo in grado di provare compassione e di aver cura di noi e dei nostri simili, limitiamo intenzionalmente queste capacità per paura di sentire “troppo”. A mio parere la selezione naturale è stata spietata con chi pensava che una belva feroce fosse innocua, impedendo a questi pensatori “originali” di lasciare una numerosa prole. E’ stata invece più flessibile con chi accarezzava illusioni rassicuranti. La selezione naturale ha decimato i creatori di “sciocchezze intellettive”, ma non i creatori di “sciocchezze emotive”. L’irrazionalità individuale e sociale ha seguito come un’ombra la razionalità nel suo progressivo dispiegamento. In fondo consideriamo come spiriti elevati delle semplici persone di buon cuore come Martin Luther King o Nelson Mandela proprio perché continuiamo a considerare normali i loro avversari.
Nel passaggio dalla sua concezione iniziale del totalitarismo come “male radicale” (1948, p. 628) alle riflessioni sulla “banalità” del male (1963), Hannah Arendt si è avvicinata moltissimo ad una comprensione delle “ragioni” del male. Assistendo al processo di Eichmann e osservando incredula l’autodifesa di un uomo che “in buona fede” si riteneva responsabile solo di aver fatto il proprio dovere eseguendo con zelo gli ordini ricevuti, ha capito che l’unica colpa imputabile a tale persona era una basilare “mancanza di immaginazione” (1963, p. 290). L’imputato stentava davvero ad immaginare una propria personale “presa di posizione” nei confronti di quanto avveniva nella società e nel suo campo di concentramento e di ciò che gli veniva richiesto dai superiori. Il concetto di banalità applicato al male è sicuramente tagliente, ma, restando collocato nel territorio della filosofia morale, non risulta esplicativo. Sfiora una comprensione del male, ma non spiega nulla e forse proprio per questo ha affascinato molti intellettuali.
Tanti anni di lavoro analitico mi hanno portato a vedere che le difese psicologiche sono simili ai vestiti: appena ce ne liberiamo risultiamo fondamentalmente simili. Ognuno ha lineamenti più o meno regolari, ma senza vestiti, “nudi come vermi” ci assomigliamo molto. Sul piano psicologico, la perdita delle difese rende le persone altrettanto simili ed anche più belle. La vita umana è estremamente complessa e le storie individuali sono uniche e ciò rende le persone altrettanto uniche. Tuttavia il potenziale espressivo delle persone è simile. Tra un falegname povero, privo di cultura classica, ma intelligente e appassionato, che costruisce un’arpa per la figlia (penso al padre di una persona che ho conosciuto) e uno scienziato che, colpito da un male incurabile, insegna agli studenti nella sua ultima lezione quanto sia preziosa la vita umana (Pausch, 2008) le differenze sono notevoli, ma anche le somiglianze. La somiglianza non sta nel fatto che anche quel falegname era (davvero) un po’ geniale, perché tale somiglianza si potrebbe estendere ad una persona poco intelligente che fa ore di straordinario per i figli. La somiglianza sta nella comprensione della delicatezza della propria vita e della vita degli altri e nella cura dedicata alla propria vita ed a quella degli altri. L’indebolimento delle difese psicologiche mette in risalto somiglianze profonde fra le persone: in tale processo i passatempi vengono sostituiti dalle passioni, la “vita sociale” viene rimpiazzata da rapporti rispettosi e intensi, la sessualità meccanica, “stentata” o “complicata” viene rimpiazzata dalla ricerca del piacere e dell’intimità, l’ambizione viene sostituita dal perseguimento di obiettivi condivisi, la rabbia diventa più esplicita quando proprio è necessaria, ma non viene quasi mai attivata e la paura diventa più realistica e meno pervasiva. Quel misto di benevolenza, curiosità, spontaneità e impegno si realizza a partire dall’accettazione del dolore da sempre intenzionalmente, ma inconsciamente, ignorato.
Non credo serva a molto un “ideale” di “autorealizzazione” o di realizzazione del “potenziale umano” costruito a tavolino mescolando Epicuro, Spinoza, Rousseau e aggiungendo un pizzico di ottimismo. La vita delle persone è un’avventura tragica e affascinante, perché le persone sono in grado di contemplare la bellezza della vita, di apprezzare il piacere dell’intimità e di costruire una storia personale volta a migliorare le storie personali di tutti. Tuttavia, normalmente vivono come se non disponessero di tale capacità. Il potenziale personale è ciò che ogni persona esprime se rinuncia alle proprie strategie difensive. Sto parlando del potenziale “espressivo”, ovvero della capacità di manifestare atteggiamenti e comportamenti risultanti dall’accettazione della realtà (e del dolore che fa parte della realtà).
Fino ad ora ho delineato l’ambito della razionalità e, più in generale, dell’espressione delle potenzialità personali “per sottrazione”: osservando ciò che resta se nell’accudimento dei bambini e nella pratica educativa si eliminano i rifiuti, le svalutazioni e le pressioni o se, nel lavoro analitico, si dissolvono le difese. Vorrei ora accennare alla “costruzione” di tali potenzialità nel corso dell’evoluzione delle specie. Ripercorrendo le tappe dell’evoluzione possiamo facilmente capire come siamo giunti a disporre di particolari capacità cognitive ed emotive che ci consentono sia di conoscere la realtà oggettiva, sia di realizzare rapporti interpersonali e sociali soddisfacenti. L’empatia sta alla base di qualsiasi relazione ragionevole e costruttiva.
L’empatia può essere definita come “la capacità dell’individuo di rappresentarsi gli stati mentali altrui, di attribuire agli altri conoscenze, credenze ed emozioni e di riconoscere differenze e similitudini tra gli stati mentali propri ed altrui” (Changeux, 2008, p. 321). Tale definizione rinvia quindi ad una capacità o competenza o abilità e non ad un sentimento, come la simpatia o la benevolenza. Infatti possiamo renderci conto in qualche misura di ciò che pensa e sente un’altra persona pur disapprovando il suo modo di porsi e persino provando antipatia nei suoi confronti. E’ indispensabile distinguere questi concetti, anche per capire che le capacità empatiche (di cui sono ormai note le basi neurologiche) hanno accresciuto le possibilità di “compatire” gli altri e quindi di provare benevolenza.
Parlando di simpatia indichiamo un’attrazione o inclinazione o intesa nei confronti di qualcuno e parlando della benevolenza (che si declina nelle sfumature dell’affetto e dell’amore) indichiamo il desiderio che l’altra persona sia felice e la nostra disponibilità a favorire il suo bene, anche a costo di sacrifici. Il termine compassione (patire con), nell’uso comune che mi sembra più appropriato, indica soprattutto il provare dispiacere per il dispiacere di un’altra persona e, in tal senso, la compassione presuppone capacità empatiche e comporta un minimo di benevolenza. Le capacità empatiche stanno alla base di questi vari stati emotivi che rendono possibile la convivenza fra gli esseri umani.
Lo sviluppo della specie umana si è attuato nell’arco di centinaia di migliaia di anni e la teoria dell’evoluzione collega in uno schema plausibile e coerente le scoperte paleoantropologiche, lo studio dei primati, la biologia e la psicologia. Nel libro L’origine delle specie, (1859) Darwin si era limitato ad affermare che “Molta luce sarà fatta sull’origine dell’uomo e sulla sua storia” (p. 552), ma approfondì tale questione ne L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871). Dalla pubblicazione di quel volume e di molte altre ricerche, vari studiosi hanno cercato di rendere conto delle caratteristiche particolari degli esseri umani, soprattutto delle loro capacità cognitive e dell’uso del linguaggio. Le conoscenze relative all’evoluzione del pensiero, della socialità e del linguaggio sono già notevoli, anche se persistono delle incertezze su varie questioni. L’argomento che però mi sta più a cuore è quello riguardante l’evoluzione della specie umana sul piano delle emozioni e della socialità.
Le più recenti scoperte dei primatologi, hanno contraddetto l’idea di una opposizione originaria fra la tendenza al “bene” della “coscienza” degli esseri umani e la tendenza della loro “natura bestiale” al “male” (ricondotto agli “istinti egoistici”). Persino Konrad Lorenz (1963) che ha chiarito moltissimi aspetti delle radici “antiche” della nostra “umanità”, ha mantenuto l’idea che la distruttività umana possa essere collegata al fatto che i nostri antenati hanno cementato la socialità in un gruppo contrapponendosi agli altri gruppi. Ciò non è credibile, perché nei gruppi siamo diventati animali culturali e siamo divenuti capaci di decidere se e quando lottare. Oggi nessun uomo è distruttivo per il bene della sua comunità (soprattutto quando lo afferma) perché lo è solo per una paura irrazionale. Noi non abbiamo alcun bisogno di combatterci. Questa dicotomia fra il bene e il male è sempre stata devastante e, purtroppo, in passato è stata contrastata solo da isolate concezioni ideologiche (come quella del “buon selvaggio” e dell’uomo “corrotto” dalla società, espressa da Jean-Jacques Rousseau), ma l’idea che non dovessimo vivere “come bruti” ha purtroppo sedotto sia Dante, sia moltissimi pensatori che lo hanno preceduto e lo hanno seguito. Per questo motivo, le scoperte relative alla capacità empatiche delle scimmie antropomorfe e degli animali sociali sono preziose e ci permettono di superare il pregiudizio secondo cui la “natura” delle persone debba essere controllata e repressa.
Frans de Waal, zoologo ed etologo olandese, ha sottolineato che “la pressione della selezione sulla necessità di prestare attenzione agli altri deve essere stata enorme” (2006, p. 47) e che l’empatia costituisce la forma prelinguistica dei rapporti interindividuali che in un secondo tempo sono stati influenzati dalla cultura. Nello stesso libro riferisce casi davvero significativi, come quello dei ratti che avevano appreso a schiacciare una barra per ottenere del cibo, ma “smettevano di farlo se il loro intervento era accompagnato dall’emissione di una scarica elettrica su un ratto vicino, a loro visibile” (p. 51), o quello delle scimmie reso, che si rifiutavano anche per diversi giorni  di tirare una catenella che erogava del cibo ma produceva anche una scarica elettrica ad un compagno. La conclusione tratta da questi e da molti altri esempi è quindi convincente: “l’empatia non è un fenomeno che c’è o non c’è: comprende un’ampia gamma di modalità del legame emozionale” (p. 65). Per questo motivo dobbiamo studiare le manifestazioni più elementari dell’empatia se vogliamo comprendere i fenomeni che l’evoluzione ha gradualmente reso possibili. Frans de Waal riporta anche il caso di uno scimpanzé che ha addirittura cercato di aiutare a volare un uccellino ferito (2006, p. 12): la scimmia antropomorfa, in questo caso ha manifestato empatia persino nei confronti di un animale molto diverso ed ha cercato di capire quali fossero le sue specifiche esigenze per poi offrire aiuto.
Tutto ciò mostra che la mappatura delle competenze emotive e cognitive che condividiamo con gli altri primati e di quelle che sembrano caratterizzare in modo specifico gli esseri umani richiede molta attenzione e i primatologi sono oggi in grado di mettere assieme i vari tasselli del quadro complessivo. In pratica, le ricerche recenti confermano l’idea già espressa da Darwin che un desiderio di contatto emotivamente significativo stia alla base della benevolenza umana e che diventi semplicemente più complessa con l’aumento delle competenze cognitive: “qualsiasi animale, dotato di istinti sociali ben marcati, compresi quelli verso i genitori e i figli, acquisirebbe inevitabilmente un senso morale o una coscienza, non appena i suoi poteri intellettuali fossero divenuti tanto sviluppati, o quasi altrettanto sviluppati, che nell’uomo. Infatti, per prima cosa, gli istinti sociali portano un animale a compiacersi della compagnia dei suoi simili, a sentire un certo grado di simpatia per loro, e a compiere per essi vari servizi” (1871, p. 86). Darwin, purtroppo, come molti studiosi che lo hanno seguito, concepisce come “morale” proprio quella sensibilità che l’etica ha sempre frainteso e addirittura ostacolato.
La comprensione della contrapposizione basilare (culturale, non “naturale”) fra potenzialità espressive e difese psicologiche consente di collocare sul piano empirico tutte le tradizionali concezioni del “male”. La razionalità pratica non può quindi riguardare solo l’efficacia dell’agire rispetto ad uno scopo, ma gli stessi scopi: è nel nostro potenziale espressivo la ricerca della felicità per noi e per i nostri simili. Non è il peccato originale e nemmeno la “zavorra” della nostra “natura animale” o “tribale” a renderci irrazionali e distruttivi, ma l’insieme dei processi intenzionali e inconsci costituito dalle difese psicologiche.