La razionalità teorica è fondamentale per
gli esseri umani (non per qualsiasi animale) perché gli esseri umani sono
capaci di cercare la verità; la
razionalità pratica è fondamentale per gli esseri umani (non per qualsiasi
animale) perché gli esseri umani sono capaci di proporsi obiettivi da
realizzare. La mantide religiosa non dialoga con se stessa, non decide che fare
con il suo partner e che fare del suo partner dopo l’accoppiamento: lo divora
perché il suo programma genetico lo ha stabilito. Il programma genetico degli
esseri umani ha invece reso possibile la coscienza e l’intenzionalità
dell’agire. Gli esseri umani, se non devono fronteggiare emergenze ingestibili prima del loro completo sviluppo
psicologico, cercano la felicità (per se stessi e per gli altri) accettando il
dolore inevitabile. Sono fatti in un certo modo, come gli altri animali, ma
sono fatti in modo tale da proporsi la costruzione della loro storia.
Ragionare
con gli altri su ciò che conduce alla verità è più facile che ragionare con gli
altri su ciò che è “meglio” fare. Le
difficoltà di una formalizzazione della ragione pratica derivano dal fatto che le
intenzioni, i desideri e le emozioni delle persone non sono facili da esaminare
come gli elementi di cui si occupano i logici o gli scienziati. Già il fatto
che un enunciato escluda la propria negazione (non posso affermare sia P, sia
non-P), mentre due desideri contraddittori non sono inconcepibili (potrei aver
voglia di stare “in pace” a casa e anche
di uscire per incontrare degli amici) rende difficile inquadrare i processi
decisionali in schemi formalmente limpidi come quelli logici. Inoltre, gli
enunciati sottoponibili al vaglio della logica sono sempre affermati
consapevolmente, mentre i desideri, le emozioni e le intenzioni spesso sono
“operanti” al di sotto della consapevolezza soggettiva. Proprio per questo, quando
si ragiona sulle scelte pratiche molto spesso si mente senza necessariamente
averne consapevolezza.
La
razionalità e l’irrazionalità nella sfera pratica hanno a che fare con
l’intenzione di vivere in un certo modo. Ora, su quali basi possiamo definire
razionale o irrazionale la scelta di rischiare la vita per una causa, di fare
dei sacrifici per i figli o per gli amici, oppure di fare mille chilometri per
stringere fra le braccia una sola notte la persona amata? L’irrazionalità a cui
ci si riferisce quando si parla di “stupidaggini” o “assurdità” o di decisioni
“non rispettose” o “insensate” o “distruttive” può riguardare le scelte
inefficaci o troppo costose per il raggiungimento di un fine già stabilito, ma in genere riguarda proprio i fini. Purtroppo,
se concepiamo la razionalità pratica come un ambito che include anche i fini
rischiamo di scivolare in un integralismo etico o ideologico e di definire
irrazionale ciò che ci risulta soggettivamente sgradito. Tuttavia, non corriamo
tale rischio se (e solo se) ci proponiamo di analizzare il rapporto fra azioni e potenzialità umane. Se in
logica si può affermare con certezza che non è possibile essere soldati ed
anche “non-soldati”, nella sfera della ragion pratica si può affermare che è
irrazionale arruolarsi solo per non essere considerati poco patriottici dagli
amici. La razionalità pratica deve quindi in qualche modo occuparsi dei fini e,
inevitabilmente, anche dei desideri e delle emozioni. Per “dilatarsi” tanto senza diventare normativa deve radicarsi
nei fatti e nella conoscenza dei fatti anziché nelle speculazioni astratte
sulla “natura umana” o sul “dover essere”.
Rousseau
ha identificato più aspetti del potenziale espressivo degli esseri umani di
quanti ne abbiano identificati Hobbes o Tommaso d’Aquino o Heidegger, ma per
comprendere il potenziale espressivo delle persone dobbiamo a tutti i costi formulare enunciati empiricamente fondati
lasciando da parte le intuizioni soggettive. La psicologia sperimentale ha
già evidenziato alcuni aspetti significativi (ma sottovalutati) dello sviluppo
psicologico infantile, le scienze sociali, nonostante i loro limiti teorici,
hanno comunque fornito alcuni dati di grande interesse e il lavoro analitico
consente di “recuperare”, procedendo in
negativo, la basilare propensione delle persone a vivere razionalmente ad
un alto livello di coinvolgimento emozionale. Per una comprensione della ragione
pratica dobbiamo a tutti i costi tener conto dei dati empirici che convergono
nell’identificazione del potenziale espressivo delle persone.
In
fondo la razionalità è semplicemente la nostra
razionalità, ovvero quell’insieme di vincoli da cui non possiamo prescindere.
Le amebe se ne fregano del principio di contraddizione e campano benissimo, ma
campano da amebe e non da persone. La logica e le scienze empiriche sono
imprescindibili per il nostro pensiero ed esprimono il massimo della nostra
capacità di esaminare criticamente la realtà. Ora, la cosa significativa e
terribile è che mentre nell’ambito del rapporto con la verità, la normalità
riflette abbastanza bene le potenzialità della specie, nell’ambito dei processi
decisionali (quello della ragione pratica), la normalità è tutt’altro che
coincidente con le potenzialità della specie. Pochi anni fa era normale nel
Sudafrica l’apartheid che oggi (quasi) tutti considerano una follia, ma oggi è
ancora normale la “economia di mercato” che il più idiota dei marziani
considererebbe semplicemente folle, perché determina una ripartizione iniqua
delle risorse fra persone (e popolazioni) formalmente considerate di pari
dignità.
Sulle decisioni
occorre rassegnarsi ad un interminabile confronto, ma l’esame critico delle
scelte possibili, per essere razionale, necessita di strumenti validi. Io credo che
la conoscenza delle difese psicologiche e la conoscenza del potenziale
espressivo delle persone (quello che si manifesta in assenza di difese psicologiche) costituiscano strumenti decisivi
per esaminare e valutare criticamente la razionalità di qualsiasi scelta
particolare.
Il
dolore psicologico è un fatto e i fatti accadono e basta. L’elaborazione del
dolore (o lavoro del lutto), invece, è un insieme di azioni e rientra nella
sfera della ragione pratica perché costituisce
la risposta ottimale al dolore soggettivo determinato da fatti oggettivi. Infatti
consente a) di “salvare ciò che resta”, b) di attenuare col tempo l’intensità
del dolore e soprattutto c) di non creare ulteriori inutili sofferenze. Per comprendere
le difese psicologiche dobbiamo capire che esse nell’infanzia erano razionali: costituivano la risposta migliore ad
una situazione d’emergenza. René Spitz (1958) ha studiato le condizioni
gravissime dei bambini privati del contatto materno e anche John Bowlby (1988)
e altri hanno approfondito il tema a partire dagli anni ’50 del secolo scorso; possiamo
quindi affermare con certezza che i
bambini, in quanto adulti incompleti, non possono farsi compagnia da soli e, se
non sono sostenuti dai genitori, non possono elaborare il dolore. Se si
dissociano dal dolore attivando delle difese psicologiche riescono a
sopravvivere. Purtroppo, mantengono le strategie difensive negli anni successivi.
Per questo possiamo dire che l’irrazionalità
degli adulti non è altro che la reiterazione inconscia della razionalità
infantile in circostanze mutate.
Io
non vedo delle “stupide scimmie” o degli “animali egoisti” quando considero la
violenza individuale e sociale, le forme di sfruttamento economico, fisico e
psicologico, i vari tipi di sottomissione, l’autoritarismo sociale, il
conformismo culturale e i disturbi psicologici: in queste tragedie vedo adulti pienamente umani che continuano a vivere
come bambini spaventati. L’idea di un
conflitto fra la nostra “natura animale” e le nostre “aspirazioni morali” nasconde
la realtà orribile della nostra infanzia mai superata. Le difese psicologiche
(quelle individuali e quelle culturalmente condivise) non riguardano solo le
più evidenti forme di malvagità o i sintomi più evidenti (e diagnosticati dagli
specialisti), ma anche la sciattezza che riduce intere vite alla gestione di un
orticello tanto piccolo da risultare una prigione.
Se
le riflessioni fin qui svolte sono corrette, le difese psicologiche non
rivelano un difetto o una mancanza di razionalità perché costituiscono una effettiva violazione della ragione pratica.
Le particolari operazioni difensive e le più ampie strategie difensive sono
tali in quanto sono intenzionali. Per
questo motivo non parlo mai, come gli psicoanalisti, di “meccanismi di difesa”.
Il lavoro analitico, in quanto analisi delle ragioni dell’irrazionalità
(individuale e sociale) non ha come obiettivo l’individuazione di cause e di
effetti, ma di fatti e di risposte intenzionali ai fatti. La sensazione di vuoto
di un bambino rifiutato è un fatto soggettivo causato da un fatto oggettivo (il rifiuto). Fino a qui ci basta
Darwin per capire cosa accade. Se però vogliamo spiegare perché un bambino “scappa
da quel vuoto” andando in confusione o sentendosi colpevole o assumendo un
atteggiamento di sfida, dobbiamo capire cosa si propone di ottenere o di
evitare. Dobbiamo quindi partire dal punto in cui Darwin diventa irrilevante.
Ci troviamo su un terreno psicologico collocato in un più ampio terreno
culturale in cui non “accade” nulla, ma in cui le persone agiscono intenzionalmente.
Faccio
questa affermazione non solo per oppormi alle letture causali delle azioni che
nella maggior parte dei casi sono suggerite dagli psicoterapeuti, ma anche per
oppormi alle letture speculative delle azioni che caratterizzano tutte le
concezioni morali (e alcune scuole di psicoterapia). Voglio esaminare la
questione dell’agire intenzionalmente perché i disastri concettuali derivati
dalle “classiche” polemiche fra sostenitori del libero arbitrio e del
determinismo si sono dilatati nella cultura “popolare” e hanno inquinato le
comunicazioni quotidiane di persone che nemmeno sanno di far (cattiva)
filosofia mentre condannano o “giustificano” le proprie azioni o quelle degli
altri. Come al solito procederò per gradi per tornare con più chiarezza alle
idee già esposte.
La
tormentata storia delle speculazioni filosofiche sulla libertà umana e sul
determinismo deriva da due fatti che è difficile negare: da un lato quando
stiamo per prendere una decisione non possiamo non avere la sensazione soggettiva di poterci muovere “liberamente”
in una direzione o in un’altra, mentre dall’altro lato quando vogliamo spiegare
una scelta non possiamo fare a meno di pensare a qualche fattore determinante.
L’idea
del libero arbitrio, quindi, costituisce una filosofia implicitamente accettata da tutti come “riflesso” della sensazione
soggettiva di poter scegliere, mentre l’idea del determinismo costituisce una
filosofia implicitamente accettata da
tutti come “sfondo” del bisogno di spiegazioni convincenti. Se tali filosofie
implicite vengono esplicitate e
formulate in modo articolato, stentano inevitabilmente a contrastare la
“pressione” della filosofia implicita
opposta. Il determinismo vacilla di fronte al fatto indiscutibile che persino i
deterministi hanno la sensazione di poter fare o non fare qualcosa. La
concezione del libero arbitrio, invece, appena collega la sensazione soggettiva
di libertà ad un’ipotetica “volontà” di fare una particolare scelta perde “consistenza”:
se la mia scelta dipende dalla mia volontà, da cosa dipende tale volontà? In
altre parole, quella specie di “omuncolo volitivo” interiore che mi spingerebbe
a scegliere liberamente, dovrebbe giustificare la propria “attività” e per
farlo dovrebbe rinviare ad un altro omuncolo e ad altri ancora, in un regresso
all’infinito (cfr. Ryle, 1949). Con questo riassunto terribilmente semplificato
di una complessa storia di idee voglio solo far presente che qualsiasi
affermazione sulle cause o sugli scopi delle azioni umane presuppone convinzioni
tutt’altro che scontate.
Le
divergenze fra sostenitori del libero arbitrio e deterministi non dipendono
necessariamente da convinzioni materialiste o spiritualiste, perché i dualisti
non hanno più motivi dei materialisti per affermare il libero arbitrio. Indipendentemente
dal fatto di ritenermi fatto di atomi oppure di atomi e di un’anima, quando
rifletto e poi “decido” di compiere l’azione A anziché l’azione B, ho la sensazione (soggettiva) di scegliere,
mentre qualcosa oggettivamente accade
in me (nel mio cervello o nella mia anima). A questo punto, o riesco a spiegare
perché ho preso una decisione oppure devo ammettere di non saperlo, senza
tirare in ballo l’idea di una libertà incomprensibile. L’idea di una scelta
“liberamente” effettuata in un vuoto di ragioni o cause equivale
all’affermazione di una cieca casualità. E il concetto di casualità rinvia ad
un determinismo “a corto di spiegazioni”.
Va
detto che anche il determinismo inteso come l’affermazione “tutto ha necessariamente
una causa” riguarda tutta la realtà e, come tale, non è falsificabile né
dimostrabile. Sicuramente possiamo affermare che ci spieghiamo in modo
soddisfacente un processo o un fatto se scopriamo i fattori che lo hanno
determinato, ma, come la sensazione di poter scegliere potrebbe essere solo
un’illusione, anche la nostra idea che tutto possa essere spiegato nei modi che
troviamo soddisfacenti potrebbe non essere corretta. Partendo da tali considerazioni e collocandomi nella
tradizione filosofica che considera la metafisica in blocco come un tentativo
di rispondere a domande mal poste, ho sempre cercato di definire
l’intenzionalità difensiva senza fare presupposizioni speculative. Tuttavia,
prima di riprendere tale spinosa questione, vorrei evidenziare alcuni aspetti psicologici che rendono le persone
inclini ad abbracciare strumentalmente una delle due opzioni.
Molte
persone sono convinte di “non scegliere” quando in realtà scelgono di vivere in
un certo modo per dei motivi ben precisi e molte persone sono convinte di fare
liberamente delle scelte quando in realtà eseguono un programma di cui non
hanno alcuna consapevolezza. Nel lavoro analitico si osserva quindi che spesso
le persone affermano o negano il libero arbitrio per motivi strumentali. Una
persona può giurare (anche in buona fede) di “non potersi trattenere” in certi
momenti dall’uscire di casa per fare shopping o di “non riuscire” (per
“timidezza”) ad affermare il proprio punto di vista in una discussione
pubblica, oppure di avere la certezza che il/la partner “le/gli fa perdere le
staffe”. Quando però in una seduta chiedo ad un/una persona che afferma “deterministicamente”
di non potersi trattenere dal compiere certe azioni, cosa farebbe se sapesse
che il suo comportamento avrebbe come effetto l’uccisione del figlio (o del
marito o del cane) da parte di un gruppo terrorista, ottengo invariabilmente la
risposta “mi guarderei bene dal fare una cosa del genere”. Ciò significa che
quando le persone agiscono “impulsivamente” in realtà scelgono sia di compiere quell’azione, sia di accettare tutte le
conseguenze prevedibili di tale azione, dato che loro stesse affermano che adotterebbero
un’altra linea di condotta qualora le conseguenze fossero per loro davvero inaccettabili. Altre persone,
invece, sono convinte di “scegliere liberamente” di fare ciò che fanno (ad
esempio di “lavorare sodo”), ma se chiedo come si sentirebbero se un virus o un
condizionamento attuato dai marziani le rendesse indolenti, mi dicono che si
sentirebbero “inadeguate” e “inaccettabili”. Dunque, mi dimostrano di essere
pesantemente condizionate nella loro “libertà” dal terrore “antico” di apparire
in certi modi. Tali considerazioni psicologiche sono importanti perché lasciano
sospettare che anche le complesse formulazioni filosofiche del libero arbitrio
o del determinismo dipendano da istanze psicologiche, ma tale sospetto non ci
esime dal compito di vagliare nel merito le tesi in questione.
A
questo punto forse possiamo anche chiederci: siamo davvero costretti ad
accettare il libero arbitrio o il determinismo, o possiamo anche mettere in
discussione la legittimità e la reale comprensibilità delle due opzioni?
Wittgenstein ha posto la questione relativa a cosa possa “restare” dell’azione di alzare il braccio se togliamo
il fatto che il braccio si alza (cfr.
1953, n.621) per rivendicare la possibilità di considerare intenzionali le azioni senza
necessariamente ritenerle l’effetto di un “processo”. Ovviamente tale domanda
provocatoria non conduce immediatamente ad una risposta semplice, ma ci fa
pensare che la questione non meriti risposte troppo “facili”.
Il
determinismo stenta a rendere conto del fatto (indiscutibile) che nessun
bookmaker scommetterebbe contro di me se io scommettessi sulla possibilità di
alzare il mio braccio entro dieci secondi. Inoltre, anche il determinista più
convinto, di fronte ad un semaforo giallo si chiede se frenare o accelerare e non si limita a rilassarsi e ad
“osservare come procedono le sequenze causali”. Tuttavia, l’idea del libero
arbitrio è tanto attraente quanto “inconcepibile”, se la esaminiamo nei
dettagli. Thomas Nagel mette il dito sulla piaga chiedendosi candidamente “Non
è chiaro cosa significa che io
determino la scelta, se nulla di quello che mi riguarda la determina” (1987, p.
69). Infatti, se chiediamo ad un sostenitore del libero arbitrio “Perché hai
frenato al semaforo?” egli deve
menzionare la paura di causare un incidente, il desiderio di vivere e tante
altri fattori senza i quali non avrebbe frenato, ma forse accelerato. Se tale
persona riconosce il “peso” di questi fattori ma ribadisce che, al di là di
tali “condizionamenti”, ha deciso “liberamente” di frenare si espone
all’ulteriore domanda “E perché hai deciso proprio in tal senso?” Il gioco può
proseguire finché il nostro interlocutore dichiara: “Ho voluto perché ho
voluto”, ma a questo punto dovrà ammettere di non aver dato alcun sostegno alla
tesi del libero arbitrio. L’idea di scegliere “liberamente” qualcosa in un vuoto
assoluto è semplicemente impensabile. Ed è impensabile come l'idea di non poter scegliere nulla.
Ora
sto scrivendo e desidero finire la frase, il periodo ed anche il capitolo. Tale
desiderio mi tiene inchiodato alla scrivania, ma sono anche davvero stufo di
stare fermo e ho voglia di alzarmi e passeggiare un po’. Anzi, ho proprio voglia
di fare altre cose e di togliermi dalla mente questi problemi. Penso e sento di
poter scegliere, ma non potrei farlo in un vuoto di desideri. In un vuoto di
desideri, le possibilità di scrivere, andare a spasso, suicidarmi o soffiarmi il naso mi
risulterebbero egualmente indifferenti. Sto ancora scrivendo, ma probabilmente
fra un po’ non starò più scrivendo. Il cambiamento sarà intenzionale come ciò
che sto facendo. In ogni caso, non è in questione alcuna scelta “pura” di una
mia “mente” distinta da ciò che sono diventato e da ciò che sono attualmente, e
quindi da ciò che ora desidero. Smetterò di scrivere quando la voglia di andare
in giardino prevarrà su quella di completare
ciò che sto scrivendo. Esattamente come il braccio di una bilancia, ad un certo
punto, grazie ad un piccolo, “irrilevante” granello di sabbia si abbassa.
Quindi, torniamo al determinismo? Non credo, perché l’’idea fondamentale del
determinismo è quella secondo cui la mia azione è determinata da “altro da me”
(come il moto di una palla che “da sé” starebbe ferma).
Se
fossi un’altra persona, non avrei nemmeno iniziato a scrivere e forse in questo
momento starei seduto altrove intento a giocare a poker con alcuni amici senza
alcuna voglia di alzarmi dal tavolo, ma tutto teso a fare un rilancio. Fra Scilla
(la libertà soggettiva, interna) e Cariddi (la determinazione oggettiva,
esterna) forse si può navigare filosoficamente seguendo la rotta della determinazione interna. La mia
soggettività dipende dalla mia biologia, ma dipende pure dal fatto che la mia
identità si è storicamente definita in modalità diverse da quelle che
definiscono l’identità di un coniglio, di un lupo ed anche degli altri esseri
umani. Io sono la memoria di ciò che mi è accaduto e di ciò che ho fatto, sono la
comprensione o l’incomprensione di ciò che mi è accaduto e che ho fatto e sono quindi ciò che sono diventato.
Proprio ciò che sono diventato mi permette ad ogni istante di avere “in mente”
di fare alcune cose. Mi permette anche di cambiare ulteriormente proprio
facendole o non facendole. Ciò che sono e che sono diventato determina le mie
scelte e proprio in questa intersezione fra ciò che sono e ciò che posso fare
oggi si costruiscono le condizioni di ciò che sarò domani e di ciò che farò
domani. Ogni mia scelta non può
essere espressione di una libertà “assoluta” (impensabile) o il semplice effetto
di fatti esterni a me, ma è ragionevolmente la “somma vettoriale” delle tante
“cose” che mi rendono la persona che sono. Mentre ho l’impressione soggettiva
di stare vagliando una scelta sono semplicemente consapevole di vari fattori che mi portano a desiderare molte cose,
ognuna delle quali ha un suo “peso” e mi spinge ad agire in una direzione o in
un’altra. Il fatto che ad un dato istante io sia ancora seduto o mi sia già
alzato è determinato soprattutto da ciò
che sono diventato prima di quel momento.
Con ciò non sto dicendo di aver risolto
con un colpo di genio un rompicapo che tormenta le menti più elevate da
millenni. L’idea di un determinismo interno aleggia da tempo nella cultura occidentale.
Roy Schafer, autorevole difensore dell’analisi dell’intenzionalità delle azioni
ed anche poco incline alla speculazione metafisica ha fatto un’affermazione a
mio parere preziosa: "L'intenzione non crea problemi per il linguaggio
dell'azione quando è usata per designare decisioni consapevoli, o ragioni o
mete per l'agire. E' chiaro che in questi casi non ci si riferisce ad entità
che fungono da propulsivo, ma ad azioni finalizzate" (1976, pp.199-200).
Per rispondere a Wittgenstein, se togliamo il sollevamento del braccio
dall’azione di alzare il braccio possiamo affermare che “ciò che resta” è la realtà di un’esistenza personale in
corso. L’esistenza umana è “fatta” di scelte che non sono né libere né
determinate da specifici fattori, ma riflettono un processo costituito da una
lunghissima assimilazione ed elaborazione di esperienze. In fondo, l’idea di
una “libertà necessaria” o di una “necessità libera” è già stata sostenuta,
anche se in termini speculativi, da Spinoza, per il quale la divinità (intesa
come natura o come totalità di tutto ciò che è e che include anche le persone)
è “indeterminata” e quindi libera, ma è determinata dal proprio essere. Su un
piano empirico, non speculativo, la ricerca di spiegazioni delle azioni umane
non può basarsi su un determinismo assoluto e nemmeno su una libertà “vuota”,
ma su ciò che le persone “sono” (e sono diventate).
Sul piano pratico
l’analisi dell’intenzionalità difensiva consente di chiarire con il cliente le
ragioni di ciò che fa o di ciò che tende a fare. Il lavoro analitico non implica alcuna assunzione metafisica
relativa alla questione del determinismo o del libero arbitrio, ma sicuramente
presuppone l’idea di una “libertà necessaria” secondo cui le persone esprimono
ciò che sono diventate e secondo cui continuano a cambiare (anche con il lavoro
analitico) realizzando ulteriori possibilità di esprimere gli ulteriori
cambiamenti personali. La psicoterapia, cercando cause particolari di sintomi particolari
e approntando delle “contro-cause” di tipo “terapeutico”, rinuncia sia a
spiegazioni convincenti delle azioni, sia ad interventi davvero utili. Le
persone non si limitano a subire
l’influenza di fatti biologici o sociali (le “pulsioni”, i traumi o la famiglia)
così come subiscono la forza gravitazionale: accolgono, interpretano ed
elaborano ogni nuova sollecitazione e reagiscono nei modi che corrispondono al
modo in cui, fino a quel momento, la loro identità si è definita. Le persone,
quindi, agiscono esprimendo ciò che sono e ciò che sono diventate. Se cambiano
un po’ leggendo una poesia o guardando un tramonto o facendo una seduta,
finiscono inevitabilmente per esprimere ciò che da quel momento sono diventate.
Tale quadro di riferimento ci consente di
rispondere ad una domanda “terribile”: perché
le persone agiscono razionalmente o irrazionalmente? La risposta è questa:
le azioni razionali sono “comprensibili oggi”, mentre quelle irrazionali sono
“comprensibili ieri”. Le azioni sono intenzionali e sono (a volte) razionali. Quando non sono “razionali oggi”, risultano
“razionali ieri”. La mole notevole di irrazionalità che caratterizza la
normalità della specie umana costituisce una misura esatta della mole di dolore
da cui i bambini si sono dissociati. E’ quindi importante che almeno alcuni
indirizzi della psicoterapia abbiano riconosciuto l’intenzionalità di certe
convinzioni o stati d’animo irrazionali. Joseph Weiss e Harold Sampson, ad
esempio, nella seconda metà del secolo scorso hanno modificato in modo
significativo l’approccio psicoanalitico basato sulle ipotesi
energetiche-pulsionali freudiane (Weiss 1993, p. 41). Purtroppo, pur
riconoscendo l’intenzionalità inconscia di certi atteggiamenti, hanno mantenuto
una lettura causale dello sviluppo psicologico concependo le “convinzioni
patogene” come l’effetto di esperienze relazionali traumatiche (Weiss-Sampson,
2001, p. 33). L’indirizzo psicoterapeutico che ha maggiormente contribuito
all’analisi delle particolari difese psicologiche ed alla loro collocazione in
una complessiva strategia difensiva è quello dell’Analisi Transazionale di Eric
Berne. Sia nell’analisi dei “giochi” (Berne, 1964), sia nell’analisi del
“copione” (Berne, 1972) vengono analizzate sia le manipolazione attuate nei
rapporti interpersonali, sia le strategie esistenziali più ampie. Purtroppo,
Berne non ha chiarito in modo soddisfacente che le strategie difensive
costituiscono modi per non accettare ed elaborare il dolore ed ha mantenuto un
approccio “terapeutico” limitato allo “smascheramento” delle modalità
manipolative.
Con
le azioni razionali le persone manifestano le loro potenzialità e con le azioni
irrazionali le persone manifestano la paura di capire, sentire ed esprimere il
dolore. Il lavoro analitico chiarisce le strategie difensive e così modifica la
situazione del cliente rendendo possibili delle ridecisioni. La psicoterapia, a
partire dalla psicoanalisi, costituisce un’imitazione mal riuscita della teoria
e della pratica medica e tale equivoco non è sfuggito a Wittgenstein. “Per
Wittgenstein, Freud ha commesso un ‘abominevole pasticcio’: quello di aver
scambiato le ragioni di un’azione con le sue cause” (Pagnini,
2003, pp. 263). Se interpretassi un atteggiamento competitivo di un cliente
come una riproposizione di una situazione edipica o di un istinto ancestrale o
come l’esito di una vita precedente o come il riflesso di fatti astrologici,
questi potrebbe anche concedermi il beneficio del dubbio, ma continuerebbe a
non capire il proprio atteggiamento. Quando, invece, mettendo in ordine le
informazioni raccolte, chiedo ad un cliente: “Cerchi di essere sempre il primo
per ricavare qualcosa grazie a tale risultato?” e ottengo come risposta delle
lacrime e una frase lapidaria del tipo “io non contavo niente se non portavo a
casa dei risultati”, quella persona non deve fare molte “inferenze” per capire.
E se aggiungo: “Ma allora amavano te o i tuoi risultati?”, il cliente non deve
fare molte inferenze per capire con maggior chiarezza.
Il
problema della libertà o della determinazione delle scelte umane è quindi un
falso problema. Al contrario, l’idea (non nuova) di una libertà necessaria o di una determinazione
libera consente di porre in modo limpido, sia nella vita quotidiana, sia
nelle sedute, le domande scomode ma costruttive sulle ragioni per cui le
persone fanno ciò che fanno.
Parlando
di ciò che “siamo” e che siamo diventati ho accennato anche a ciò che siamo diventati
come membri di una particolarissima specie: abbiamo “raccolto” ed esaltato le
capacità razionali ed empatiche delle altre specie sociali, ma siamo diventati
anche capaci di “disattivare” tali capacità e di manifestare forme di
irrazionalità e di distruttività sconcertanti. Se le nostre potenzialità
espressive “vengono da lontano”, anche le strategie difensive hanno una
storia che merita di essere raccontata. La teoria dell’evoluzione ci offre gli
elementi fondamentali per capire anche i passaggi dell’involuzione che ha caratterizzato la specie umana. Di fatto, non solo i filosofi e gli
psicologi evitano di mettere a fuoco l’intenzionalità difensiva, ma anche i
biologi, gli etologi e gli antropologi non amano parlare dell’involuzione della
specie umana. Cercherò quindi nel prossimo capitolo di chiarire tale questione
che, paradossalmente, non è stata posta ma ha già avuto risposte convincenti.