martedì 10 luglio 2018

6. L'intenzionalità delle difese psicologiche







La razionalità teorica è fondamentale per gli esseri umani (non per qualsiasi animale) perché gli esseri umani sono capaci di cercare la verità; la razionalità pratica è fondamentale per gli esseri umani (non per qualsiasi animale) perché gli esseri umani sono capaci di proporsi obiettivi da realizzare. La mantide religiosa non dialoga con se stessa, non decide che fare con il suo partner e che fare del suo partner dopo l’accoppiamento: lo divora perché il suo programma genetico lo ha stabilito. Il programma genetico degli esseri umani ha invece reso possibile la coscienza e l’intenzionalità dell’agire. Gli esseri umani, se non devono fronteggiare emergenze ingestibili prima del loro completo sviluppo psicologico, cercano la felicità (per se stessi e per gli altri) accettando il dolore inevitabile. Sono fatti in un certo modo, come gli altri animali, ma sono fatti in modo tale da proporsi la costruzione della loro storia.
Ragionare con gli altri su ciò che conduce alla verità è più facile che ragionare con gli altri su ciò che è “meglio” fare. Le difficoltà di una formalizzazione della ragione pratica derivano dal fatto che le intenzioni, i desideri e le emozioni delle persone non sono facili da esaminare come gli elementi di cui si occupano i logici o gli scienziati. Già il fatto che un enunciato escluda la propria negazione (non posso affermare sia P, sia non-P), mentre due desideri contraddittori non sono inconcepibili (potrei aver voglia di stare “in pace” a casa e anche di uscire per incontrare degli amici) rende difficile inquadrare i processi decisionali in schemi formalmente limpidi come quelli logici. Inoltre, gli enunciati sottoponibili al vaglio della logica sono sempre affermati consapevolmente, mentre i desideri, le emozioni e le intenzioni spesso sono “operanti” al di sotto della consapevolezza soggettiva. Proprio per questo, quando si ragiona sulle scelte pratiche molto spesso si mente senza necessariamente averne consapevolezza.
La razionalità e l’irrazionalità nella sfera pratica hanno a che fare con l’intenzione di vivere in un certo modo. Ora, su quali basi possiamo definire razionale o irrazionale la scelta di rischiare la vita per una causa, di fare dei sacrifici per i figli o per gli amici, oppure di fare mille chilometri per stringere fra le braccia una sola notte la persona amata? L’irrazionalità a cui ci si riferisce quando si parla di “stupidaggini” o “assurdità” o di decisioni “non rispettose” o “insensate” o “distruttive” può riguardare le scelte inefficaci o troppo costose per il raggiungimento di un fine già stabilito, ma in genere riguarda proprio i fini. Purtroppo, se concepiamo la razionalità pratica come un ambito che include anche i fini rischiamo di scivolare in un integralismo etico o ideologico e di definire irrazionale ciò che ci risulta soggettivamente sgradito. Tuttavia, non corriamo tale rischio se (e solo se) ci proponiamo di analizzare il rapporto fra azioni e potenzialità umane. Se in logica si può affermare con certezza che non è possibile essere soldati ed anche “non-soldati”, nella sfera della ragion pratica si può affermare che è irrazionale arruolarsi solo per non essere considerati poco patriottici dagli amici. La razionalità pratica deve quindi in qualche modo occuparsi dei fini e, inevitabilmente, anche dei desideri e delle emozioni. Per “dilatarsi” tanto senza diventare normativa deve radicarsi nei fatti e nella conoscenza dei fatti anziché nelle speculazioni astratte sulla “natura umana” o sul “dover essere”.
Rousseau ha identificato più aspetti del potenziale espressivo degli esseri umani di quanti ne abbiano identificati Hobbes o Tommaso d’Aquino o Heidegger, ma per comprendere il potenziale espressivo delle persone dobbiamo a tutti i costi formulare enunciati empiricamente fondati lasciando da parte le intuizioni soggettive. La psicologia sperimentale ha già evidenziato alcuni aspetti significativi (ma sottovalutati) dello sviluppo psicologico infantile, le scienze sociali, nonostante i loro limiti teorici, hanno comunque fornito alcuni dati di grande interesse e il lavoro analitico consente di “recuperare”, procedendo in negativo, la basilare propensione delle persone a vivere razionalmente ad un alto livello di coinvolgimento emozionale. Per una comprensione della ragione pratica dobbiamo a tutti i costi tener conto dei dati empirici che convergono nell’identificazione del potenziale espressivo delle persone.
In fondo la razionalità è semplicemente la nostra razionalità, ovvero quell’insieme di vincoli da cui non possiamo prescindere. Le amebe se ne fregano del principio di contraddizione e campano benissimo, ma campano da amebe e non da persone. La logica e le scienze empiriche sono imprescindibili per il nostro pensiero ed esprimono il massimo della nostra capacità di esaminare criticamente la realtà. Ora, la cosa significativa e terribile è che mentre nell’ambito del rapporto con la verità, la normalità riflette abbastanza bene le potenzialità della specie, nell’ambito dei processi decisionali (quello della ragione pratica), la normalità è tutt’altro che coincidente con le potenzialità della specie. Pochi anni fa era normale nel Sudafrica l’apartheid che oggi (quasi) tutti considerano una follia, ma oggi è ancora normale la “economia di mercato” che il più idiota dei marziani considererebbe semplicemente folle, perché determina una ripartizione iniqua delle risorse fra persone (e popolazioni) formalmente considerate di pari dignità.
Sulle decisioni occorre rassegnarsi ad un interminabile confronto, ma l’esame critico delle scelte possibili, per essere razionale, necessita di strumenti validi. Io credo che la conoscenza delle difese psicologiche e la conoscenza del potenziale espressivo delle persone (quello che si manifesta in assenza di difese psicologiche) costituiscano strumenti decisivi per esaminare e valutare criticamente la razionalità di qualsiasi scelta particolare.
Il dolore psicologico è un fatto e i fatti accadono e basta. L’elaborazione del dolore (o lavoro del lutto), invece, è un insieme di azioni e rientra nella sfera della ragione pratica perché costituisce la risposta ottimale al dolore soggettivo determinato da fatti oggettivi. Infatti consente a) di “salvare ciò che resta”, b) di attenuare col tempo l’intensità del dolore e soprattutto c) di non creare ulteriori inutili sofferenze. Per comprendere le difese psicologiche dobbiamo capire che esse nell’infanzia erano razionali: costituivano la risposta migliore ad una situazione d’emergenza. René Spitz (1958) ha studiato le condizioni gravissime dei bambini privati del contatto materno e anche John Bowlby (1988) e altri hanno approfondito il tema a partire dagli anni ’50 del secolo scorso; possiamo quindi  affermare con certezza che i bambini, in quanto adulti incompleti, non possono farsi compagnia da soli e, se non sono sostenuti dai genitori, non possono elaborare il dolore. Se si dissociano dal dolore attivando delle difese psicologiche riescono a sopravvivere. Purtroppo, mantengono le strategie difensive negli anni successivi. Per questo possiamo dire che l’irrazionalità degli adulti non è altro che la reiterazione inconscia della razionalità infantile in circostanze mutate.
Io non vedo delle “stupide scimmie” o degli “animali egoisti” quando considero la violenza individuale e sociale, le forme di sfruttamento economico, fisico e psicologico, i vari tipi di sottomissione, l’autoritarismo sociale, il conformismo culturale e i disturbi psicologici: in queste tragedie vedo adulti pienamente umani che continuano a vivere come bambini spaventati. L’idea di un conflitto fra la nostra “natura animale” e le nostre “aspirazioni morali” nasconde la realtà orribile della nostra infanzia mai superata. Le difese psicologiche (quelle individuali e quelle culturalmente condivise) non riguardano solo le più evidenti forme di malvagità o i sintomi più evidenti (e diagnosticati dagli specialisti), ma anche la sciattezza che riduce intere vite alla gestione di un orticello tanto piccolo da risultare una prigione.
Se le riflessioni fin qui svolte sono corrette, le difese psicologiche non rivelano un difetto o una mancanza di razionalità perché costituiscono una effettiva violazione della ragione pratica. Le particolari operazioni difensive e le più ampie strategie difensive sono tali in quanto sono intenzionali. Per questo motivo non parlo mai, come gli psicoanalisti, di “meccanismi di difesa”. Il lavoro analitico, in quanto analisi delle ragioni dell’irrazionalità (individuale e sociale) non ha come obiettivo l’individuazione di cause e di effetti, ma di fatti e di risposte intenzionali ai fatti. La sensazione di vuoto di un bambino rifiutato è un fatto soggettivo causato da un fatto oggettivo (il rifiuto). Fino a qui ci basta Darwin per capire cosa accade. Se però vogliamo spiegare perché un bambino “scappa da quel vuoto” andando in confusione o sentendosi colpevole o assumendo un atteggiamento di sfida, dobbiamo capire cosa si propone di ottenere o di evitare. Dobbiamo quindi partire dal punto in cui Darwin diventa irrilevante. Ci troviamo su un terreno psicologico collocato in un più ampio terreno culturale in cui non “accade” nulla, ma in cui le persone agiscono intenzionalmente.
Faccio questa affermazione non solo per oppormi alle letture causali delle azioni che nella maggior parte dei casi sono suggerite dagli psicoterapeuti, ma anche per oppormi alle letture speculative delle azioni che caratterizzano tutte le concezioni morali (e alcune scuole di psicoterapia). Voglio esaminare la questione dell’agire intenzionalmente perché i disastri concettuali derivati dalle “classiche” polemiche fra sostenitori del libero arbitrio e del determinismo si sono dilatati nella cultura “popolare” e hanno inquinato le comunicazioni quotidiane di persone che nemmeno sanno di far (cattiva) filosofia mentre condannano o “giustificano” le proprie azioni o quelle degli altri. Come al solito procederò per gradi per tornare con più chiarezza alle idee già esposte.
La tormentata storia delle speculazioni filosofiche sulla libertà umana e sul determinismo deriva da due fatti che è difficile negare: da un lato quando stiamo per prendere una decisione non possiamo non avere la sensazione soggettiva di poterci muovere “liberamente” in una direzione o in un’altra, mentre dall’altro lato quando vogliamo spiegare una scelta non possiamo fare a meno di pensare a qualche fattore determinante.
L’idea del libero arbitrio, quindi, costituisce una filosofia implicitamente accettata da tutti come “riflesso” della sensazione soggettiva di poter scegliere, mentre l’idea del determinismo costituisce una filosofia implicitamente accettata da tutti come “sfondo” del bisogno di spiegazioni convincenti. Se tali filosofie implicite vengono esplicitate e formulate in modo articolato, stentano inevitabilmente a contrastare la “pressione” della filosofia implicita opposta. Il determinismo vacilla di fronte al fatto indiscutibile che persino i deterministi hanno la sensazione di poter fare o non fare qualcosa. La concezione del libero arbitrio, invece, appena collega la sensazione soggettiva di libertà ad un’ipotetica “volontà” di fare una particolare scelta perde “consistenza”: se la mia scelta dipende dalla mia volontà, da cosa dipende tale volontà? In altre parole, quella specie di “omuncolo volitivo” interiore che mi spingerebbe a scegliere liberamente, dovrebbe giustificare la propria “attività” e per farlo dovrebbe rinviare ad un altro omuncolo e ad altri ancora, in un regresso all’infinito (cfr. Ryle, 1949). Con questo riassunto terribilmente semplificato di una complessa storia di idee voglio solo far presente che qualsiasi affermazione sulle cause o sugli scopi delle azioni umane presuppone convinzioni tutt’altro che scontate.
Le divergenze fra sostenitori del libero arbitrio e deterministi non dipendono necessariamente da convinzioni materialiste o spiritualiste, perché i dualisti non hanno più motivi dei materialisti per affermare il libero arbitrio. Indipendentemente dal fatto di ritenermi fatto di atomi oppure di atomi e di un’anima, quando rifletto e poi “decido” di compiere l’azione A anziché l’azione B, ho la sensazione (soggettiva) di scegliere, mentre qualcosa oggettivamente accade in me (nel mio cervello o nella mia anima). A questo punto, o riesco a spiegare perché ho preso una decisione oppure devo ammettere di non saperlo, senza tirare in ballo l’idea di una libertà incomprensibile. L’idea di una scelta “liberamente” effettuata in un vuoto di ragioni o cause equivale all’affermazione di una cieca casualità. E il concetto di casualità rinvia ad un determinismo “a corto di spiegazioni”.
Va detto che anche il determinismo inteso come l’affermazione “tutto ha necessariamente una causa” riguarda tutta la realtà e, come tale, non è falsificabile né dimostrabile. Sicuramente possiamo affermare che ci spieghiamo in modo soddisfacente un processo o un fatto se scopriamo i fattori che lo hanno determinato, ma, come la sensazione di poter scegliere potrebbe essere solo un’illusione, anche la nostra idea che tutto possa essere spiegato nei modi che troviamo soddisfacenti potrebbe non essere corretta. Partendo da tali considerazioni e collocandomi nella tradizione filosofica che considera la metafisica in blocco come un tentativo di rispondere a domande mal poste, ho sempre cercato di definire l’intenzionalità difensiva senza fare presupposizioni speculative. Tuttavia, prima di riprendere tale spinosa questione, vorrei evidenziare alcuni aspetti psicologici che rendono le persone inclini ad abbracciare strumentalmente una delle due opzioni.
Molte persone sono convinte di “non scegliere” quando in realtà scelgono di vivere in un certo modo per dei motivi ben precisi e molte persone sono convinte di fare liberamente delle scelte quando in realtà eseguono un programma di cui non hanno alcuna consapevolezza. Nel lavoro analitico si osserva quindi che spesso le persone affermano o negano il libero arbitrio per motivi strumentali. Una persona può giurare (anche in buona fede) di “non potersi trattenere” in certi momenti dall’uscire di casa per fare shopping o di “non riuscire” (per “timidezza”) ad affermare il proprio punto di vista in una discussione pubblica, oppure di avere la certezza che il/la partner “le/gli fa perdere le staffe”. Quando però in una seduta chiedo ad un/una persona che afferma “deterministicamente” di non potersi trattenere dal compiere certe azioni, cosa farebbe se sapesse che il suo comportamento avrebbe come effetto l’uccisione del figlio (o del marito o del cane) da parte di un gruppo terrorista, ottengo invariabilmente la risposta “mi guarderei bene dal fare una cosa del genere”. Ciò significa che quando le persone agiscono “impulsivamente” in realtà scelgono sia di compiere quell’azione, sia di accettare tutte le conseguenze prevedibili di tale azione, dato che loro stesse affermano che adotterebbero un’altra linea di condotta qualora le conseguenze fossero per loro davvero inaccettabili. Altre persone, invece, sono convinte di “scegliere liberamente” di fare ciò che fanno (ad esempio di “lavorare sodo”), ma se chiedo come si sentirebbero se un virus o un condizionamento attuato dai marziani le rendesse indolenti, mi dicono che si sentirebbero “inadeguate” e “inaccettabili”. Dunque, mi dimostrano di essere pesantemente condizionate nella loro “libertà” dal terrore “antico” di apparire in certi modi. Tali considerazioni psicologiche sono importanti perché lasciano sospettare che anche le complesse formulazioni filosofiche del libero arbitrio o del determinismo dipendano da istanze psicologiche, ma tale sospetto non ci esime dal compito di vagliare nel merito le tesi in questione.
A questo punto forse possiamo anche chiederci: siamo davvero costretti ad accettare il libero arbitrio o il determinismo, o possiamo anche mettere in discussione la legittimità e la reale comprensibilità delle due opzioni? Wittgenstein ha posto la questione relativa a cosa possa “restare” dell’azione di alzare il braccio se togliamo il fatto che il braccio si alza (cfr. 1953, n.621) per rivendicare la possibilità di considerare intenzionali le azioni senza necessariamente ritenerle l’effetto di un “processo”. Ovviamente tale domanda provocatoria non conduce immediatamente ad una risposta semplice, ma ci fa pensare che la questione non meriti risposte troppo “facili”.
Il determinismo stenta a rendere conto del fatto (indiscutibile) che nessun bookmaker scommetterebbe contro di me se io scommettessi sulla possibilità di alzare il mio braccio entro dieci secondi. Inoltre, anche il determinista più convinto, di fronte ad un semaforo giallo si chiede se frenare o accelerare e non si limita a rilassarsi e ad “osservare come procedono le sequenze causali”. Tuttavia, l’idea del libero arbitrio è tanto attraente quanto “inconcepibile”, se la esaminiamo nei dettagli. Thomas Nagel mette il dito sulla piaga chiedendosi candidamente “Non è chiaro cosa significa che io determino la scelta, se nulla di quello che mi riguarda la determina” (1987, p. 69). Infatti, se chiediamo ad un sostenitore del libero arbitrio “Perché hai frenato al semaforo?” egli deve menzionare la paura di causare un incidente, il desiderio di vivere e tante altri fattori senza i quali non avrebbe frenato, ma forse accelerato. Se tale persona riconosce il “peso” di questi fattori ma ribadisce che, al di là di tali “condizionamenti”, ha deciso “liberamente” di frenare si espone all’ulteriore domanda “E perché hai deciso proprio in tal senso?” Il gioco può proseguire finché il nostro interlocutore dichiara: “Ho voluto perché ho voluto”, ma a questo punto dovrà ammettere di non aver dato alcun sostegno alla tesi del libero arbitrio. L’idea di scegliere “liberamente” qualcosa in un vuoto assoluto è semplicemente impensabile. Ed è impensabile come l'idea di non poter scegliere nulla.
Ora sto scrivendo e desidero finire la frase, il periodo ed anche il capitolo. Tale desiderio mi tiene inchiodato alla scrivania, ma sono anche davvero stufo di stare fermo e ho voglia di alzarmi e passeggiare un po’. Anzi, ho proprio voglia di fare altre cose e di togliermi dalla mente questi problemi. Penso e sento di poter scegliere, ma non potrei farlo in un vuoto di desideri. In un vuoto di desideri, le possibilità di scrivere, andare a spasso, suicidarmi o soffiarmi il naso mi risulterebbero egualmente indifferenti. Sto ancora scrivendo, ma probabilmente fra un po’ non starò più scrivendo. Il cambiamento sarà intenzionale come ciò che sto facendo. In ogni caso, non è in questione alcuna scelta “pura” di una mia “mente” distinta da ciò che sono diventato e da ciò che sono attualmente, e quindi da ciò che ora desidero. Smetterò di scrivere quando la voglia di andare in giardino prevarrà su quella di completare ciò che sto scrivendo. Esattamente come il braccio di una bilancia, ad un certo punto, grazie ad un piccolo, “irrilevante” granello di sabbia si abbassa. Quindi, torniamo al determinismo? Non credo, perché l’’idea fondamentale del determinismo è quella secondo cui la mia azione è determinata da “altro da me” (come il moto di una palla che “da sé” starebbe ferma).
Se fossi un’altra persona, non avrei nemmeno iniziato a scrivere e forse in questo momento starei seduto altrove intento a giocare a poker con alcuni amici senza alcuna voglia di alzarmi dal tavolo, ma tutto teso a fare un rilancio. Fra Scilla (la libertà soggettiva, interna) e Cariddi (la determinazione oggettiva, esterna) forse si può navigare filosoficamente seguendo la rotta della determinazione interna. La mia soggettività dipende dalla mia biologia, ma dipende pure dal fatto che la mia identità si è storicamente definita in modalità diverse da quelle che definiscono l’identità di un coniglio, di un lupo ed anche degli altri esseri umani. Io sono la memoria di ciò che mi è accaduto e di ciò che ho fatto, sono la comprensione o l’incomprensione di ciò che mi è accaduto e che ho fatto e sono quindi ciò che sono diventato. Proprio ciò che sono diventato mi permette ad ogni istante di avere “in mente” di fare alcune cose. Mi permette anche di cambiare ulteriormente proprio facendole o non facendole. Ciò che sono e che sono diventato determina le mie scelte e proprio in questa intersezione fra ciò che sono e ciò che posso fare oggi si costruiscono le condizioni di ciò che sarò domani e di ciò che farò domani. Ogni mia scelta non può essere espressione di una libertà “assoluta” (impensabile) o il semplice effetto di fatti esterni a me, ma è ragionevolmente la “somma vettoriale” delle tante “cose” che mi rendono la persona che sono. Mentre ho l’impressione soggettiva di stare vagliando una scelta sono semplicemente consapevole di vari fattori che mi portano a desiderare molte cose, ognuna delle quali ha un suo “peso” e mi spinge ad agire in una direzione o in un’altra. Il fatto che ad un dato istante io sia ancora seduto o mi sia già alzato è determinato soprattutto da ciò che sono diventato prima di quel momento.
Con ciò non sto dicendo di aver risolto con un colpo di genio un rompicapo che tormenta le menti più elevate da millenni. L’idea di un determinismo interno aleggia da tempo nella cultura occidentale. Roy Schafer, autorevole difensore dell’analisi dell’intenzionalità delle azioni ed anche poco incline alla speculazione metafisica ha fatto un’affermazione a mio parere preziosa: "L'intenzione non crea problemi per il linguaggio dell'azione quando è usata per designare decisioni consapevoli, o ragioni o mete per l'agire. E' chiaro che in questi casi non ci si riferisce ad entità che fungono da propulsivo, ma ad azioni finalizzate" (1976, pp.199-200). Per rispondere a Wittgenstein, se togliamo il sollevamento del braccio dall’azione di alzare il braccio possiamo affermare che “ciò che resta” è la realtà di un’esistenza personale in corso. L’esistenza umana è “fatta” di scelte che non sono né libere né determinate da specifici fattori, ma riflettono un processo costituito da una lunghissima assimilazione ed elaborazione di esperienze. In fondo, l’idea di una “libertà necessaria” o di una “necessità libera” è già stata sostenuta, anche se in termini speculativi, da Spinoza, per il quale la divinità (intesa come natura o come totalità di tutto ciò che è e che include anche le persone) è “indeterminata” e quindi libera, ma è determinata dal proprio essere. Su un piano empirico, non speculativo, la ricerca di spiegazioni delle azioni umane non può basarsi su un determinismo assoluto e nemmeno su una libertà “vuota”, ma su ciò che le persone “sono” (e sono diventate).
Sul piano pratico l’analisi dell’intenzionalità difensiva consente di chiarire con il cliente le ragioni di ciò che fa o di ciò che tende a fare. Il lavoro analitico non implica alcuna assunzione metafisica relativa alla questione del determinismo o del libero arbitrio, ma sicuramente presuppone l’idea di una “libertà necessaria” secondo cui le persone esprimono ciò che sono diventate e secondo cui continuano a cambiare (anche con il lavoro analitico) realizzando ulteriori possibilità di esprimere gli ulteriori cambiamenti personali. La psicoterapia, cercando cause particolari di sintomi particolari e approntando delle “contro-cause” di tipo “terapeutico”, rinuncia sia a spiegazioni convincenti delle azioni, sia ad interventi davvero utili. Le persone non si limitano a subire l’influenza di fatti biologici o sociali (le “pulsioni”, i traumi o la famiglia) così come subiscono la forza gravitazionale: accolgono, interpretano ed elaborano ogni nuova sollecitazione e reagiscono nei modi che corrispondono al modo in cui, fino a quel momento, la loro identità si è definita. Le persone, quindi, agiscono esprimendo ciò che sono e ciò che sono diventate. Se cambiano un po’ leggendo una poesia o guardando un tramonto o facendo una seduta, finiscono inevitabilmente per esprimere ciò che da quel momento sono diventate.
Tale quadro di riferimento ci consente di rispondere ad una domanda “terribile”: perché le persone agiscono razionalmente o irrazionalmente? La risposta è questa: le azioni razionali sono “comprensibili oggi”, mentre quelle irrazionali sono “comprensibili ieri”. Le azioni sono intenzionali e sono (a volte) razionali. Quando non sono “razionali oggi”, risultano “razionali ieri”. La mole notevole di irrazionalità che caratterizza la normalità della specie umana costituisce una misura esatta della mole di dolore da cui i bambini si sono dissociati. E’ quindi importante che almeno alcuni indirizzi della psicoterapia abbiano riconosciuto l’intenzionalità di certe convinzioni o stati d’animo irrazionali. Joseph Weiss e Harold Sampson, ad esempio, nella seconda metà del secolo scorso hanno modificato in modo significativo l’approccio psicoanalitico basato sulle ipotesi energetiche-pulsionali freudiane (Weiss 1993, p. 41). Purtroppo, pur riconoscendo l’intenzionalità inconscia di certi atteggiamenti, hanno mantenuto una lettura causale dello sviluppo psicologico concependo le “convinzioni patogene” come l’effetto di esperienze relazionali traumatiche (Weiss-Sampson, 2001, p. 33). L’indirizzo psicoterapeutico che ha maggiormente contribuito all’analisi delle particolari difese psicologiche ed alla loro collocazione in una complessiva strategia difensiva è quello dell’Analisi Transazionale di Eric Berne. Sia nell’analisi dei “giochi” (Berne, 1964), sia nell’analisi del “copione” (Berne, 1972) vengono analizzate sia le manipolazione attuate nei rapporti interpersonali, sia le strategie esistenziali più ampie. Purtroppo, Berne non ha chiarito in modo soddisfacente che le strategie difensive costituiscono modi per non accettare ed elaborare il dolore ed ha mantenuto un approccio “terapeutico” limitato allo “smascheramento” delle modalità manipolative.
Con le azioni razionali le persone manifestano le loro potenzialità e con le azioni irrazionali le persone manifestano la paura di capire, sentire ed esprimere il dolore. Il lavoro analitico chiarisce le strategie difensive e così modifica la situazione del cliente rendendo possibili delle ridecisioni. La psicoterapia, a partire dalla psicoanalisi, costituisce un’imitazione mal riuscita della teoria e della pratica medica e tale equivoco non è sfuggito a Wittgenstein. “Per Wittgenstein, Freud ha commesso un ‘abominevole pasticcio’: quello di aver scambiato le ragioni di un’azione con le sue cause” (Pagnini, 2003, pp. 263). Se interpretassi un atteggiamento competitivo di un cliente come una riproposizione di una situazione edipica o di un istinto ancestrale o come l’esito di una vita precedente o come il riflesso di fatti astrologici, questi potrebbe anche concedermi il beneficio del dubbio, ma continuerebbe a non capire il proprio atteggiamento. Quando, invece, mettendo in ordine le informazioni raccolte, chiedo ad un cliente: “Cerchi di essere sempre il primo per ricavare qualcosa grazie a tale risultato?” e ottengo come risposta delle lacrime e una frase lapidaria del tipo “io non contavo niente se non portavo a casa dei risultati”, quella persona non deve fare molte “inferenze” per capire. E se aggiungo: “Ma allora amavano te o i tuoi risultati?”, il cliente non deve fare molte inferenze per capire con maggior chiarezza.
Il problema della libertà o della determinazione delle scelte umane è quindi un falso problema. Al contrario, l’idea (non nuova) di una libertà necessaria o di una determinazione libera consente di porre in modo limpido, sia nella vita quotidiana, sia nelle sedute, le domande scomode ma costruttive sulle ragioni per cui le persone fanno ciò che fanno.
Parlando di ciò che “siamo” e che siamo diventati ho accennato anche a ciò che siamo diventati come membri di una particolarissima specie: abbiamo “raccolto” ed esaltato le capacità razionali ed empatiche delle altre specie sociali, ma siamo diventati anche capaci di “disattivare” tali capacità e di manifestare forme di irrazionalità e di distruttività sconcertanti. Se le nostre potenzialità espressive “vengono da lontano”, anche le strategie difensive hanno una storia che merita di essere raccontata. La teoria dell’evoluzione ci offre gli elementi fondamentali per capire anche i passaggi dell’involuzione che ha caratterizzato la specie umana. Di fatto, non solo i filosofi e gli psicologi evitano di mettere a fuoco l’intenzionalità difensiva, ma anche i biologi, gli etologi e gli antropologi non amano parlare dell’involuzione della specie umana. Cercherò quindi nel prossimo capitolo di chiarire tale questione che, paradossalmente, non è stata posta ma ha già avuto risposte convincenti.