La
teoria dell’evoluzione lascia senza risposte alcune domande fondamentali, ma
fornisce un solido, coerente e ormai indiscutibile quadro di riferimento per
qualsiasi indagine sugli esseri umani. Non spiega, ad esempio, in modo davvero
soddisfacente il passaggio dalla comunicazione preverbale a quella verbale e
infatti, alcuni studiosi del linguaggio, tra i quali compare anche Noam
Chomsky, hanno ricapitolato le ricerche più recenti concludendo che, al
momento, lo sviluppo delle abilità linguistiche resta uno dei grandi misteri
della nostra specie (cfr. AA.VV. 2014). La domanda più importante a cui la
teoria dell’evoluzione non offre risposte è quella relativa all’origine della
coscienza. Pur delineando varie vicende che hanno reso possibile l’emergere
della coscienza, la teoria non spiega cosa “davvero” abbia determinato il passaggio
da una storia di “oggetti biologici” ad una storia di soggetti consapevoli di
qualcosa e persino consapevoli di avere una storia. Anche il passaggio dai
processi non vitali a quelli vitali non è stato del tutto chiarito dalla fisica
e dalla biologia. Tuttavia, tali lacune non rendono la teoria dell’evoluzione
incoerente o “debole”: persino le persone religiose o quelle non religiose ma convinte
dell’esistenza di un piano di realtà spirituale, non possono prescindere dai
fatti evidenziati dalla teoria evolutiva e dall’ordine in cui essa dispone tali
fatti. Quindi, con entusiasmo o con rassegnazione dobbiamo fare i conti con le
idee che da Darwin in poi hanno permeato la nostra consapevolezza di essere ciò
che siamo diventati.
Personalmente
sono poco turbato dalle incertezze sull’origine della vita o del linguaggio. Capisco l’importanza di tali questioni, ma esse incidono sulla mia esistenza
più o meno quanto i dubbi sull’esistenza degli extraterrestri: nessuna risposta
a tali questioni sarebbe rilevante per la comprensione della mia esistenza
personale e delle mie relazioni con i miei simili. E’ invece più rilevante la
questione della coscienza, perché qualsiasi idea convincente sulle sue radici
“storiche” favorirebbe la conoscenza della coscienza “in quanto tale”. Per
questo motivo dedicherò più avanti un capitolo ai vari risvolti del fatto che
oltre ad esistere (nella realtà oggettivamente “data”) disponiamo di un punto
di vista soggettivo sulla realtà. Ciò di cui invece voglio occuparmi ora
riguarda una domanda a cui i teorici dell’evoluzione hanno risposto senza accorgersene. La domanda può
essere formulata così: come mai gli “scimmioni nudi” sono riusciti a
diventare tanto intelligenti e sensibili e al contempo tanto stupidi e
insensibili?
Sono
convinto che qualcosa sia andato storto nell’evoluzione della specie umana: il
notevole allungamento dell’età evolutiva dei cuccioli umani ha reso possibili
esperienze di contatto emotivo molto più intense di quelle fatte dai cuccioli
di altre specie, ma l’allungamento di tale fase ha determinato limiti e
incoerenze nell’espressione delle capacità genitoriali. All’evoluzione
biologica della specie si è associata, quindi, un’evoluzione psicologica, ma
anche un’involuzione psicologica così diffusa da non essere nemmeno notata. A
livello individuale e sociale oscilliamo continuamente fra l’armonia della
razionalità e le dissonanze dell’irrazionalità. Il potenziale espressivo
individuale, non è un ideale, una meta astratta, un’ipotesi immaginaria: è
sempre realizzato, in qualche misura, così come le dissociazioni sono sempre in
atto, in qualche misura. Nei momenti preziosi in cui le persone interrompono le
loro strategie difensive, non mettono in pratica qualche insegnamento di cui si
erano scordate, ma rinunciano alla loro prigione. Purtroppo tornano ad
imprigionarsi appena le lacrime bussano alla porta, risvegliando un “antico”
terrore.
L’avventura
della nostra piccola storia personale rientra in una collezione immensa di
fatti che include la storia di tutti gli esseri viventi e di indefiniti
antenati. Tale “collezione” di fatti inizia quasi come una favola: “Che cosa è
accaduto dei primi scimmioni? Sappiamo che il clima cominciò ad essere sfavorevole
e che ad un certo punto, circa quindici milioni di anni fa, le loro foreste
rifugio si erano ridotte notevolmente di dimensioni. Allora gli scimmioni
ancestrali furono costretti ad attaccarsi a ciò che rimaneva delle loro case
nelle foreste, o ad affrontare in un senso quasi biblico la cacciata dall’Eden.
Gli antenati degli scimpanzé, dei gorilla, dei gibboni e degli orango rimasero
e da allora il loro numero è andato lentamente diminuendo. Gli antenati
dell’altro scimmione sopravvissuto, lo scimmione nudo, si aprirono un cammino,
lasciarono le foreste e si gettarono in lotta con gli abitatori delle praterie,
già ben adattati. Si trattava di un affare rischioso ma che, in termini di
evoluzione, ottenne successo” (Morris, 1967, p. 20). Jared Diamond, uno
studioso di biologia evolutiva che ha raccolto dati acquisiti più di recente,
rivede un po’ i tempi di quella vicenda e afferma che “la divergenza fra le due
linee evolutive dell’uomo e degli ‘altri scimpanzé’ dev’essersi verificata fra
6 e 8 milioni di anni fa” (1991, p. 37).
In
ogni caso, parliamo di milioni di anni. Ad essere sinceri, anche la storia più
“recente” genera un certo spaesamento e, a questo proposito, Michael Tomasello
ci spiega che circa centocinquantamila anni fa la specie Homo sapiens sapiens allargò i suoi orizzonti: dilatando la
consapevolezza delle relazioni fra soggetti è arrivata a concepire relazioni
più ampie che implicavano un’intenzionalità collettiva, alcune istituzioni,
norme valide nel gruppo e una partecipazione dei singoli alla cultura condivisa
(cfr. 2016, p. 117). Il processo, però, deve essere stato molto lento perché
“Già quarantamila anni fa i neanderthaliani avevano un cervello persino più
grande di quello dell’uomo moderno, e tuttavia i loro utensili non presentano
alcun segno di innovazione o di abilità artistica: l’uomo di Neanderthal era
ancora un semplice mammifero di grossa taglia” (Diamond, 1991, p. 25). Siamo
passati da alcuni milioni di anni fa a 150.000 anni fa e siamo giunti a 40.000
anni fa per ritrovarci sulla linea del confine che separa la nostra vita di
mammiferi di grossa taglia dalla nostra vita più o meno umana.
La
comparsa delle capacità linguistiche ha determinato cambiamenti molto
significativi, anche se la datazione di tale sviluppo non è semplice, dato che
la lingua parlata non lascia tracce come la scrittura o i mutamenti anatomici.
Poiché vari animali comunicano fra loro in modo rudimentale e le dimensioni del
cervello umano sono state raggiunte prima della realizzazione di un vero salto
dalla natura alla cultura e poiché il patrimonio genetico umano si discosta di
poco da quello delle scimmie antropomorfe, probabilmente lo sviluppo del
linguaggio è dipeso da molti fattori (cfr. Diamond, 1991, pp. 74-75; Morris,
1967, p. 120). Anche tale sviluppo deve però aver richiesto un lungo lasso di
tempo prima di dar luogo a forme complesse di attività comunicativa. Per questo
motivo Jared Diamond sostiene che “L’evoluzione culturale è stata maggiore
negli ultimi 40.000 anni –in cui si sono verificati mutamenti soltanto
trascurabili nella nostra anatomia- che nei milioni di anni precedenti” (1991,
pp. 76). A questo grande “balzo in avanti” si deve aggiungere quello dovuto
alla “invenzione” dell’agricoltura (ed alla domesticazione di alcuni animali)
verificatasi solo a partire da circa diecimila anni fa.
Le
poche vicende a cui ho appena accennato ricapitolano un processo molto lento,
complesso, oggettivo, all’interno del
quale dobbiamo collocare le nostre vite (e anche le nostre idee sulla vita). Le
nostre vicende quotidiane risultano stranamente collegate ad eventi come la
migrazione di uno stormo di uccelli e la sinfonia di tutti i richiami di tutte
le foreste. Poiché lo strano e inquietante contrasto esistente fra le storie
soggettivamente vissute e l’oggettiva storia del mondo ha come presupposto
alcune “svolte” significative, voglio mettere in rilievo l’intreccio fra alcuni
aspetti biologici e relazionali che hanno reso la nostra specie tanto
“speciale”.
Sappiamo
che una porzione minima del nostro DNA ci distingue dalle scimmie antropomorfe
e sappiamo che alcune caratteristiche come l’aumento della massa cerebrale, la
postura eretta e la perdita del pelo hanno contribuito notevolmente alla
definizione di ciò che siamo. Più delle singole caratteristiche, in tale
processo è presumibilmente stato determinante il loro intreccio e il loro
“effetto” all’interno di una vita sociale sempre più intensa e più ampia.
Parlando
del cervello umano dobbiamo considerare non solo la sua massa, ma anche il modo
in cui si sviluppa. Sappiamo che “Da Australopithecus a Homo sapiens sapiens il volume cerebrale è balzato da circa 475
centimetri cubi a qualcosa come 1400 centimetri cubi” (Changeux, 2008, p. 185),
ma dobbiamo considerare soprattutto il fatto che il nostro cervello cresce più dopo la nascita che nel periodo di
gestazione: “il volume del cranio del bambino aumenta più di quattro volte
dopo la nascita, mentre aumenta di meno di due volte nello scimpanzé,
nonostante i loro periodi di gestazione siano simili” (Changeux, 2008, p. 192).
Quindi, il nostro cervello viene “plasmato” o almeno “sollecitato” in misura
notevole dall’ambiente sociale. Tale sovrapposizione di processi biologici e
sociali è decisiva se teniamo presenti sia le vicende che hanno portato i
nostri antenati a sopravvivere proprio intensificando le relazioni sociali, sia
quella bizzarra vicenda costituita dalla neotenia,
cioè dal “ritardo” del nostro sviluppo segnalato inizialmente da Louis Bolk nel
secondo decennio del secolo scorso. Molte caratteristiche dei membri adulti
della nostra specie sono caratteristiche
fetali divenute permanenti. In pratica, certe caratteristiche fetali di
altri primati sono divenute permanenti negli esseri umani come se gli esseri
umani avessero cominciato a nascere “prima del tempo”. Proprio tale
caratteristica determina un’interazione particolarmente lunga fra i cuccioli
umani e il loro ambiente istituendo una mediazione “neuroculturale” molto
efficace (cfr. Lapassade, 1963). La
specie umana è quindi caratterizzata da una sorta di ritardo nello sviluppo
individuale che dilata nel tempo il raggiungimento della maturità.
Tale
fenomeno ci rende “essenzialmente sociali”. Desmond Morris riassume in modo
molto incisivo questo passaggio: “Il fatto che tante e diverse caratteristiche
embrionali erano potenzialmente importanti per lo scimmione cacciatore nella
sua nuova condizione, costituì il varco evolutivo di cui esso aveva bisogno.
Con un solo colpo di neotenia egli fu in grado di ottenere il cervello che gli
serviva e il corpo che vi si adattava. Poté correre verticalmente, con le mani
libere in modo da brandire le armi, sviluppando contemporaneamente il cervello
che poteva a sua volta inventare le armi. Inoltre, egli non solo divenne più
abile nel maneggiare gli oggetti, ma ebbe anche un’infanzia più lunga durante
la quale poteva apprendere dai genitori e dagli altri adulti” (1967, p. 36).
Proprio tale infanzia particolarmente
lunga rispetto a quella che caratterizza gli animali sociali e gli altri
primati costituisce il punto essenziale di qualsiasi riflessione sulla capacità
degli esseri umani di dimostrarsi sia “umani”, sia “disumani”. Ma dobbiamo
procedere per gradi, evidenziando alcune conseguenze importantissime di questa
“dilatazione” dell’infanzia.
La
crescita individuale fisica e psicologica “spalmata” in un periodo di molti
anni ha reso possibile il passaggio dagli scambi affettivi elementari alla
realizzazione di quella che chiamiamo “intimità”. Vari anni di dipendenza
fisica e psicologica dai genitori, contrassegnati dal senso di sicurezza
garantito da un accudimento tenero e costante, esaltano necessariamente le
capacità di percepire, apprezzare e cercare il contatto con gli altri. Se
consideriamo l’incremento delle competenze cognitive associato a tale sviluppo
emotivo arriviamo facilmente a capire come gli esseri umani abbiano la
possibilità non solo di convivere costruttivamente con i loro simili, ma di
apprezzare la loro esistenza, di desiderare relazioni emotive intense e persino
relazioni amichevoli estese al di là della cerchia della famiglia o del gruppo.
La statura eretta ci ha resi più efficienti nella sopravvivenza, ma proprio il prolungamento dell’infanzia ci ha
resi davvero “umani”, cioè capaci di passione e di compassione, determinati
a costruire il nostro futuro e a capire che viviamo come soggetti fra altri soggetti. Il prolungamento dell’infanzia ci
rende l’unica specie capace di concepire
il vivere come qualcosa di diverso dal sopravvivere.
Varie
trasformazioni hanno accompagnato questo processo. Molti animali formano dei
legami di coppia, ma tale tendenza è rara fra i primati. Nello “scimmione
nudo”, però, il legame di coppia è risultato molto forte e molti cambiamenti
fisici hanno esaltato le capacità umane di intimità. “Non sembra che le femmine
degli altri primati nelle sequenze dell’atto sessuale raggiungano un acme,
mentre lo scimmione nudo sotto questo aspetto è diverso” (Morris, 1967, p. 58).
Anche sul versante maschile sono cambiate alcune cose: “La lunghezza del pene
eretto è poco più di tre centimetri nel gorilla e poco meno di quattro
centimetri nell’orango, ma è circa tredici centimetri nell’uomo, sebbene il
corpo delle due antropomorfe sia molto più grande di quello dell’uomo”
(Diamond, 1997, p. 168). Anche se tale fatto può alimentare l’orgoglio di molti
maschi, credo che vada collocato in un contesto più ampio: “Nel genere umano,
l’ovulazione non è manifesta. Ciò significa che il breve periodo di fecondità
della donna intorno all’epoca dell’ovulazione è difficile da riconoscere sia
per il suo potenziale partner sia per la maggior parte delle donne stesse. La
recettività sessuale della donna si estende oltre il periodo fecondo
comprendendo quasi tutto o tutto il ciclo mestruale. Ne consegue che la
maggioranza delle copulazioni umane avviene in un periodo non fecondo. In altri
termini, lo scopo dell’attività sessuale è il godimento della coppia, e non
l’inseminazione” (Diamond, 1997, p. 13). Assemblando questi dati possiamo
facilmente giungere ad una conclusione: “la scimmia nuda è il più sensuale di
tutti i primati viventi” (Morris, 1967, p. 67). Sono quindi moltissimi i
fattori che contribuiscono all’esaltazione della capacità degli esseri umani di
innamorarsi, eccitarsi e sperimentare un’intimità fisica e psicologica più
intensa di quella degli altri animali sociale e dei primati.
Tutte
le conoscenze disponibili ci conducono ad identificare un punto di svolta molto
significativo nella nostra storia collettiva: una svolta non dovuta
principalmente ad un graduale cambiamento della nostra “strumentazione” fisica
o cognitiva, ma ad una crescita
particolarmente lenta, caratterizzata da esperienze emotive molto intense.
In tale processo si ricapitola quello che mi sembra il circolo virtuoso della specie umana: a) la lunghissima infanzia
esalta la nostra capacità di provare forti emozioni, di esercitare l’empatia e
di stabilire legami affettivi duraturi, b) questo patrimonio soggettivo rende
possibili relazioni di coppia emotivamente molto intense e c) tali relazioni
costituiscono la base per la sicurezza psicologica dei figli. La consapevolezza
delle capacità o potenzialità “specificamente umane” acquisite all’interno di
tale circolo virtuoso ci costringe però a trovare spiegazioni per un fenomeno di
segno opposto che, purtroppo, è altrettanto evidente: la capacità (pure
“specificamente umana”) di bloccare o distorcere l’espressione delle
potenzialità acquisite. Le spiegazioni di tale tragedia sono già a nostra
disposizione, ma sono terribilmente scomode e, proprio per questo, non stanno
al centro degli studi sullo sviluppo psicologico degli esseri umani. Tali
spiegazioni riguardano un terribile circolo
vizioso che ha dato i suoi frutti più amari proprio mentre il circolo
virtuoso che ho descritto produceva i suoi frutti più succosi.
Nella
comunità trobriandese studiata da Bronislaw Malinowdki (1927) la normale vita
sociale era caratterizzata dal “circolo virtuoso” a cui ho accennato:
l’allattamento dei figli era prolungato, l’accudimento successivo era
soddisfacente, la sessualità non era svalutata o repressa, le relazioni di
coppia erano erotiche ed affettivamente intense, la solidarietà era molto
sentita fra membri della comunità e le convinzioni etiche e religiose (presenti
in comunità poco distanti geograficamente e simili per lo sviluppo delle
conoscenze pratiche) erano assenti. Un circolo virtuoso perfetto grazie al
quale i bambini erano felici e diventavano adulti sessualmente liberi, capaci
di sperimentare relazioni di coppia soddisfacenti e di aver cura dei loro
figli. A questo quadro idilliaco dobbiamo però aggiungere quello descritto
recentemente da Daniel L. Everett (2008) relativo alla popolazione dei pirahas,
che costituisce una comunità altrettanto “arretrata”, residente nella foresta
amazzonica. Tale comunità, per certi aspetti è simile a quella dei trobriandesi:
accetta e favorisce un tenero accudimento dei bambini, una spontanea “fisicità”
nei contatti interpersonali, una basilare libertà di espressione della
sessualità e una significativa e diffusa solidarietà. Tuttavia, per altri
aspetti, la comunità dei pirahas sembra manifestare atteggiamenti rigidi e poco
compassionevoli. La contraddizione è molto forte.
Da
un lato i pirahas allattano a lungo i figli (anche per tre anni) svezzandoli
quando un nuovo bambino nasce e li accudiscono con tenerezza offrendo un buon
contatto fisico, ma, da un altro lato, li svezzano bruscamente; inoltre non
offrono a loro alcun sostegno psicologico (anzi, li sgridano) se si fanno male
(Everett, 2008, cap. 6). E’ come se i pirahas fossero capaci di manifestare una
forte empatia nei confronti dei figli, ma fossero
costretti a mostrare durezza in certi momenti cruciali. Credo che proprio
la preoccupazione per i figli costringa queste persone a mettere da parte le
risposte empatiche. Infatti, i pirahas vivono in un ambiente molto ostile e
hanno una vita breve, perché muoiono per malattie banali che non sanno curare o
per il morso di un serpente. Amano la loro vita, sorridono spesso, si sentono
legati fra loro, ma per sopravvivere devono combattere duramente ogni giorno,
anche solo per nutrirsi a sufficienza. Nell’ambiente in cui vivono, sembra che
debbano costringere i figli a crescere molto in fretta, perché se accudissero
tutti i figli per molto tempo non avrebbero risorse sufficienti per farli
sopravvivere. Per questo motivo, a mio parere, li trattano nel modo migliore
per renderli felici e poi li trattano con durezza per farli sopravvivere.
Bambini che noi considereremmo molto piccoli devono essere in grado di
procurarsi il cibo e, se non sono abbastanza forti da cacciare, devono almeno
pescare. A mio parere, la crescita “forzata” dei figli, in quell’ambiente non
è, come nella nostra società, un capriccio dei genitori, ma l’ultimo dono dei
genitori. Non riesco a spiegarmi in un altro modo quel pasticcio di dolcezza e
asprezza che caratterizza la socializzazione infantile presso i pirahas. Se
tale spiegazione è ragionevole, si riduce all’idea che le relazioni basate sull’empatia cambiano quando interviene un
sentimento di paura sufficientemente intenso.
Qualcosa
del genere deve essere accaduto ovunque quando le “scimmie nude” sono diventate
abbastanza sensibili da stabilire forti legami e dare risposte positive ai
bisogni affettivi dei figli. Se questo è vero dobbiamo ipotizzare che la
dilatazione dell’infanzia dei cuccioli umani abbia prodotto due fenomeni molto
diversi: da un lato l’esperienza
infantile della sicurezza psicologica e la scoperta dei risvolti più delicati
del contatto fisico ed emotivo ma, da un
altro lato, l’esperienza di frustrazioni di tipo affettivo non sempre
tollerabili. Ciò rende decisamente bizzarre le ipotesi relative a complessi
inconsci come il complesso edipico e altri complessi inventati da psicologi e
psicoterapeuti di tutte le scuole. L’unico “complesso” ragionevolmente
ipotizzabile riguarda la gestione del dolore. Se un neonato ha fame e col
pianto ottiene il latte che nutre e garantisce un senso di sicurezza, oppure se
un bambino soffre e viene sostenuto dalla madre o dal padre nell’elaborazione
del dolore, la crescita avviene in modo lineare: empatia, contatto, sviluppo
cognitivo, interazioni complesse ma limpide fra bambini, ragazzi e adulti. Se,
invece, un bambino, anche allattato per più di due anni piange perché “vuole
succhiare il seno della madre” ma viene lasciato solo (Everett, 2008, p. 106),
in qualche modo deve fronteggiare il dolore insostenibile di una grave perdita.
Deve, quindi, strutturare delle difese psicologiche. In tanti anni di lavoro
analitico non ho mai lavorato con clienti svezzati bruscamente per motivi
comprensibili come quelli dei pirahas, ma ho lavorato con persone svezzate in
un giorno mediante l’utilizzazione del pepe sui capezzoli della madre, o con il
trasferimento dai nonni; e ho lavorato con persone non allattate perché la
madre “non aveva latte” o era depressa. Ho lavorato anche con clienti che
avevano rifiutato il seno, presumibilmente percependo che il latte non era
“buono” o che la madre era sbrigativa e poco “soddisfatta di soddisfare”. Negli
anni ho osservato smorfie “stampate” sul viso, tensioni croniche alla bocca
dovute all’irrigidimento di alcuni muscoli e atteggiamenti irrazionalmente
voraci o distaccati, comprensibili solo in relazione all’illusione (difensiva)
di poter “ricevere qualcosa, prima o poi” o alla convinzione/sensazione
(difensiva) di non avere alcun bisogno affettivo.
Credo
si possa ipotizzare che proprio il notevole prolungamento dell’infanzia abbia
prodotto i frutti più dolci e quelli più amari: “Il peso delle cure verso i
figli dello scimmione nudo è molto più grave che in qualunque altra specie
vivente. I genitori di altre specie svolgono talora i loro doveri con la stessa
intensità, ma mai per un periodo di tempo tanto prolungato” (Morris, 1967,
p.109). Ciò significa che l’oggettiva contraddizione fra la capacità e il
desiderio di accudire i piccoli e la paura di non riuscire a disporre di
sufficienti risorse non può non essersi tradotta in una contraddizione
psicologica nei genitori, fra il
desiderio di accettare incondizionatamente i figli e quello di fare pressioni
nei loro confronti. Tale contraddizione deve essere stata difficile da gestire
ed è presumibile che i genitori dei nostri lontani antenati in qualche misura
abbiano accettato il dolore di tale contraddizione sollecitando con delicatezza
i figli a crescere in fretta, ma in qualche misura abbiano evitato tale
dolorosa consapevolezza distaccandosi emotivamente e imponendo ai figli ideali
e doveri. La capacità di convivere con il dolore richiede le stesse competenze
cognitive ed emotive della capacità di manifestare empatia e quindi, in linea
di principio, si può supporre che i nostri antenati fossero in grado di gestire il lato doloroso dell’avventura di
accudire i figli. Tuttavia, come abbiamo visto nel caso dei pirahas, il timore
di non dare abbastanza ai neonati ha probabilmente favorito una certa durezza
nel modo di trattare i bambini. I pirahas non sono nostri antenati, ma nostri
contemporanei che, per via del loro isolamento, hanno sviluppato una cultura
rudimentale rispetto alla nostra. Tuttavia mostrano che la paura può limitare
l’esercizio delle capacità di accudimento. La paura da loro sperimentata è
presumibilmente molto simile a quella dei nostri antenati desiderosi di
accudire i figli ma immersi in un ambiente ostile.
Queste
considerazioni mi portano a ritenere che certe ragionevoli paure “originarie”
abbiano generato nei pirahas una piccola
deviazione dalla completa e lineare maturazione delle capacità emotive:
infatti, nella loro cultura, la “spietatezza” della socializzazione infantile
ha dei precedenti molto positivi (il lungo allattamento e la manifestazione
fisica dell’affetto) e forgia uno sviluppo individuale caratterizzato da una
sessualità libera, da relazioni intime significative, da una sincera apertura
nei confronti degli altri, dall’assenza di autoritarismo sociale. La religione
e il moralismo non hanno messo radici e forse il blando animismo dei pirahas
riflette più l’ignoranza che le difese psicologiche. Tuttavia, Everett ha
evidenziato che gli adulti manifestano a volte reazioni violente del tutto
irrazionali e si ubriacano quando i commercianti portano alcolici. L’ipotesi
generale più rispettosa di questi fatti e coerente con le altre
conoscenze disponibili mi sembra la seguente: nella specie umana
caratterizzata da un significativo “salto evolutivo” neotenico, la paura reale (dovuta a reali
difficoltà nella lotta quotidiana per la sopravvivenza) ha determinato modeste chiusure emotive negli adulti e
modeste reazioni psicologiche difensive nei bambini. Tali difese hanno
prodotto paure irrazionali che si sono
sommate a quelle razionali rendendo ogni generazione un po’ più “corazzata”
emotivamente e, quindi, un po’ meno disponibile nel processo di accudimento dei
bambini. Questo mi sembra possa essere considerato il nucleo originario del
circolo vizioso che ha ridotto sensibilmente i benefici del circolo virtuoso
costituito dalla crescita lineare delle competenze empatiche e cognitive. In
pratica, il circolo virtuoso ha generato una maggiore “sensibilità” ed un
costante esercizio della razionalità, ma il circolo vizioso ha trasformato
parte di tale sensibilità in emozioni difensive e ha contrastato la
razionalità.
I
bambini oggi potrebbero crescere con i loro tempi contando sul puro sostegno
degli adulti, perché non devono essere “autonomi ed efficienti” fin dalla loro
più tenera età. I bambini devono, invece, purtroppo, piegarsi ai capricci, alle
illusioni, alle paure irrazionali e alle pretese dei genitori, degli insegnanti
e dei parenti. In prima elementare si vergognano se non dimostrano di essere
“forti” facendo i secchioni o i bulli. Sono tanto soli che imparano volentieri
ad utilizzare tutti i più assurdi giochi elettronici perché non hanno nulla di
piacevole da fare e perché devono evitare a tutti i costi di sentirsi soli. I
genitori più “consapevoli” vietano l’uso prolungato del computer o della
televisione, ma non offrono alternative. Un bambino di sei anni, con la madre
impegnata a lavorare e/o a fare shopping e/o a fare volontariato e con il padre
che è “nervoso” perché lavora troppo o è depresso perché non lavora o si sente
euforico per via del campionato di calcio, non sa come organizzare le proprie
giornate. Si sente morire e si distrae in qualche modo, mentre cova rabbia,
inventa paure assurde (che implicano sempre qualche speranza) e si prepara a
diventare un adulto “involuto” come i suoi genitori. Con buona pace di Darwin
(e dei suoi allievi), a cui l’involuzione della specie “è sfuggita”.
Tutte
le specie animali si sono estinte oppure sono diventate più competenti sul
piano emotivo e cognitivo. La specie umana ha esaltato al massimo l’espansione
delle proprie competenze, ma ha anche creato forme di indifferenza, crudeltà e
stupidità che gli altri animali sociali disprezzerebbero se non fossero troppo
complicate per le loro (più lineari, ma limitate) capacità. In pratica, i
bambini “corazzati” diventano genitori “corazzati” che obbligano i figli a
“corazzarsi”. L’intimità e la socialità si trasformano così in rituali sociali
e culturali. E la cultura giustifica tutto ciò che è “dato” e che non corrisponde
più a ciò che le persone potrebbero sentire, capire e fare: gli psicoterapeuti
non denunciano la quotidiana “strage psicologica degli innocenti”, ma
intervengono solo quando i bambini esibiscono sintomi gravi, mentre i politici
in nome della libertà di pensiero trasformano lo Stato in un baluardo per le
religioni e le ideologie che seminano svalutazione, paura e rabbia. D’altra
parte, i politici, gli educatori, i filosofi, gli psicoterapeuti e i sacerdoti
sono stati bambini e, divenuti adulti, non sanno più quale sia la sofferenza da
cui sono fuggiti e non immaginano nemmeno la felicità possibile alla specie
umana.
Per
questi motivi è importante che il prolungamento dell’infanzia si accompagni ad
un costante e incondizionato sostegno dei cuccioli umani da parte dei genitori:
tale sostegno è necessario sia perché previene molte situazioni dolorose, sia
perché consente ai bambini la gestione del dolore inevitabile. Solo l’analisi
rigorosa delle difese dal dolore consente di capire le “ragioni” di tutti i
fenomeni individuali e di massa che sembrano non avere ragioni: la svalutazione
di sé e degli altri, il bisogno di “avere” di più, di “fare” di più, di “essere
migliori”, oppure il bisogno di dimostrare che si è “incapaci” e “bisognosi”.
Le
esperienze piacevoli o spiacevoli fatte consapevolmente dai bambini diventano
ricordi, mentre le esperienze spiacevoli che non vengono elaborate con il
sostegno dei genitori, diventano “vissuti” non accettati che continuano a “fare
pressione” per tutta la vita e vengono inconsapevolmente respinti (a meno che
non vengano analizzati, compresi, espressi nel pianto ed accettati in un lavoro
analitico). Un bambino rifiutato e isolato da alcuni coetanei può accettare,
con il sostegno dei genitori, il dolore di quella solitudine, piangere
sentendosi al sicuro e cercare poi altri amici. Crescendo si sentirà in pace
con se stesso, tenderà a chiedersi quali persone egli desideri frequentare e
non sentirà alcun bisogno di essere apprezzato da chiunque. Un bambino
rifiutato proprio dai genitori non potrà elaborare con loro il dolore di tale
solitudine. Quindi, bloccherà la consapevolezza di quel dolore ingestibile. A
venti o quarant’anni continuerà a sentire “da qualche parte” un bisogno
fortissimo di accettazione e continuerà a dimostrarsi “appiccicoso” o
“competitivo” o “ribelle” per non sentire i vissuti di rifiuto.
Possiamo
quindi trovare proprio nella teoria dell’evoluzione e nell’antropologia
culturale una risposta alla domanda non
formulata sull’irruzione dell’irrazionalità in una specie che si stava
definendo come razionale e profondamente empatica e quindi come portatrice di
un potenziale espressivo senza confronti. Possiamo dire che la “dilatazione”
temporale dell’infanzia ha fatto maturare notevoli competenze cognitive ed
affettive, ma ha anche reso inevitabile un “restringimento” della disponibilità
emotiva degli adulti nei confronti dei cuccioli umani. Questo insieme di fatti
ha prodotto negli esseri umani sia lo sviluppo di capacità razionali ed
empatiche eccezionali, sia la creazione e il radicamento delle difese
psicologiche.