martedì 10 luglio 2018

7. Evoluzione e involuzione







La teoria dell’evoluzione lascia senza risposte alcune domande fondamentali, ma fornisce un solido, coerente e ormai indiscutibile quadro di riferimento per qualsiasi indagine sugli esseri umani. Non spiega, ad esempio, in modo davvero soddisfacente il passaggio dalla comunicazione preverbale a quella verbale e infatti, alcuni studiosi del linguaggio, tra i quali compare anche Noam Chomsky, hanno ricapitolato le ricerche più recenti concludendo che, al momento, lo sviluppo delle abilità linguistiche resta uno dei grandi misteri della nostra specie (cfr. AA.VV. 2014). La domanda più importante a cui la teoria dell’evoluzione non offre risposte è quella relativa all’origine della coscienza. Pur delineando varie vicende che hanno reso possibile l’emergere della coscienza, la teoria non spiega cosa “davvero” abbia determinato il passaggio da una storia di “oggetti biologici” ad una storia di soggetti consapevoli di qualcosa e persino consapevoli di avere una storia. Anche il passaggio dai processi non vitali a quelli vitali non è stato del tutto chiarito dalla fisica e dalla biologia. Tuttavia, tali lacune non rendono la teoria dell’evoluzione incoerente o “debole”: persino le persone religiose o quelle non religiose ma convinte dell’esistenza di un piano di realtà spirituale, non possono prescindere dai fatti evidenziati dalla teoria evolutiva e dall’ordine in cui essa dispone tali fatti. Quindi, con entusiasmo o con rassegnazione dobbiamo fare i conti con le idee che da Darwin in poi hanno permeato la nostra consapevolezza di essere ciò che siamo diventati.
Personalmente sono poco turbato dalle incertezze sull’origine della vita o del linguaggio. Capisco l’importanza di tali questioni, ma esse incidono sulla mia esistenza più o meno quanto i dubbi sull’esistenza degli extraterrestri: nessuna risposta a tali questioni sarebbe rilevante per la comprensione della mia esistenza personale e delle mie relazioni con i miei simili. E’ invece più rilevante la questione della coscienza, perché qualsiasi idea convincente sulle sue radici “storiche” favorirebbe la conoscenza della coscienza “in quanto tale”. Per questo motivo dedicherò più avanti un capitolo ai vari risvolti del fatto che oltre ad esistere (nella realtà oggettivamente “data”) disponiamo di un punto di vista soggettivo sulla realtà. Ciò di cui invece voglio occuparmi ora riguarda una domanda a cui i teorici dell’evoluzione hanno risposto senza accorgersene. La domanda può essere formulata così: come mai gli “scimmioni nudi” sono riusciti a diventare tanto intelligenti e sensibili e al contempo tanto stupidi e insensibili?
Sono convinto che qualcosa sia andato storto nell’evoluzione della specie umana: il notevole allungamento dell’età evolutiva dei cuccioli umani ha reso possibili esperienze di contatto emotivo molto più intense di quelle fatte dai cuccioli di altre specie, ma l’allungamento di tale fase ha determinato limiti e incoerenze nell’espressione delle capacità genitoriali. All’evoluzione biologica della specie si è associata, quindi, un’evoluzione psicologica, ma anche un’involuzione psicologica così diffusa da non essere nemmeno notata. A livello individuale e sociale oscilliamo continuamente fra l’armonia della razionalità e le dissonanze dell’irrazionalità. Il potenziale espressivo individuale, non è un ideale, una meta astratta, un’ipotesi immaginaria: è sempre realizzato, in qualche misura, così come le dissociazioni sono sempre in atto, in qualche misura. Nei momenti preziosi in cui le persone interrompono le loro strategie difensive, non mettono in pratica qualche insegnamento di cui si erano scordate, ma rinunciano alla loro prigione. Purtroppo tornano ad imprigionarsi appena le lacrime bussano alla porta, risvegliando un “antico” terrore.
L’avventura della nostra piccola storia personale rientra in una collezione immensa di fatti che include la storia di tutti gli esseri viventi e di indefiniti antenati. Tale “collezione” di fatti inizia quasi come una favola: “Che cosa è accaduto dei primi scimmioni? Sappiamo che il clima cominciò ad essere sfavorevole e che ad un certo punto, circa quindici milioni di anni fa, le loro foreste rifugio si erano ridotte notevolmente di dimensioni. Allora gli scimmioni ancestrali furono costretti ad attaccarsi a ciò che rimaneva delle loro case nelle foreste, o ad affrontare in un senso quasi biblico la cacciata dall’Eden. Gli antenati degli scimpanzé, dei gorilla, dei gibboni e degli orango rimasero e da allora il loro numero è andato lentamente diminuendo. Gli antenati dell’altro scimmione sopravvissuto, lo scimmione nudo, si aprirono un cammino, lasciarono le foreste e si gettarono in lotta con gli abitatori delle praterie, già ben adattati. Si trattava di un affare rischioso ma che, in termini di evoluzione, ottenne successo” (Morris, 1967, p. 20). Jared Diamond, uno studioso di biologia evolutiva che ha raccolto dati acquisiti più di recente, rivede un po’ i tempi di quella vicenda e afferma che “la divergenza fra le due linee evolutive dell’uomo e degli ‘altri scimpanzé’ dev’essersi verificata fra 6 e 8 milioni di anni fa” (1991, p. 37).
In ogni caso, parliamo di milioni di anni. Ad essere sinceri, anche la storia più “recente” genera un certo spaesamento e, a questo proposito, Michael Tomasello ci spiega che circa centocinquantamila anni fa la specie Homo sapiens sapiens allargò i suoi orizzonti: dilatando la consapevolezza delle relazioni fra soggetti è arrivata a concepire relazioni più ampie che implicavano un’intenzionalità collettiva, alcune istituzioni, norme valide nel gruppo e una partecipazione dei singoli alla cultura condivisa (cfr. 2016, p. 117). Il processo, però, deve essere stato molto lento perché “Già quarantamila anni fa i neanderthaliani avevano un cervello persino più grande di quello dell’uomo moderno, e tuttavia i loro utensili non presentano alcun segno di innovazione o di abilità artistica: l’uomo di Neanderthal era ancora un semplice mammifero di grossa taglia” (Diamond, 1991, p. 25). Siamo passati da alcuni milioni di anni fa a 150.000 anni fa e siamo giunti a 40.000 anni fa per ritrovarci sulla linea del confine che separa la nostra vita di mammiferi di grossa taglia dalla nostra vita più o meno umana.
La comparsa delle capacità linguistiche ha determinato cambiamenti molto significativi, anche se la datazione di tale sviluppo non è semplice, dato che la lingua parlata non lascia tracce come la scrittura o i mutamenti anatomici. Poiché vari animali comunicano fra loro in modo rudimentale e le dimensioni del cervello umano sono state raggiunte prima della realizzazione di un vero salto dalla natura alla cultura e poiché il patrimonio genetico umano si discosta di poco da quello delle scimmie antropomorfe, probabilmente lo sviluppo del linguaggio è dipeso da molti fattori (cfr. Diamond, 1991, pp. 74-75; Morris, 1967, p. 120). Anche tale sviluppo deve però aver richiesto un lungo lasso di tempo prima di dar luogo a forme complesse di attività comunicativa. Per questo motivo Jared Diamond sostiene che “L’evoluzione culturale è stata maggiore negli ultimi 40.000 anni –in cui si sono verificati mutamenti soltanto trascurabili nella nostra anatomia- che nei milioni di anni precedenti” (1991, pp. 76). A questo grande “balzo in avanti” si deve aggiungere quello dovuto alla “invenzione” dell’agricoltura (ed alla domesticazione di alcuni animali) verificatasi solo a partire da circa diecimila anni fa.
Le poche vicende a cui ho appena accennato ricapitolano un processo molto lento, complesso, oggettivo, all’interno del quale dobbiamo collocare le nostre vite (e anche le nostre idee sulla vita). Le nostre vicende quotidiane risultano stranamente collegate ad eventi come la migrazione di uno stormo di uccelli e la sinfonia di tutti i richiami di tutte le foreste. Poiché lo strano e inquietante contrasto esistente fra le storie soggettivamente vissute e l’oggettiva storia del mondo ha come presupposto alcune “svolte” significative, voglio mettere in rilievo l’intreccio fra alcuni aspetti biologici e relazionali che hanno reso la nostra specie tanto “speciale”.
Sappiamo che una porzione minima del nostro DNA ci distingue dalle scimmie antropomorfe e sappiamo che alcune caratteristiche come l’aumento della massa cerebrale, la postura eretta e la perdita del pelo hanno contribuito notevolmente alla definizione di ciò che siamo. Più delle singole caratteristiche, in tale processo è presumibilmente stato determinante il loro intreccio e il loro “effetto” all’interno di una vita sociale sempre più intensa e più ampia.
Parlando del cervello umano dobbiamo considerare non solo la sua massa, ma anche il modo in cui si  sviluppa. Sappiamo che “Da Australopithecus a Homo sapiens sapiens il volume cerebrale è balzato da circa 475 centimetri cubi a qualcosa come 1400 centimetri cubi” (Changeux, 2008, p. 185), ma dobbiamo considerare soprattutto il fatto che il nostro cervello cresce più dopo la nascita che nel periodo di gestazione: “il volume del cranio del bambino aumenta più di quattro volte dopo la nascita, mentre aumenta di meno di due volte nello scimpanzé, nonostante i loro periodi di gestazione siano simili” (Changeux, 2008, p. 192). Quindi, il nostro cervello viene “plasmato” o almeno “sollecitato” in misura notevole dall’ambiente sociale. Tale sovrapposizione di processi biologici e sociali è decisiva se teniamo presenti sia le vicende che hanno portato i nostri antenati a sopravvivere proprio intensificando le relazioni sociali, sia quella bizzarra vicenda costituita dalla neotenia, cioè dal “ritardo” del nostro sviluppo segnalato inizialmente da Louis Bolk nel secondo decennio del secolo scorso. Molte caratteristiche dei membri adulti della nostra specie sono caratteristiche fetali divenute permanenti. In pratica, certe caratteristiche fetali di altri primati sono divenute permanenti negli esseri umani come se gli esseri umani avessero cominciato a nascere “prima del tempo”. Proprio tale caratteristica determina un’interazione particolarmente lunga fra i cuccioli umani e il loro ambiente istituendo una mediazione “neuroculturale” molto efficace (cfr. Lapassade, 1963). La specie umana è quindi caratterizzata da una sorta di ritardo nello sviluppo individuale che dilata nel tempo il raggiungimento della maturità.
Tale fenomeno ci rende “essenzialmente sociali”. Desmond Morris riassume in modo molto incisivo questo passaggio: “Il fatto che tante e diverse caratteristiche embrionali erano potenzialmente importanti per lo scimmione cacciatore nella sua nuova condizione, costituì il varco evolutivo di cui esso aveva bisogno. Con un solo colpo di neotenia egli fu in grado di ottenere il cervello che gli serviva e il corpo che vi si adattava. Poté correre verticalmente, con le mani libere in modo da brandire le armi, sviluppando contemporaneamente il cervello che poteva a sua volta inventare le armi. Inoltre, egli non solo divenne più abile nel maneggiare gli oggetti, ma ebbe anche un’infanzia più lunga durante la quale poteva apprendere dai genitori e dagli altri adulti” (1967, p. 36). Proprio tale infanzia particolarmente lunga rispetto a quella che caratterizza gli animali sociali e gli altri primati costituisce il punto essenziale di qualsiasi riflessione sulla capacità degli esseri umani di dimostrarsi sia “umani”, sia “disumani”. Ma dobbiamo procedere per gradi, evidenziando alcune conseguenze importantissime di questa “dilatazione” dell’infanzia.
La crescita individuale fisica e psicologica “spalmata” in un periodo di molti anni ha reso possibile il passaggio dagli scambi affettivi elementari alla realizzazione di quella che chiamiamo “intimità”. Vari anni di dipendenza fisica e psicologica dai genitori, contrassegnati dal senso di sicurezza garantito da un accudimento tenero e costante, esaltano necessariamente le capacità di percepire, apprezzare e cercare il contatto con gli altri. Se consideriamo l’incremento delle competenze cognitive associato a tale sviluppo emotivo arriviamo facilmente a capire come gli esseri umani abbiano la possibilità non solo di convivere costruttivamente con i loro simili, ma di apprezzare la loro esistenza, di desiderare relazioni emotive intense e persino relazioni amichevoli estese al di là della cerchia della famiglia o del gruppo. La statura eretta ci ha resi più efficienti nella sopravvivenza, ma proprio il prolungamento dell’infanzia ci ha resi davvero “umani”, cioè capaci di passione e di compassione, determinati a costruire il nostro futuro e a capire che viviamo come soggetti fra altri soggetti. Il prolungamento dell’infanzia ci rende l’unica specie capace di concepire il vivere come qualcosa di diverso dal sopravvivere.
Varie trasformazioni hanno accompagnato questo processo. Molti animali formano dei legami di coppia, ma tale tendenza è rara fra i primati. Nello “scimmione nudo”, però, il legame di coppia è risultato molto forte e molti cambiamenti fisici hanno esaltato le capacità umane di intimità. “Non sembra che le femmine degli altri primati nelle sequenze dell’atto sessuale raggiungano un acme, mentre lo scimmione nudo sotto questo aspetto è diverso” (Morris, 1967, p. 58). Anche sul versante maschile sono cambiate alcune cose: “La lunghezza del pene eretto è poco più di tre centimetri nel gorilla e poco meno di quattro centimetri nell’orango, ma è circa tredici centimetri nell’uomo, sebbene il corpo delle due antropomorfe sia molto più grande di quello dell’uomo” (Diamond, 1997, p. 168). Anche se tale fatto può alimentare l’orgoglio di molti maschi, credo che vada collocato in un contesto più ampio: “Nel genere umano, l’ovulazione non è manifesta. Ciò significa che il breve periodo di fecondità della donna intorno all’epoca dell’ovulazione è difficile da riconoscere sia per il suo potenziale partner sia per la maggior parte delle donne stesse. La recettività sessuale della donna si estende oltre il periodo fecondo comprendendo quasi tutto o tutto il ciclo mestruale. Ne consegue che la maggioranza delle copulazioni umane avviene in un periodo non fecondo. In altri termini, lo scopo dell’attività sessuale è il godimento della coppia, e non l’inseminazione” (Diamond, 1997, p. 13). Assemblando questi dati possiamo facilmente giungere ad una conclusione: “la scimmia nuda è il più sensuale di tutti i primati viventi” (Morris, 1967, p. 67). Sono quindi moltissimi i fattori che contribuiscono all’esaltazione della capacità degli esseri umani di innamorarsi, eccitarsi e sperimentare un’intimità fisica e psicologica più intensa di quella degli altri animali sociale e dei primati.
Tutte le conoscenze disponibili ci conducono ad identificare un punto di svolta molto significativo nella nostra storia collettiva: una svolta non dovuta principalmente ad un graduale cambiamento della nostra “strumentazione” fisica o cognitiva, ma ad una crescita particolarmente lenta, caratterizzata da esperienze emotive molto intense. In tale processo si ricapitola quello che mi sembra il circolo virtuoso della specie umana: a) la lunghissima infanzia esalta la nostra capacità di provare forti emozioni, di esercitare l’empatia e di stabilire legami affettivi duraturi, b) questo patrimonio soggettivo rende possibili relazioni di coppia emotivamente molto intense e c) tali relazioni costituiscono la base per la sicurezza psicologica dei figli. La consapevolezza delle capacità o potenzialità “specificamente umane” acquisite all’interno di tale circolo virtuoso ci costringe però a trovare spiegazioni per un fenomeno di segno opposto che, purtroppo, è altrettanto evidente: la capacità (pure “specificamente umana”) di bloccare o distorcere l’espressione delle potenzialità acquisite. Le spiegazioni di tale tragedia sono già a nostra disposizione, ma sono terribilmente scomode e, proprio per questo, non stanno al centro degli studi sullo sviluppo psicologico degli esseri umani. Tali spiegazioni riguardano un terribile circolo vizioso che ha dato i suoi frutti più amari proprio mentre il circolo virtuoso che ho descritto produceva i suoi frutti più succosi.
Nella comunità trobriandese studiata da Bronislaw Malinowdki (1927) la normale vita sociale era caratterizzata dal “circolo virtuoso” a cui ho accennato: l’allattamento dei figli era prolungato, l’accudimento successivo era soddisfacente, la sessualità non era svalutata o repressa, le relazioni di coppia erano erotiche ed affettivamente intense, la solidarietà era molto sentita fra membri della comunità e le convinzioni etiche e religiose (presenti in comunità poco distanti geograficamente e simili per lo sviluppo delle conoscenze pratiche) erano assenti. Un circolo virtuoso perfetto grazie al quale i bambini erano felici e diventavano adulti sessualmente liberi, capaci di sperimentare relazioni di coppia soddisfacenti e di aver cura dei loro figli. A questo quadro idilliaco dobbiamo però aggiungere quello descritto recentemente da Daniel L. Everett (2008) relativo alla popolazione dei pirahas, che costituisce una comunità altrettanto “arretrata”, residente nella foresta amazzonica. Tale comunità, per certi aspetti è simile a quella dei trobriandesi: accetta e favorisce un tenero accudimento dei bambini, una spontanea “fisicità” nei contatti interpersonali, una basilare libertà di espressione della sessualità e una significativa e diffusa solidarietà. Tuttavia, per altri aspetti, la comunità dei pirahas sembra manifestare atteggiamenti rigidi e poco compassionevoli. La contraddizione è molto forte.
Da un lato i pirahas allattano a lungo i figli (anche per tre anni) svezzandoli quando un nuovo bambino nasce e li accudiscono con tenerezza offrendo un buon contatto fisico, ma, da un altro lato, li svezzano bruscamente; inoltre non offrono a loro alcun sostegno psicologico (anzi, li sgridano) se si fanno male (Everett, 2008, cap. 6). E’ come se i pirahas fossero capaci di manifestare una forte empatia nei confronti dei figli, ma fossero costretti a mostrare durezza in certi momenti cruciali. Credo che proprio la preoccupazione per i figli costringa queste persone a mettere da parte le risposte empatiche. Infatti, i pirahas vivono in un ambiente molto ostile e hanno una vita breve, perché muoiono per malattie banali che non sanno curare o per il morso di un serpente. Amano la loro vita, sorridono spesso, si sentono legati fra loro, ma per sopravvivere devono combattere duramente ogni giorno, anche solo per nutrirsi a sufficienza. Nell’ambiente in cui vivono, sembra che debbano costringere i figli a crescere molto in fretta, perché se accudissero tutti i figli per molto tempo non avrebbero risorse sufficienti per farli sopravvivere. Per questo motivo, a mio parere, li trattano nel modo migliore per renderli felici e poi li trattano con durezza per farli sopravvivere. Bambini che noi considereremmo molto piccoli devono essere in grado di procurarsi il cibo e, se non sono abbastanza forti da cacciare, devono almeno pescare. A mio parere, la crescita “forzata” dei figli, in quell’ambiente non è, come nella nostra società, un capriccio dei genitori, ma l’ultimo dono dei genitori. Non riesco a spiegarmi in un altro modo quel pasticcio di dolcezza e asprezza che caratterizza la socializzazione infantile presso i pirahas. Se tale spiegazione è ragionevole, si riduce all’idea che le relazioni basate sull’empatia cambiano quando interviene un sentimento di paura sufficientemente intenso.
Qualcosa del genere deve essere accaduto ovunque quando le “scimmie nude” sono diventate abbastanza sensibili da stabilire forti legami e dare risposte positive ai bisogni affettivi dei figli. Se questo è vero dobbiamo ipotizzare che la dilatazione dell’infanzia dei cuccioli umani abbia prodotto due fenomeni molto diversi: da un lato l’esperienza infantile della sicurezza psicologica e la scoperta dei risvolti più delicati del contatto fisico ed emotivo ma, da un altro lato, l’esperienza di frustrazioni di tipo affettivo non sempre tollerabili. Ciò rende decisamente bizzarre le ipotesi relative a complessi inconsci come il complesso edipico e altri complessi inventati da psicologi e psicoterapeuti di tutte le scuole. L’unico “complesso” ragionevolmente ipotizzabile riguarda la gestione del dolore. Se un neonato ha fame e col pianto ottiene il latte che nutre e garantisce un senso di sicurezza, oppure se un bambino soffre e viene sostenuto dalla madre o dal padre nell’elaborazione del dolore, la crescita avviene in modo lineare: empatia, contatto, sviluppo cognitivo, interazioni complesse ma limpide fra bambini, ragazzi e adulti. Se, invece, un bambino, anche allattato per più di due anni piange perché “vuole succhiare il seno della madre” ma viene lasciato solo (Everett, 2008, p. 106), in qualche modo deve fronteggiare il dolore insostenibile di una grave perdita. Deve, quindi, strutturare delle difese psicologiche. In tanti anni di lavoro analitico non ho mai lavorato con clienti svezzati bruscamente per motivi comprensibili come quelli dei pirahas, ma ho lavorato con persone svezzate in un giorno mediante l’utilizzazione del pepe sui capezzoli della madre, o con il trasferimento dai nonni; e ho lavorato con persone non allattate perché la madre “non aveva latte” o era depressa. Ho lavorato anche con clienti che avevano rifiutato il seno, presumibilmente percependo che il latte non era “buono” o che la madre era sbrigativa e poco “soddisfatta di soddisfare”. Negli anni ho osservato smorfie “stampate” sul viso, tensioni croniche alla bocca dovute all’irrigidimento di alcuni muscoli e atteggiamenti irrazionalmente voraci o distaccati, comprensibili solo in relazione all’illusione (difensiva) di poter “ricevere qualcosa, prima o poi” o alla convinzione/sensazione (difensiva) di non avere alcun bisogno affettivo.
Credo si possa ipotizzare che proprio il notevole prolungamento dell’infanzia abbia prodotto i frutti più dolci e quelli più amari: “Il peso delle cure verso i figli dello scimmione nudo è molto più grave che in qualunque altra specie vivente. I genitori di altre specie svolgono talora i loro doveri con la stessa intensità, ma mai per un periodo di tempo tanto prolungato” (Morris, 1967, p.109). Ciò significa che l’oggettiva contraddizione fra la capacità e il desiderio di accudire i piccoli e la paura di non riuscire a disporre di sufficienti risorse non può non essersi tradotta in una contraddizione psicologica nei genitori, fra il desiderio di accettare incondizionatamente i figli e quello di fare pressioni nei loro confronti. Tale contraddizione deve essere stata difficile da gestire ed è presumibile che i genitori dei nostri lontani antenati in qualche misura abbiano accettato il dolore di tale contraddizione sollecitando con delicatezza i figli a crescere in fretta, ma in qualche misura abbiano evitato tale dolorosa consapevolezza distaccandosi emotivamente e imponendo ai figli ideali e doveri. La capacità di convivere con il dolore richiede le stesse competenze cognitive ed emotive della capacità di manifestare empatia e quindi, in linea di principio, si può supporre che i nostri antenati fossero in grado di gestire il lato doloroso dell’avventura di accudire i figli. Tuttavia, come abbiamo visto nel caso dei pirahas, il timore di non dare abbastanza ai neonati ha probabilmente favorito una certa durezza nel modo di trattare i bambini. I pirahas non sono nostri antenati, ma nostri contemporanei che, per via del loro isolamento, hanno sviluppato una cultura rudimentale rispetto alla nostra. Tuttavia mostrano che la paura può limitare l’esercizio delle capacità di accudimento. La paura da loro sperimentata è presumibilmente molto simile a quella dei nostri antenati desiderosi di accudire i figli ma immersi in un ambiente ostile.
Queste considerazioni mi portano a ritenere che certe ragionevoli paure “originarie” abbiano generato nei pirahas una piccola deviazione dalla completa e lineare maturazione delle capacità emotive: infatti, nella loro cultura, la “spietatezza” della socializzazione infantile ha dei precedenti molto positivi (il lungo allattamento e la manifestazione fisica dell’affetto) e forgia uno sviluppo individuale caratterizzato da una sessualità libera, da relazioni intime significative, da una sincera apertura nei confronti degli altri, dall’assenza di autoritarismo sociale. La religione e il moralismo non hanno messo radici e forse il blando animismo dei pirahas riflette più l’ignoranza che le difese psicologiche. Tuttavia, Everett ha evidenziato che gli adulti manifestano a volte reazioni violente del tutto irrazionali e si ubriacano quando i commercianti portano alcolici. L’ipotesi generale più rispettosa di questi fatti e coerente con le altre conoscenze disponibili mi sembra la seguente: nella specie umana caratterizzata da un significativo “salto evolutivo” neotenico, la paura reale (dovuta a reali difficoltà nella lotta quotidiana per la sopravvivenza) ha determinato modeste chiusure emotive negli adulti e modeste reazioni psicologiche difensive nei bambini. Tali difese hanno prodotto paure irrazionali che si sono sommate a quelle razionali rendendo ogni generazione un po’ più “corazzata” emotivamente e, quindi, un po’ meno disponibile nel processo di accudimento dei bambini. Questo mi sembra possa essere considerato il nucleo originario del circolo vizioso che ha ridotto sensibilmente i benefici del circolo virtuoso costituito dalla crescita lineare delle competenze empatiche e cognitive. In pratica, il circolo virtuoso ha generato una maggiore “sensibilità” ed un costante esercizio della razionalità, ma il circolo vizioso ha trasformato parte di tale sensibilità in emozioni difensive e ha contrastato la razionalità.
I bambini oggi potrebbero crescere con i loro tempi contando sul puro sostegno degli adulti, perché non devono essere “autonomi ed efficienti” fin dalla loro più tenera età. I bambini devono, invece, purtroppo, piegarsi ai capricci, alle illusioni, alle paure irrazionali e alle pretese dei genitori, degli insegnanti e dei parenti. In prima elementare si vergognano se non dimostrano di essere “forti” facendo i secchioni o i bulli. Sono tanto soli che imparano volentieri ad utilizzare tutti i più assurdi giochi elettronici perché non hanno nulla di piacevole da fare e perché devono evitare a tutti i costi di sentirsi soli. I genitori più “consapevoli” vietano l’uso prolungato del computer o della televisione, ma non offrono alternative. Un bambino di sei anni, con la madre impegnata a lavorare e/o a fare shopping e/o a fare volontariato e con il padre che è “nervoso” perché lavora troppo o è depresso perché non lavora o si sente euforico per via del campionato di calcio, non sa come organizzare le proprie giornate. Si sente morire e si distrae in qualche modo, mentre cova rabbia, inventa paure assurde (che implicano sempre qualche speranza) e si prepara a diventare un adulto “involuto” come i suoi genitori. Con buona pace di Darwin (e dei suoi allievi), a cui l’involuzione della specie “è sfuggita”.
Tutte le specie animali si sono estinte oppure sono diventate più competenti sul piano emotivo e cognitivo. La specie umana ha esaltato al massimo l’espansione delle proprie competenze, ma ha anche creato forme di indifferenza, crudeltà e stupidità che gli altri animali sociali disprezzerebbero se non fossero troppo complicate per le loro (più lineari, ma limitate) capacità. In pratica, i bambini “corazzati” diventano genitori “corazzati” che obbligano i figli a “corazzarsi”. L’intimità e la socialità si trasformano così in rituali sociali e culturali. E la cultura giustifica tutto ciò che è “dato” e che non corrisponde più a ciò che le persone potrebbero sentire, capire e fare: gli psicoterapeuti non denunciano la quotidiana “strage psicologica degli innocenti”, ma intervengono solo quando i bambini esibiscono sintomi gravi, mentre i politici in nome della libertà di pensiero trasformano lo Stato in un baluardo per le religioni e le ideologie che seminano svalutazione, paura e rabbia. D’altra parte, i politici, gli educatori, i filosofi, gli psicoterapeuti e i sacerdoti sono stati bambini e, divenuti adulti, non sanno più quale sia la sofferenza da cui sono fuggiti e non immaginano nemmeno la felicità possibile alla specie umana.
Per questi motivi è importante che il prolungamento dell’infanzia si accompagni ad un costante e incondizionato sostegno dei cuccioli umani da parte dei genitori: tale sostegno è necessario sia perché previene molte situazioni dolorose, sia perché consente ai bambini la gestione del dolore inevitabile. Solo l’analisi rigorosa delle difese dal dolore consente di capire le “ragioni” di tutti i fenomeni individuali e di massa che sembrano non avere ragioni: la svalutazione di sé e degli altri, il bisogno di “avere” di più, di “fare” di più, di “essere migliori”, oppure il bisogno di dimostrare che si è “incapaci” e “bisognosi”.
Le esperienze piacevoli o spiacevoli fatte consapevolmente dai bambini diventano ricordi, mentre le esperienze spiacevoli che non vengono elaborate con il sostegno dei genitori, diventano “vissuti” non accettati che continuano a “fare pressione” per tutta la vita e vengono inconsapevolmente respinti (a meno che non vengano analizzati, compresi, espressi nel pianto ed accettati in un lavoro analitico). Un bambino rifiutato e isolato da alcuni coetanei può accettare, con il sostegno dei genitori, il dolore di quella solitudine, piangere sentendosi al sicuro e cercare poi altri amici. Crescendo si sentirà in pace con se stesso, tenderà a chiedersi quali persone egli desideri frequentare e non sentirà alcun bisogno di essere apprezzato da chiunque. Un bambino rifiutato proprio dai genitori non potrà elaborare con loro il dolore di tale solitudine. Quindi, bloccherà la consapevolezza di quel dolore ingestibile. A venti o quarant’anni continuerà a sentire “da qualche parte” un bisogno fortissimo di accettazione e continuerà a dimostrarsi “appiccicoso” o “competitivo” o “ribelle” per non sentire i vissuti di rifiuto.
Possiamo quindi trovare proprio nella teoria dell’evoluzione e nell’antropologia culturale una risposta alla domanda non formulata sull’irruzione dell’irrazionalità in una specie che si stava definendo come razionale e profondamente empatica e quindi come portatrice di un potenziale espressivo senza confronti. Possiamo dire che la “dilatazione” temporale dell’infanzia ha fatto maturare notevoli competenze cognitive ed affettive, ma ha anche reso inevitabile un “restringimento” della disponibilità emotiva degli adulti nei confronti dei cuccioli umani. Questo insieme di fatti ha prodotto negli esseri umani sia lo sviluppo di capacità razionali ed empatiche eccezionali, sia la creazione e il radicamento delle difese psicologiche.