Le
azioni, in quanto processi intenzionali, presuppongono convinzioni e desideri: se
telefoniamo ad una persona siamo convinti
che sia viva e desideriamo qualcosa.
Alla fine della telefonata è inevitabile che proviamo un’emozione. Senza convinzioni (fondate o infondate) e senza desideri
(soddisfacibili o insoddisfacibili) non muoviamo un muscolo. Quindi, gli esseri
umani decidono di agire e come agire perché hanno delle convinzioni e dei
desideri. Questa è una sintesi davvero ridotta all’osso del “Modello Classico”
della ragione pratica o della razionalità delle azioni umane, che risale ad
Aristotele, attraversa tutta la storia della filosofia e si sviluppa fino alla
teoria matematica della decisione (cfr. Searle, 2001, pp. 4-7). Compiamo anche
l’azione più banale per delle ragioni (consce o inconsce) e non “per istinto” o
“impulsivamente”, o “per abitudine” o “perché qualcuno si aspetta qualcosa da noi”.
Siamo noi ad assecondare un bisogno o a reagire in modo brusco, o a mantenere
un’abitudine o a soddisfare le aspettative di qualcuno.
Le
ragioni di un’azione sono elementi
dell’interpretazione di un’azione e non sono “parti” della persona che agisce. Nella persona che sta per agire e che
agisce sono “in funzione” i desideri, le convinzioni e, in ultima analisi, è “in
funzione” tutta la sua storia e ciò che ne ha ricavato. Questo però non
significa che nella persona siano “rintracciabili” delle “ragioni”. Affermiamo
che gli esseri umani sono bipedi perché hanno “realmente” due gambe, ma se
affermiamo che sono razionali non implichiamo che “abbiano” una “cosa” chiamata
“razionalità” e che questa “cosa” contenga tante piccole “ragioni” che “mettono
in moto” le azioni. Sono le persone ad agire intenzionalmente e a farlo
razionalmente o irrazionalmente; solo semplificando parliamo delle intenzioni o
delle ragioni come di “cose”. Le ragioni di un’azione, quindi, non rientrano
nel processo dell’azione, ma nella spiegazione dell’azione. Anche le
convinzioni, i desideri e le emozioni non sono “cose”: sono azioni della
persona, pur essendo “azioni interne”.
Il
lavoro analitico mi ha aiutato ad individuare le ragioni per cui le persone
agiscono e mi ha sollecitato ad andare all’essenziale lasciando da parte le speculazioni
sulla materia e sullo spirito o sul libero arbitrio e sul determinismo o sui
valori. L’idea che le persone agiscano sulla base delle loro convinzioni e dei
loro desideri mi sembra imprescindibile perché più i miei clienti giurano di
agire “spinti dagli altri” o “travolti dai loro “istinti” o “senza un perché”,
più mi dimostrano (se insisto con domande scomode) che reagiscono difensivamente
a situazioni dolorose non accettate. In questo ripetuto esame di fatti strani e
di spiegazioni ancor più strane dei fatti in questione, ho dovuto riconoscere
che i miei clienti, come qualsiasi essere umano, tendono ad agire per dissociarsi
dal dolore tutte le volte che non agiscono “per amore” (cioè per fare del bene
a sé e/o ad altre persone). Ciò mi ha portato a riconoscere che le persone, in
ogni istante della loro giornata scelgono
di fare il bene o di evitare il dolore. Se vogliono dissociarsi dal dolore,
devono “inventarsi” convinzioni assurde e desideri strani per poi compiere
azioni inutili o dannose. Il modello “classico” dell’azione mi sembra quindi
solidamente ancorato ai fatti, ma richiede una precisazione importante: le convinzioni e i desideri possono essere
anche costruzioni difensive. Quando, ad esempio, una persona è “convinta”
di essere stata “ferita” da una critica (che invece, come tale, è un contributo
alla riflessione e quindi un dono), fraintende i fatti per arrabbiarsi
vittimisticamente e per dissociarsi da antichi vissuti relativi ad un’epoca in
cui le critiche ricevute non erano vere critiche, ma dolorose svalutazioni
personali.
Le
convinzioni e i desideri, quando non sono ragionevoli (cioè dipendenti da conoscenze
e percezioni) sono costruzioni intenzionali (inconsce) che “danno corpo” ad una
strategia difensiva di ampio respiro. Inoltre, una volta che un’azione è stata
compiuta per soddisfare un desiderio, incontra una risposta soddisfacente o insoddisfacente
e ciò genera un’emozione. Tuttavia, anche questa emozione può riflettere “realisticamente”
tale appagamento o frustrazione oppure
può essere costruita intenzionalmente per motivi difensivi. Ad esempio, a
volte le persone trasformano la gioia in euforia o il dolore in depressione e
attuando questa trasformazione rinforzano un progetto difensivo che era in
corso di attuazione prima dell’azione e del suo esito. Roy Schafer (1976) ha
dato un contributo fondamentale alla comprensione delle emozioni definendole come azioni, ma purtroppo,
le sue riflessioni non hanno influenzato molto né la psicoanalisi né altri
approcci psicoterapeutici.
Proprio
la comprensione dell’intenzionalità espressiva o difensiva delle azioni rende
possibili dei cambiamenti. Nelle sedute, di fronte ad una persona
irrazionalmente ansiosa o rabbiosa non cerco (secondo il modello
psicoterapeutico) di “fare qualcosa” per “farla star meglio”, ma cerco di
chiarire cosa stia facendo per
costruire quel malessere; poi cerco di chiarire cosa in tal modo voglia
ottenere o evitare. Per questo motivo
affermo che mi propongo di chiarire dei fatti e non di curare delle patologie.
L’irrazionalità,
prima di manifestarsi in azioni, si manifesta in azioni interne volte a formare,
plasmare o distorcere convinzioni e desideri. Per questo motivo, azioni
simili o identiche possono riflettere stati soggettivi molto diversi: leggere
un libro per ricavarne conoscenze o/e ricavarne piacere non ha molto a che fare
con il fatto di leggere lo stesso libro perché “tutti ne parlano”, dato che la
curiosità e il conformismo riflettono modi opposti di pensare, sentire e
vivere.
Mentre
le convinzioni e i desideri stanno “a monte” di ogni azione, le emozioni stanno
“a valle”: costituiscono la reazione (ragionevole o difensiva) all’esito (soddisfacente
o frustrante) dell’azione compiuta. Purtroppo, il concetto di emozione (o
sentimento) viene spesso utilizzato in modi che creano confusione, come quando
si dice “ho agito per paura” o “ho agito per rabbia”. Non è corretto collocare
le emozioni “a monte” delle azioni (assieme alle convinzioni e ai desideri) perché,
anche se sicuramente proviamo sempre
delle emozioni (quindi, anche prima di agire), noi agiamo sulla base delle
convinzioni e dei desideri. Prima di agire, le nostre emozioni costituiscono solo
lo “sfondo” dei desideri e delle convinzioni. Ad esempio, pur provando la
stessa gioia per una gara vinta, un atleta sceglie di impegnarsi maggiormente
negli allenamenti, mentre un altro riduce il proprio impegno; oppure, pur
provando la stessa paura, una persona agisce "coraggiosamente" mentre l’altra si immobilizza. In
entrambi i casi, dato lo stesso sfondo emotivo sono le convinzioni e i desideri
a fare la differenza e a rendere possibile una particolare azione. Anche se alcuni studiosi evidenziano una comprensibile distinzione fra emozioni e sentimenti (cfr. Damasio, 1994, pp. 363-364 e cap. 7), tratto i due
termini come sinonimi perché ai fini dell’analisi
delle ragioni dell’irrazionalità è irrilevante la complessità dei processi
emozionali.
Gli
esseri umani hanno perso l’innocenza degli animali “inferiori”, i quali
“agiscono e basta”, senza autocoscienza e senza un progetto di vita. Gli
animali vivono “spinti dalla vita” mentre gli esseri umani vivono appassionati
alla vita che a loro volta plasmano. Il salto di qualità costituito dalla
capacità di “pensare i pensieri”, di accettare o rifiutare i desideri e i
sentimenti, di accettare o negare la realtà ha reso gli esseri umani responsabili della loro esistenza. Li ha
resi capaci di prescindere dai
meccanismi istintuali e di esprimere un grande potenziale di conoscenza, di
compassione, di contemplazione, di creatività, di impegno. Li ha resi capaci di
agire per esprimersi e per creare felicità, ma, purtroppo, capaci anche di
agire per non esprimersi e per vivere “poco”. Per questo possiamo dire che le
azioni degli uomini vengono compiute all’interno di una storia vissuta e non ai
margini di una cronaca cosmica.
E’
terribile che tante persone vivano nella miseria, convivano con malattie gravi
o subiscano violenze e gravi ingiustizie. E’ però terribile anche un altro
fatto così diffuso da risultare normale: molte persone vivono “tranquillamente”
in un ambito famigliare in cui l’intimità è sostituita dalle abitudini, vivono “tranquillamente”
in una società normalmente assurda e sprecano “tranquillamente” il loro tempo. E’
terribile che tali persone si condannino ad arrivare alla morte senza aver
realmente vissuto. La leggerezza con cui le persone si concedono la libertà di
credere senza pensare e di provare desideri e sentimenti che non capiscono ha
conseguenze devastanti anche a livello sociale. Le manifestazioni più orribili
del male sono rese possibili proprio dalla quotidiana rassegnazione ad una vita
“povera”.
Perché
le persone vanno al cimitero se quelle non credenti pensano che lì non risieda
nessuno e quelle credenti pensano che le anime abbandonino il corpo deposto
sotto una pietra? Perché l’uccisione di una donna da parte di un folle
(peraltro in molti casi scelto in precedenza come partner da quella stessa
donna) viene considerata un “femminicidio”, mentre l’abbandono di un neonato in
un cassonetto della spazzatura da parte della madre viene considerato un gesto
disperato di una persona in difficoltà? Perché quando la distrazione o
l’imprudenza di un cacciatore causa la morte di un collega si parla di un “incidente”,
mentre quando la distrazione o l’imprudenza di un automobilista causa la morte
di qualcuno, molte persone sentono il bisogno di parlare di un “omicidio
stradale”? Perché si concepisce la possibilità di modificare il patrimonio
genetico, ma si considera “il mercato” come una realtà economica e sociale
immodificabile? Purtroppo, le convinzioni più assurde spuntano come i funghi e
le persone si arrampicano sugli specchi per giustificare ciò di cui vogliono
essere convinte. Paradossalmente, proprio l’orientamento psicoterapeutico
cognitivista (cfr. Ellis, 1962 e Beck, 1976), è risultato uno dei meno
rilevanti per la comprensione delle convinzioni irrazionali perché, pur
collocando le convinzioni al centro dell’attività psicoterapeutica, le
concepisce come “errori” da correggere anziché come aspetti di
un’intenzionalità inconscia difensiva. Le convinzioni più radicate, spesso sono
semplicemente quelle più incoraggiate dai mezzi di comunicazione di massa, ma i
messaggi assurdi risultano persuasivi solo perché (consciamente o
inconsciamente) chi li “subisce” sente un bisogno fortissimo di “far parte”
della società “data” e non ha alcuna intenzione di scoprire se la società è soddisfacente o
dolorosamente disumana.
Albert
Camus ha affermato “uccidiamo
milioni di persone ogni volta che ci permettiamo certi pensieri. Non si ragiona
male perché si è assassini. Si è assassini perché si ragiona male” (1946, p.
322). Con questa frase Camus ci ricorda che le convinzioni irrazionali generano
sofferenza e morte e mostra quindi di aver compreso il nesso profondo fra le
convinzioni, le emozioni e le azioni. Perché ci formiamo delle convinzioni? Il
vantaggio evolutivo del disporre di convinzioni razionali sulla base delle
quali prendere delle decisioni è indubbio. I comportamenti “istintivi” degli
altri animali sono rigidi e anche il condizionamento operante del comportamento
favorisce le scelte più opportune solo in ambiti molto circoscritti. Le nostre
convinzioni razionali ci consentono, invece, di elaborare tattiche e strategie
complesse per sopravvivere e soprattutto per vivere esprimendo le nostre
potenzialità personali. Per questo siamo per molti aspetti “migliori” degli
altri animali, ma, purtroppo, risultiamo sicuramente peggiori quando per la paura
di sentire “troppo” rinunciamo alla razionalità.
Ovviamente
è più facile “smontare” le convinzioni irrazionali di una persona in analisi
interessata (almeno coscientemente) a mettersi in discussione (anche se tale
impresa non è semplice) che mettere in discussione le convinzioni irrazionali
teorizzate in modi sofisticati e presentate come grandi scoperte. Grunbaum
(1980, 1984) ha dovuto faticare molto per “smontare” la “teoria” psicoanalitica,
ma essa è rimasta un pilastro della “cultura” contemporanea. Allo stesso modo la
cultura della tolleranza è diventata un confuso “multiculturalismo” e
l’obiettivo di una trasformazione radicale della società è stato sostituito
dallo sdegno moralistico per la corruzione e gli sprechi. Le convinzioni più diffuse hanno ben poco a che fare con l'aspirazione a conoscere la realtà.
Le
difese psicologiche non richiedono solo convinzioni infondate, ma
anche desideri “aggiustati” e resi deboli o distorti. Con parole toccanti
William Kingdon Clifford ha affermato che “Esiste solo una cosa più perversa
del desiderio di comandare, ed è la volontà di ubbidire” (1877, cit. nella Introduzione, p. 43). Purtroppo, il
desiderio di comandare e quello di ubbidire non sono gli unici desideri
irrazionali che colorano l’esistenza quotidiana degli esseri umani. Sono tanti
i comuni desideri “incomprensibili”: il desiderio di sentirsi sempre e comunque
“nel giusto”, il desiderio di sentirsi “normali” o “speciali” o anche
“inadeguati” (e per quello “notati”), il desiderio di “far parte” di un gruppo
per coprire un senso di vuoto, il desiderio di stare “ai margini” (per sentirsi
“diversi”), il desiderio di non
sapere (per non capire fatti dolorosi) o il desiderio di esibire ciò che si sa,
il desiderio di avere potere sugli altri, il desiderio di “tirarsi su” quando
c’è sofferenza, il desiderio di risparmiare (anche se non serve) o di spendere
(anche se non serve), il desiderio di “fare da sé” anche se si ha bisogno di
aiuto, il desiderio di ricevere “sostegno” anche quando non è necessario, il
desiderio di desiderare ciò che desiderano tutti, il desiderio di “non pensare”,
il desiderio di “realizzarsi” o di “evolvere”, il desiderio di sentirsi vittime
anche se si è responsabili di aver creato rapporti interpersonali assurdi e
così via. Filosofi, sociologi, educatori, psicologi e psicoterapeuti hanno
esaminato alcuni desideri irrazionali, ma in genere sono approdati a condanne o
a semplici descrizioni o a diagnosi senza spiegare nulla. Le
idee della psicoanalisi (Freud, 1920) e delle concezioni post-freudiane
(Marcuse, 1955, Brown, 1959) relative ad ipotetiche “pulsioni fondamentali”
come Eros e Thanatos sono puramente speculative e anche le analisi più poetiche
che razionali, dei concetti di amore, bisogno e istinto condotte da Erich Fromm
(1956) non sono risultate realmente utili. Wilhelm Reich ha evidenziato un’opposizione basilare fra “nucleo” e “corazza”
(1945; 1946) e quindi fra i desideri basilari e quelli di tipo difensivo, ma con
la sua concezione biologistica ha ostacolato approfondimenti teorici adeguati.
Varie concezioni filosofiche orientali hanno prospettato una rinuncia ai
desideri intesa come mezzo per il raggiungimento della saggezza e della
felicità, ma in tal modo hanno riproposto in modi più articolati le comuni
tendenze difensive volte a mantenere un distacco da ciò che si sente.
I
desideri costituiscono la base della soggettività umana. Anche molti animali
provano dei desideri, ma non ne sono coscienti nei modi tipici della specie
umana. Proprio la consapevolezza dei desideri espone le persone alla
consapevolezza della presenza del dolore nell’intera vita. Voglio riportare una
seduta che, nella sua semplicità, illustra bene che ciò che facciamo ha
facilmente a che fare con antichi vissuti di bisogno che sono stati dolorosi e
che non sono stati elaborati e superati. Una cliente, che chiamerò Lisa, mi
comunica all’inizio della seduta un suo stato d’animo poco chiaro.
L.
Non mi sento bene da questa mattina, in seguito ad un fatto davvero banale.
Mentre rincasavo all’ora di pranzo un automobilista mi ha sorpassata suonando
il clacson con insistenza, come per rimproverarmi. Penso che fosse nervoso per
problemi suoi, però la cosa non mi è andata giù.
G.
Escludi che potesse essere disturbato dal tuo modo di guidare?
L.
Non so. Io tendo a rispettare i limiti di velocità e in quella strada un po’
stretta, una strada comunale, nella campagna, molti se ne fregano e vorrebbero
andare più forte.
G.
Secondo te, perché non ti ha superata prima?
L.
Ci sono delle curve, ma poche. C’era un po’ di traffico, ma non tanto.
G.
E allora?
L.
Forse io non facilito il sorpasso.
G.
Cioè?
L.
Non mi piace rasentare il fosso. Sto sulla carreggiata. Più verso il centro
della strada che verso il fosso.
G.
Rasentare il fosso è pericoloso, ma anche stare al centro e sfiorare le
macchine che vengono in senso contrario è un po’ azzardato.
L.
Beh! Non sfioro certo le automobili che vengono in senso contrario! Però se uno
vuole superarmi non ha molto spazio, in una strada stretta. Magari è lui che
deve rasentare l’altro fosso per superarmi.
G.
E perché stai “lì in mezzo” quando vedi che una persona scalpita per superarti?
L.
“Stare in mezzo” è un’espressione che non mi piace. Come “stare tra i piedi”.
G.
Guidi stando vicina al centro della strada per paura del fosso o per paura di
ammettere che potresti “stare tra i piedi”?
L.
[Mostra una lieve commozione] Non avevo mai pensato alla cosa da questa
prospettiva. Io non sopporto l’idea di “stare tra i piedi”.
G.
Non sopporti l’idea di un’eventualità di quel tipo o hai già fatto
quell’esperienza e non vuoi tenerne conto?
L.
[Piange con lacrime e singhiozzi. Poi si sente più calma e riprende a parlare.] E’ come se sfidassi gli altri imponendo la mia presenza. E’ come se dicessi che
ho il diritto di esserci e di usare la strada come tutti. Nella mia famiglia,
però, le cose non andavano in questo modo.
G.
Lo so.
L.
Abbiamo già parlato del fatto che i miei bisogni non erano mai importanti per
nessuno. Prima di smettere di fare richieste, prima di diventare “brava”, credo
però di aver fatto l’esperienza di “stare tra i piedi”.
G.
Tutti i bambini cercano attenzione. Tutti i bambini prima o poi rinunciano, in
qualche modo. Con chi immagini o ricordi di averci provato con più determinazione?
L.
Forse con mio padre. Lui in fondo ci teneva a me e a mia sorella. Con mia madre
invece non c’era spazio: lei “stava male”.
G.
Con lei hai quindi smesso presto di chiedere?
L.
Credo proprio. Non riesco ad immaginare di occupare il suo spazio. Lei aveva
bisogno “in assoluto”. Forse stare in mezzo alla strada è un po’ come ribadire che
ho diritto ad un mio spazio.
G.
Ne avevi bisogno. Forse il tuo “uso improprio” della strada ti serve a
“dimenticare” che lo spazio non c’è stato e che la storia è finita così. Senza
saperlo oggi quando guidi senti un forte desiderio di mettere le cose a posto e
ti dissoci dal fatto che, purtroppo, la tua storia è già a posto. Non è a posto
come avresti voluto, ma è a posto.
L.
[Commossa] Tanta fatica per niente!
G.
No. Tanta fatica per non piangere.
Se
in molti casi i desideri sono disconosciuti,
in altri casi sono costruiti per creare
un diversivo dal dolore che i reali desideri potrebbero determinare. I desideri
irrazionali, sono focalizzati sempre sul
potere (a livello materiale o puramente psicologico) anziché sulla
benevolenza (nei propri confronti e nei confronti degli altri), perché il desiderio di potere blocca la consapevolezza del dolore. In fondo, proprio
il mito rassicurante del potere accomuna l’illusione di appagarsi da soli (ad esempio, facendo shopping) o
di poter essere “nutriti” dagli altri (confondendo l’approvazione meritata con
l’amore) o di essere "al sicuro" prevalendo sugli altri. Le illusioni di potere spazzano via la consapevolezza di un vuoto, di
una mancanza sentita quando il desiderio di contatto era davvero un bisogno e
quando la presenza di una figura d’accudimento produceva davvero un senso di
sicurezza. Spazzano via la consapevolezza, ma non il vissuto doloroso, così
come bruciare un libro di storia non cambia la storia. Per questo motivo ci si
sente “accettabili” per un attimo grazie ad un “successo”, ma poi ci si sente
nuovamente inadeguati e desiderosi di ottenere altra attenzione. I desideri
razionali costituiscono la base del dialogo interno, dell’incontro fra le
persone e della costruzione di un’esistenza rispettosa di sé, degli altri e di
tutto ciò che è. I desideri difensivi costituiscono, invece, la base del
non-dialogo, della propaganda e dei conflitti.
Vi
sono desideri molto diversi ma egualmente razionali (il desiderio di divertirsi
giocando a scacchi o ballando) e desideri molto diversi ma egualmente
irrazionali (il desiderio di “seguire la moda” o di sfruttare gli altri).
Alcuni desideri (ad es. nei casi di sadismo) sono in quanto tali irrazionali, ma molti desideri sono razionali o
irrazionali a seconda del ruolo che occupano nella vita delle persone. I
desideri razionali sono sempre volti a donare
un piacere reale a sé e/o agli altri, mentre i desideri
irrazionali sono sempre volti a non capire/non sentire. I desideri non vanno
confusi con le speranze, perché si
può desiderare ragionevolmente e comprensibilmente di non invecchiare senza con
ciò sperare che tale desiderio possa essere soddisfatto. I desideri non
coincidono nemmeno con le azioni volte a soddisfare
il desiderio, perché si può provare il desiderio di fare un acquisto, ma
rinunciare.
I
desideri sono semplici stati soggettivi, che però non sono semplici come può
sembrare. Infatti i desideri non spuntano dal nulla, ma da uno sfondo di sensazioni, convinzioni ed emozioni. Possiamo
quindi dire non solo che ogni azione particolare
deriva dai desideri e dalle convinzioni, ma che anche gli stessi desideri (e persino le convinzioni, a volte)
dipendono da altri desideri, altre convinzioni, ricordi, emozioni, sensazioni,
ecc. L’attività mentale è di una complessità notevole, ma ciò che di tale
complessità merita di essere spiegato non è l’insieme dei particolari, ma il
significato complessivo. E’ quindi irrilevante la miriade di dettagli genetici,
storici, mnestici, associativi, esperienziali che portano una persona a compiere
un’azione, perché ciò che ci serve si riduce a ciò che tale persona si propone
di realizzare con tale azione. Infatti, ogni
azione rientra sempre in un progetto di vita espressivo o difensivo.
Penso
che il riassunto di una seduta possa esemplificare il modo in cui si
intrecciano desideri, emozioni e azioni. Una donna di trent’anni, che chiamerò
Linda, interessata a costruire una relazione di coppia, mi dice di aver
accettato l’invito a cena di un coetaneo single, di essersi sentita bene, ma di
aver poi detto qualcosa che ha “raffreddato l’atmosfera”. Lui, garbatamente, le
ha fatto notare l’incongruenza fra l’atteggiamento invitante e la svolta nella
conversazione e lei lo ha interrotto affermando di “non voler essere
“giudicata”. Lui la ha accompagnata a casa e non si è più fatto sentire. In
seduta, Linda mi dice di non capire le ragioni del proprio comportamento, dato
che era realmente attratta da quell’uomo. Se colleghiamo quell’esperienza contraddittoria
ai suoi atteggiamenti difensivi possiamo capire qualcosa. Linda manifesta da
sempre un marcato interesse per studio e lavoro, prova orgoglio per il fatto di
essere stata economicamente indipendente fin da quando era molto giovane, riesce
con facilità a dare aiuto e consigli
a tutti, ma prova difficoltà a chiedere.
La sua storia è ovviamente complessa, ma già questi elementi rendono meno
“strano” il comportamento manifestato con lo sventurato corteggiatore. Le
rispondo partendo da alcune considerazioni generali.
GF.
Le opzioni ragionevoli sono due: a) quel
tale ti piace, ti mostri disponibile, lo cerchi o ti lasci cercare e, data la
vostra età, non aspettate un mese per fare sesso, oppure b) quel tale non ti
piace (o ti piace fisicamente ma non per altri aspetti) e lo tieni a distanza
per evitargli inutili frustrazioni e per non perdere tempo prezioso. Di fatto,
lo hai cercato esibendo un desiderio (che realmente sentivi), ma poi hai
cercato di soddisfare un altro
desiderio (prevalente).
L.
Ti riferisci al mio solito “bisogno di non aver bisogno”?
GF.
Secondo te, lui ha capito che lo desideravi molto?
L.
Certamente no. Ma dobbiamo tornare sempre lì?
GF.
Non “dobbiamo” fare nulla: sei tu che desideri un contatto ma poi cerchi di
dimostrare che “stai bene da sola”. Le persone realmente indipendenti fanno
cose per conto proprio, e non esibiscono un cartello con la scritta “non ho
bisogno di nessuno”. Con quell’uomo hai sentito un piccolo desiderio sessuale
ed un forte desiderio di dimostrarti non coinvolta e “autosufficiente”.
Inoltre, con tale desiderio forte negavi un fortissimo (e doloroso) bisogno di
accettazione, protezione e accudimento.
Questa
seduta chiarisce che i vissuti infantili di bisogno non soddisfatti (e non
soddisfacibili) possono risultare meno dolorosi se spostati su situazioni
attuali di tipo erotico (che possono anche avere un esito positivo); tuttavia,
in questo modo la situazione attuale viene “appesantita” dalla paura
(infantile) di un rifiuto “intollerabile”. Ciò può motivare, come nel caso di
Linda, la persona che ha creato tale confusione a mostrarsi rifiutante prima di
subire un eventuale rifiuto e, alla fine, a “non capire niente” dell’intera
situazione.
La
capacità umana di costruire convinzioni non convincenti si associa quindi alla capacità
di costruire desideri “strani” ed emozioni altrettanto strane. Questi “trucchi”,
messi in atto inconsciamente, si traducono in dialoghi interni e comunicazioni
interpersonali in cui le persone, in assoluta buona fede, mentono. Ciò rende necessaria
una definizione più ampia del concetto “tradizionale”
di razionalità pratica tale da includere anche gli stessi fini perseguiti, i
desideri e le emozioni. Nel caso di Linda il desiderio di sentirsi indipendente
era una costruzione difensiva che nell’infanzia le aveva salvato la vita ed era
stata quindi razionale. Le strategie difensive risultano però irrazionali
in un contesto adulto in cui vale sempre la pena di manifestare i desideri e
rischiare una delusione e vale sempre la pena di evitare falsità, frustrazioni
inutili, isolamento e confusione. Le difese infantili sono intenzionali (e
razionali) nelle situazioni “di emergenza” dell’infanzia, ma, se mantenute
nella vita adulta, costituiscono violazioni intenzionali (inconsce) della
razionalità. Solo tale analisi filosofica e psicologica può rendere
comprensibili le scelte e le azioni irrazionali e può, quindi, rimpiazzare le svalutazioni
etiche e le interpretazioni psicopatologiche.
Jon
Elster (1983, p. 10 e p. 32), ha riesaminato la concezione tradizionale della
razionalità distinguendo una teoria
parziale ed una teoria completa
della razionalità. L’aspetto più interessante di questa sua proposta consiste
nel fatto che nella teoria “completa” è richiesta non solo la coerenza fra
credenze e desideri e azioni, ma anche la razionalità delle credenze e dei
desideri. L’analisi filosofica di Elster è purtroppo limitata, perché l’autore
non considera l’opposizione basilare fra aspetti espressivi e difensivi delle
azioni e quindi delle convinzioni e dei desideri. In ogni caso il suo tentativo
offre una sponda al mio tentativo di “dilatare” il concetto di razionalità
pratica e di considerare gli stessi desideri come azioni e quindi come azioni
razionali o irrazionali.
Trovo
significativo anche un pensiero espresso da Thomas Nagel: “Io credo
nell’esistenza di una cosa, o categoria del pensiero come la ragione, e nella
sua rilevanza teorica e pratica rispetto al prodursi non solo delle credenze,
ma anche dei desideri, dei propositi e delle decisioni (1997, p. 14). L’analisi
filosofica può quindi riconoscere l’applicabilità del concetto di razionalità anche ai desideri, alle intenzioni ed alle emozioni, ma, per chiarire le ragioni
dell’irrazionalità deve diventare analisi
psicologica delle strategie difensive e della paura del dolore. La paura è molto importante nella costruzione e nel mantenimento
delle difese psicologiche perché il dolore continua, come nell’infanzia, a
spaventare gli adulti e viene percepito (erroneamente) come intollerabile.