venerdì 13 luglio 2018

9. Valori







Non occorre sfogliare trattati di filosofia morale per sentirsi travolti da una “cattiva filosofia” che imprigiona i pensieri e limita o distorce le emozioni nella vita di tutti i giorni. Considero “cattiva filosofia” quella trasmessa da un filosofo, da uno scienziato o da un analfabeta allo scopo di non capire qualcosa. Il bisogno di non capire sorge nei bambini (e permane negli adulti) quando capire qualcosa comporta un dolore che è (o sembra) ingestibile. Per questo motivo nessuno nega che i pesci rossi siano rossi, mentre moltissime persone fanno affermazioni irrazionali sui valori, sulla sessualità, sui disturbi psicologici, sulla morte e sulla convivenza sociale. Cercherò nei prossimi capitoli di analizzare le concezioni irrazionali che nella cultura accademica e nella cultura “popolare” ostacolano la conoscenza degli aspetti più delicati, affascinanti e anche dolorosi dell’esistenza umana e, per iniziare, farò qualche osservazione sui “valori” e sul concetto di persona.
In certi casi il termine "persona" può essere sostituito dal termine "individuo" e, infatti, possiamo dire che una folla è composta da individui o da persone. Quando però affermiamo di non sentirci trattati “come persone” o descriviamo un amico come una "bella persona", non abbiamo in mente il concetto di individuo, ma proprio il concetto di persona. Possiamo fare una dichiarazione individuale o personale, ma solo una confidenza molto personale dato che l’espressione “confidenza molto individuale” sarebbe quasi buffa.
Si può parlare di persona anziché di individuo per sottolineare il ruolo dell'autocoscienza, della responsabilità e della capacità di entrare in relazione con gli altri concepiti come soggetti e non solo come oggetti. Variano le teorie, ma si sviluppano comunque attorno a questi temi. Tuttavia, credo che l’uso comune del concetto di persona implichi più di un insieme di capacità. In passato, negli Stati Uniti e nel Sudafrica chi giustificava le discriminazioni etniche non negava l’autocoscienza o altre capacità delle persone di colore, ma, nonostante ciò, rifiutava di trattare le persone di colore come persone, cioè in modi rispettosi. Se ad esempio X in una discussione dà un pugno sul tavolo e grida a Z: "Non puoi trattare Y così perché è una persona e non un tuo strumento!" si ribella ad un comportamento di Z che nega il “valore” che X attribuisce a Y. In questo caso X non mostra solo di riconoscere le qualità di Y (su cui tutti, compreso Z, concordano), ma mostra il proprio rispetto nei confronti di Y. Prescindendo quindi da qualsiasi concezione filosofica relativa alla “essenza” delle persone, dobbiamo riconoscere il fatto che ci apriamo ad una dimensione "personale" quando esprimiamo un'attribuzione di valore nei confronti di qualcuno.
Filosofi e studiosi di matrici culturali diverse hanno cercato di ricondurre l’uso del concetto di persona ad un'attribuzione di valore. Emmanuel Mounier, che aveva teorizzato il "personalismo" (1947a) come filosofia morale e sociale, concepiva "l'unità fondamentale dell'essere personale" come ciò che "dona all'individuo un valore superiore" (1947b, p. 65). In una prospettiva completamente diversa e sganciata dalle assunzioni spiritualistiche di Mounier, Norberto Bobbio ha scritto: "Tenendo fermo il punto che persona significa individuo innalzato a valore, la via da seguire è quella di trovare il valore dell'individuo nella storicità della sua esistenza, che è esistenza con gli altri, di giungere pertanto a una fondazione non più metafisico-teologica, ma storico-sociale della persona" (in Pianciola, 1996, p. 276). Sergio Moravia critica i due basilari modelli dell'antropologia filosofica, quello materialistico-biologistico e quello alternativo di tipo dualistico o mentalistico. Essi (anche il secondo, per Moravia) tendono comunque a reificare l'uomo riconducendo le sue caratteristiche peculiari o a congegni naturali o a qualche riedizione della res cogitans. A tali modelli egli contrappone una concezione "personologica" secondo cui "questo nostro parlare non tanto designa una cosa (materiale o spirituale) quanto piuttosto apre un universo di senso, molteplice e mutevole come tutti gli universi di senso" (1996, p. 93). In tale prospettiva l'uomo è concepito come un "fare" piuttosto che come un "essere". Alla sua individualità si sovrappone, quindi, una storia vissuta.
Parlando di persone non ci limitiamo a riconoscere una soggettività (per cui un lombrico non è una persona) ed a riconoscere una piena autocoscienza (per cui un cane non è una persona ed un neonato è una persona in formazione): oltre a riconoscere questi aspetti noi manifestiamo una particolare attribuzione di valore a tali aspetti. In zona di confine troviamo scimpanzé, minorati mentali e persone con lesioni cerebrali invalidanti a cui attribuiamo valore in quanto non hanno sviluppato completamente o avevano sviluppato ma hanno in parte perso, le capacità a cui attribuiamo un particolare valore. Questa attribuzione di valore alla capacità di costruire un “mondo interno” assolutamente unico, è fondamentale nell’uso del concetto di persona, indipendentemente da qualsiasi convinzione sulla “natura” di tale “mondo interno”.
Con queste considerazioni sto evitando di proposito la questione cara ai filosofi tradizionali relativa a ciò che “rende persona” una persona, dato che le concezioni di questo tipo non hanno mai chiarito nulla. Preferisco evidenziare che quando identifichiamo qualcuno come persona mostriamo qualcosa di noi stessi. Non a caso, nella storia, molti rappresentanti di comunità religiose, hanno mandato al rogo o sterminato in guerra o decapitato esseri umani che concepivano come persone in quanto dotati di una “natura” spirituale, ma che avevano il difetto di essersi dimostrati “eretici” o “infedeli”. Quindi, tali autorità avevano forti convinzioni sulla “essenza personale” delle loro vittime, ma a dispetto di ciò non attribuivano alcun valore alla loro vita. Altri esseri umani, invece, con le stesse convinzioni filosofiche e religiose o con convinzioni del tutto diverse, hanno trattato e trattano  i loro simili in modi rispettosi e compassionevoli. Per questo motivo preferisco ricondurre l’idea di persona all’atteggiamento di chi considera qualcuno come persona piuttosto che alla “essenza” di chi viene considerato come persona.
Vediamo ora di procedere su questa linea di pensiero. L'attribuzione di valore in base a cui si va oltre il rapporto "interindividuale" per istituire un rapporto "interpersonale", non è un'attribuzione di valore di tipo pratico. Se affermiamo che il nostro dentista è molto bravo non implichiamo necessariamente di trattarlo davvero come una persona. L’idea di persona, quindi, implica una valorizzazione disinteressata, nel senso di indipendente dalla “fruibilità” delle capacità personali. Per questo motivo possiamo trattare come persone sia gli esseri umani che stimiamo, sia quelli che ci creano problemi o delusioni. Infatti, quando ci si opponiamo alla pena di morte affermando che anche i criminali sono persone, non affermiamo l’utilità sociale della sopravvivenza dei criminali o il nostro bisogno della loro presenza, ma affermiamo che la vita di un criminale, come ogni vita umana, ha per noi un valore non dovuto ad un rapporto di utilità.
A questo punto, dopo aver collegato l’idea di persona all’idea di una soggettività “vissuta nel tempo” e da noi considerata preziosa, siamo giunti ad un punto delicato: l’attribuzione di valore consiste nella manifestazione di un punto di vista soggettivo o nel riconoscimento di un valore oggettivo? Il problema del rapporto fra soggettività e realtà oggettiva, a cui ho già accennato, si rivela tutt’altro che un rompicapo interessante solo per i filosofi, dato che viene ogni giorno affrontato, anche se inconsapevolmente e “distrattamente”, da qualsiasi essere umano. Appena qualcuno si avvilisce o si ribella per non essere stato trattato “da persona” (e quindi con sufficiente rispetto) o perché altri esseri umani non sono trattati come persone, ha in mente qualcosa sulla possibilità che le persone siano oggettivamente “preziose” e non lo siano solo da un punto di vista soggettivo.
Qui ci troviamo davvero in una zona pericolosa perché, anche se abbiamo evitato l'errore di considerare la persona come un "quid" da definire in termini speculativi, parlando dell’attribuzione di valore riferita alle persone rischiamo di definire in termini speculativi i “valori”. Non a caso, nella storia della filosofia sono presenti molte concezioni irrazionali focalizzate sul concetto di persona ed anche molte concezioni irrazionali focalizzate sul concetto di “valore”. Se restiamo aderenti al piano empirico-psicologico, possiamo solo affermare che nell'attribuzione di valore si esprime un particolare apprezzamento soggettivo nei confronti di qualcuno (o anche di “qualcosa”, come ad esempio un aspetto della natura o un’opera d’arte). Tuttavia, tale apprezzamento, nell’uso comune, non è espresso come sensazione o come opinione soggettiva, ma è ritenuto "adeguato" all’oggetto (la cosa o la persona in questione).
Nel passaggio dalla sfera dell’apprezzamento soggettivo a quella dei valori si attribuisce un significato oggettivo a ciò che è stato soggettivamente concepito come significativo. Questo slittamento di senso viene attuato solo in certi casi. Anche se preferisco il colore blu al giallo, non direi mai che il blu ha un “valore” superiore a quello del giallo, mentre quando considero la mia insofferenza per ogni tipo di totalitarismo, senza pensarci, tendo a ribadire che la democrazia “è” una cosa importante ed il totalitarismo “è” inaccettabile. Questa lettura “realistica” dei valori è però difficile da giustificare razionalmente: posso fare molte considerazioni razionali sui vantaggi della democrazia e sui disastri causati da ogni tipo di totalitarismo, ma, se voglio essere sincero con me stesso, appena supero il limite dell’analisi pratica dell’intera questione, non ho modo di argomentare in maniera davvero convincente sul “valore” della democrazia. In altre parole, i “valori” non sono “cose” e sono razionalmente riconducibili solo a letture soggettive della realtà, anche se le persone che “affermano dei valori” tendono a dare per scontato di aver “colto” qualcosa di oggettivo.
Il processo dell'attribuzione di valore si realizza quindi in due fasi:
A) l’esperienza soggettiva di accettare e apprezzare qualcosa o qualcuno, o l'intera classe di elementi o entità in cui qualcosa o qualcuno rientra; tale accettazione-apprezzamento costituisce una sfumatura dell’amore, cioè di un’emozione,
B) l'operazione cognitiva (errata) di "oggettivare" tale accettazione-apprezzamento-amore, ovvero di tradurre il processo soggettivo in un aspetto oggettivo della cosa o persona accettata-apprezzata-amata (a dispetto del fatto costituito dall’avversione o dall’indifferenza di altri per la stessa cosa o persona).
L'operazione del punto B è logicamente inconsistente, perché non c'è modo di derivare da un atteggiamento soggettivo una conoscenza oggettiva. La tendenza ad affermare valori (e ad attuare svalutazioni) è molto pericolosa e ha prodotto vere tragedie. Due persone che si amano e amano i figli, anche se commettono l’errore di considerare la famiglia come un valore, possono non disturbare nessuno, ma la concezione del "valore della famiglia" diventa un vero incubo appena calamita milioni di persone svalutanti rispetto al piacere sessuale, determinate ad “educare” i bambini e abituate a definire “bastardi” i bambini che non hanno un padre riconosciuto per legge.
Tale analisi dei fatti non ci costringe ovviamente ad abbracciare filosofie nichilistiche o relativistiche. Possiamo evitare un assoluto relativismo, ma per farlo non abbiamo bisogno di dimostrare la “esistenza” (indimostrabile) dei valori intesi come aspetti della realtà oggettiva. Possiamo piuttosto tener presente il fatto che certi aspetti della dimensione soggettiva esprimono il potenziale di tutti gli esseri umani, mentre altri aspetti derivano dalla paura di un pieno contatto con la realtà. Ho già esaminato i dati antropologici, le ricerche psicologiche e i risultati del lavoro analitico che dimostrano che le persone non terrorizzate e non bloccate dalle loro difese, non si sentono motivate a maltrattare gli altri e quindi tendono ad apprezzare la cooperazione e a manifestare insofferenza nei confronti di qualsiasi violenza. Tali conoscenze non ci permettono di concepire il “valore oggettivo” della cooperazione. Ci permettono però di capire che la cooperazione, a differenza della prepotenza, è un modo di stabilire rapporti che ha radici nella nostra realtà biologica e storica.. La conoscenza di ciò che siamo diventati e di ciò che siamo capaci di desiderare e fare ci aiuta a distinguere le nostre potenzialità umane dagli atteggiamenti irrazionali e distruttivi, e anche ad impegnarci nella costruzione di un mondo migliore senza “affermare valori”.
Con le altre persone possiamo confrontarci sul “valore d’uso” oggettivamente attribuibile ad una particolare persona o a una macchina o a una legge o a una rivoluzione, ma non possiamo dimostrare il valore intrinseco di nulla e di nessuno, perché quando consideriamo preziose delle persone o degli aspetti della realtà stiamo parlando solo di noi stessi. A volte parliamo del nostro sentire soggettivo e altre volte parliamo di un sentire soggettivo che (almeno potenzialmente) appartiene a tutti gli esseri umani, ma in ogni caso non parliamo di ciò che abbiamo osservato in un “mondo dei valori assoluti”.
Anche se non sono uno studioso di estetica, posso far notare che queste considerazioni relative ai valori in generale riguardano anche i valori estetici. Non è un caso se, al di là delle preferenze individuali che ci portano a preferire un poeta ad un altro o a considerare un animale più bello di un altro, in molti casi condividiamo l’apprezzamento di certe opere o di certi aspetti della natura. Possiamo trovare “interessanti” certe provocazioni nell’ambito delle arti figurative o della musica, ma non davvero belle e sicuramente proviamo piacere contemplando un tramonto ma non una catena di montaggio. Certi aspetti di noi stessi vengono rispecchiati più da un dipinto o dalla grazia di un animale che da una tela imbrattata o da un albero abbattuto da un fulmine. Purtroppo, osservando certi quartieri orribili o considerando certe mode bizzarre dobbiamo riconoscere che l’orrore è spesso perseguito più del gusto, ma ciò ha a che fare con reali difese psicologiche e non con la negazione di presunti “valori estetici”.
Io credo che il buono e il bello che riusciamo a concepire e rispetto a cui manifestiamo un apprezzamento, siano tali semplicemente perché in qualche modo riflettono ciò che siamo o almeno ciò che potenzialmente siamo. Tale apprezzamento o gusto è quindi proporzionale alla nostra spontaneità, alla nostra libertà interiore, alla conoscenza ed al rispetto di noi stessi e dei nostri simili. Il buono e il bello che conosciamo e che immaginiamo, al di là delle diversità individuali e culturali, accomunano tutti gli esseri umani. Non stanno in un mondo ideale che ci attira come una calamita o a cui “dovremmo” tendere: fanno parte della nostra identità umana.
Le radici profonde (psicologiche) di ciò che la metafisica ha collocato in un mondo immaginario di “valori” etici ed estetici si riflettono anche nel piacere (spesso sottovalutato) di contemplare la benevolenza e non solo l’arte. I gesti di benevolenza, amore, cura verso qualcuno suscitano in chi li osserva sensazioni piacevoli. Tali esperienze sono diverse da quelle provate osservando qualcosa di apprezzabile sul piano estetico, ma sono simili per il loro carattere “disinteressato”. Da ciò si può facilmente trarre una conclusione: se vogliamo contestare delle affermazioni di valore (e quindi delle svalutazioni) che troviamo inaccettabili commettiamo un gravissimo errore contrapponendo a tali valori altri valori. La questione è importante e proprio uno dei più  severi critici del moralismo come Bertrand Russell ha accennato ad essa: “Vi sono alcuni uomini che ammiro e altri che considero vili; alcuni sistemi politici mi sembrano tollerabili e altri un’infamia. Il piacere negli spettacoli di crudeltà mi fa orrore, e non me ne vergogno. Non sono più preparato a rinunciare a tutto questo di quanto lo sia a rinunciare alla tavola pitagorica” (1946, p. 182). Tuttavia, poco più avanti, l’autore precisa quanto segue: “Per la mia stessa teoria, facendo questo, esprimo veementi desideri circa i desideri dell’umanità; provo questi desideri, perché non esprimerli?” (1946, p. 184). Egli, quindi, non rinuncia ad esprimere il desiderio che almeno alcuni suoi obiettivi siano condivisi dall’intera umanità, ma riconosce che le sue valutazioni e svalutazioni “irrinunciabili” sono comunque soggettive. Riflettono desideri molto intensi, ma non costituiscono descrizioni della realtà. Tale ammissione è dolorosa: tendiamo a ritenere che certe cose siano molto importanti ed altre siano “banali” o addirittura intollerabili, ma, se non ci dissociamo dal dolore di far parte di una comunità spesso “scomoda”, dobbiamo riconoscere che molte cose per noi assolutamente preziose sono prive di alcun valore per molti altri. Ciò ha anche un’altra conseguenza: quando purtroppo dobbiamo combattere per qualcosa, se restiamo lucidi e sensibili, lottiamo con determinazione, ma senza “entusiasmo”. Lottiamo senza cioè soffocare il dolore di dover lottare per qualcosa che preferiremmo fosse già realtà consolidata e condivisa.
L'affermazione rigida dei valori caratterizza le "chiusure mentali” (Rokeach, 1960) e gli atteggiamenti "autoritari" (Fromm, 1941; Reich, 1946, Adorno e AA. VV., 1950); tali aspetti sono stati studiati soprattutto negli anni in cui la follia fascista e nazista aveva suscitato tanto orrore non solo per le sue atrocità, ma perché aveva coinvolto molte persone "normali" nella condivisione di valori assolutamente irrazionali e distruttivi. Se i valori coincidessero con i loro contenuti, dovremmo necessariamente distinguere fra “pseudo-valori” e “valori autentici” o fra valori disumani e valori umani. Di fatto questa è l’opzione culturalmente prevalente e io stesso, in passato, pur considerando l’attribuzione di valore come un errore cognitivo, ho espresso l’idea che alcuni valori fossero errori cognitivi “innocenti” ed altri valori costituissero delle razionalizzazioni di gravi difese psicologiche. In quegli anni, tendevo a pensare che fosse praticamente impossibile evitare, in condizioni di libertà interiore, l’affermazione del valore delle persone, del loro percorso esistenziale e dell’inclusività (cioè degli atteggiamenti tolleranti). Oggi non credo più che tale distinzione sia sostenibile. Ovviamente preferisco ascoltare chi afferma il valore della libertà di pensiero piuttosto che ascoltare chi afferma il valore della “economia di mercato”, perché, sul piano dei contenuti rilevo la marcata differenza fra chi afferma il bene di tutti e chi trova scuse per giustificare i privilegi di pochi. Tuttavia, non posso non riconoscere che ogni oggettivazione di desideri e di sentimenti (anche di desideri e sentimenti razionali) è irrazionale. L’affermazione di un valore è, quindi, sempre e comunque irrazionale e potenzialmente distruttiva.
Le convinzioni si dimostrano, i desideri si traducono in richieste o proposte e le emozioni si esprimono, mentre i valori si affermano e questa caratteristica dei valori è gravida di conseguenze. Sul piano educativo i valori vengono imposti (con ricatti affettivi) e sul piano interpersonale e sociale vengono associati alla squalificazione di chi non li condivide. Sul piano dei valori non c’è spazio per il confronto sui fatti, perché ogni valore “affermato” implica un valore “negato”. Le persone possono impegnarsi individualmente o collettivamente per promuovere rapporti interpersonali e sociali equi, rispettosi e costruttivi, ma per fare questo non hanno alcuna necessità di affermare dei valori, dato che possono dimostrare la razionalità dei loro obiettivi ed il bene che ne può derivare. Purtroppo è difficile coinvolgere “le masse” in progetti di trasformazione sociale non alimentati dall’indignazione vittimistica, dall’odio e quindi da qualche svalutazione.
E’ quasi impossibile evitare nella comunicazione quotidiana l’affermazione di alcuni valori, perché l’intera convivenza sociale e il linguaggio condiviso si radicano nella dicotomia noi/loro e quindi nella basilare valutazione/svalutazione delle persone. Tale disastro inizia nel momento in cui i genitori non dicono “onestamente” ai figli “non fare così!”, ma affermano “così non va bene”, oppure “non essere ridicolo!” o anche “sei cattivo!”. I bambini crescono sul ciglio di un burrone in cui possono essere scaraventati proprio dai genitori, se non riconoscono il “valore” di certi pensieri, sentimenti e azioni. Non solo devono vergognarsi di fare ciò che è “inammissibile”, ma devono anche essere orgogliosi di obbedire. La dimensione del valore coincide con quella del ricatto affettivo e implica la minaccia della solitudine e quindi di ciò che nell’infanzia è intollerabile.
Le grandi concezioni metafisiche sono solo versioni intellettualizzate di modi di sentire molto comuni e proprio la quotidiana e “inesorabile” propensione ad affermare valori infiamma nei momenti critici gli animi delle masse. Frasi come “Oggi la gente non ha più valori!” sembrano esprimere una grande sensibilità, ma in realtà esprimono solo la confusione e la rabbia di chi parla. Inoltre, chi indugia in queste lamentazioni ha in mente alcuni valori e non certo “i valori”. Molti sottolineano il valore del lavoro che è solo una scomoda necessità e quindi una disgrazia. Si può capire che sia preferibile il lavoro all’indigenza, ma sarebbe semplicemente stupido lavorare se il cibo, i libri e le biciclette crescessero sugli alberi. Quando i “valori religiosi” vengono condivisi, diventano “principi” imposti ai bambini e facilmente si traducono in roghi o lapidazioni per gli eretici. Se le religioni hanno causato veri disastri sul piano della qualità della vita dei fedeli, l’ateismo di Stato nella Russia sovietica ha causato disastri simili, perché ha rimpiazzato l’esame critico e razionale della cultura classista con l’affermazione dei “valori del proletariato”. Persino la (pseudo)”rivoluzione sessuale” degli anni ‘60 è stata non solo una contestazione di antichi pregiudizi, ma purtroppo anche una corale affermazione di “nuovi valori” e ha quindi prodotto nuove forme di conformismo. Molti ragazzi che avevano provato vergogna per i loro “desideri impuri” hanno finito per vergognarsi se erano “ancora vergini” a diciotto anni. Ciò mostra che proprio la trasformazione delle conoscenze e della sensibilità soggettiva in valori oggettivi ostacola reali cambiamenti o induce cambiamenti distruttivi.
Chi si sente realmente libero di esprimere un desiderio non sente alcun bisogno di “affermare” il “valore” di ciò che desidera, di svalutare chi vive in altri modi e di limitare la libertà degli altri. Infatti chi davvero apprezza l’arte fa arte o studia la storia dell’arte e non perde tempo a fare sermoni sulla “insensibilità” di chi non comprende il valore dell’arte. Allo stesso modo, chi ha delle reali conoscenze non sente alcun bisogno di imporle a tutti, ma trasmette ciò che ha compreso a chi è disposto ad imparare. Appena si cerca di “affermare” un’idea o un’aspirazione presentandola come un “valore umano” che qualsiasi essere umano deve accettare (per non essere bollato come “disumano”) si genera una spirale di svalutazione che facilmente diventa integralista, persecutoria e autoritaria. Se l’attribuzione di valore è un vizio cognitivo con cui si considerano oggettive delle preferenze soggettive, la svalutazione costituisce l’altra faccia della stessa medaglia, perché non esprime il rifiuto di qualcosa o di qualcuno, ma decreta la inaccettabilità oggettiva di qualcosa o qualcuno. Il passaggio dagli stati d’animo soggettivi all’attribuzione di valore e alla svalutazione mira a ridurre la riflessione critica e a favorire comportamenti dovuti alla paura.
Non rispettiamo la nostra razionalità se parliamo di “belle persone” o di “nullità”. Con ciò non voglio negare le (ovvie) differenze oggettive fra ciò che le persone esprimono o fanno o sentono o capiscono, ma voglio ricordare che quando affermiamo che X è una “bella persona” perché “è” generosa o empatica o creativa stiamo parlando delle sue azioni o delle sue capacità. Non stiamo parlando di alcuna “essenza” di tale persona, ma delle “fortune o sfortune” che le hanno permesso di diventare più o meno utile o piacevole. Possiamo, quindi, affermare che quando si svalutano le persone non si manifesta solo il “vizio cognitivo” consistente nell’oggettivare ciò che è soggettivo, ma si manifesta un altro errore: si confonde ciò che le persone sono con ciò che le persone fanno. Tale confusione ha gravissime conseguenze perché falsifica la realtà, favorisce sentimenti distruttivi e genera realtà sociali terribili. Ridurre le persone a ciò che fanno non è ragionevole, soprattutto in una società in cui le persone sono normalmente costrette fin dall’infanzia a limitare l’espressione delle proprie potenzialità. Svalutare una persona superficiale o arrogante o indecisa è sensato come svalutare un grande atleta che ha una gamba fratturata: egli è la persona che era prima dell’incidente, anche se non manifesta le sue capacità atletiche. La svalutazione delle persone blocca, di fatto, la consapevolezza dolorosa della reale tragedia costituita dalla normale mancata coincidenza fra ciò che le persone sono e ciò che le persone fanno. Tale tragedia è un fatto e abbiamo bisogno di conoscere i fatti. I metereologi non studiano solo il bel tempo, ma anche le bufere e gli esseri umani possono dimostrarsi razionali solo se accettano quella bufera terribile costituita dal fatto che le difese psicologiche rendono le persone per molti aspetti diverse da ciò che sono.
La svalutazione delle persone comunemente implicata nelle comunicazioni quotidiane costituisce una difesa psicologica estremamente pericolosa. L’attribuzione di un valore oggettivo alle persone in generale o alle persone che apprezziamo o che amiamo, è sicuramente meno preoccupante dell’odio per una persona o per un gruppo sociale, ma porta in sé il seme della svalutazione (e dell’odio). Infatti, ad esempio, chi come Dante esalta le persone che vivono secondo “virtute e conoscenza”, è portato a considerare come semplici “bruti” coloro che si discostano dal modello ideale affermato e finisce per immaginare scenari inquietanti in cui i “bruti” meritano l’eterna dannazione. L’attribuzione di valore, quindi, è come una molla compressa che in qualsiasi momento può essere liberata e colpire qualcuno con la forza distruttiva della svalutazione e dell’odio. Solo se restiamo sul piano della razionalità e del contatto emotivo e riconosciamo di desiderare rapporti interpersonali basati sulla lealtà e sulla benevolenza, di fronte ad una frustrazione non ci sentiamo vittime di un tradimento attuato da una “non persona”, ma riconosciamo realisticamente che l’altra persona non ha risposto alle nostre aspettative. In base a tale consapevolezza possiamo anche combattere per opporci ad una prepotenza, ma non abbiamo alcuna necessità di trattare i nemici come non-persone.
Per mantenere tale consapevolezza non dobbiamo attuare alcuna forma di controllo, ma riconoscere che proprio i pensieri e gli atteggiamenti svalutativi costituiscono un controllo della nostra lucidità e della nostra capacità di contatto emotivo. Se è razionale la svalutazione di asserzioni, atteggiamenti, azioni e intenzioni che creano sofferenza, non è mai razionale la svalutazione delle persone. La distinzione che cerco di fare non è una sottigliezza da “avvocati della psiche” perché riguarda fatti reali. La svalutazione comporta una sfumatura “inutile” della rabbia, resa comunemente dal termine “odio”. La rabbia razionale ha valore adattivo perché nelle situazioni critiche ci aiuta a proteggerci e a proteggere chi ci sta a cuore, mentre l’odio nei confronti delle persone irrazionali e distruttive non è mai costruttivo. La svalutazione non favorisce reali cambiamenti, ma alimenta sensazioni di appartenenza (illusorie) e di superiorità (altrettanto illusorie).
Anche se possiamo trovare “comodo” ridurre le persone a “nulla” quando ci fanno del male, con tale “trucco mentale” non aiutiamo sicuramente i malvagi a cambiare e diventiamo superficiali e anche malvagi. Credo che tutti abbiano presenti alcuni romanzi o film (o anche episodi di vita reale) in cui qualcuno, in seguito ad un incontro o ad un’esperienza particolare, si rende conto di aver “sbagliato tutto” e improvvisamente o gradualmente “sboccia”. Il bello di queste narrazioni (o esperienze reali) consiste proprio nel fatto che evidenziano un profondo cambiamento interiore: il soggetto in questione non diventa “un’altra persona”, ma diventa “se stesso” o “si ritrova”. Queste vicende ci aiutano a riflettere sul fatto che chiunque può agire in modo inaccettabile, ma con tali azioni non esprime ciò che è, dato che appena “si ritrova”, interrompe la “recita” e recupera la propria “vera identità”. Purtroppo, raramente le persone cambiano in seguito all’esperienza di essere amate o con il presentarsi di un’opportunità positiva. Il cambiamento è difficile persino nel percorso analitico, nonostante l’intenzione cosciente delle persone di mettersi in discussione. Tuttavia quando il lavoro procede bene il cambiamento consiste proprio nella rinuncia alla “maschera” costituita dalle difese psicologiche e ciò determina il semplice “riemergere” della bellezza delle persone. Nessuno, procedendo nel lavoro analitico, sente di “conquistare” una “nuova identità”, ma tutti descrivono il cambiamento come una “liberazione” dalle loro catene. Queste considerazioni, a mio parere, provano in modo convincente che le persone non sono semplicemente ciò che fanno. Quando ci troviamo di fronte all’indifferenza, allo sfruttamento, alla crudeltà non possiamo far altro che provare un profondo rifiuto per tali atteggiamenti e comportamenti. Ciò che sentiamo è razionale, ma non abbiamo alcun bisogno di svalutare gli avversari o di inventare dei “valori positivi” per capire cosa accade e cosa possiamo fare per migliorare la realtà.
Tra le svalutazioni non vanno considerate solo le comuni espressioni offensive, ma anche le classificazioni ideologiche cariche di ostilità (“miscredente”, “vile conformista”, “maschilista”, ecc.). Dalla condanna di un’azione all’affermazione che una persona “sia malvagia” (cioè abbia una caratteristica “essenziale” che inquina la sua dimensione personale) il salto è notevole e in tale passaggio si commette una sorta di omicidio psicologico, un annullamento dell’altro in quanto persona. In altre parole, definire gli altri come malvagi costituisce un’azione distruttiva e quindi “malvagia”. La cosa più curiosa è che tale squalificazione impregna il linguaggio comune, quello etico-teologico e vari segmenti della cultura reazionaria e “progressista”. Le svalutazioni personali o estese a gruppi sono, purtroppo, ipnotiche perché sembrano asserzioni, mentre sono espressioni emotive irrazionali “vendute” come descrizioni di fatti oggettivi. Il termine “malvagità” è da sempre il sintomo di una profonda indisponibilità a capire un fatto doloroso: il fatto che gli altri sono persone come noi, ma spesso agiscono distruttivamente per delle ragioni che neppure conoscono. La svalutazione costituisce un aspetto purtroppo centrale della vita delle persone ed essendo attivata difensivamente fin dall’infanzia risulta davvero difficile da superare, perché permea lo stesso linguaggio.
Prima che la filosofia della scienza contemporanea (Ayer, 1946; Carnap, 1932; Popper, 1934, 1969; Reichenbach, 1951) mettesse radicalmente in discussione la speculazione metafisica in quanto tale e quindi anche la pretesa di parlare del bene e del male come di “due ambiti dell’essere”, le classiche concezioni dei filosofi relative al bene e al male tentavano di inquadrare in termini sistematici un aspetto della vita che inevitabilmente addolora da sempre gli esseri umani: la presenza di persone che agiscono distruttivamente in modi irragionevoli, gratuiti e a volte apparentemente gratificanti. Mi riferisco a persone prive di empatia e compassione, che cercano di ricavare vantaggi danneggiando gli altri o che addirittura sembrano trarre qualche forma di piacere dalla sofferenza altrui. Tuttavia, la svalutazione delle persone distruttive non è indispensabile per combattere la distruttività.
La svalutazione difensiva della “malvagità” delle persone ha una lunga storia e nei secoli si è articolata in varie concezioni. Le più diffuse hanno ricondotto l’opposizione (oggettiva) fra atteggiamenti ed azioni di tipo costruttivo e di tipo distruttivo ad un (indimostrabile) conflitto presente nella “natura umana”. In tale prospettiva, il bene ed il male sono stati concepiti come basilari “tendenze dell’anima”. Il marcato dualismo fra bene e male ha radici antichissime, anche nell’Iran del 1000 a.C. (Cfr. Mackenzie, 1967, p. 85), è esploso nelle sette gnostiche sorte nel secondo secolo della nostra era e si è riproposto nel movimento ereticale cataro (XII-XIII secolo d. C.). Tale dualismo  ha sollecitato la chiesa a trovare un’alternativa all’idea di un’opposizione radicale fra il bene ed il male e ad affermare, ad esempio, che “il male non è altro se non la privazione del bene” (Agostino d’Ippona, 398, p. 100). Anche per Tommaso d’Aquino “ogni ente, in quanto tale, è buono. (…) Nessun ente si dice cattivo in quanto ente, ma in quanto mancante di un certo essere; così l’uomo si dice cattivo perché gli manca l’entità virtù” (1269, p. 140). Tale concettualizzazione, però non ha contrastato le tendenze svalutative che sono rimaste sempre forti, soprattutto in ambito religioso. Pascal è stato molto esplicito: “Ora, noi siamo pieni di concupiscenza; dunque, siamo pieni di male: dobbiamo, pertanto odiare noi stessi e tutto quanto ci spinge ad amare altri che Dio” (1670, n. 542, p. 315). Ovviamente, la religione islamica non è meno inquietante di quella cattolica per quanto riguarda l’idea del male, del peccato e dell’inferno: “Perché in verità coloro che avran rifiutato fede ai Nostri segni, li faremo ardere in un Fuoco e non appena la loro pelle sarà cotta dalla fiamma la cambieremo loro in altra pelle, a che meglio gustino il tormento, perché Dio è potente e saggio” (Il Corano, IV, 56).
Sia le varie sfumature del manicheismo, sia le varie metafisiche religiose che cercano di conciliare l’idea della divina bontà/onnipotenza con quella del “male” (non voluto da Dio, ma “liberamente scelto” dall’uomo), riposano su un equivoco basilare: la sostanzializzazione del bene e del male che invece sono concetti utilizzabili in modo razionale solo per classificare le azioni delle persone e per cercare spiegazioni. Se affermiamo che X ha manifestato la propria malvagità comportandosi in un certo modo con Y, apparentemente parliamo di tre entità (X, Y e “la malvagità”), ma in realtà stiamo parlando solo di X e di Y. Aggiungere delle riflessioni sul male o sul bene è arbitrario quanto ragionare su tre “entità” costituite dalla scarpa destra, dalla scarpa sinistra e dal paio di scarpe. Ciò che può essere detto e verificato o confutato riguarda, quindi, i comportamenti (buoni o cattivi nel senso di costruttivi o distruttivi) delle persone e non il rapporto fra le persone e il bene o il male o fra ipotetiche “parti” (buone e cattive) delle persone.
Anche se le concezione che presentano il bene ed il male come inclinazioni della “natura” degli esseri umani possono apparentemente “spiegare tutto”, non spiegano nulla e, anzi, costituiscono proprio una rinuncia alla conoscenza. Dire che una persona è stata “malvagia” perché ha seguito la tendenza malvagia della sua anima è come dire che una pecora mangia l’erba perché ha seguito la tendenza erbivora della sua anima. La spiegazione di un fenomeno si ha quando riconduciamo un fatto ad un quadro concettuale più ampio e noto: la “natura” erbivora non spiega ciò che fa la pecora e solo la conoscenza della sua fisiologia ci aiuta a spiegare il suo comportamento. Ovviamente, si può dire che anche in metafisica i particolari comportamenti “buoni” o “cattivi” rinviano ad una concezione più ampia: il piano dell’anima. Tuttavia, in questo modo si lascia irrisolto il problema: se non è chiaro per quale motivo una certa persone agisce in modi distruttivi, non è nemmeno chiaro perché l’anima di quella persona “sia malvagia” anziché buona ed amorevole.
L’idea che le persone vogliono fare il bene o il male è semplicemente assurda, perché anche il peggiore dei criminali non ha l’intenzione di “fare del male” prima di decidere se commettere una strage o rapinare un negozio. Il terrorista, infatti, se non disponesse di esplosivo, non “si accontenterebbe” di rapinare una vecchietta pur di fare del male. Spesso le persone inventano delle giustificazioni per le loro azioni distruttive (la “guerra santa” o il “farsi strada in un mondo spietato"). Tuttavia, in realtà, se fanno del male non sanno perché agiscono in quel modo. La svalutazione delle persone malvagie presuppone in genere l’idea che non abbiano sconfitto le loro “tendenze” malvagie, che avrebbero potuto farlo e che non abbiano voluto farlo. Questa idea, che ha stregato filosofi, poeti e scrittori, è fonte di terribili tormenti per i bambini e gli adolescenti, e rovina la vita anche agli adulti che si sono rassegnati a pensarsi come esseri “trascinati” dalla loro natura corrotta e “pungolati” dalla loro “coscienza”. Alla base di tale confusa concezione speculativa sta l’idea che le persone siano colpevoli di non opporsi al male per una debolezza della loro “coscienza”. Tuttavia se le persone “hanno” davvero una “coscienza debole”, perché vengono condannate? Tale condanna è ragionevole come quella di un disabile che non riesce a camminare. E se invece hanno delle ragioni (anche inconsce) per agire distruttivamente come mai si tende ad attuare una svalutazione rinunciando a cercare spiegazioni? Chi alimenta svalutazioni metafisiche, teologiche e morali cerca solo di non spiegare cose che non vuole capire. I moralisti non conoscono la gioia di farsi del bene e di fare del bene agli altri e non vogliono, quindi, capire quali siano le ragioni per cui le persone malvagie rinunciano a tale gioia.
Il mito del peccato originale ha accompagnato la storia dell’umanità e ha influito persino sulle spiegazioni non religiose della distruttività. La psicoanalisi, ad esempio, pur “laicizzando” la questione, ha inventato una metafisica bio-psicologica in cui trovano collocazione un’ipotetica “pulsione di vita” ed un’ipotetica “pulsione di morte” (Freud, 1920). Se l’etica metafisica è rassicurante perché riconduce la distruttività ad un “male oggettivo” da cui però possiamo proteggerci con l’autocontrollo o con i rituali religiosi, la concezione freudiana è solo apparentemente “tragica”. Essa fornisce, infatti, un’altra via d’uscita “ottimistica” alla reale dimensione tragica (dolorosa) dell’esistenza umana: collocando il male nella nostra costituzione pulsionale, stabilisce che possiamo distaccarci da esso diventandone coscienti grazie al lavoro psicoanalitico. Tale “spiegazione” trascura un fatto: non esiste alcuna “costituzione pulsionale distruttiva”.
A dispetto dei moralisti e degli psicoanalisti, le persone agiscono per delle ragioni e hanno bisogno di capire se agiscono per esprimersi o per dissociarsi. Non hanno bisogno di “controllarsi” con la “forza di volontà” o di “distaccarsi” con una “terapia”. Le concezioni svalutative metafisiche, teologiche o pseudo-scientifiche non spiegano nulla e a loro volta vanno spiegate come difese psicologiche intellettualizzate. Rousseau aveva compreso la benevolenza e la distruttività più degli psicoterapeuti contemporanei: “Così nasce la pietà, primo sentimento di relazione che tocchi il cuore umano (…). Per divenire sensibile e pietoso, bisogna che il fanciullo sappia che ci sono esseri simili a lui che soffrono ciò che lui ha sofferto, che sentono i dolori che egli ha sentito, ed altri dolori che deve pensare che anch’egli potrebbe sentire” (1762, p. 180). Purtroppo, la compassione per chi soffre come noi è terribilmente “scomoda” per le persone che fin dall’infanzia evitano in tutti i modi di confrontarsi con una sofferenza che era ingestibile e continua a sembrare insopportabile.
Vedere il male “là fuori” e decretare che “non dovrebbe esserci” allontana dalla consapevolezza del dolore che fa parte dell'esistenza umana. Le concezioni etiche aggiungono solo alcuni dettagli (terribili) alla confusione creata dai valori e dalle svalutazioni. La complessa impalcatura delle concezioni etiche può sembrare il risultato di sofisticate operazioni intellettuali, ma, in realtà, i grandi filosofi hanno trasferito sul piano intellettuale le difese psicologiche dei bambini. Voglio quindi dedicare il prossimo capitolo alle colpevolizzazioni e ai sensi di colpa, che costituiscono la “materia prima” da cui derivano le concezioni speculative focalizzate sui valori, sui doveri e sulla morale.