venerdì 13 luglio 2018

10. Sensi di colpa







Ogni generazione apprende conoscenze sul modo di coltivare la terra o di costruire macchine, ma inventa (negli anni dell’infanzia) delle strategie difensive adatte ad attenuare il dolore dei rifiuti. Così ogni generazione si prepara a diventare rifiutante nei confronti della generazione successiva. Voglio riportare alcune sedute per mostrare i passaggi attraverso i quali i sensi di colpa vengono costruiti nell’infanzia e diventano in seguito “modi di pensare” di tipo svalutativo. Le filosofie, le ideologie, le religioni, le concezioni morali sono trasmesse e approfondite attraverso lezioni, prediche, pubblicazioni, dibattiti, ma non sarebbero nemmeno prese in considerazione da esseri umani impegnati fin dall’infanzia nell’avventura di creare felicità, anziché nello sforzo di vivere “poco” per negare il dolore.
Una ragazza, che chiamerò Renata, si era sempre svalutata per mantenere (illusoriamente) un legame (in realtà inesistente) con la madre.
R. Questa settimana ho dovuto combattere un po’ con certi pensieri su di me che mi procuravano delle brutte sensazioni. Dopo uno scambio di opinioni con la responsabile del negozio che mi ha trattata con un tono altezzoso, pur restando convinta delle mie ragioni, ho avuto dei “dubbi” su me stessa che mi arrivavano come coltellate. Non erano dei veri dubbi, ma erano pensieri del tipo “non sei buona a niente!”. A casa, mentre vedevo un documentario, mi ha colpita una scena in cui un gattino debilitato si riprendeva mentre la sua padrona lo teneva fra le mani e lo accarezzava. Lì mi sono detta “povera cucciolina”. Questa è stata una novità. Quindi, qualcosa sta cambiando, ma continuo ad avere pensieri e sentimenti svalutativi.
[Questa comunicazione iniziale riassume alcuni pensieri che hanno da sempre spadroneggiato nella testa di Renata. Il concetto di “buona a niente” è una svalutazione totale, che riguarda l’intera persona, anche se si origina da un dubbio sulle competenze in ambito lavorativo. Quando in analisi si cerca di lavorare su pensieri irrazionali non ci si limita a chiarire che sono irrazionali, ma soprattutto che sono attivamente prodotti per uno scopo. I modi di lavorare sulle difese sono infiniti e quello da me scelto in questa seduta è semplicemente uno dei tanti.]
GF. Immagina che io ti dica che sei una cliente pesante, faticosa, frustrante e quindi “che non vali niente” come persona.
R. (!) … Sarebbe una sorpresa. Potrei concordare con te e stare male. Potrei anche ribellarmi e cercare di dimostrare che non sono la schifezza che pensi. In realtà non cercherei di convincere te, ma di convincere me, dato che, in fondo, continuo ad essere convinta di non valere niente.
GF. E cosa ci guadagneresti? Perché non prendere in considerazione l’idea che io sia impazzito?
R. Se sei impazzito … non c’è più rapporto. Ecco! Se mi svaluto … qualcosa continua. C’è ancora un legame.
GF. Un legame immaginario, però. Tutta questa storia non verte sulle tue capacità e nemmeno sul valore di te-persona, ma solo sulla presenza o assenza di un legame: tu arrivi qua, non trovi Gianfranco e al suo posto c’è un sosia che sragiona. Che effetto ti fa questa situazione se non ti distrai svalutandoti?
R. (!) … è doloroso.
GF. Se ti senti una trentenne sei triste e se ti senti una bambina sei terribilmente sola.
R. Allora è questo il punto? Il mio vecchio bisogno rovina il mio modo di stare con gli altri?
GF. No. Il fatto che tu senta quel bisogno non è grave, anzi, è inevitabile, data la tua storia. E’ distruttivo che tu cerchi ancora di soddisfarlo. Purtroppo, per quel vecchio bisogno che senti ancora, non hai speranze. Non perché nessuno possa amarti più di tua madre, ma perché non sei più piccola e l’amore oggi ti può gratificare, ma non può risultare “rassicurante”.
R. Non è la prima volta che parliamo di questi temi, ma oggi mi sembra che tutto sia più coerente, chiaro. Sento anche qualcosa, un bisogno di piangere, “da lontano”.
Se in questa seduta Renata ha compreso che la sua auto-svalutazione era intenzionale e difensiva, l’esame della storia del cliente che chiamerò Enzo può chiarire che anche la svalutazione degli altri si spiega solo come una strategia di dissociazione da vissuti dolorosi.
Enzo, uno studente di diciannove anni, aveva fatto alcuni mesi di analisi prima di interrompere, con una scusa poco plausibile, il lavoro avviato. Mi telefona dopo un anno perché vorrebbe riprendere le sedute, nonostante le incertezze già manifestate. Gli fisso un appuntamento per un colloquio (senza limite di tempo) anziché per una seduta di un’ora, in modo che sia possibile ad entrambi fare il punto della situazione e valutare il da farsi. Enzo aveva iniziato l’analisi per sintomi e difficoltà nelle relazioni interpersonali che ruotavano attorno ad atteggiamenti sadici. Evitava accuratamente di far trapelare la violenza e la svalutazione che sentiva per gli altri, soprattutto per le ragazze e quindi non manifestava comportamenti antisociali, ma in modo indiretto (mascherando la sua violenza con atteggiamenti passivi) riusciva a far soffrire le persone. La sua violenza compariva poi a livello di fantasie sadiche, che accompagnavano la masturbazione. Si era proposto di liberarsi da tali fantasie e di diventare meno passivo nelle relazioni sociali, ma, scoprendo che il suo sadismo copriva vissuti molto dolorosi, aveva interrotto il lavoro. All’inizio del colloquio, Enzo manifesta i soliti atteggiamenti di distacco e mi dice che ha lasciato anche l’ultima ragazza nel modo peggiore, facendola sentire “una merda”. Questo gli è sembrato eccessivo e si è sentito colpevole.
GF. Umiliandola prima di scaricarla ti illudevi di ottenere qualcosa o temevi qualcosa?
E. Non sopportavo che fosse innamorata di me e che non si rendesse conto dei miei sottili rifiuti. Le ho detto cose spiacevoli, come “sei più noiosa del telegiornale”.
GF. Le hai forse detto quella frase per farla sentire importante?
E. Certo che no. In fondo mi dava soddisfazione vederla con me nonostante fossi sempre in ritardo o non avessi con me i profilattici quando avremmo potuto fare sesso. Mi dava sicurezza. Credo che mi abbia dato una sensazione di potere anche il fatto di lasciarla. Quando mi diceva cose dolci mi sentivo come un bambino, ma mi sembrava che recitasse e che non potesse davvero accettarmi. Avevo voglia di picchiarla. Le mie fantasie erotiche non sono poi così lontane dai sentimenti che provo nella vita reale.
GF. Già. Eravamo arrivati proprio a questo punto quando hai organizzato quel lungo viaggio e hai interrotto il nostro lavoro. Ora vuoi approfondire questa cosa?
E. ... Va bene.
[Lo invito ad esprimere fisicamente sul materassino la rabbia che sente nei confronti della sua ex-ragazza e a gridare le frasi che gli vengono in mente. All’inizio lavora in modo meccanico, poi entra nell’emozione e rischia di perdercisi chiudendo gli occhi. Lo interrompo e lo invito a restare “presente” mentre prova quelle emozioni. Riprende il lavoro meccanicamente, poi sente la propria rabbia senza dissociarsi. Colpisce la ragazza con le mani e le grida frasi offensive. Sfiora il pianto, ma si ferma.]
GF. Cosa senti?
E. Meno teso, ma ancora un po’ bloccato. Per un attimo mi sono visto al posto suo.
GF. E a quel punto hai sfiorato il pianto.
E. Infatti.
GF. Credo che non ci sia una guerra in corso solo fra te e le ragazze, ma anche fra te e te. Quando ti senti “piccolo”, non provi compassione per te, ma ti svaluti. Vuoi approfondire le emozioni di questa tua guerra interiore?
E. Non ne ho molta voglia. Però, proviamo.
GF. Metti davanti a te sul materassino il piccolo Enzo, quello che non si sente abbastanza forte da demolire gli altri. Resta nel ruolo (genitoriale) che occupi quando ti provochi vergogna.
E. Non sai fare niente! Sei così bravino a scuola, ma sei solo un coglione in mezzo alla gente. So che ora ti vergogni perché sai che è vero. Tu non sei niente!
GF. Cosa senti?
E. Mi sento potente. E’ bello sentirsi così.
GF. Esprimi sul piano fisico questa “potenza”.
[Colpisce il materasso e poi un cuscino. Lo spinge via e lo lancia lontano.]
GF. Chi sei, ora? Il mostro o il piccolo cuscino?
E. Non so. Provo però un po’ di pena per me. Credo che, se mia madre si fosse sentita libera di farlo, mi avrebbe scagliato via come ho fatto con quel cuscino.
GF. Puoi entrare adesso nel ruolo di te-bambino-“scagliato via”?
E [Ha gli occhi rossi; non arriva a piangere, ma è triste]. Se sto in contatto con questa roba, sento di non poter far niente. Se provo compassione è tutto finito. Devo accettare di essere quella cosa lì che non può far nulla?
GF. E’ una parte del tuo essere persona. Sei stato rifiutato quando non potevi fare nulla. Oggi puoi avere un buon rapporto con te solo se riconosci che vieni anche da quell’esperienza. Il tuo ruolo di sadico è solo un imbroglio. La tua storia di bambino maltrattato è una realtà. Però non è un destino. Oggi puoi usare la tua forza per accogliere, consolare, proteggere te stesso.
E. Questo significa cambiare “tutto”, però.
GF. Sì.
Questo frammento di lavoro analitico è a mio avviso significativo, anche se riguarda un atteggiamento caratteriale sadico abbastanza lieve. Niente di paragonabile a ciò che può esserci quando le umiliazioni dell’infanzia sono più pesanti e quando le dissociazioni sono più profonde. Tuttavia, la logica del sadismo in piccola scala può gettar luce su ciò che sentono le persone che manifestano comportamenti antisociali più gravi. Certo, fare analisi con Jack lo squartatore sarebbe più difficile che fare analisi con un giovane che prova disagio di fronte a certi pensieri “cattivi” e che al massimo è offensivo con la ragazza. Tuttavia la seduta riportata mostra che “essere cattivi” non produce alcuna soddisfazione, ma allenta semplicemente la morsa che stringe il cuore quando affiorano le lacrime per un vissuto di umiliazione e di annullamento. Possiamo respingere la malvagità altrui senza necessariamente considerare le persone in questione come dei mostri e quindi senza aggiungere la nostra irrazionalità ai comportamenti irrazionali degli altri.
Un’altra cliente, che chiamerò Barbara, con più assiduità dei fratelli assisteva la madre anziana. Mi disse in una seduta di aver provato una rabbia “strana” nei confronti della madre. Non stava riflettendo sul fatto che la rabbia è sempre difensiva nelle relazioni affettive (dato che nessuna lotta può far ottenere l’amore che si desidera), ma stava pensando che “avrebbe dovuto” essere più disponibile verso la madre. Come in altre occasioni le ho fatto presente che quella disponibilità “dovuta” non era l’undicesimo comandamento della bibbia, ma il primo e unico comandamento della madre. La mia cliente si svalutava per non riconoscere il dolore di una relazione in cui lei, da sempre, contava per ciò che dava e non per ciò che sentiva. In pratica si sottometteva, poi si arrabbiava con la madre e infine si arrabbiava con se stessa (colpevolizzandosi). Sia con la sottomissione, sia con la rabbia, sia con i sensi di colpa si dissociava dal fatto che il rapporto con la madre era sempre stato “povero”. Oggi poteva assisterla (per altre ragioni) o lasciare che una badante l’assistesse, ma non poteva ottenere nulla quando si sentiva una bambina bisognosa, dato che pur sentendosi così non era più una bambina. Poteva, invece, a differenza di quando era troppo piccola per farlo da sola, elaborare il lutto di una mancanza.
Questi esempi evidenziano che l’etica impregna il dialogo interno delle persone e la comunicazione fra le persone. Appassiona molti filosofi (fortunatamente non tutti) ma appassiona anche chi non ha fatto il liceo. Normalmente le persone non dicono “avrei voluto che tu agissi in un dato modo”, ma affermano “avresti dovuto agire in un dato modo” e con questa manovra evitano di riconoscere il proprio dolore e colpevolizzano l’interlocutore. La normale comunicazione è talmente intrisa di moralismo da costituire un furto collettivo di felicità. I “rapinatori etici”, però, non sottraggono, come i veri rapinatori, qualcosa agli altri. Non si godono alcun bottino e si limitano ad evitare il dolore sperimentando stati d’animo spiacevoli ma superficiali.
Un cliente, che chiamerò Antonio, mi disse in una seduta di aver riconosciuto l’inutilità della propria “antica” accondiscendenza, ma proprio in quel momento riattivò la sua filosofia morale su un piano “cosmico” anziché personale:
A. Sto accettando che tutti i miei sforzi di fare sempre “la cosa giusta” sono stati inutili e che non posso comprare con la mia “bontà” l’amore degli altri. Ho iniziato ad accogliere il mio pianto e in questi giorni ho evitato di irrigidirmi quando sentivo il bisogno di piangere. Però questo dolore … è troppo.
GF. Hai rinunciato all’illusione “etica” di meritarti l’amore, ma stai manifestando un’altra convinzione etica altrettanto arbitraria: non pretendi più di essere “migliore” per avere un premio, ma pretendi che la realtà sia “migliore”, nel senso di “meno dolorosa”. Da flagellante pentito sei diventato un sindacalista fervente. Continui ad essere arrabbiato perché qualcuno sbaglia e continui a pensare che se non ci fossero errori (tuoi o della “natura matrigna”) il dolore non sarebbe presente nel mondo.
Una cliente, che chiamerò Fausta, mi mostrò il presupposto moralistico celato fra le pieghe di un banale sintomo.
F. Sembra che vada indietro anziché andare avanti: questa settimana mi sono tornati (anche se in modo lieve e controllabile) gli attacchi di panico in automobile che da tempo non avevo. Ora guido, però non mi sento tranquilla.
GF. Immagina che un tuo amico ti inviti ad una festa e che tu accetti. Immagina che, pur essendo a conoscenza della tua “difficoltà”, non ti offra un passaggio e ti dica solo che se verrai (con la tua auto) sarai la benvenuta. Cosa senti, immaginando questa situazione?
F. Sono scocciata perché, sapendo in quale difficoltà mi trovo, avrebbe dovuto offrirmi un passaggio.
GF. Finché inventi questi doveri sarai costretta anche a costruire i tuoi attacchi di panico. Fuori dal mondo immaginario dei tuoi sintomi e dei tuoi “diritti”, ci sono le cose che desideri e che non puoi più avere da quando non sei più bambina. Non puoi averle anche se affermi il principio etico secondo cui le “povere orfanelle” come te hanno diritto all’accudimento dei “grandi”.
In tutti i comportamenti “educativi” è presente un ricatto affettivo. La famiglia, purtroppo cerca di “educare” i figli e così rinuncia ad accudirli. Un secolo di psicologia “scientifica” e di psicoterapia non ha prodotto alcun cambiamento su tale piano. Una cliente, che chiamerò Livia, con una discreta cultura (anche nelle materie psicologiche), nel primo colloquio mi descrisse un aspetto del suo rapporto con la figlia: “Mariella ha un carattere tosto. Si scontra con me e la sgrido. Ora a scuola si è adattata, anche se faceva fatica a concentrarsi. Io ho insistito e lei ha interiorizzato il valore dell’impegno”. Ovviamente Livia non mi ha saputo spiegare perché l’impegno costituisse un “valore” e perché la “interiorizzazione” di tale “valore” costituisse un successo. Ha fatto molta fatica a riflettere sulle sciocchezze con cui era abituata a “inquadrare” il suo rapporto con la bambina e, ovviamente, ha fatto ancora più fatica ad ammettere che non solo si era piegata, da bambina, ai capricci dei genitori, ma stava sacrificando sull’altare della sua “religione famigliare” anche la felicità di Mariella.
Poco conta che le persone siano colte o analfabete, dato che i ricatti affettivi si manifestano in tutte le famiglie. Certi genitori sorridono ad un bambino nella culla e vedono già un chirurgo o un professore, mentre altri vedono un “lavoratore instancabile” che non sprecherà anni all’università. In entrambi i casi vedono solo i propri sogni e attribuiscono ai figli la missione di realizzarli. Oltre a coltivare sogni relativi al futuro ruolo sociale dei figli, i genitori coltivano sogni che fin dai primi anni determinano svalutazioni e ricatti affettivi: il sogno che i figli “crescano in fretta”, che corrispondano ad un modello ideale (di mitezza o di “forza”), che stiano sempre “incollati alla mamma” o che si dimostrino “autonomi”. Fanno di tutto per far sentire ai figli che, al di fuori della loro gloriosa impresa, non possono valere nulla. Tale situazione motiva i figli a illudersi di essere rifiutati per un proprio errore (superabile) perché con tale illusione soffocano la consapevolezza dolorosa di essere poco importanti per i genitori “persi” nei propri sogni. Ovviamente, i genitori fanno del male ai figli senza rendersene conto. Pensano di fare il loro bene mentre inconsapevolmente cercano di ottenere da loro quella “attenzione” mai sperimentata quando erano piccoli.
Proprio le persone con cui ho lavorato mi hanno illustrato il “segreto” che i maestri della filosofia morale laica o religiosa hanno sempre tenuto accuratamente celato: nessuno è “tentato” dal “male”, ma quando le persone fanno del male evitano di accettare aspetti dolorosi della realtà che nell’infanzia non potevano tollerare e che, invece, da adulti hanno bisogno di affrontare, ma temono. Un’umanità terrorizzata non ha bisogno di principi morali più solidi, perché proprio grazie all’etica continua a non comprendere il processo sociale involutivo in cui si è smarrita. La benevolenza può essere spiegata dalla teoria dell’evoluzione, mentre sia la malvagità, sia l’etica vanno spiegate tenendo conto della paura e soprattutto della paura del dolore psicologico sperimentato nell’infanzia.
Le spietate analisi dell’etica compiute nell’ambito dell’analisi logica del linguaggio non hanno inciso, purtroppo, sui modi di “pensare” della gente comune e nemmeno sull’ingombrante parte della filosofia accademica che continua ad esaminare in termini speculativi il ruolo della normatività nella condotta umana. Nelle prime pagine di uno dei suoi testi dedicati proprio alla normatività (1996) Christine M. Korsgaard afferma che  l’etica ha una sua realtà indipendentemente dal fatto che abbia radici sociali o biologiche e che noi dobbiamo cercare una fondazione filosofica dell’etica: “Ci stiamo chiedendo cosa giustifichi le pretese che la moralità avanza nei nostri confronti” (p. 30). In questa frase che, non a caso, include la parola “pretese” possiamo trovare il nucleo della storia della morale occidentale e orientale e dei sensi di colpa di tutti gli esseri umani. Se siamo dispiaciuti per un errore che ha danneggiato qualcuno siamo semplicemente in una relazione empatica e non stiamo né giocando con pensieri etico-metafisici né attivando sensi di colpa. Se ci svalutiamo perché abbiamo fatto un errore che “non avremmo dovuto commettere”, stiamo soltanto affermando un’immagine “spendibile” di noi stessi.
Il senso di colpa, infatti, costituisce una violenta dissociazione: colpevolizzandoci calpestiamo ciò che sentiamo per ribadire la nostra appartenenza ad un gruppo che ci disprezza, ma di cui non vogliamo riconoscere il rifiuto. Chi cerca di salvare una persona cara rischiando la propria vita non è preso da un conflitto fra il desiderio di salvarsi e la “pretesa” della coscienza: desidera salvare la propria vita, ma desidera soprattutto salvare la vita che ha in mente e che è “completa” solo se anche l’altra persona è salva. L'etica, quindi, non serve nemmeno per spiegare i gesti considerati eroici: serve solo a conservare illusioni infantili di accettazione.
Purtroppo, sperimentiamo l’indifferenza, i ricatti, le pressioni, i rifiuti e le violenze proprio negli anni in cui non siamo ancora in grado di tollerare la solitudine. Dopo venti o quarant’anni continuiamo a sentirci colpevoli nelle situazioni contrassegnate nell’infanzia come “ingestibili” o in situazioni simili. E magari, se siamo intelligenti e abbiamo studiato, scriviamo libri sulle “pretese” della morale. E’ un fatto che una donna islamica si sentirebbe colpevole se non indossasse un velo, come è un fatto che le donne occidentali non si sentono colpevoli a mostrare il viso a tutti. Hanno una “coscienza morale” diversa? Quando la nostra “voce della coscienza” sussurra (o urla) qualcosa stiamo sempre riascoltando qualche persona in carne e ossa che non ci ama e che non vogliamo riconoscere come rifiutante.
Christine Korsgaard mostra in modo limpido (e sconfortante) questo fatto quando afferma: “Così, quando pensate che una caratteristica sia una virtù, sperate di averla o vi vergognate di non averla” (p. 32). I bambini “funzionano” proprio così quando sono incalzati dai ricatti affettivi dei genitori e, infatti, quelli con genitori privi di aspirazioni “sportive” temono più i voti bassi in italiano di quelli in educazione fisica. Tale atteggiamento non ha nulla di filosofico. Un essere umano in grado di esprimere le proprie potenzialità cognitive ed emotive, è consapevole delle ragioni per cui agisce e non si cura molto del fatto che gli altri considerino virtuosi o ignobili i suoi comportamenti.
La psicologia (una psicologia scientifica, razionale, coerente e basata su fatti accertati) potrebbe offrire un grandissimo contributo alla dissoluzione delle concezioni morali e al mutamento degli attuali rapporti fra bambini, genitori ed educatori. Purtroppo, i (pochi) studiosi che hanno offerto contributi in tale direzione sono rimasti ai margini di un’ampia cultura psicologica e psicoterapeutica fondamentalmente orientata a confermare il conformismo sociale che include il moralismo (religioso e laico) e l’autoritarismo “educativo”. Tutte le conoscenze relative alla formazione della struttura caratteriale (Reich, 1945), quelle relative al bisogno di sicurezza dei bambini (Bowlby 1988) e quelle relative all’intenzionalità inconscia delle difese psicologiche (Schafer, 1976) costituiscono l’impalcatura di una possibile teoria scientifica capace di recidere le radici psicologiche delle concezioni etiche (già messe in discussione dai filosofi della scienza). La psicologia, purtroppo, ha sempre evitato di svolgere tale compito perché richiedeva un approfondimento del ruolo del dolore nell’esistenza umana e un’analisi critica di tutta la cultura. Psicologi e psicoterapeuti non possono mettere in discussione l’etica, il moralismo educativo e l’autoritarismo sociale perché, se lo facessero, perderebbero il riconoscimento sociale che hanno cercato di ottenere proprio contrapponendo le “patologie psichiche” alla normalità.
Un abisso separa due frasi egualmente “forti”: “Se non mi aiuti, come farò? Ti prego!” e “Se sei un vero amico devi aiutarmi. Non deludermi!”. Nel primo caso c’è una chiara richiesta, senza condizioni, rivolta all’altra persona, nel secondo caso, invece, è implicito che il mancato aiuto comporterà una svalutazione della persona interpellata. Il richiamo al dovere sembra una sollecitazione a riconoscere dei “fatti”: a) esistono amici “veri” e amici “non veri”, b) gli amici “non veri” non hanno “valore”, non sono quindi accettabili e non possono essere amati, c) il mancato aiuto è la prova di un “difetto di umanità” che inevitabilmente determinerà il rifiuto. Queste tre frasi non stanno in piedi, ma costituiscono un contratto unilaterale, non esplicitato “onestamente” e soprattutto una manipolazione tentata sul piano personale. Il contratto unilaterale è questo: “Il mancato aiuto sarà punito con la cancellazione affettiva”. La disonestà del messaggio consiste nel fatto che il contratto unilaterale (cioè la pretesa e la minaccia) è “confezionato” in modo da sembrare una semplice descrizione della realtà. La manipolazione consiste nel fatto che se noi manifestiamo un amore condizionale non manifestiamo alcun amore e quindi non proviamo amicizia. L’amicizia (o almeno ciò che in queste pagine definisco amicizia, affetto o amore) presuppone proprio la mancanza di pretese. Ha senso dire in un consiglio d’amministrazione o in un’associazione “se non si fa così rassegno le mie dimissioni”, ma non ha alcun senso dichiarare un’amicizia o un amore che “scomparirà” appena una pretesa non verrà assecondata. L’imbroglio, quindi, sta nel fatto che tutta l’espressione “drammatica” significa semplicemente “io non ti amo, ma voglio da te delle cose”. Questa terribile realtà interpersonale in cui l’amore è assente, le pretese sono forti e le parole sono usate per manipolare psicologicamente gli altri (o almeno per tentare di farlo) tirando in ballo i “doveri”, purtroppo, costituisce la normalità. Imbrogli di questo tipo (inconsci, ma intenzionali) si verificano prima di tutto fra genitori e figli, poi nelle relazioni di coppia (sia da parte degli uomini che da parte dalle donne), nelle relazioni di “amicizia” e in tutte le relazioni in cui si implica una benevolenza, un affetto o un amore che in realtà non esistono.
Ora, c’è un motivo per cui è relativamente facile smascherare le manipolazioni psicologiche in un contesto pratico mentre è molto difficile smascherare analoghe manipolazioni in una relazione affettiva. Se un agente di commercio dice “Vedo benissimo che lei è una persona intelligente e quindi capirà facilmente che il mio prodotto è il migliore per le sue esigenze”, l’interlocutore non ha difficoltà ad evitare la banale trappola psicologica. Al contrario, se un/una amante dice alla/al partner “Se mi ami devi darmi ancora un po’ di tempo per il divorzio” (dopo tre o cinque anni di relazione clandestina!), la persona così “sollecitata” tenderà a restare in attesa con ansia, rabbia disconosciuta ed eventuali sintomi psicologici o psicosomatici. Sentirà il bisogno di non dire (e non dirsi): “Sei tu che non mi ami e che dichiari un coinvolgimento che non senti”. Perché le persone sono così scaltre e filosoficamente competenti quando si tratta di affari e sono così “ingenue” ed inclini alla metafisica quando c’è di mezzo “l’amore”? La risposta è dolorosa: per mantenere un’illusione d’amore le persone usano tutti i tipi di “spazzatura filosofica”. L’unica spiegazione plausibile di questa diffusa confusione sta nel fatto che i bambini commerciano poco, ma dipendono totalmente sul piano affettivo dai genitori. Non tollerano nemmeno il sospetto di non essere amati e di non poterci fare nulla. Riescono a stare in ansia e anche ad odiarsi pur di non accettare che chi manipola non lo fa mai per amore. Frasi del tipo “Noi lavoriamo sodo e lo facciamo per te e quindi tu devi studiare”, oppure insulti abituali come “sei cattivo”” o “vergognati” o “fai piangere la mamma” o “fai arrabbiare papà”, costituiscono colpevolizzazioni devastanti. Purtroppo, i bambini, dopo venti o cinquant’anni continuano a considerare sensati i ricatti affettivi e, se sono intelligenti, li riformulano su un piano filosofico.
Martin L. Hoffman ha cercato di approfondire il rapporto fra empatia, altruismo e sensi di colpa e di “dilatare” la consolidata interpretazione psicoanalitica di tali concetti. Nel libro Empatia e sviluppo morale (2000), Hoffman espone i risultati delle sue ricerche affermando in modo articolato la tesi secondo cui l’empatia costituisce la base della moralità. Purtroppo, l’autore utilizza il termine moralità in modo inappropriato, perché l’empatia sta alla base della compassione e della benevolenza e non delle manipolazioni e delle speculazioni etiche. Nel libro, quindi, espone idee molto discutibili sull’altruismo e sul senso di colpa.
L’opposizione fra egoismo ed altruismo è piantata come un chiodo arrugginito nella carne della nostra cultura. La mentalità moralistica produce idee che mutilano persino il linguaggio: infatti non abbiamo le parole con cui indicare il “buon egoismo” (l’aver cura di sé) ed il “cattivo altruismo” (fare del bene agli altri per sentirsi “accettati” e “meritevoli” di amore). Nei dizionari troviamo solo definizioni negative dell’egoismo e definizioni positive dell’altruismo e ricaviamo facilmente da ciò proprio l’idea (errata) di un conflitto basilare fra l’amore per noi stessi e l’amore per gli altri. Sarebbe compito dei filosofi analizzare tali perversioni del pensiero e del linguaggio, così come sarebbe compito degli psicologi chiarire le ragioni che conducono a tali disastri. Purtroppo, l’analisi critica dei concetti di dovere e di colpa è estranea alla cultura contemporanea.
Il senso di colpa è essenzialmente rabbia verso se stessi, mentre il dispiacere risultante dall’empatia è essenzialmente amore per la persona a cui si è causato un dispiacere. Il senso di colpa riflette proprio una mancanza di empatia e dipende dalla paura (di subire il rifiuto degli altri) e dalla rabbia (difensiva) verso se stessi. Il senso di colpa non si sviluppa spontaneamente, ma viene costruito dai bambini come risposta difensiva ai ricatti affettivi. Purtroppo Hoffman non coglie questa opposizione fondamentale fra dispiacere empatico e senso di colpa e nel suo lavoro colloca questi due stati d’animo in un continuum. L’autore è accurato nel raccogliere vari dati relativi alle tappe attraverso le quali l’essere umano raggiunge la capacità di manifestare risposte empatiche, ma confonde lo sviluppo dell’empatia con lo sviluppo del senso di colpa che, a suo parere “agisce come motivazione morale prosociale” (2000, p. 30). Secondo Hoffman, infatti, i ricatti affettivi vanno usati, anche se con moderazione.
Anche Martha C. Nussbaum esprime una posizione inquietante sul tema in questione. Questa autrice, ad esempio, scrive: “La compassione, quindi, poggia su basi molto instabili. (…) La nostra analisi non ci ha rivelato solo problemi, comunque. Ci ha rivelato anche risorse, a cui la personalità può fare appello per affrontarli. Una, chiaramente, è lo svilupparsi dell’amore, dell’interesse per gli altri e del senso di colpa (…) Un’altra è la capacità di soffrire per una perdita” (2001, pp. 420-421). Di fatto, l’’idea del senso di colpa come “risorsa” inquina le riflessioni della Nussbaum come quelle di Hoffman. Non ci serve alcuna nuova teorizzazione volta a giustificare i sensi di colpa, ma una comprensione del fatto che ciò che Freud ha ricapitolato e spiegato in quei termini non ha nulla a che fare con l’empatia e con i comportamenti "prosociali". Il senso di colpa è un cancro autoprodotto dai bambini per mantenere un rapporto illusorio con genitori colpevolizzanti e privi di disponibilità affettiva.
Le considerazioni fin qui svolte conducono al doloroso riconoscimento di una vera tragedia sociale che si perpetua da tempo immemorabile: le difese psicologiche, in quanto processi dissociativi conducono inevitabilmente ad atteggiamenti svalutativi. I bambini, svalutandosi, diventano intolleranti nei confronti di ogni manifestazione di quella libertà espressiva a cui hanno rinunciato. Per questo motivo disprezzano o deridono o escludono i coetanei diversi da loro. Per questo motivo, crescendo, giustificano in modi diversi (che dipendono anche da variabili culturali) il loro odio per le persone che non risultano socialmente o moralmente “accettabili”. In questo incubo sociale la violenza cieca e ottusa della svalutazione e del senso di colpa non viene manifestata come un sintomo isolato, ma viene anche “giustificata”. L’incubo dell’incubo è costituito proprio dalla giustificazione dell’incubo, e tale “meta-incubo” è l’etica. Se la paura dei dolorosi rifiuti costringe i bambini a diventare irrazionali ed a mantenere un progetto esistenziale irrazionale negli anni della maturità, l’etica fornisce la giustificazione intellettuale di tale processo.
La psicoanalisi non ha mai chiarito che il senso di colpa è sempre e comunque irrazionale, distruttivo e difensivo. Concependo il senso di colpa come il risultato di una conflittualità praticamente inevitabile fra il Super-io e le pulsioni “naturali”, erotiche e distruttive, la psicoanalisi può al massimo prospettare un equilibrio ottimale dovuto ad un Super-io non troppo severo. Concependo le difese psicologiche come meccanismi con cui “l’Io” si protegge dalle “pretese pulsionali” (Freud 1925, p. 310) anziché come una strategia che protegge dalla consapevolezza del dolore (come se le nostre “pulsioni” fossero in quanto tali pericolose), la psicoanalisi ha rinnovato (confermandola, quindi) l’idea di una conflittualità “interna”. Una conflittualità “psichica” più che morale, ma tale da occultare il fatto che i sensi di colpa sono difensivi e vengono costruiti in un contesto interpersonale e famigliare svalutativo.
Noi non abbiamo mai delle vere ragioni per provare sensi di colpa. Possiamo provare dispiacere se ci rendiamo conto di aver causato sofferenze ad altri, ma su un piano razionale non possiamo sentirci colpevoli e svalutarci. Se qualcuno mi facesse un torto non mi conforterebbe sapere che questi si è dato venti frustate perché si odiava, mentre apprezzerei che si scusasse, che partecipasse al mio dispiacere e magari facesse un atto riparativo. Melanie Klein ha portato alle estreme conseguenze la concezione freudiana della immaginaria lotta intrapsichica fra Eros e Thanatos (o pulsione di morte): nella sua concezione, l’amore e l’odio sorgono naturalmente nella mente infantile e il loro conflitto è inevitabile, come pure la paura di perdere la figura d’accudimento che si ama e che inevitabilmente si odia. Per questa esponente della psicoanalisi, quindi, i sentimenti di colpa e di angoscia costituiscono un aspetto ineliminabile della stessa emozione amorosa (cfr. Klein-Riviere, 1937, p. 64). Chiusi in un orizzonte mentale pulsionale-biologistico gli psicoanalisti non chiedono mai ai clienti che si sentono in colpa “cosa ci guadagni a sentirti male in questo modo?” oppure “quale dolore eviti di sentire perseguitandoti?”. Cercano solo di ridurre il disagio psicologico.
Proprio la consapevolezza della solitudine antica, unita alla sensazione di poter tollerare (nell’età adulta) il dolore dei vissuti di rifiuto, consente alle persone in analisi di modificare la loro identità svalutata. Chi fa questo percorso analitico e razionale (non psicoanalitico e non psicoterapeutico) può rinunciare alla sensazione illusoria di “appartenenza” generata dai sensi di colpa, che solo nell’infanzia era “meglio di niente”. Ciò è importantissimo perché, come da piccoli avevamo bisogno di una figura di accudimento (esterna), nella vita adulta abbiamo veramente bisogno di un buon rapporto con noi stessi. Gli altri rapporti possono darci un piacere piccolo o grandissimo, ma mai un reale “sostegno” e riusciamo ad apprezzare veramente la vicinanza degli altri solo se possiamo contare su un buon rapporto con noi stessi.