Il
verbo dovere è utilizzato in molti
modi. Dicendo “Dovevi essere molto stanco, dato che ti sei addormentato al
cinema” si esprime solo una congettura e facendo presente che si deve
invecchiare e morire si riconosce un fatto inevitabile. Passando ad altri usi
del verbo dovere e soprattutto del sostantivo “il dovere” e dell’aggettivo
“doveroso”, notiamo che si parla di doveri per indicare sia obblighi “etici”,
sia obblighi di legge, sia semplici adeguamenti a consuetudini o rituali
sociali. Ciò che mi interessa approfondire ora è proprio questo significato del
termine dovere.
Sia
dicendo “Ti devo pagare”, sia dicendo “Mi devi rispetto” non affermiamo
qualcosa di necessario nel senso di inevitabile, ma di necessario nel senso di obbligatorio. Ora, la cosa che merita
di essere chiarita e che per secoli è stata oggetto di accese dispute
filosofiche è proprio tale “necessità”,
che non è “data” (ad esempio, dalle leggi di natura) ma è affermata a proposito di ciò che le persone possono fare o non fare. Non si afferma, infatti, il dovere di manifestare dei riflessi
e nemmeno si afferma il dovere di fare cose impossibili, ma sempre e solo il
dovere di fare proprio ciò che le persone possono fare, ma potrebbero anche non
voler fare.
A
questo punto è importante capire cosa renda
doveroso un comportamento
semplicemente possibile, dato che la sua necessità non è “data”. Mentre la necessità delle leggi di natura dipende da
sequenze causali, le azioni definite doverose non sono riferite a cause.
Nessuna concezione metafisica “naturalistica” o teologica del dovere ha chiarito
in modo convincente la presunta obbligatorietà delle norme etiche. Tali
concezioni non solo non hanno spiegato come mai le ipotetiche “leggi etiche” (a
differenza di quelle “della natura”) siano frequentemente violate, ma non hanno
spiegato nemmeno le tante interpretazioni di tali “leggi”, che variano a
seconda dei luoghi e dei tempi.
In
realtà, il concetto di dovere delinea qualche conseguenza di un’azione e non descrive un fatto. Prospetta conseguenze negative in caso di disobbedienza. A chi descrive un semplice fatto non si può chiedere “se no?”, perché quell’enunciato è
vero o falso e non prospetta conseguenze,
ma a chi impone o tenta di imporre un dovere si può (utilmente) replicare “se
no?”. Le leggi socialmente stabilite costituiscono prescrizioni non sempre condivisibili,
ma “limpide”, nel senso che esplicitano la punizione che costituisce la
conseguenza di ogni trasgressione. Le prescrizioni etiche, invece, non sono
caratterizzate da tale limpidezza perché implicano una immaginaria corrispondenza fra la norma, chi la impone e chi la
deve rispettare. Se passiamo dal “se rubi sarai punito” al “se non mi aiuti non
sei un vero amico”, usciamo dall’ambito della razionalità. Infatti, la seconda
frase costituisce un ricatto affettivo, cioè qualcosa di paradossale. Se io
provo amicizia, non ricatto affettivamente l’amico: lo ringrazio se mi aiuta e
mi arrangio se non mi aiuta. In pratica, col ricatto affettivo implico una mia
amicizia (inesistente) e minaccio l’altra persona di essere punito con la
perdita di tale amicizia (inesistente). Non solo: definisco la sua amicizia come
qualcosa che, come tale, comporta il desiderio o la disponibilità ad aiutarmi. Tale
definizione di amicizia è però arbitraria: un amico può essere disposto anche a rischiare la vita per me, ma non ad aiutarmi
se posso cavarmela da solo. Tutto l’ambito del dovere inteso in senso morale è
intriso di inganni, equivoci e manipolazioni. Funziona con i bambini che hanno
bisogno di fidarsi degli adulti e funziona anche con gli adulti solo perché
essi continuano ad inseguire i loro sogni infantili. Nell’etica le pretese
individuali (o di un gruppo) vengono “confezionate” in modo da sembrare descrizioni della realtà
oggettiva: una realtà popolata da principi morali, valori, colpe, doveri e interpretata dalla “voce della coscienza”. Stranamente, tale “voce” dice cose molto diverse
in tempi e luoghi diversi, ma in ogni circostanza è considerata “evidente”,
mentre le pretese di chi afferma l’evidenza dei doveri sono ritenute davvero reali.
Il
concetto di dovere affermato in termini “etici” implica la minaccia di una
svalutazione e di un rifiuto; soprattutto occulta tale minaccia/ricatto suggerendo che tale dovere non sia imposto, ma sia “oggettivamente dato”,
e sia conoscibile proprio dal soggetto in questione, o meglio dalla sua
“coscienza”. Una coscienza che, non a
caso, riflette le pretese di chi cerca di imporre i doveri. Una mia giovane
cliente, che aveva evitato di fare del sesso con un ragazzo con cui non aveva
alcun "progetto serio", ma da cui si sentiva attratta e da cui era
corteggiata, mi stava parlando delle ragioni del suo comportamento ricorrendo a
tautologie del tipo "il sesso senza una profonda intimità è superficiale"
o ad ovvietà (comunque irrilevanti) del tipo "è più bello fare l'amore che
fare solo del sesso". Alle mie obiezioni del tipo "è più bello
viaggiare in elicottero che in treno, ma si viaggia anche in treno se non si ha
un elicottero" rispondeva irritata, ma senza offrire alcuna seria
argomentazione. Lavorando sulla questione arrivò a scoprire una cosa molto
interessante: "Io non potrei mai
dire a mia madre che ho voglia di fare sesso. Posso solo dirle che spero di
incontrare il ragazzo giusto con cui vivere una ‘vera’ storia d'amore".
Questo
piccolo esempio rivela una grande tragedia. L’uso inappropriato del concetto di
dovere è solo la punta di un iceberg. La grande massa che sostiene tale “punta
verbalizzata” è costituita dalla radicata e diffusa svalutazione delle persone.
La svalutazione falcia chiunque osi “disturbare” le illusioni difensive, le
rigidità mentali, il bisogno di non
sapere. La logica e le conoscenze basate sui fatti non consentono di
giustificare alcun dovere, perché i doveri non si giustificano come le
affermazioni (che possono essere vere o false). David Hume ha dimostrato
l’insostenibilità della “necessità” attribuita ai doveri e ha dimostrato
l’impossibilità di slittare ragionevolmente dal piano dell’essere a quello del dover
essere. In qualche misura si è anche mostrato consapevole dell’intenzione manipolativa
di chi afferma ipotetici doveri, perché ha evidenziato che il passaggio dalle
affermazioni sui fatti a quelle sui doveri avviene in modo subdolo, così da
apparire “ovvio” anziché arbitrario. Le sue scarne, lapidarie riflessioni
sull’argomento rispondono in modo razionale e definitivo a domande che purtroppo
continuano a “suscitare dibattiti” di tipo etico o metaetico: “In ogni sistema
di morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore va
avanti per un po’ ragionando nel modo consueto (…) poi tutto a un tratto scopro
con sorpresa che al posto delle abituali copule è e non è incontro solo
proposizioni che sono collegate con un deve
o un non deve; si tratta di un
cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza.
Infatti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione
o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che
allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile
ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre
relazioni da essa completamente differenti” (1739-1740, pp. 496-497). A parte
il linguaggio inevitabilmente “datato”, Hume esplicita in modo limpido
l’impossibilità di ricavare da enunciati sui fatti qualsiasi conseguenza
relativa ai doveri.
Bertrand
Russell è stato ben consapevole delle conseguenze dei modi scorretti di
ragionare: “Gli errori logici hanno, penso, maggiore importanza pratica di
quanto la gente non creda; essi permettono a chi li commette di avere poi
l’opinione che preferisce su qualsiasi argomento” (1945, p. 140). Spinto da
tale preoccupazione egli ha sottolineato in un saggio dedicato proprio a tale
questione che le affermazioni morali sembrano dire qualcosa sulla realtà
oggettiva, ma non esprimono altro che dei desideri soggettivi: “Il solo
argomento riguardante l’etica che posso considerare propriamente filosofico è
quello secondo cui i giudizi etici dovrebbero essere espressi nel modo
ottativo, e non nell’indicativo” (1946, p. 181). In pratica, dovrebbero esplicitare dei desideri anziché essere
formulati come descrizioni della realtà. Così egli prosegue: “Se un uomo
afferma che il piacere è bene di per sé e un altro lo nega, quale è la
differenza fra di loro? Io sostengo che i due uomini differiscono per quanto
desiderano, non per quanto asseriscono, perché non asseriscono nulla” (1946, p.
183). Su questa base Russell e altri filosofi della scienza hanno affermato che
gli enunciati etici non hanno alcun
significato conoscitivo: hanno un significato emotivo perché riflettono
degli stati d’animo, ma non descrivono, né spiegano nulla e generano gravi
equivoci.
Anche
Rudolf Carnap (1932) ha affrontato tale questione affermando che mentre l’arte
è adatta ad esprimere dei sentimenti (e per questo possiamo apprezzare o meno
un musicista o un pittore, ma non possiamo dichiarare falsa una sua opera), la
metafisica in generale e l’etica in particolare esprimono sentimenti in modo
scorretto, dando cioè l’impressione di descrivere o spiegare dei fatti. Ciò che
i filosofi impegnati nell’analisi logica del linguaggio non hanno chiarito è la
questione che sorge appena si comprende l’equivoco basilare su cui poggia la
metafisica in generale (e l’etica in particolare): come mai persino degli
intellettuali autorevoli si impegnano a fare speculazioni metafisiche (e quindi
anche etiche)? Credo che i filosofi speculativi abbiano dedicato (o sprecato)
la loro intelligenza a confondere l’espressione dei loro sentimenti con
affermazioni sulla realtà oggettiva perché non volevano affatto esprimere sentimenti comprensibili:
volevano controllare i sentimenti ed esprimere (in termini scorretti,
pseudo-conoscitivi) la loro paura dei sentimenti.
Psicologi
e psicoterapeuti avrebbero potuto aggiungere alle analisi logiche dei filosofi della
scienza delle ulteriori considerazioni relative al bisogno (difensivo) di
bloccare la consapevolezza dei sentimenti e, soprattutto, del dolore.
Purtroppo, ben pochi di loro hanno offerto contributi in tal senso. Il nesso
fra analisi filosofica e psicologica dell’etica è stato evidenziato da Alfred
J. Ayer: “Per noi la filosofia etica consiste semplicemente nel dire che i
concetti etici sono pseudo-concetti, e che pertanto non sono analizzabili. Il
compito successivo, di descrivere i diversi sentimenti espressi nell’uso dei
diversi termini etici e le diverse reazioni che tali termini sogliono
provocare, è di pertinenza dello psicologo” (1946, p. 145). Purtroppo, le cose
non sono andate molto bene, anche se Ayer ha persino dato una traccia, generica
ma sensata, agli psicologi: “una delle cause principali del comportamento
morale è il timore, cosciente o inconscio, di dispiacere a un dio e di
inimicarsi la società” (1946, p. 146). In realtà, il timore determinante è
quello dei bambini e riguarda i rifiuti dei genitori. Tuttavia, sottolineando
il ruolo della paura, questo filosofo ha dato una direzione a possibili linee
di ricerca psicologica.
I
quesiti posti da Socrate (se gli dei amino la pietà perché è pio farlo o se sia
pio farlo perché gli dei amano la pietà, oppure quale sia il motivo per cui è
meglio subire il male che farlo, e così via) hanno ricevuto risposte dai
filosofi medioevali e continuano ad essere presi in considerazione dai filosofi
inclini alle speculazioni metafisiche, pur essendo mal posti. Hannah Arendt, ad
esempio, scrive: “La morale concerne l’individuo nella sua singolarità. Il
criterio del giusto e dell’ingiusto, la risposta alla domanda ‘cosa devo fare?’
non dipende in sostanza dagli usi e dai costumi che io mi trovo a condividere
con chi mi vive accanto, né da un comando di origine divina o umana – dipende
solo da ciò che io decido di fare guardando me stesso. In altre parole, io non
posso fare certe cose poiché facendole so che non potrei più vivere con me
stesso” (Arendt, 2003, ed. post., p. 58). Questo modo di vedere le cose, però,
è quello dei bambini terrorizzati dal rifiuto delle figure di accudimento. Gli
adulti (o almeno gli adulti che non vivono come bambini) convivono con il fatto
di aver commesso degli errori e, comprendendoli, migliorano la loro vita. Se
compiono buone azioni non agiscono per il timore di essere svalutati, ma perché
provano benevolenza. La Arendt riconduce, quindi, l’etica al dialogo interno,
ma non riconosce che un dialogo interno davvero sincero verte su ciò che si desidera, sia ama e si sente, non sulla
svalutazione di sé. Il dialogo interno da lei descritto è solo
l’interiorizzazione (difensiva) di un dialogo “esterno”: quello fra bambini e
genitori rifiutanti.
Con
la speculazione filosofica non si possono trovare risposte a domande di tipo
psicologico, così come non si sono mai trovate risposte filosofiche alle
domande a cui hanno invece risposto la fisica o la biologia. “Tutti i tentativi
compiuti dai filosofi per stabilire l’etica come sistema conoscitivo sono
falliti. (…) Quando cerchiamo delle norme etiche non dobbiamo imitare i
procedimenti della scienza; questa ci dice quello che è, non quello che
dovrebbe essere” (Reichenbach, 1951, p. 277). Il bene, nel senso più lato,
riconducibile alla ricerca della nostra felicità e di quella dei nostri cari e,
in generale, dei nostri simili, ha le sue radici nelle capacità sviluppate
dagli animali sociali, dai primati e dalla nostra specie. E’ un fatto, non un
problema. Il male è, purtroppo, un altro fatto, ma genera domande che richiedono
risposte rigorose di tipo psicologico. Il male non è desiderabile da parte di
nessuno, ma viene attuato quando è presente la pressione della paura. Chi
travolge e calpesta in un edificio in fiamme delle persone che, in condizioni
normali, avrebbe trattato con gentilezza, non ha alcuna intenzione di “fare del
male”. In altri casi la pressione non è quella del panico generato da un
incendio “oggettivamente dato”, ma è quella di un panico “soggettivamente
dato”: la paura di non avere “onore”, di dimostrare “debolezza”, di non essere
“nessuno”. I bambini non sanno di essere “qualcuno” e, per sentirsi importanti
hanno bisogno delle conferme dei genitori. Gli adulti possono invece mantenere le loro convinzioni anche in una comunità di fanatici. I temi
tradizionalmente delegati all’etica richiedono analisi accurate, di tipo
psicologico, relative alla gestione del dolore: il dolore dell’esistenza umana
come tale, il dolore di un’infanzia priva di sicurezze psicologiche e anche il
dolore dell’appartenenza ad una società che crea illusioni condivise e genera
violenza. Per questo motivo l’etica non costituisce un elemento di continuità,
ma di netta discontinuità rispetto
all’empatia affiorata nella storia degli animali sociali, dei primati e
degli esseri umani.
L’idea
che ci si possa utilmente sbarazzare dei concetti basilari della filosofia morale è stata
espressa da G. E. M. Anscombe e l’idea che il concetto di dovere come obbligo
morale sia un’illusione è stata espressa da Bernard Williams (cfr. Fonnesu,
1998, p. 7), ma dopo un secolo trascorso dalla “rivoluzione antimetafisica” del
Circolo di Vienna, la filosofia morale è ancora una rispettabile disciplina
accademica e in ogni dibattito politico, in ogni resoconto giornalistico e in
ogni discussione al bar, la morale (o qualche tipo di affermazione morale)
costituisce il filo conduttore delle “argomentazioni” sviluppate. Per questo,
persino nei testi degli etologi e dei primatologi compaiono ossimori come
l’espressione “sentimenti morali”.
Oggi, come nel
Medio Evo, le varie manifestazioni dell’irrazionalità e della distruttività
umana sono interpretate o come l’esito di “scelte libere” (che rendono le
persone moralmente responsabili, colpevoli e quindi da svalutare) o come “non
scelte” causate da patologie psichiche (che rendono le persone psicologicamente
irresponsabili e quindi da curare). In questo orizzonte concettuale che univa
nell’antichità moralisti e sciamani e che lega oggi moralisti e psicoterapeuti,
non ha spazio l’idea che l’irrazionalità
e la distruttività possano essere manifestate dalle persone per delle ragioni e
in particolare per delle ragioni inconsce di tipo difensivo.
Anche
se è ragionevole considerare assurde moltissime leggi, si deve riconoscere che
è utile, necessario e praticamente inevitabile che qualsiasi comunità o Stato
stabilisca e faccia rispettare delle norme (e quindi imponga dei doveri). Se
infrango la legge, per il giudice e per l’intera comunità risulto una persona
indegna di stima (cioè di qualcosa
che si merita), ma non divento una persona indegna di rispetto o di compassione
o di amore. Se invece non rispetto i principi di un certo sistema etico, chi mi
condanna mi considera inevitabilmente inaccettabile come persona, proprio perché dal suo punto di vista “ho scelto il
male” mentre avrei potuto e dovuto scegliere il bene. Al massimo posso essere
perdonato, ma anche il perdono implica una svalutazione. Molti aspetti del
diritto meriterebbero correzioni ed approfondimenti sul piano filosofico e
soprattutto psicologico (come ad esempio la nozione tutt’altro che ovvia di
“libertà di intendere e di volere”), ma ciò che qui voglio evidenziare è
proprio l’irrazionalità della filosofia morale. Chi afferma che il diritto
costituisce un’applicazione di principi morali, sbaglia, perché il diritto è un
insieme di convenzioni (più o meno ragionevoli) che risultano da rapporti di
potere, da ideologie condivise e dai modi (più o meno empatici) di sentire che
prevalgono in una comunità. L’idea di un diritto che “riflette” l’etica non
spiega perché nel mondo siano operanti sistemi legali tanto diversi. Non
c’è alcuna necessità di parlare di “moralizzazione della politica” se si
desidera contrastare la diffusa corruzione e non c’è alcuna necessità di
utilizzare il termine “bioetica” per discutere temi emotivamente o
esistenzialmente delicati (e non certo “eticamente sensibili”).
Riducendo
la benevolenza ad un dovere e svalutando la distruttività, l’etica ostacola, da sempre, la comprensione del fatto che la benevolenza è un’esigenza umana (non un ideale o un obbligo) e
che la distruttività è generata da paure irrazionali che solo nell’infanzia
sono comprensibili. Ciò che è scomodo da riconoscere, ma che corrisponde
alla realtà (e che per questo motivo va accettato, anche se costa dolore), è il
fatto che nulla ci garantisce che gli esseri umani agiscano umanamente, cioè
esprimendo il loro potenziale personale, dato che tradiscono se stessi e gli
altri appena cominciano a temere di sentire “troppo”. Quando
le persone “sensibili all’etica” rinunciano, nel percorso analitico, alle loro false
certezze, diventano davvero capaci di manifestare benevolenza. La rinuncia alla
presunta razionalità dell’etica non conduce affatto all’irrazionalità del soggettivismo
nichilista (che costituisce l’altra faccia della stessa medaglia), ma conduce
alla razionalità, all’onesta accettazione della realtà e alla compassione.
L’accettazione di questi fatti è difficile perché la conoscenza del dolore è
scarsa in una società in cui la cultura normalmente soffoca la consapevolezza
del dolore.
Secondo Sartre "non abbiamo né dietro
di noi né davanti a noi, nel luminoso regno dei valori, giustificazioni o
scuse. Siamo soli, senza scuse. Situazione che mi pare di poter caratterizzare
dicendo che l'uomo è condannato a essere libero" (1946, p. 41). La
terminologia usata ("senza scuse") fa eco a quella del punto di vista
etico-religioso che l’autore respingeva. Anche il riferimento ad una
"angoscia", che sembra una versione colta e sofisticata del
"normale" senso di colpa, fa sospettare che, come tutte le
ribellioni, quella di Sartre abbia portato con sé l'essenza dell'oggetto
respinto: "In realtà l'angoscia è, secondo me, l'assenza completa di
giustificazione e, nello stesso tempo, la responsabilità verso tutti"
(1946, p. 90). Egli è rimasto sul piano del moralismo proprio condannando il
moralismo. L’unica arma a nostra disposizione, più affilata della ribellione
esistenzialista, è l’esercizio della razionalità.
La razionalità costituisce un solido
appiglio: la razionalità logica ci aiuta ad essere coerenti, la razionalità
scientifica ci aiuta a non restare confusi e la razionalità strumentale ci
aiuta a non sprecare tempo ed energia, ma poi l’aspetto della razionalità
pratica che riguarda “tutto il resto” ci aiuta a cercare un confronto assiduo
fra la nostra soggettività e quella degli altri. L’etica ha storicamente
cercato di occupare tale spazio, ma ha fallito, perché ha affermato una
razionalità “inventata” (quella del dover essere) e ha negato la razionalità
dei sentimenti, dei desideri e dei progetti di vita non difensivi. L’etica è un
disastro proprio come schema mentale e per questo non possiamo ragionevolmente
concepire sistemi etici migliori o peggiori di altri. Anche il “sentimentalismo
etico” inteso da alcuni come una concezione morale “innovativa” (Lecaldano,
2012, p. 543) rispetto al tradizionale razionalismo etico, non serve a fare
chiarezza. Infatti, l’analisi dei sentimenti (e delle difese psicologiche) non
ci porta a formulare concezioni etiche più attente ai sentimenti, ma ad
affrancarci da qualsiasi tipo di normatività metafisica. I sentimenti possono
essere espressivi o difensivi, ma sicuramente non vanno usati per inventare
nuovi doveri.
Le
persone possono sembrare “sane” o “buone” se si conformano alla normalità
statistica o ai criteri di una dottrina etica. Le persone però sono uniche e,
in modi unici, tendono a realizzare tutto il bene che riescono a immaginare.
Per X tendere al bene può significare perdonare un torto, accettando il dolore
dovuto all'incapacità della persona che lo ha offeso di mostrargli un adeguato
rispetto. Per Y tendere al bene può significare non perdonare l'azione ma
evitare di uccidere la persona che gli ha fatto il torto. Per Z tendere al bene
può significare "mettere a posto le cose" uccidendo la persona che
gli ha fatto un torto, a costo di rischiare la propria vita e gestendo “con
dignità” la paura di essere a sua volta ucciso. Ad ogni "livello" di
contatto emotivo c'è un'idea che è "buona" nella misura in cui si ama qualcosa: X riesce ad amare la persona
da cui ha ricevuto un'offesa, Y riesce ad amarla quanto basta per lasciarla in
vita, mentre Z apprezza l’idealizzazione della propria coerenza e del proprio
coraggio e non arriva ad amare né l’altra persona né se stesso. La non
ragionevolezza di un sistema etico astratto sta nel fatto che sul piano emotivo
non siamo tutti uguali e ognuno "sente" in qualche modo ed in qualche
misura. Abbiamo quindi bisogno, soprattutto nell'infanzia, di fare esperienze che ci permettano di "sentire di più" e non abbiamo alcun bisogno di concezioni etiche più vincolanti.
L’insistenza
con cui nell’ambito culturale, in quello scolastico e in quello famigliare si attuano
pratiche educative volte ad imporre doveri e “buoni sentimenti”, non
contribuisce affatto alla diffusione della benevolenza fra gli esseri umani. Anzi,
proprio l’educazione morale
contribuisce alla costruzione delle difese psicologiche da cui derivano i
comportamenti distruttivi.