Se
i nostri antenati “vivevano e basta”, noi viviamo in modo umano, cioè culturalmente e non naturalmente. Siamo
capaci di essere coscienti dei nostri desideri e dei nostri sentimenti e siamo
capaci di formarci delle convinzioni e di esaminarle criticamente. Siamo capaci
di fare cose del tutto “inutili” ma per noi meravigliose (possiamo fare
l’amore, fare arte, fare progetti, ecc.). Possiamo però anche fare cose
assolutamente irrazionali per ragioni non evidenti (e su cui ci rifiutiamo di
indagare). In ogni caso non siamo più in balia del caso e della necessità
“naturali”, ma esprimiamo delle capacità, oppure ci rifiutiamo (per una paura infantile
non superata) di esprimere le nostre capacità. La nostra sopravvivenza è una
semplice condizione di possibilità della nostra esistenza e non costituisce più il suo filo conduttore.
Gli esseri umani, in pratica, dopo essere risultati capaci di sopravvivere
meglio di altre specie, hanno modificato le regole del “gioco naturale” in cui
erano imbrigliati e hanno costruito un nuovo “gioco sociale” che consiste nel creare felicità anziché nel
conservare e prolungare la loro semplice permanenza in un universo impersonale.
Per lo meno possono fare ciò, anche se tanto spesso, per paura, vivono così
“poco” da risultare più rozzi degli animali che almeno manifestano
coerentemente e compiutamente alcune basilari capacità emotive e cognitive.
La
fisica trova un ordine tra i fatti: accade che si crei una crepa
in una roccia, che un masso precipiti a valle, che un albero venga travolto e
che, cadendo, schiacci un animale. La biologia trova un ordine anche tra fatti
che non sono determinati solo dall’esterno, ma dai movimenti compiuti dagli
organismi viventi: prima di essere schiacciato dall’albero l’animale stava
inseguendo una preda e si muoveva non a causa di qualche evento esterno, ma a
causa di una eccitazione percepita internamente alla vista della preda. Gli
esseri umani, invece, costruiscono la loro esistenza e da sempre si interrogano sulle ragioni delle azioni che progettano e poi compiono, anche se da sempre temono e quindi evitano di
trovare spiegazioni convincenti.
Abbiamo
visto che l’intenzionalità difensiva inconscia impedisce alle persone di creare
un futuro corrispondente alle loro capacità individuali e le porta a vivere nel
circolo vizioso di un passato mai superato. Le difese psicologiche riportano,
in un certo senso, le persone al piano della sopravvivenza, in cui accadono dei
semplici fatti: il masso cade, il predatore caccia e, con la stessa
prevedibilità, il gregario obbedisce senza chiedersi se l’autorità meriti
rispetto e il tipo “molto emotivo” esprime entusiasmi o rancori che non sa
davvero giustificare. Tuttavia, anche se molte relazioni sono attivate da un
rigido programma infantile, le relazioni umane possono includere l’espressione di ciò che le persone sono. Le
relazioni interpersonali, almeno in
linea di principio, si collocano al di là
della biologia (della sopravvivenza fisica) e al di là delle paure infantili (della sopravvivenza psicologica
nell’infanzia): le persone possono
esprimere dei desideri comprensibili e inventare e realizzare una felicità condivisa.
Le
relazioni umane (sia quelle “trasparenti” sia quelle rese “opache” dalle difese
psicologiche) non si sviluppano per caso
o a causa di fenomeni esterni o di meccanismi interni, ma vengono costruite.
Sono relazioni intersoggettive ed anche interpersonali. Tutte le relazioni
interpersonali sono intersoggettive, ma non tutte le relazioni intersoggettive
sono interpersonali. Fra cani o fra cani ed esseri umani si stabiliscono
relazioni intersoggettive perché anche i cani hanno una loro soggettività: provano
simpatia, antipatia, gioia, dolore, pur non avendo la capacità di collocare le
loro emozioni in un’idea coerente e articolata di se stessi e degli altri. Per
questo motivo si dice che molti animali sono coscienti ma non autocoscienti.
Quando il cane “fa le feste” al padrone sa che quella persona è l’oggetto del proprio desiderio, ma non
immagina che il suo padrone sia un
soggetto che prova proprie emozioni in un momento di una storia personale
“tutta sua”. La relazione cane-cane o cane-essere umano è una relazione
intersoggettiva (fra soggetti), ma non interpersonale (fra soggetti consapevoli
di essere “qualcuno”). Gli amanti della natura inclini al romanticismo possono
anche sentirsi “capiti” dal cane, abbracciati da un bosco o accolti da una
nuova giornata, ma stanno solo fantasticando, perché il cane capisce ciò che
può capire, il sole non sorge per loro e il bosco è un pullulare di processi
vitali che non intendono “accogliere” nessuno.
Facendo
queste considerazioni non sto implicando nulla sul piano metafisico, anzi, sto
proprio cercando di non farlo. Voglio esaminare la dimensione soggettiva delle
persone come una capacità e non come
la manifestazione di qualche “essenza” (“materiale” o “spirituale”). Voglio
prendere in considerazione la capacità specificamente umana di stabilire
relazioni interpersonali per mettere in evidenza il fatto che sulla “vitalità”
vengono fatte da sempre delle riflessioni piuttosto confuse, dipendenti da una
concezione “poetica” della vita. Resto perplesso quando viene manifestata una
sorta di ammirazione nei confronti di persone gravemente malate che “lottano
eroicamente” con la morte, mentre in realtà sopportano una disgrazia perché i
loro organi vitali sono ancora abbastanza forti. L’attaccamento alla vita non ha niente di specificamente umano.
Certe piante rampicanti avvolgono gli alberi perché “tendono” a salire verso la
luce e lo fanno con una “determinazione” cieca e, in fondo, inquietante. Gli
alberi così soffocati, se fossero coscienti, sicuramente non apprezzerebbero la
vitalità dei loro “carcerieri”. La
vitalità è solo un fatto e “sostiene” sia
l’empatia, la curiosità e l’impegno degli esseri umani, sia la “esuberanza” delle cellule cancerose. Per questo motivo
trovo incomprensibili e anche irritanti le concezioni retoriche della vita. Con
ciò mi riferisco sia alle chiacchiere quotidiane, sia ai sistemi metafisici. Se
vogliamo conoscere la realtà e non attribuirle un ordine a noi gradito,
dobbiamo esaminare e spiegare sia i fatti che evidenziano la continuità fra i processi
vitali e la socialità umana, sia quelli che delineano elementi di
discontinuità, senza sostituire i nostri punti interrogativi con punti
esclamativi immaginari.
L’esistenza
umana ha delle specificità che dipendono dalla storia evolutiva ed anche delle
specificità che dipendono dall’involuzione che ha accompagnato l’allungamento
“insolito” dell’infanzia degli esseri umani. Tali specificità rinviano a
vicende oggettivamente date e scientificamente comprensibili. Non abbiamo
bisogno di prendere scorciatoie e introdurre elementi speculativi per colmare
le lacune della nostra conoscenza. Riassumerò più avanti cosa è stato o non è
stato spiegato dell’autocoscienza che caratterizza gli esseri umani, ma per ora
voglio sottolineare che la specificità dell’esistenza umana non ha molto a che
fare con la semplice vitalità. La vita è solo un fatto e non è
nemmeno un fatto “crudele” perché è un fatto semplicemente “crudo”. Posso
apprezzare l’ombra di una foresta e trovare armonioso lo sciabordare dell’acqua
del mare, ma sapere che la foresta e il mare racchiudono moltissimi processi
vitali mi fa sentire semplicemente solo. Tutta quella “vita” non tiene conto
della mia vita. La felicità possibile
agli esseri umani si trova al di là della
sopravvivenza biologica e dei romanticismi irrazionali. La natura in qualche
modo riflette degli aspetti di noi e può comprensibilmente sembrarci “bella”.
Può sembrare bella a noi e non ad altri animali, per i quali un filo d’erba o
un pesciolino sono solo oggetti commestibili. La natura può sembrarci bella,
almeno a volte, ma in quanto puro ambito di manifestazioni vitali ci risulta
“estranea”, perché, ciò che ci rende “noi
stessi” non è la nostra “vitalità”, ma la consapevolezza di ciò che sentiamo.
Siamo vitali come lo sono i batteri, ma siamo “noi stessi” solo per la nostra
dimensione soggettiva.
Non
riesco proprio a provare nulla pensando che l’inquinamento sconvolgerà gli
equilibri ecologici del pianeta. Ovviamente tali possibili sconvolgimenti mi
preoccupano, ma solo per i loro effetti indiretti sulle esistenze personali e
non per l’alterazione di un equilibrio naturale. In ogni caso, non mi
consolerei all’idea che se gli esseri umani scomparissero in seguito ad una
guerra nucleare, resterebbero vivi alcuni batteri o lombrichi o insetti.
L’esaltazione della natura in quanto tale è ideologica e irrazionale quanto lo
è l’ideologia imperialista, anche se è meno crudele. Fra le idee di chi rade al
suolo un paese “da conquistare” e quelle di chi non uccide le zanzare e si
sforza di “indirizzarle” verso la finestra (perché esse sono “esseri viventi”)
vedo poca differenza: gli imperialisti vivono come zanzare e gli amanti delle
zanzare vivono nel mondo dei sogni (un mondo in cui immaginano quell’armonia
“totale” che non hanno mai sperimentato nell’infanzia con genitori ottusi come
le zanzare). L’umanità degli esseri umani inizia al di là della loro
sopravvivenza fisica e delle loro illusioni difensive. Non riesco a provare
nulla nemmeno pensando ai processi fisiologici della sessualità. Trovo
semplicemente noiosa l’idea delle copulazioni dei conigli o dei ragni e trovo
noiose anche le copulazioni umane realizzate da chi si sente “motivato” da un
“prurito” o si sente “giustificato” da un certificato di matrimonio. La
sessualità è davvero appassionante solo per chi cerca una piacevole complicità
e una sentita intimità con un’altra
persona proprio perché in quel caso l’esperienza trascende il piano della natura e degli ormoni (peraltro
utilissimi). Solo al di là della fisiologia un soggetto entra nell’avventura di
una relazione sessuale con un altro soggetto: una relazione semplicemente
giocosa e a volte “impegnativa”, ma comunque interpersonale e proprio per questo tanto piacevole. Una relazione
non “naturale”. Non puramente “vitale”. Chi fa sesso per “rilassarsi”, gode
come chi prende un antidolorifico o un digestivo.
Se
queste riflessioni sono convincenti possiamo accantonare qualsiasi idea
“poetica” della vita, della natura e anche delle “emozioni”. La vitalità è
semplicemente cieca, sorda e stupida. Anche le emozioni sono preziose solo se risultano
comprensibili in una dimensione personale. Le emozioni molto spesso sono
emozioni difensive: l’orgoglio, la vergogna, il fanatismo, le paure e le
manifestazioni rabbiose irrazionali sono solo interferenze che disturbano le
storie personali. Vengono costruite, ma inconsciamente. Quindi, impediscono una
carezza sentita o una confidenza sincera come lo farebbe un terremoto.
Se
la vita e la vitalità sono processi “inesorabili”, non sono né belli né brutti
per noi, dato che siamo capaci di apprezzare ciò che siamo e che sappiamo di
essere. Ciò vale anche per la morte. La morte non è, come tale, dolorosa: lo è per i vivi in quanto interruzione di una
storia pensata e sentita. Non vedo invece cosa ci sia di doloroso nel fatto che
essa possa spezzare qualche processo biologico. Anche se è tanto comune la
paura di morire, sarebbe più logico provare il timore di vivere “poco” e di
non fare esperienze realmente intime prima
di morire. Purtroppo questo ragionevole timore è poco sentito e gli “amanti
della vita” si affannano ad allungare il più possibile la loro sopravvivenza
senza aver cura della qualità della loro esistenza. Con queste considerazioni
non intendo sminuire l’importanza delle ricerche dedicate all’evoluzione delle
specie, alla biologia e alle “basi” neurologiche delle esperienze soggettive,
dato che tutte le conoscenze sono sempre utili. Semmai voglio sottolineare che
persino il fatto di dare importanza alla conoscenza oggettiva dei processi
vitali ha come condizione di possibilità la curiosità, che è e resta un aspetto
della dimensione soggettiva. Persino la fisica e la matematica, nella loro
implacabile oggettività ed esattezza, hanno una loro “dignità” proprio nella
misura in cui dei soggetti limitati e terribilmente “inesatti” sono interessati
alla verità.
Il
fatto che qualche essere vivente provi
qualcosa nel vivere e nell’interagire con altri esseri sta alla base di
tutte le riflessioni che facciamo sulla nostra esistenza personale e sul nostro
bisogno di creare rapporti soddisfacenti con i nostri simili. La teoria
dell’evoluzione offre una spiegazione convincente delle tappe attraverso le
quali siamo diventati ciò che siamo, mentre la biologia e le neuroscienze ci
dicono molto sui meccanismi che utilizziamo per manifestare ciò che siamo.
Tuttavia, queste conoscenze servono a ben poco se ci interroghiamo su ciò che
vogliamo fare nel tempo che ci resta,
perché la nostra esistenza personale inizia proprio dove finisce la nostra
semplice sopravvivenza.
Tutte
le persone, più o meno consapevolmente, agiscono in ogni istante avendo in
mente un’idea più o meno chiara della vita che vogliono vivere e della vita che
non vogliono vivere. Così facendo hanno in mente anche un’idea soggettiva, più o meno chiara, di vita
“vivibile” o “invivibile”. In genere non sanno proprio perché abbiano
abbracciato tale idea e, se incalzate, le presone offrono delle spiegazioni più
o meno plausibili, ma a cui non credono davvero, anche se tentano di crederci
per non riconoscere di non sapere perché costruiscono proprio un certo tipo di
vita. Anche gli studiosi, che sono persone come le altre, si trovano nella
stessa situazione, ma avendo a disposizione più strumenti concettuali offrono
“non-spiegazioni” più sofisticate. Quelli inclini alla metafisica affermano che
l’esistenza umana può avere un “significato” (e quindi essere “vivibile”) se
vissuta con “autenticità”, anche se poi l’autenticità che suggeriscono è
l’oggettivazione delle loro (non comprese) aspirazioni soggettive. Nei casi
peggiori affermano che l’esistenza umana non ha alcun “significato”. Altri
studiosi egualmente poco disponibili a conoscersi, affermano che gli esseri
umani vivono in funzione delle pulsioni che li “spingono” ad agire o dei
meccanismi che “regolano” le loro reazioni a varie situazioni.
Se
vogliamo evitare le trappole concettuali della metafisica e del biologismo
dobbiamo tornare alla scomoda questione di partenza: possiamo pensare e sentire
la nostra esistenza solo da un’angolazione soggettiva e quindi “esistiamo
proprio come soggetti”, ma siamo esseri sociali e quindi sperimentiamo la
nostra soggettività anche come un
recinto che ci imprigiona. Nella nostra sfera soggettiva siamo padroni del
“mondo privato” che creiamo in continuazione, ma siamo anche insoddisfatti,
perché proviamo l’esigenza di trascendere
la dimensione soggettiva, di incontrare gli altri e di condividere la
realtà “oggettiva” con i nostri simili (a loro volta prigionieri della loro
soggettività). Pur essendo “affezionati” alla nostra visione privata della
realtà, cerchiamo sempre “là nel mondo” dei compagni di strada, degli
interlocutori, degli alleati e sentiamo l’esigenza di capire o semplicemente di
contemplare la realtà oggettiva in cui esistono anche gli altri e persino di
conoscere i mondi soggettivi degli altri.
Noi
siamo “condannati” sia alla soggettività,
sia alla sopravvivenza, ma non siamo “fatti” per tali vincoli o recinti o
prigioni perché proprio la coscienza di
esistere ci rende affascinati dalle altre
esistenze e da ciò che possiamo fare al
di là del semplice mantenerci vivi. Se abbiamo sete o freddo o siamo
stanchi non possiamo non tener conto di tali sensazioni fastidiose, ma appena
abbiamo placato il disagio fisico non siamo felici di ciò che abbiamo fatto: ci
siamo semplicemente affrancati da qualche sensazione sgradevole e torniamo a
pensare in positivo a ciò che
vogliamo fare. Noi non possiamo, quindi, prescindere dalla soggettività perché
essa costituisce l’unico accesso alla
realtà oggettiva (la cui conoscenza, non a caso, è valida proprio in quanto è
“intersoggettiva”) e non possiamo prescindere nemmeno dai vincoli della
sopravvivenza perché ogni carenza o alterazione o lesione fisica è disturbante o dolorosa. Tuttavia, se
non potessimo incontrare nessuno e non potessimo far altro che nutrirci,
riposare e stare al caldo, considereremmo ogni nostra giornata come il peggiore
degli incubi.
Si
può obiettare che molte persone, di fatto, hanno in mente solo idee che
riguardano la loro sopravvivenza: scambiano con gli altri solo dei riassunti e
dei commenti su ciò che hanno mangiato e sul loro stato di salute e, quando non
si limitano a ciò, arrivano al massimo a “svagarsi” o a distrarsi un po’ con
persone che sopravvivono come loro. La vita di molti anziani è di questo tipo,
ma in realtà non è diversa da quella che conducevano prima di invecchiare e che
era solo un po’ più movimentata. Tali persone andavano a mangiare il pesce in
località marittime anziché mangiare il riso in bianco cucinato dalla badante, si distraevano facendo sport anziché limitarsi a guardare la TV e si
lamentavano del lavoro anziché lamentarsi dell’artrosi.
Le
persone che circoscrivono la loro vita ai rituali quotidiani basati sul cibo,
sulla salute, sull’igiene, sulla sicurezza, sul lavoro (concedendosi al massimo
qualche distrazione o svago) non sono
realmente interessate a vivere come formiche complicate, dato che sono
costantemente deluse, tormentate, lacerate. Anche quando cercano di riempire le
loro giornate con più cibo, più lavoro o più svaghi restano insoddisfatte.
Allora, perché restano arroccate in una soggettività irrigidita? Si anestetizzano
per non sperimentare i rifiuti e l’insensibilità degli altri. Vivono ubriache
di nulla e quando si accorgono che si è esaurito l’effetto dell’ultimo
“grappino psicologico” si agitano e tornano a bere. Dico questo per
ricapitolare molte osservazioni che per me sono state chiarificatrici in tanti
anni di lavoro analitico. Quando pongo domande scomode a chi vive una vita
ridotta ai minimi termini giungo sempre ad ottenere risposte che rinviano al
terrore di qualcosa (un rifiuto, una svalutazione o un inganno) che quindi trascende la loro semplice
sopravvivenza. Ciò mi costringe a riconoscere che persino le vite più “povere”
sono focalizzate sull’esigenze di trascendere la sopravvivenza e la
soggettività, anche se scorrono in un circolo vizioso “datato” e imperniato
sugli obiettivi difensivi dell’infanzia. Imperniato, quindi, su un’altra
sopravvivenza, di tipo psicologico. Gli adulti mentalmente chiusi, interessati
solo a lucidare le sbarre della loro prigione e disposti ad incontrare gli
altri solo per perfezionare il controllo del loro piccolo mondo, stanno in
realtà continuando a soffocare vissuti dolorosi che nell’infanzia riguardavano
il bisogno di ricevere amore (e non
solo di sopravvivere) e di incontrare gli
altri (i genitori) per superare una solitudine insopportabile. Ciò che rende entusiasmante il superamento delle difese psicologiche non
è l’eliminazione di qualche sintomo fastidioso, ma proprio la possibilità di
esprimere delle potenzialità personali e di realizzare obiettivi realmente
gratificanti. Il lavoro analitico conferma l’esigenza basilare di tutti gli
esseri umani: l’esigenza di trascendere
la sopravvivenza e la soggettività.
Con
ciò non voglio certo ritornare alle prediche sugli “scopi” che “dovrebbero”
essere perseguiti per rendere “sensata” una vita altrimenti priva di “valore”.
Sto solo cercando di capire le ragioni per cui le persone si appassionano alla
loro vita oppure riducono al minimo l’espressione delle loro potenzialità e sto
cercando di chiarire che le (tante) speculazioni metafisiche sul “significato”
della vita non spiegano nulla, ma
richiedono spiegazioni.
Io
non credo che l’opzione basilare sia quella fra una vita “sensata” ed una vita
“insensata”, ma fra una vita “nostra” ed una “non nostra”. Credo quindi che sia possibile tradurre in termini empirici i problemi metafisici sul significato
dell’esistenza. Noi abbiamo un potenziale come specie umana ed anche un
potenziale individuale. Tale potenziale non è necessariamente “spirituale”, ma
non è nemmeno solo biologico, perché la
coscienza ha scardinato tutti i meccanismi della selezione naturale. Anche
se può essere concepita come un suo prodotto, la coscienza è un prodotto che
rompe la logica della sopravvivenza. Siamo l’unica specie in grado di decidere
la propria estinzione con una terza guerra mondiale non perché abbiamo
la capacità di inventare ordigni complicati, ma perché abbiamo la capacità
di dimostrarci più stupidi di qualsiasi altro animale. Abbiamo però anche la capacità
(purtroppo normalmente non espressa) di trasformare la nostra convivenza in
un’opera d’arte planetaria e in un grande abbraccio collettivo.
L’irrazionalità
non caratterizza (in qualche misura) solo particolari convinzioni, desideri o
sentimenti, ma incide a) sulla qualità dell’intera esistenza personale, b)
sulla capacità delle persone di considerare ogni attimo come un elemento della
loro intera esistenza. c) sul modo in cui le persone concepiscono l’esistenza
umana in generale e d) sul modo in cui si rapportano agli altri per costruire
una particolare convivenza sociale, fra le tante possibili. Anche se le persone
in genere non vogliono riflettere sulla loro esistenza, di fatto stanno
costruendo meticolosamente, attimo dopo attimo, l’unica esistenza che un giorno
avranno vissuto e che considereranno come la loro avventura o il loro incubo
peggiore.
Il
progetto di vita normalmente perseguito dalle persone è la mancanza di un
progetto, o almeno la mancanza di un progetto coscientemente elaborato e
razionale. Di fatto, le persone hanno sempre in mente l’idea di vivere una
certa vita e non “una vita qualsiasi”, ma purtroppo hanno quasi sempre in mente
di vivere la vita immaginata nell’infanzia, precisata con più dettagli
nell’adolescenza e mai accettata come irrealizzabile dopo la conclusione
dell’infanzia e dell’adolescenza. I bambini sono essenzialmente degli adulti
incompiuti e per questo motivo sono “fondamentalmente” infelici se non possono
“appoggiarsi” ai genitori e “nutrirsi” della loro presenza e della loro
accettazione incondizionata. Proprio per la loro incompiutezza, venendo
accuditi, accolti, amati, provano la felicità consistente nell’essere
“salvati”, cioè quella felicità che gli adulti (già “in salvo”) non possono più
provare. Per gli adulti l’esperienza di essere accettati dagli altri è
sicuramente desiderabile e piacevole, ma non può essere lo scopo della loro vita, perché gli adulti hanno l’esigenza di costruire una vita realmente
soddisfacente. Se così non fosse, nessuno capirebbe o apprezzerebbe le scelte
compiute da persone che hanno espresso le loro idee nonostante risultassero
impopolari. Nessun bambino rinuncerebbe all’accettazione per mantenere le
proprie idee, perché i bambini non hanno “idee personali” e non hanno nemmeno
l’idea di essere persone. Vale anche l’inverso: nessun adulto può essere “fatto
felice” dagli altri, ma può (se ha un buon dialogo interno) costruire una vita
felice costruendo (nei limiti del
possibile) sintonia e intimità con gli altri (almeno con quelli disponibili) e
rifiutando l’irrazionalità e la distruttività.
In
altre parole i bambini possono essere “salvati” in un rapporto “verticale” in
cui loro sono piccoli e i salvatori sono grandi, mentre gli adulti possono
esprimersi e costruire buoni rapporti “orizzontali”. Ora, purtroppo, nella
maggior parte dei casi, le persone “orientano” la loro esistenza in una
direzione che non ha nulla a che fare con la costruzione della propria e
dell’altrui felicità: vivono per “dimostrarsi accettabili” e quindi per “essere
fatti felici” dagli altri (come i bambini soli), oppure vivono per opporsi agli
altri e sentirsi “migliori” o “superiori” e quindi “indipendenti” (come i
bambini soli che vorrebbero già essere grandi). Vivono anche cercando di “non
pensare troppo” o di sentirsi “sbagliati” (ma anche determinati a “migliorare”)
o di sentirsi vittime di ingiustizie (per pretendere “giustizia”) e così via.
Ciò accade in continuazione e produce l’ostinazione ad “ottenere” una felicità
impossibile. Le varie illusioni possono anche essere sommate o combinate in
vari modi, ma l’intreccio risultante produce comunque un’infelicità non dovuta
al “caso” o al “destino”, ma proprio al “vivere poco”, che sembra costituire
l’obiettivo privilegiato di moltissimi membri della specie umana. E’ facile e,
anzi, inevitabile sentire a
quarant’anni il bisogno di “essere fatti felici”, ma è irrazionale cercare un appagamento per tale antico
vissuto di bisogno ancora sentito. L’elaborazione del dolore, quindi, non solo
rende possibili particolari scelte ragionevoli, ma rende possibile la
costruzione di un’intera esistenza corrispondente alle potenzialità personali.
Il problema filosofico del “significato”
dell'esistenza umana è un problema mal posto proprio perché in questa
espressione il termine "significato" non è definito. Mentre il
concetto di significato trova delle definizioni accurate nell'ambito dello
studio del linguaggio, quando compare nella conversazione ordinaria o
nell'ambito della filosofia dell'esistenza sembra ovvio, ma resta indefinito.
Le frequenti (esplicite o solo implicite) considerazioni sul senso della vita
servono a distogliere l’attenzione dalla domanda (scomoda) sulle ragioni per
cui le persone fanno ciò che fanno e per cui vivono “poco”. Io non mi preoccupo
di “scoprire” il significato della mia esistenza o di quella dei miei simili e
nemmeno di “offrire” agli altri risposte “sagge” relative a tale domanda. Tale
domanda mal posta affascina perché è
“comoda”. Ci interroghiamo sul significato della nostra vita o della vita umana
in generale perché proviamo un’insoddisfazione e soprattutto perché ci
rifiutiamo di comprendere tale insoddisfazione. Se invece ci interroghiamo
sulle ragioni della nostra “fetta personale” di irrazionalità abbiamo la
possibilità di toccare aspetti dolorosi della nostra vita e di affrancarci
dalla paura di affrontarli. Se ci togliamo il peso di quella paura possiamo
smettere di fare cose irrazionali e possiamo vivere la nostra vita con la gioia
e il dolore che comporta e con la determinazione a renderla migliore e
soprattutto “nostra”.
Non
è casuale il fatto che sia praticamente impossibile condurre un dialogo costruttivo
con le persone convinte di aver “scoperto” il significato della vita o il “non
senso” della vita. Credo che sia difficile indurre tali persone ad un esame
critico delle loro affermazioni per lo stesso motivo per il quale è difficile
convincere un naufrago ad abbandonare il tronco a cui si è aggrappato. Le
persone spaventate si aggrappano sempre a qualcosa. In genere quel problema
“filosofico” copre vissuti “antichi” di solitudine e non c’è modo di spiegare
ai filosofi che i loro “valori” o i loro “significati” rassicuranti non hanno
basi razionali. A volte, ad esempio, il problema del
significato dell'esistenza è “risolto” con l’idea secondo la quale è possibile
dare un senso alla propria vita se ci si impegna a favore degli altri.
Giustamente, però, Thomas Nagel osserva: "Se la vita di nessuno ha in sé
qualche significato, come può acquisirlo tramite la dedizione alle vite
insignificanti degli altri?" (1986, pp. 270-271). Altre volte il problema
del significato dell'esistenza viene collegato alla finitezza della vita umana
e quindi viene risolto con l’affermazione di un’esistenza ultraterrena.
Tuttavia, anche in questo caso la soluzione è apparente: se non sentiamo o non
comprendiamo il significato della nostra vita, difficilmente potremo sentire o
capire il senso di una dimensione ancor più ampia (cfr. Nozick, 1981, p. 649). Spesso il tema
del senso della vita è evitato, ma quando è affrontato costituisce il terreno
di caccia per nichilisti interessati a dimostrarsi “capaci di distacco” e per
spiritualisti interessati ad affermare idee consolatorie.
Quando le persone accettano la gioia ed anche
il loro dolore, non considerano mai priva di significato la loro esistenza,
semplicemente perché desiderano aver cura di sé e di chi amano. Al contrario, nella depressione più o meno
grave ed in altri stati d’animo risultanti da atteggiamenti difensivi, le
persone non provano compassione per loro stesse o per gli altri, non hanno cura
di nulla e quindi non individuano alcun “significato” nella loro esistenza.
Tale svalutazione della vita “in blocco” non è altro che la sintesi di tante
svalutazioni quotidiane con cui il dolore viene coperto dalla rabbia o dalla
paura. Se si presuppone che la vita dovrebbe
essere diversa (soprattutto più “appagante”), quella reale e attuale
diventa inevitabilmente insignificante. Questa mia lettura psicologica del problema (apparentemente) filosofico riguardante il
significato dell’esistenza umana mette radicalmente in discussione l’idea di
una contrapposizione fra una "disperazione finita" ed una
"disperazione assoluta" (Kierkegaard, 1843, p. 68). Con
l'esistenzialismo la responsabilità soggettiva viene collocata in un progetto
di vita; la temporalità viene considerata in relazione alla consapevolezza
della morte; l'uomo non è indagato come risultato di una o due sostanze, ma
come soggettività in una situazione. L'esistenzialismo ha quindi il merito di
considerare la vita umana nei suoi aspetti basilari, ma purtroppo commette
l’errore di non distinguere la "condizione esistenziale" umana
semplicemente “data” dalle complicazioni emotive (difensive) individuali. Per
questo non c'è da stupirsi se nell'esistenzialismo sono emerse in modalità più
sofisticate le stesse difese
psicologiche espresse da tante persone poco colte e non inclini alla
speculazione metafisica. Il problema apparentemente filosofico del significato
dell’esistenza umana nasconde un fatto reale e comprensibile, ma scomodo: la
scarsa accettazione del dolore limita la possibilità di sperimentare la gioia e
la felicità.
Le filosofie dell'esistenza
"positive" razionalizzano ed intellettualizzano le rassicurazioni con
cui fin dall'infanzia ci proteggiamo dalla paura del dolore e della morte. Il
"salto" nella fede (Tillich, 1952; Marcel, 1955) o nell'impegno
sociale è consolatorio, poiché anche chi crede nell'immortalità o chi vuole
realizzare un mondo migliore non può comunque cambiare il fatto che l'esistenza
personale si concluderà. Le filosofie dell'esistenza "negative",
invece, razionalizzano o intellettualizzano con un certo autocompiacimento le
difficoltà delle persone ad accettare il dolore e quindi la morte in tutte le sue
sfumature. La "deiezione" in Heidegger (1927), o la
"condanna" ad essere liberi in Sartre (1946) esemplificano in modi
molto diversi questo rapporto emotivamente non risolto con la tragicità
dell'esistenza.
Nel percorso analitico, quando le persone
si accorgono di aver ingannato gli altri recitando una parte, non si sentono
colpevoli, ma libere. L’analisi non mira al pentimento ed al perdono, ma alla
consapevolezza, e la consapevolezza (dolorosissima) di aver vissuto “poco”
rende tristi e liberi. Molto tristi, perché i danni provocati a se stessi e
agli altri sono in gran parte irreparabili, ma anche liberi di cambiare e di
salvare almeno ciò che non è stato ancora distrutto. L’accettazione del dolore
che ci tallona come un’ombra fin dall’infanzia ed anche del dolore di aver distrutto anni o decenni al solo scopo di
non sentire quell’antico dolore, consente alle persone di restare in contatto
con la realtà. La mia "traduzione" dei problemi
filosofico-esistenziali in termini psicologici ed emotivi sarebbe gratuita se non
fosse ancorata all'esperienza. Di fatto, il lavoro analitico sulle difese
psicologiche e sui vissuti non integrati offre molti elementi che giustificano
una lettura psicologica e non metafisica del classico “problema esistenziale”.
George Orwell, ha sempre descritto nei
suoi romanzi la tendenza delle persone a diventare distruttive per proteggersi
da qualcosa, e anche nell'ambito del suo impegno politico ha sottolineato le
resistenze soggettive ad un impegno sociale davvero costruttivo. Nella sua
polemica con il pessimismo di Koestler, deluso dallo stalinismo, egli ripropone
la concezione tragica della vita come occasione per l'assunzione di
responsabilità positive, in alternativa all'ottimismo che porta alla delusione
rabbiosa appena i sogni non si realizzano: "C'è un forte orientamento
edonistico nei suoi scritti, e il suo fallimento nel trovare una sua
collocazione politica dopo la rottura con lo stalinismo ne è il risultato (…)
Forse una certa quantità di sofferenza è ineliminabile nella vita umana, forse
l'uomo deve sempre scegliere fra due mali, forse persino lo scopo del
socialismo non è di rendere il mondo perfetto, ma solo migliore. Tutte le
rivoluzioni sono dei fallimenti, ma non sono lo stesso tipo di fallimento"
(1944, pp. 281-282).
Ad Orwell ha fatto eco Albert Camus,
affermando che l’uomo "può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente
il dolore del mondo" (1951, p. 331). L'aspetto curioso dell'atteggiamento
di Camus sta proprio nella compresenza di un "nichilismo epidermico"
che lo ha portato a definire “assurda” l'esistenza umana e di un antinichilismo
profondo che lo ha portato ad innamorarsi, a fare figli, ad entrare nella
resistenza, a scrivere pagine contro il suicidio, contro il "suicidio
filosofico" degli atteggiamenti esistenzialisti (1942, p. 40) e contro
l'involuzione politica nella Russia sovietica. Egli ha scritto: "solo uno
spirito socratico di indulgenza verso gli altri e di rigore verso noi stessi
può costituire una reale minaccia per una civiltà basata sull'assassinio"
(1946, p. 324). Camus ha affrontato con coraggio una "vita senza
consolazione" per la "passione di esaurire tutto ciò che ci è
dato" (1942, pp. 55-56), e proprio in questo slancio emotivo ci fornisce
un’interessante chiave di lettura per la sua filosofia dell'assurdo. Camus era
abbastanza aperto emotivamente da aderire comunque alla vita e da
impegnarsi costruttivamente sul piano sociale.
L'esistenzialismo, come altri indirizzi
della filosofia, ha influenzato la psicoterapia. La sua influenza non è stata
così massiccia come quella del positivismo, ma è stata comunque abbastanza
rilevante da generare sia alcuni concetti confusi, sia alcune interessanti
ispirazioni. Il rifiuto delle concezioni naturalistiche dell'uomo (da quelle
tradizionali psichiatriche a quella psicoanalitica) in nome di una concezione
dell'uomo inteso come soggetto esistente o come "essere-nel-mondo"
(Cargnello, 1966, p. 113) si inserisce nel filone antiriduzionistico della
psichiatria e della psicoterapia. Un orientamento psicoterapeutico particolarmente
attento allo sfondo esistenziale dei disturbi psicologici è stato sviluppato da
Viktor Frankl nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Il grande
amore per la vita ed il profondo rispetto per i suoi simili, permise a questo
studioso di esprimere la sua umanità anche durante l'internamento in un lager
(1946). Si deve riconoscere a Frankl il merito di aver sottolineato il rapporto
fra il modo di gestire il dolore psicologico e l'atteggiamento nei confronti
dell'intera esistenza personale; tuttavia, le sue tesi fondamentali sono
semplicemente affermate e non rientrano in una teoria esplicativa (1948 e 1975).
L’idea di una specifica "nevrosi noogena" che deriverebbe "da
conflitti morali, da contrasti di valori e -last but not least- da una
frustrazione esistenziale" (1952, p. 15), oltre ad introdurre variabili di
tipo metafisico, finisce paradossalmente per negare lo spessore esistenziale
che invece va riconosciuto a tutti i disturbi psicologici. L'orientamento esistenziale (o antropo-fenomenologico,
o antropoanalitico) ha sottolineato l'importanza dell'esame rispettoso ed
empatico del “mondo interno” dei “pazienti” senza però sviluppare una teoria
esplicativa dei disturbi psicologici descritti con tanta cura. E' davvero
difficile ricavare anche dalle pagine più interessanti di Jaspers (1913) o di
Minkowski (1933) o di Binswanger (1955) qualche spiegazione di un disturbo
psicologico o qualche indicazione sul modo di affrontarlo. Su un piano ben
diverso vanno invece collocate le ricerche di Irvin Yalom, il quale, pur
presupponendo l'ambito problematico della filosofia esistenziale, ha
manifestato un’esplicita insofferenza per le sue formulazioni
"astruse" (Yalom, 1980, p. 17). Egli ha quindi sviluppato un approccio volto
a collegare i particolari disturbi delle persone al loro modo di concepire
l’intera esistenza. Yalom trasforma il problema del “significato”
dell’esistenza nel problema del significato che noi possiamo dare alla nostra esistenza.
Proprio considerando le persone
responsabili delle loro azioni Yalom cerca nelle sedute più di chiarire le
scelte consce o inconsce delle persone che di attivarsi per “curare” i sintomi.
Discutendo
il caso di una donna che restava in una posizione indecisa e infantile rispetto
alle proprie responsabilità, Yalom sottolinea che la cliente cambiò tale
atteggiamento quando comprese cosa si proponeva: "Ogni fallimento
manteneva Jane nel ruolo di ragazza da proteggere e le evitava di fare delle
scelte. L'atteggiamento idealizzante ed adorante verso il terapeuta serviva
allo stesso scopo. L'aiuto era secondo la sua fantasia "là", nel
terapeuta, e il suo obiettivo in terapia era di fatto quello di indebolirsi
fino al punto in cui il terapeuta non avrebbe più potuto rifiutarle il suo
magico aiuto" (1980, p. 39). Questo
approccio psicoterapeutico è molto interessante, perché le modalità del lavoro
descritte da Yalom (Yalom-Elkin, 1974 e Yalom, 1989) sono coinvolgenti sul
piano umano e articolate su quello tecnico, anche se restano concettualizzate
nell’orizzonte “quasi-medico” della psicoterapia.
Credo che non sia proprio il caso di
considerare l'angoscia “esistenziale” come l'ennesima angoscia
"fondamentale" (dopo quella freudiana di castrazione, quella
adleriana di inferiorità, quella reichiana dell'orgasmo, ecc.), dato che gli
adulti tendono a trasformare in “angoscia” (o paura) e in rabbia qualsiasi tipo
di dolore e fanno questo fin dall’infanzia. Gli indirizzi psicoterapeutici che
attribuiscono un ruolo centrale al “problema” dell’angoscia, di fatto, trascurano
l’essenziale: è proprio la convinzione
(corretta a cinque anni, ma errata a venti o cinquanta) di non poter gestire il dolore che produce la fuga costante da ogni
situazione difficile e che addirittura produce idee angoscianti. Quando le
persone entrano nel loro dolore, immancabilmente scoprono che l'angoscia si
riduce e cominciano ad accettare che il dolore è un elemento che caratterizza
l’intera esistenza.
Senza l’accettazione del dolore non comprendiamo
quasi niente di ciò che è umano. Nei momenti di passaggio dalla pura esperienza
del dolore all'accettazione e integrazione del dolore, le persone in analisi
usano certe espressioni tipiche: "adesso capisco che non è colpa di
nessuno!" o "non si scappa da tutto ciò!". In queste espressioni
c’è un misto di disperazione e di sollievo. Parlando così rinunciano
all’ottimismo, ma anche all’ansia del perseguimento di un obiettivo impossibile
da realizzare. Nessuna filosofia può
dimostrare che le persone sono preziose in assoluto. L'analisi può però aiutare
le persone a sentirsi e a sentire di più e, di conseguenza, a sentirsi
preziose.
Un
cliente mi ha detto all’inizio di una seduta: “Ho visto una scena intensa in un
film ‘sentimentale’ e ho capito cosa mi manca nella mia relazione”. Tale
“illuminazione” in genere non si verifica perché le persone danno per scontato
che gli sceneggiatori ed i registi “amplifichino” le normali esperienze
affettive ed erotiche per raggiungere obiettivi artistici o per motivi
commerciali. Non ammettono che certi film (pochi, di fatto) descrivono fatti
corrispondenti al potenziale personale e che le persone, nella loro vita
quotidiana bloccano l’espressione di tali potenzialità. Avvertono una certa
pesantezza nella routine famigliare, ma pensano che anche quella pesantezza sia
parte essenziale della “vita reale”. Guardano le scene “emotivamente intense”
al cinema con lo stesso distacco con cui guardano quelle dei film di
fantascienza e le considerano quindi “irreali”. Il lavoro analitico non è né
una terapia né un “sostegno” proprio perché favorisce l’accettazione del dolore
dell’esistenza e proprio tale esperienza rende possibile un dialogo interno
sincero e rapporti interpersonali non superficiali.
Nel
romanzo Senza un soldo a Parigi e a
Londra (1933) George Orwell ha narrato le esperienze fatte in un periodo
trascorso da mendicante fra i mendicanti. Il libro mostra quanto possano essere
ingombranti i pensieri relativi a ciò che si potrà mangiare nel corso della
giornata, quando non si ha la certezza di poter mangiare. Mostra anche come il
dialogo interno costituisca il dono migliore (o peggiore) che ci possiamo
concedere. Inoltre mostra che proprio i momenti di incontro e solidarietà con persone amiche rendono “significativa”
una condizione penosa e precaria. Ciò vale anche quando le giornate scorrono
“normalmente” in una società opulenta o quando sono devastate dalla guerra, da
una grave malattia o dalla perdita di una persona amata. Ma allora cosa ci
rende felici? Se non inseguiamo il “potere del successo” (quello di un’attività
commerciale o di un movimento rivoluzionario o di un corso di studi o di un
corso di cucina), se non cerchiamo di ottenere l’amore “che ci salva” (quello
di un/una partner o di un cane o di un figlio), se non aspiriamo a costruire
un’identità personale “accettabile” (tale da farci apparire “brillanti” o
“tanto sensibili”), cosa possiamo fare? Di fatto possiamo rinunciare a fare
molte cose decisamente inutili come farsi ammazzare per una rivoluzione che
porterà al potere dei burattini di un altro colore, o corteggiare persone che
non sono ciò che sembrano o perdere tempo sudando in palestra o ricoprendoci di
tatuaggi o imitando dei personaggi che non sono persone. Se però non facciamo
cose semplicemente assurde, quali obiettivi razionali possiamo perseguire
svolgendo il nostro lavoro o scegliendo un vestito o assumendoci delle
responsabilità o aiutando qualcuno? Io credo che la lista degli obiettivi razionali e quindi tali da creare
felicità sia molto lunga, ma che in fondo si riduca alla cura di noi stessi e di chi amiamo. Credo che l’apertura
all’avventura dell’esistenza derivi dalla compassione
per noi stessi e dalla compassione per un’altra persona o per alcune persone o
per tutta l’umanità o per tutto il regno animale o per tutto il pianeta. La
compassione genera l’esigenza di fare qualcosa
per ridurre il dolore e aumentare la felicità.
La compassione, che non è
possibile senza l’accettazione della gioia sentita ed espressa e del dolore
sentito ed espresso, è il ponte che conduce
oltre la soggettività ed oltre la sopravvivenza. Include la comprensione e l’accettazione
di noi stessi e degli altri, ma soprattutto trasforma il dialogo interno in un’avventura. Le
persone normalmente non cercano di costruire un’esistenza realmente
soddisfacente e corrispondente alle loro potenzialità. Vivono piuttosto per
obiettivi difensivi e, di fatto, per non sapere chi sono e per non sentire ciò
che “da qualche parte” sentono sempre. Persino di notte fanno sogni difensivi
che ripropongono conflitti irrisolti, decisioni non prese, azioni non concluse,
e così via.
Quando
i dispensatori di illusioni elencano molti elementi che possono rendere
“sensata” (anziché “banale” o “superficiale”) l’esistenza umana,
non solo non ammettono di porre un problema confuso, ma non riconoscono di
offrire risposte contraddittorie. Includono nell’elenco delle soluzioni, ad
esempio, l’altruismo, come se occuparsi di sé non fosse comunque aver cura di
qualcuno. Oppure includono la cultura, ma poi non hanno il coraggio di dire ad
un analfabeta che sta vivendo una vita insensata. Oppure includono i valori
famigliari, ma “dispensano” dal perseguimento di tali valori i religiosi.
Oppure includono il “successo”, ma trascurano il fatto che dittatori, serial
killer ed anche cantanti di moda hanno ottenuto un posto nelle enciclopedie
come i grandi scienziati. Allo stesso modo, i seguaci dei dispensatori di illusioni
si sentono avviliti per la loro vita “insensata” se non hanno finito gli studi
o se hanno divorziato o se non hanno conquistato una “posizione” sociale. Ogni
elenco di magie che renderebbero la vita “sensata” è un elenco stilato
all’asilo, anche se riveduto e corretto negli anni successivi.
L’esigenza
di trascendere la propria soggettività e la sopravvivenza non è un’idea
astratta, ma ricapitola tutto ciò che nell’esistenza umana non si riduce ad
un’irrazionale pretesa di placare i fantasmi di un’infanzia non superata.
L’esigenza di trascendere la soggettività e la sopravvivenza si declina in
empatia, intimità sessuale, amicizia, solidarietà, curiosità, confronto,
conoscenza, cultura, creatività, gusto estetico e quindi impegno. Tutto ciò esclude qualsiasi interesse per gli aspetti che
risulterebbero significativi solo in un asilo pieno di bambini terrorizzati:
chi arriva per primo, chi cattura l’attenzione della maestra, chi è isolato, ecc.
In pratica esclude moltissimi aspetti della cultura “elevata” e di quella
“popolare” che predominano in occidente ed in oriente. Di fatto, purtroppo,
viviamo in una prigione con la porta aperta e non usciamo, come gli animali
nati in cattività e cresciuti in gabbia. Ci chiediamo quale sia il senso della
nostra vita, restando al di qua della porta aperta e dell’avventura che
potremmo vivere uscendo nel grande mondo. La buona notizia non sta nella
possibilità di trovare, prima o poi, un “significato”, ma proprio nella
possibilità di uscire, gestire il dolore e creare esperienze veramente
“nostre”.