sabato 14 luglio 2018

18. Sessualità e pregiudizi







Le persone possono imporsi un modello ideale (difensivo) di sessualità per sentirsi accettabili, ma in genere fanno anche di peggio: costruiscono concezioni generali adatte a “giustificare” i loro modelli e passano la vita a trasmettere le loro “convinzioni” agli altri e soprattutto ai figli. Le concezioni generali a cui mi riferisco non sono solo quelle religiose, ma anche quelle che riflettono atteggiamenti svalutativi, presuppongono convinzioni ingiustificate e vengono implicate nella comunicazione quotidiana. La madre che dice alla figlia di non far trasparire che ha preso “una cotta” o il padre che incoraggia il figlio a spassarsela prima di impegnarsi seriamente con una donna, trasmettono idee non meno arbitrarie e svalutative di quelle collocabili in complessi sistemi teologici. Perché non manifestare apertamente un desiderio? Perché contrapporre il piacere all’impegno? Le concezioni svalutative della sessualità (sia quelle “semplici”, sia quelle “teorizzate”, sia quelle tradizionali, sia quelle “progressiste”) avvolgono le particolari difese psicologiche come un vestito su misura. Una volta confezionate in termini ideologici, le difese psicologiche diventano pregiudizi condivisi che garantiscono “conferme” e “sostegno”. Per “ritrovarsi” e tornare libere di esprimersi le persone devono, quindi, da un lato fare i conti con il dolore da sempre negato e da un altro lato rinunciare al senso di “appartenenza” ottenuto esibendo una falsa identità socialmente approvata.
I bambini cedono a qualsiasi ricatto affettivo, ma gli adulti a volte si ribellano ai pregiudizi ed anche ai pregiudizi sessuali. Purtroppo, raramente si oppongono ai pregiudizi manifestando con fermezza convinzioni e sentimenti razionali. Spesso contrappongono ai pregiudizi dei "contropregiudizi", con i quali non si sottraggono realmente al gioco delle svalutazioni infantili.
Nei pregiudizi si istituisce un legame stretto fra certi comportamenti e una norma etica ritenuta evidente, oppure fra certi comportamenti e una norma statistica ritenuta inviolabile. In tale prospettiva ogni comportamento sessuale “diverso” da quelli “previsti” diventa automaticamente inaccettabile. Le religioni, l’etica, la psichiatria, la psicoterapia e varie ideologie politicizzate hanno costruito o “giustificato” i pregiudizi sessuali affermando una netta contrapposizione fra la sessualità “accettabile” e quella “inaccettabile” (perché contraria alla “natura” o al volere divino o alle statistiche). I pregiudizi sessuali nei casi più lievi hanno prodotto colpevolizzazioni, derisione, emarginazione e nei casi peggiori hanno prodotto vere persecuzioni: non solo gli ebrei, ma anche le persone omosessuali sono state internate nei campi di concentramento nazisti, e le donne “immorali” vengono ancor oggi lapidate dove il fanatismo islamico è molto radicato. Tuttavia, anche nei casi in cui l’intolleranza non diventa crimine individuale o sociale, costituisce una manifestazione gravissima dell’irrazionalità. Anche i contropregiudizi sono svalutativi e distruttivi. Per questo motivo è fondamentale sia l’analisi dei pregiudizi, sia l’analisi dei contropregiudizi. Infatti, proprio il legame fra comportamenti e norme (etiche o statistiche) apre le porte all’intolleranza e poco conta se l’oggetto dell’intolleranza è costituito da ciò che disturba le persone tradizionaliste o quelle che si definiscono “emancipate”.
Non voglio dedicare troppo spazio ai più comuni pregiudizi sessuali, ma voglio sottolineare i danni prodotti dai contropregiudizi, perché essi, proprio in quanto armi inadatte alla critica razionale dei pregiudizi, costituiscono il pericolo maggiore per le persone che, nelle società occidentali, sono abbastanza colte e curiose da interessarsi alle questioni più discusse. I contropregiudizi sono una sorta di “fuoco amico” che fa più danni (in certi ambiti della società) del fuoco dei “nemici” ufficialmente identificati. Nei contropregiudizi viene mantenuta la logica moralistica o patologizzante dei pregiudizi, anche se viene “capovolta”. I contropregiudizi distolgono l’attenzione dal vero problema costituito proprio dall’intolleranza. L’intolleranza è una mentalità divenuta brutalità culturale e non è un insieme di errori specifici da trattare separatamente. I medici devono distinguere particolari virus che colpiscono particolari organi, dato che curano malattie particolari, ma nell’ambito culturale o politico non esistono malattie e ogni pregiudizio è irrazionale in quanto pregiudizio e non in quanto rivolto ad un particolare bersaglio.
La stessa logica (quella del “non mi piace, quindi non va bene, quindi è intollerabile, quindi va escluso”) colpiva i neri in Sudafrica e colpisce ancora le minoranze sessuali, i fumatori bollati come “appestati”, i bevitori bollati come potenziali criminali. Nei treni e nei ristoranti non ci sono vagoni o stanze per fumatori semplicemente perché i fumatori non dovrebbero esserci, come in altre epoche gli ebrei o i “negri” o le persone omosessuali non dovevano “esserci” e al massimo potevano stare in luoghi ben delimitati. Io considero un mio problema l’insofferenza viscerale che provo nei confronti di chi usa forti profumi nei locali pubblici. Credo di avere anche delle buone ragioni per considerare tale abitudine un’aggressione olfattiva, un’intimità imposta e un superamento (grave) dei confini nei rapporti con gli estranei, ma non accetterei mai alcun proibizionismo riguardante l’uso dei profumi. Per tale ragione interpreto come persecuzioni inaccettabili tutti gli atteggiamenti intolleranti e quindi anche quelli non "tradizionali".
Va sottolineato un altro aspetto gravissimo dei contropregiudizi tanto cari ai “benpensanti progressisti”: non solo la logica dell’intolleranza è mantenuta quando vengono identificati e “protetti” solo particolari gruppi di vittime (le donne ma non le prostitute, gli immigrati ma non i rom, ecc.), ma è mantenuta anche quando le vittime di atteggiamenti intolleranti vengono “difese” in quanto “non davvero immorali” o “non realmente anormali” anziché in quanto persone.
Nel film Barriera invisibile (di Elia Kazan) la fidanzata di un giornalista che si fingeva ebreo per verificare sulla propria pelle le forme più sottili di intolleranza nell’America “democratica” degli anni ’40, cerca di rassicurare il figlio del giornalista, preso di mira dai compagni di classe, dicendogli che egli non è davvero ebreo. A quel punto, il padre del ragazzo la critica senza mezzi termini: il bambino merita rispetto perché è una persona e non perché “non è davvero ebreo”. E’ quindi inaccettabile, a mio parere, che proprio psichiatri, psicologi, sessuologi e psicoterapeuti abbiano rinunciato a diagnosticare le persone omosessuali come patologiche definendole come “diversamente normali”. Da quando hanno cessato la “terapia persecutoria”, hanno istituito la “non terapia rassicurante” e in tal modo la “comunità scientifica” ha dimostrato di non avere affatto a cuore né il problema dell’intolleranza, né le persone omosessuali. Psichiatri e psicoterapeuti diagnosticavano e "curavano" l’omosessualità quando i pregiudizi negativi erano socialmente dominanti e hanno cambiato diagnosi proprio quando l’omosessualità è divenuta (almeno in qualche misura) socialmente tollerata. Avrebbero fatto meglio a contestare l’intolleranza quando era culturalmente dominante, così come oggi farebbero bene a contestare l’uso del concetto di “omofobia”. Infatti, chi disprezza, molesta o aggredisce persone omosessuali dovrebbe essere combattuto politicamente in quanto manifesta intolleranza e chi ha reali fobie (relative agli ascensori o agli omosessuali) dovrebbe essere lasciato in pace o aiutato, se lo desidera. Allo stesso modo, chi ancora (soprattutto in ambito culturale cattolico) teorizza “patologie” omosessuali dovrebbe essere contestato per ciò che dice e non per la immaginaria “omofobia” che manifesta. Infatti, le convinzioni errate o pregiudiziali sull’omosessualità meritano di essere esaminate in quanto errate o pregiudiziali e non in quanto “non più di moda”.
Le ideologie sono macchine da guerra molto efficaci e ingombranti. Occupano nella storia della cultura tutti gli spazi non occupati dal pensiero scientifico e dall’analisi filosofica. Raccolgono pregiudizi di tutti i tipi e finiscono sempre per incoraggiare forme lievi o gravi di intolleranza. La paura è la colla delle ideologie e la rabbia ne è l’esito. Non a caso i diversi filoni ideologici si intrecciano in molti modi: la svalutazione del piacere sessuale può essere collegata ad un’ideologia fascista o ad una concezione religiosa, ma può anche essere collegata a convinzioni laiche e progressiste.
Le ideologie riflettono il bisogno di non capire e non sentire proclamando conoscenze inesistenti e sollecitando forti emozioni irrazionali. Giustificano svalutazioni nei confronti delle persone che, a seconda dei casi, vengono identificate come “gli altri” e “i nemici”. Non a caso, non esistono ideologie della libertà, del piacere e dell’amore perché le persone capaci in qualche misura di esprimere conoscenze e sentimenti corrispondenti al loro potenziale personale non provano alcun bisogno di contrapporre le loro idee e i loro sentimenti alle idee ed ai sentimenti degli altri. A tale proposito si deve tener presente che il liberalismo non è un’ideologia della libertà, ma una giustificazione dello sfruttamento capitalistico e che il cristianesimo ha trasformato l’amore nella condanna e nella persecuzione dei “peccatori” e degli “eretici”. Le persone che provano sentimenti non difensivi e che quindi pensano ed agiscono razionalmente, possono testimoniare la loro felicità, spiegare ciò che hanno compreso e anche trasmettere con un gesto, una poesia o un romanzo il loro amore, ma non provano paura e rabbia nei confronti di chi si guasta la vita. Possono opporsi a chi esercita qualche tipo di violenza ma, se lottano, agiscono per qualcosa e non contro qualcuno.
Alla base di una visione razionale della sessualità, si collocano tre convinzioni: a) le persone sono accettabili in quanto persone (indipendentemente da qualsiasi inibizione o espressione sessuale non distruttiva), b) i comportamenti sessuali possono essere analizzati e compresi (non approvati/disapprovati) come espressivi o difensivi, c) tutti i comportamenti sessuali consensuali e non violenti sono socialmente da rispettare. Purtroppo, le più diffuse concezioni politiche, e (pseudo)scientifiche riguardanti la sessualità sono normative, e ciò vale sia per quelle tradizionaliste, sia per la maggior parte di quelle “politicamente corrette”. Le concezioni ideologiche normative non hanno come obiettivo la diffusione della conoscenza perché affermano vecchie o nuove contrapposizioni fra idee o comportamenti “accettabili” e “non accettabili”. Se si considera che nel movimento femminista le prostitute sono da alcuni gruppi “sostenute” in quanto donne e da altri gruppi sono ostracizzate in quanto complici del “maschilismo” si capisce bene fino a quale punto tale movimento sia basato su istanze moralistiche. Addirittura, vi sono femministe come Andrea Dworkin che considerano persino i rapporti eterosessuali non mercenari e consensuali come uno sfruttamento maschile del corpo femminile (cfr. Hughes, 1993, pp. 26): in pratica sostituiscono la concezione cattolica della “naturale” sessualità procreativa con la concezione della “naturale” frigidità femminile. Anche le persone transgender hanno per analoghe “ragioni” ottenuto sia “sostegno”, sia squalificazioni da parte di vari gruppi femministi. Tali fatti mostrano che i successi (parziali, superficiali, ma a volte anche apprezzabili) del variegato movimento delle donne e di varie minoranze sessuali non sono stati in genere l’esito di un rifiuto radicale della repressione sessuale, ma di semplici “revisioni” o “aggiornamenti” della cultura sessuonegativa.
Nulla giustifica l’idea che siano “differenze di genere” quelle che sono solo il risultato di tradizioni culturali irrazionali. Per lo stesso motivo nulla può giustificare le disparità di trattamento economico, a parità di ruolo lavorativo, fra donne e uomini e nulla può giustificare il fatto che le donne continuino abitualmente ad occuparsi della casa e dei figli anche quando svolgono un lavoro a tempo pieno. In una società in cui chiunque può sposarsi senza sapere perché lo fa, se lo desidera, non si capisce per quale motivo tale diritto debba venire negato a coppie omosessuali, così come non si capisce per quale motivo tali coppie non possano adottare dei bambini. I bambini vengono messi al mondo o adottati per motivi ragionevoli o assurdi, ma nulla può far pensare che una coppia omosessuale possa accudire i figli adottivi meglio o peggio di una coppia eterosessuale. Tra l’altro, non dobbiamo dimenticare che nelle coppie eterosessuali si manifestano normalmente forme di accudimento dei figli semplicemente disastrose. Le madri “colpite” dalla “depressione post partum”, o quelle che non sono depresse ma non allattano i figli, oppure quelle che li allattano ma li svezzano precocemente, non sono più “materne” di quanto possano esserlo dei maschi omosessuali. Coppie che litigano frequentemente, magari cercando il sostegno dei figli, non offrono modelli di identificazione maschili e femminili più validi di quelli che possono offrire coppie omosessuali. I bambini, purtroppo, attraversano difficoltà gravissime nel loro sviluppo psicologico e solo per radicati pregiudizi si può pensare che comunque i figli siano adeguatamente protetti da genitori normalmente distruttivi ma eterosessuali. Analoghe considerazioni valgono per altre forme di discriminazione: in una società in cui le persone sono libere di sentirsi intelligenti, colte, “importanti” o “inferiori” o “inadeguate” anche se non sono tali, non si capisce perché un uomo che “si sente femmina” o una donna che “si sente maschio” debba subire manifestazioni di intolleranza. Queste vicende interiori non dovrebbero ragionevolmente essere di interesse pubblico. L’emarginazione è razionale se riferita ai comportamenti distruttivi e sicuramente la criminalità e l’adesione ad ideologie violente sono rilevanti socialmente e politicamente, ma l’abbigliamento delle persone transgender non può ragionevolmente costituire un problema di interesse sociale.
La società contemporanea tecnologicamente sviluppata è rimasta una società sessualmente e culturalmente arretrata. I dibattiti politici sulla procreazione assistita ne sono un esempio lampante. Già il fatto che tale questione sia concepita come “bioetica” indica una netta indisponibilità ad un confronto scientifico e politico, ma l’isolamento di tale questione dal problema più generale del rapporto fra genitori e figli indica che i problemi più delicati non risultano interessanti. Le persone non solo si sposano per i motivi più bizzarri, come è dimostrato dal fatto che in genere divorziano in modi distruttivi, ma decidono anche di fare figli senza avere alcuna consapevolezza delle ragioni di tale decisione. E’ davvero rara la disponibilità ad accudire dei figli ed il desiderio di fare tale esperienza con un/una partner. E’ molto più comune il desiderio (spesso sentito come un bisogno) di “avere dei figli” e tale avidità difensiva (manifestata soprattutto dalle donne) sta alla base dei successivi normali maltrattamenti dei bambini che, inevitabilmente, non possono soddisfare i capricci dei genitori. Ora, se questa confusione caratterizza genitori giovani e normalmente fertili, è facile pensare che possa essere anche più accentuata in coppie che per avere figli sono disposte a fare operazioni costose e complicate, o in coppie troppo anziane per procreare. Questa “voracità genitoriale” non è argomento di discussione, perché le persone, anche quelle colte, preferiscono parlare di leggi “naturali” violate, oppure del “diritto” alla maternità.
Analoghe considerazioni valgono per il diritto delle donne a non perdere il posto di lavoro per una gravidanza. Un diritto difficilmente contestabile. Ciò che non si capisce è semmai il motivo per cui le donne non abbiano mai fatto alcuna battaglia per dilatare i tempi del congedo di maternità, dal momento che i neonati hanno bisogno della madre (non del padre o della nonna o di una baby-sitter) per almeno un anno. In pratica, il “diritto” di fare figli da abbandonare precocemente prevale socialmente e culturalmente sul diritto di fare figli di cui aver cura (o sulla scelta di rinunciare ad avere figli se non si ha alcun desiderio di offrire ciò di cui hanno bisogno). Purtroppo, anche in questo caso, le sciocchezze sul cosiddetto “istinto materno”, le idee vaghe sui “diritti” delle donne, gli interesse delle aziende e l’indifferenza dello Stato per i cittadini più deboli (i bambini) contribuiscono a celare i veri problemi, a trascurare le esigenze dei neonati e a portare avanti discussioni interminabili ideologicamente appassionanti e culturalmente vuote.
Le discriminazioni sociali sono sempre irrazionali, salvo quelle derivanti da condanne dovute a reati commessi. Mentre ogni forma di schiavitù (non solo sessuale) o sfruttamento dovrebbe essere contrastata alle radici, la prostituzione in quanto tale non può essere ragionevolmente considerata diversa dalle altre attività professionali. Non si capisce perché le prostitute debbano essere trattate come lavoratrici “speciali” da relegare in appositi quartieri o da tutelare in quanto vittime di qualche oppressione psicologica o culturale. Sicuramente la loro scelta professionale può derivare anche da problemi psicologici non risolti, ma ciò si verifica nell’ambito di qualsiasi professione: molti infermieri provano il bisogno (difensivo) di sentirsi servizievoli e molti medici e psicoterapeuti provano il bisogno (difensivo) di sentirsi indispensabili. Le discussioni sul “degrado” di certi quartieri si capiscono solo all’interno di una cultura dell’intolleranza, della discriminazione e della svalutazione della sessualità.
Ogni oppressione, ogni sfruttamento economico e psicologico e ogni violenza gratuita è irrazionale, ma anche il vittimismo è una forma subdola di sfruttamento; è un atteggiamento difensivo che diventa socialmente distruttivo appena viene fatto proprio da un gruppo ideologizzato o politicizzato. L’idea che le persone con disturbi psicologici tanto gravi da uccidere altre persone siano condannabili in quanto mosse da “istanze maschiliste” è semplicemente un’idea assurda. Per questo motivo il concetto di femminicidio è un oltraggio al buon senso (come quello di “omicidio stradale”) e serve solo ad alimentare paure e rancori a loro volta irrazionali. Chi commette un omicidio (qualsiasi tipo di omicidio) va isolato ed anche aiutato, nei limiti del possibile, a trovare un equilibrio psicologico migliore. L’idea di svalutare i criminali in quanto portatori di un’ideologia sessista costituisce un’acrobazie mentale ingiustificabile, che però ottiene consensi perché “le masse” hanno bisogno di colpevoli da odiare. Acrobazie mentali di questo tipo conducono all’idea secondo cui un uomo che si ubriaca e uccide la moglie esprime un atteggiamento “maschilista”, mentre una donna che partorisce un bambino e lo abbandona perché “colpita” dalla depressione non è altro che una persona “in difficoltà”.
Le tradizionali manifestazioni dei pregiudizi sessuali e dell’intolleranza nei confronti del piacere sessuale, hanno prodotto risultati difficili da contrastare persino nell’ambito linguistico, in cui, di fatto abbondano svalutazioni sessuali. Credo che occorreranno tempi lunghissimi prima che espressioni come “figlio di puttana” o “segaiolo” o “vaffanculo” cadano in disuso. Negli ultimi anni, solo i termini volgari riguardanti l’omosessualità sono stati espunti dall’elenco delle parole “consentite”, almeno in certi ambiti sociali e culturali, ma non per un reale cambiamento nella consapevolezza delle persone. Le altre espressioni pesantemente offensive restano in uso perché la gente continua a considerare la prostituzione come un’attività degradante e continua a considerare i giochi erotici extragenitali come sudici. La gente continua a considerare la masturbazione come la prova di una “inadeguatezza” di chi è troppo giovane o ha poco “successo” sul piano erotico, come se la sessualità dovesse essere la prova di un normale inserimento sociale e non un’esperienza gioiosa che purtroppo non è sempre realizzabile. Per questo occorrerà tempo prima che molti termini svalutativi riguardanti la sfera della sessualità vengano percepiti come “disturbanti”.
Il linguaggio, nella sua inerzia conservatrice e nei suoi aggiornamenti superficiali riflette la permanenza di una cultura antierotica che costituisce solo la punta dell’iceberg costituito da una cultura fondata sulla paura del dolore. Poco cambia se alle bambine non si impongono più i vestiti rosa alle feste o addirittura si vieta di giocare con le bambole e se i bambini vengono sgridati se vogliono giocare con pistole e fucili. Anche se le persone attente alle mode culturali si concentrano su queste sciocchezze, il superamento degli stereotipi di genere o dei pregiudizi sessuali può realizzarsi solo nell’ambito di una cultura del piacere e del piacere sessuale e tale cultura può essere autentica solo come riflesso di una reale e condivisa accettazione del piacere e del dolore, cioè della condizione umana.
In una società basata sullo sfruttamento economico, sull’autoritarismo sociale, sul disinteresse collettivo per la qualità della vita delle persone, sulla negazione del dolore, sulla svalutazione del piacere sessuale e sull’indifferenza nei confronti della sofferenza dei bambini, qualsiasi rivendicazione “particolare” finisce per diventare un’oggettiva collusione con il potere che a parole viene contestato. Ogni rivendicazione delle donne in quanto donne o delle minoranze sessuali in quanto gruppi particolari, di fatto consolida la logica dell’oppressione. In una realtà sociale in cui la politica è semplice amministrazione dell’ingiustizia, le quote rosa consentono solo a più donne il diritto di contribuire all’orrore della società “data”. In una realtà sociale sessuonegativa e basata sulla famiglia e non sulle persone (e quindi sul controllo pubblico della dimensione privata) il matrimonio delle persone omosessuali costituisce una oggettiva conferma dell’istituzione del matrimonio. Rivendicazioni di questo tipo possono essere appoggiate per contrastare posizioni ancora più irrazionali, ma non in quanto espressioni di cambiamenti significativi nella consapevolezza dei problemi in questione.
Le idee più strane sulla sessualità sono solo il sottoprodotto di idee normali e strane sul piacere in generale e sulla dimensione soggettiva delle persone. I bambini imparano a diffidare delle loro sensazioni e del loro piacere ben prima di ricevere esplicite punizioni se colti a “giocare al dottore”. Prima di capire cosa sia la sessualità imparano che essa ha a che fare con il piacere e che il piacere non è accettabile come lo sono, invece, l’igiene, l’ordine, l’efficienza, lo studio e i giochi che comportano la competizione e l’autoaffermazione. I bambini “da qualche parte” sanno sempre di potersi (ed anche di doversi) “affermare”, ma non sanno di poter “affermare” ciò che sono. Senza la libertà di “affermare” ciò che sono e ciò che sentono non possono sentirsi liberi di andare “oltre” la propria soggettività, di trascenderla e di creare intimità. La repressione del piacere, del contatto e della sessualità è un incubo sociale antico, continuamente aggiornato e mantenuto sia da chi prova disagio, paura e rabbia e manifesta forme consolidate di intolleranza, sia da chi per paura e rabbia reagisce manifestando nuove forme di intolleranza. Questo incubo è davvero terribile e sembra occupare una notte che non finisce mai.
La repressione sessuale non è altro che l’esito inevitabile di una dissociazione da un dolore troppo grande sperimentato dai bambini e dalle bambine troppo presto e in solitudine. Non a caso ogni tentativo di emancipazione sessuale fallisce oppure ha successo solo se è “recuperabile” dalla società “data”, e quindi solo se è utilizzabile come “distrazione” o come ribellione inconcludente. Una vera rivoluzione sessuale è semplicemente impensabile in un mondo in cui i bambini sono trattati come oggetti da inserire in una società composta da ex-bambini dissociati dal dolore e divenuti incapaci di essere felici.
Migliaia di psichiatri, psicologi, sessuologi e psicoterapeuti si occupano di tutto, tranne che dei bambini. Se i bambini non sono violentati, brutalmente maltrattati o “affetti” da “patologie diagnosticate”, sono ignorati o ritenuti “sani”. La normale infelicità dei bambini non è argomento di interesse specialistico. Gli psicologi scolastici possono “occuparsi” di bambini “iperattivi” o “asociali”, ma non hanno nulla da dire sulla catena di montaggio costituita da rigidi programmi scolastici, interrogazioni, votazioni e compiti a casa. I bambini che fanno domande senza ottenere risposte, che cercano il piacere e vengono colpevolizzati, che possono giocare a nascondino ma non possono essere allattati per un anno intero se la madre lavora, sono bambini infelici. Sono davvero nella norma, ma non vivono in una normalità adatta a loro. Con il DM n. 17/2011 sono state introdotte delle lezioni tenute da psicologi nei corsi di formazione per insegnanti e istruttori di autoscuole. La notizia è passata inosservata, come l’affissione di un cartello che vieta in un parco vicino a casa mia di giocare a pallone. Trovo bizzarro quel cartello, ma trovo sconcertante che dopo un secolo abbondante di psicologia e di psicoterapia gli psicologi si attivino per contribuire alla formazione degli ingegneri che insegnano a guidare un’autovettura. Chi sentiva la mancanza di questo contributo “formativo” in una società in cui i bambini vengono messi al mondo da genitori che credono che il coito interrotto sia un metodo anticoncezionale e vengono allevati da genitori interessati solo alla moda autunno, al calcio, alle festività natalizie e magari alla dieta vegana, ma non hanno la più pallida idea di cosa sia importante per un essere umano in formazione? E’ davvero indispensabile spiegare ad un istruttore di scuola guida come rendere ottimale la comprensione di concetti che da un secolo tutti imparano benissimo? E’ davvero indispensabile tale impegno professionale mentre le maestre normalmente mettono i bambini in competizione fra loro e li elogiano se ottengono buoni voti? Ciò dimostra la necessità di chiarire sia i pregiudizi (vecchi e nuovi) sulla sessualità, sia i pregiudizi che colpiscono i bambini.
La cultura della “non compassione” è necessariamente una cultura della “non passione”, perché proprio la compassione per il dolore favorisce l’empatia, l’attenzione alla soggettività delle altre persone, il desiderio del contatto ed anche il desiderio sessuale. La cultura della paura, invece, tollera solo alcune espressioni circoscritte del dolore e del piacere. Secondo tale cultura, ciò che supera l’orizzonte concettuale della normalità non è previsto e, se diventa visibile, risulta inaccettabile. Proprio tale tessuto culturale e sociale favorisce i pregiudizi, i contropregiudizi e l’intolleranza, generando la rassegnazione a vivere “poco”.