Le persone possono imporsi un modello ideale (difensivo) di sessualità per sentirsi accettabili,
ma in genere fanno anche di peggio: costruiscono concezioni generali adatte a “giustificare” i loro modelli e
passano la vita a trasmettere le loro “convinzioni” agli altri e soprattutto ai
figli. Le concezioni generali a cui mi riferisco non sono solo quelle
religiose, ma anche quelle che riflettono atteggiamenti svalutativi, presuppongono convinzioni ingiustificate e vengono implicate nella comunicazione quotidiana. La
madre che dice alla figlia di non far trasparire che ha preso “una cotta” o il
padre che incoraggia il figlio a spassarsela prima di impegnarsi seriamente con
una donna, trasmettono idee non meno arbitrarie e svalutative di quelle
collocabili in complessi sistemi teologici. Perché non manifestare apertamente
un desiderio? Perché contrapporre il piacere all’impegno? Le concezioni svalutative
della sessualità (sia quelle “semplici”, sia quelle “teorizzate”, sia quelle
tradizionali, sia quelle “progressiste”) avvolgono le particolari difese psicologiche
come un vestito su misura. Una volta confezionate in termini ideologici, le
difese psicologiche diventano pregiudizi condivisi che garantiscono “conferme”
e “sostegno”. Per “ritrovarsi” e tornare libere di esprimersi le persone
devono, quindi, da un lato fare i conti con il dolore da sempre negato e da un
altro lato rinunciare al senso di “appartenenza” ottenuto esibendo una falsa
identità socialmente approvata.
I bambini cedono a qualsiasi ricatto affettivo, ma
gli adulti a volte si ribellano ai
pregiudizi ed anche ai pregiudizi sessuali. Purtroppo, raramente si oppongono ai pregiudizi manifestando con fermezza
convinzioni e sentimenti razionali. Spesso contrappongono ai pregiudizi dei "contropregiudizi", con i quali non si
sottraggono realmente al gioco delle svalutazioni infantili.
Nei pregiudizi si istituisce un legame stretto fra
certi comportamenti e una norma etica ritenuta evidente, oppure fra certi
comportamenti e una norma statistica ritenuta inviolabile. In tale prospettiva
ogni comportamento sessuale “diverso” da quelli “previsti” diventa
automaticamente inaccettabile. Le religioni, l’etica, la psichiatria, la
psicoterapia e varie ideologie politicizzate hanno costruito o “giustificato” i
pregiudizi sessuali affermando una netta contrapposizione fra la sessualità
“accettabile” e quella “inaccettabile” (perché
contraria alla “natura” o al volere divino o alle statistiche). I pregiudizi sessuali nei casi più
lievi hanno prodotto colpevolizzazioni, derisione, emarginazione e nei casi
peggiori hanno prodotto vere persecuzioni: non solo gli ebrei, ma anche le
persone omosessuali sono state internate nei campi di concentramento nazisti, e
le donne “immorali” vengono ancor oggi lapidate dove il fanatismo islamico è
molto radicato. Tuttavia, anche nei casi in cui l’intolleranza non diventa
crimine individuale o sociale, costituisce una manifestazione gravissima
dell’irrazionalità. Anche i contropregiudizi sono svalutativi e distruttivi. Per questo motivo è fondamentale sia l’analisi
dei pregiudizi, sia l’analisi dei contropregiudizi. Infatti, proprio il legame fra comportamenti e norme
(etiche o statistiche) apre le porte all’intolleranza e poco conta se
l’oggetto dell’intolleranza è costituito da ciò che disturba le persone
tradizionaliste o quelle che si definiscono “emancipate”.
Non voglio dedicare troppo spazio ai più comuni pregiudizi
sessuali, ma voglio sottolineare i danni prodotti dai contropregiudizi, perché
essi, proprio in quanto armi inadatte alla critica razionale dei pregiudizi,
costituiscono il pericolo maggiore per le persone che, nelle società
occidentali, sono abbastanza colte e curiose da interessarsi alle questioni più
discusse. I contropregiudizi sono una sorta di “fuoco amico” che fa più danni
(in certi ambiti della società) del fuoco dei “nemici” ufficialmente
identificati. Nei contropregiudizi viene mantenuta la logica moralistica o
patologizzante dei pregiudizi, anche se viene “capovolta”. I contropregiudizi
distolgono l’attenzione dal vero problema
costituito proprio dall’intolleranza.
L’intolleranza è una mentalità divenuta brutalità culturale e non è un insieme
di errori specifici da trattare separatamente. I medici devono distinguere
particolari virus che colpiscono particolari organi, dato che curano malattie
particolari, ma nell’ambito culturale o politico non esistono malattie e ogni pregiudizio
è irrazionale in quanto pregiudizio e
non in quanto rivolto ad un particolare bersaglio.
La stessa logica (quella del “non mi piace, quindi
non va bene, quindi è intollerabile, quindi va escluso”) colpiva i neri in
Sudafrica e colpisce ancora le minoranze sessuali, i fumatori bollati come
“appestati”, i bevitori bollati come potenziali criminali. Nei treni e nei
ristoranti non ci sono vagoni o stanze per fumatori semplicemente perché i
fumatori non dovrebbero esserci, come
in altre epoche gli ebrei o i “negri” o le persone omosessuali non dovevano
“esserci” e al massimo potevano stare in luoghi ben delimitati. Io considero un
mio problema l’insofferenza viscerale che provo nei confronti di chi usa forti
profumi nei locali pubblici. Credo di avere anche delle buone ragioni per
considerare tale abitudine un’aggressione olfattiva, un’intimità imposta e un
superamento (grave) dei confini nei rapporti con gli estranei, ma non accetterei
mai alcun proibizionismo riguardante l’uso dei profumi. Per tale ragione
interpreto come persecuzioni inaccettabili tutti gli atteggiamenti intolleranti e quindi anche quelli non "tradizionali".
Va sottolineato un altro aspetto gravissimo dei
contropregiudizi tanto cari ai “benpensanti progressisti”: non solo la logica
dell’intolleranza è mantenuta quando vengono identificati e “protetti” solo particolari gruppi di vittime (le
donne ma non le prostitute, gli immigrati ma non i rom, ecc.), ma è mantenuta
anche quando le vittime di atteggiamenti intolleranti vengono “difese” in quanto “non davvero immorali” o “non
realmente anormali” anziché in quanto
persone.
Nel film Barriera
invisibile (di Elia Kazan) la fidanzata di un giornalista che si fingeva
ebreo per verificare sulla propria pelle le forme più sottili di intolleranza
nell’America “democratica” degli anni ’40, cerca di rassicurare il figlio del
giornalista, preso di mira dai compagni di classe, dicendogli che egli non è davvero ebreo. A quel punto, il padre
del ragazzo la critica senza mezzi termini: il bambino merita rispetto perché è
una persona e non perché “non è davvero ebreo”. E’ quindi inaccettabile, a mio
parere, che proprio psichiatri, psicologi, sessuologi e psicoterapeuti abbiano rinunciato
a diagnosticare le persone omosessuali come patologiche definendole come
“diversamente normali”. Da quando hanno cessato la “terapia persecutoria”,
hanno istituito la “non terapia rassicurante” e in tal modo la “comunità
scientifica” ha dimostrato di non avere affatto a cuore né il problema
dell’intolleranza, né le persone omosessuali. Psichiatri e psicoterapeuti
diagnosticavano e "curavano" l’omosessualità quando i pregiudizi negativi erano
socialmente dominanti e hanno cambiato diagnosi proprio quando l’omosessualità
è divenuta (almeno in qualche misura) socialmente tollerata. Avrebbero fatto
meglio a contestare l’intolleranza quando era culturalmente dominante, così
come oggi farebbero bene a contestare l’uso del concetto di “omofobia”.
Infatti, chi disprezza, molesta o aggredisce persone omosessuali dovrebbe
essere combattuto politicamente in quanto
manifesta intolleranza e chi ha reali fobie (relative agli ascensori o agli
omosessuali) dovrebbe essere lasciato in pace o aiutato, se lo desidera. Allo
stesso modo, chi ancora (soprattutto in ambito culturale cattolico) teorizza
“patologie” omosessuali dovrebbe essere contestato per ciò che dice e non per
la immaginaria “omofobia” che manifesta. Infatti, le convinzioni errate o
pregiudiziali sull’omosessualità meritano di essere esaminate in quanto errate o
pregiudiziali e non in quanto “non più di moda”.
Le ideologie sono macchine da guerra molto efficaci
e ingombranti. Occupano nella storia della cultura tutti gli spazi non occupati
dal pensiero scientifico e dall’analisi filosofica. Raccolgono pregiudizi di
tutti i tipi e finiscono sempre per incoraggiare forme lievi o gravi di
intolleranza. La paura è la colla delle
ideologie e la rabbia ne è l’esito. Non a caso i diversi filoni ideologici
si intrecciano in molti modi: la svalutazione del piacere sessuale può essere
collegata ad un’ideologia fascista o ad una concezione religiosa, ma può anche essere
collegata a convinzioni laiche e progressiste.
Le ideologie riflettono il bisogno di non capire e non sentire
proclamando conoscenze inesistenti e sollecitando forti emozioni irrazionali. Giustificano svalutazioni nei confronti delle persone che, a seconda dei
casi, vengono identificate come “gli altri” e “i nemici”. Non a caso, non esistono ideologie della libertà, del
piacere e dell’amore perché le persone capaci in qualche misura di
esprimere conoscenze e sentimenti corrispondenti al loro potenziale personale non provano alcun bisogno di contrapporre
le loro idee e i loro sentimenti alle idee ed ai sentimenti degli altri. A tale
proposito si deve tener presente che il liberalismo non è un’ideologia della libertà, ma una giustificazione dello sfruttamento
capitalistico e che il cristianesimo ha trasformato l’amore nella condanna e
nella persecuzione dei “peccatori” e degli “eretici”. Le persone che provano
sentimenti non difensivi e che quindi pensano ed agiscono razionalmente,
possono testimoniare la loro felicità, spiegare ciò che hanno compreso e anche
trasmettere con un gesto, una poesia o un romanzo il loro amore, ma non provano
paura e rabbia nei confronti di chi si guasta la vita. Possono opporsi a chi esercita
qualche tipo di violenza ma, se lottano, agiscono per qualcosa e non contro
qualcuno.
Alla base di una visione razionale della sessualità,
si collocano tre convinzioni: a) le persone sono accettabili in quanto persone
(indipendentemente da qualsiasi inibizione o espressione sessuale non distruttiva), b) i
comportamenti sessuali possono essere analizzati e compresi (non
approvati/disapprovati) come espressivi o difensivi, c) tutti i comportamenti
sessuali consensuali e non violenti sono socialmente da rispettare. Purtroppo, le più
diffuse concezioni politiche, e (pseudo)scientifiche riguardanti la sessualità
sono normative, e ciò vale sia per quelle tradizionaliste, sia per la maggior
parte di quelle “politicamente corrette”. Le concezioni ideologiche normative
non hanno come obiettivo la diffusione della conoscenza perché affermano
vecchie o nuove contrapposizioni fra idee o comportamenti “accettabili” e “non
accettabili”. Se si considera che nel movimento femminista le prostitute sono
da alcuni gruppi “sostenute” in quanto
donne e da altri gruppi sono ostracizzate in quanto complici del
“maschilismo” si capisce bene fino a quale punto tale movimento sia basato
su istanze moralistiche. Addirittura, vi sono femministe come Andrea Dworkin
che considerano persino i rapporti eterosessuali non mercenari e consensuali
come uno sfruttamento maschile del corpo femminile (cfr. Hughes,
1993, pp. 26): in pratica sostituiscono la concezione cattolica della
“naturale” sessualità procreativa con la concezione della “naturale” frigidità
femminile. Anche le persone transgender
hanno per analoghe “ragioni” ottenuto sia “sostegno”, sia squalificazioni da parte
di vari gruppi femministi. Tali fatti mostrano che i successi (parziali,
superficiali, ma a volte anche apprezzabili) del variegato movimento delle donne
e di varie minoranze sessuali non sono stati in genere l’esito di un rifiuto
radicale della repressione sessuale, ma di semplici “revisioni” o
“aggiornamenti” della cultura sessuonegativa.
Nulla giustifica l’idea che siano “differenze di
genere” quelle che sono solo il risultato di tradizioni culturali irrazionali.
Per lo stesso motivo nulla può giustificare le disparità di trattamento
economico, a parità di ruolo lavorativo, fra donne e uomini e nulla può
giustificare il fatto che le donne continuino abitualmente ad occuparsi della
casa e dei figli anche quando svolgono un lavoro a tempo pieno. In una società
in cui chiunque può sposarsi senza sapere perché lo fa, se lo desidera, non si
capisce per quale motivo tale diritto debba venire negato a coppie omosessuali,
così come non si capisce per quale motivo tali coppie non possano adottare dei
bambini. I bambini vengono messi al mondo o adottati per motivi ragionevoli o
assurdi, ma nulla può far pensare che una coppia omosessuale possa accudire i
figli adottivi meglio o peggio di una coppia eterosessuale. Tra l’altro, non
dobbiamo dimenticare che nelle coppie eterosessuali si manifestano normalmente forme di accudimento dei
figli semplicemente disastrose. Le madri “colpite” dalla “depressione post
partum”, o quelle che non sono depresse ma non allattano i figli, oppure quelle
che li allattano ma li svezzano precocemente, non sono più “materne” di quanto
possano esserlo dei maschi omosessuali. Coppie che litigano frequentemente,
magari cercando il sostegno dei figli, non offrono modelli di identificazione
maschili e femminili più validi di quelli che possono offrire coppie
omosessuali. I bambini, purtroppo, attraversano difficoltà gravissime nel loro
sviluppo psicologico e solo per radicati pregiudizi si può pensare che comunque
i figli siano adeguatamente protetti da genitori normalmente distruttivi ma
eterosessuali. Analoghe considerazioni valgono per altre forme di
discriminazione: in una società in cui le persone sono libere di sentirsi
intelligenti, colte, “importanti” o “inferiori” o “inadeguate” anche se non
sono tali, non si capisce perché un uomo che “si sente femmina” o una donna che
“si sente maschio” debba subire manifestazioni di intolleranza. Queste vicende
interiori non dovrebbero ragionevolmente essere di interesse pubblico.
L’emarginazione è razionale se riferita ai comportamenti distruttivi e
sicuramente la criminalità e l’adesione ad ideologie violente sono rilevanti socialmente
e politicamente, ma l’abbigliamento delle persone transgender non può
ragionevolmente costituire un problema di interesse sociale.
La società contemporanea tecnologicamente sviluppata
è rimasta una società sessualmente e culturalmente arretrata. I dibattiti
politici sulla procreazione assistita ne sono un esempio lampante. Già il fatto
che tale questione sia concepita come “bioetica” indica una netta
indisponibilità ad un confronto scientifico e politico, ma l’isolamento di tale
questione dal problema più generale del rapporto fra genitori e figli indica
che i problemi più delicati non risultano interessanti. Le persone non solo si
sposano per i motivi più bizzarri, come è dimostrato dal fatto che in genere
divorziano in modi distruttivi, ma decidono anche di fare figli senza avere
alcuna consapevolezza delle ragioni di tale decisione. E’ davvero rara la disponibilità ad accudire dei figli ed
il desiderio di fare tale esperienza con un/una partner. E’ molto più comune
il desiderio (spesso sentito come un bisogno) di “avere dei figli” e tale
avidità difensiva (manifestata soprattutto dalle donne) sta alla base dei
successivi normali maltrattamenti dei bambini che, inevitabilmente, non possono
soddisfare i capricci dei genitori. Ora, se questa confusione caratterizza
genitori giovani e normalmente fertili, è facile pensare che possa essere anche
più accentuata in coppie che per avere figli sono disposte a fare operazioni
costose e complicate, o in coppie troppo anziane per procreare. Questa
“voracità genitoriale” non è argomento di discussione, perché le persone, anche
quelle colte, preferiscono parlare di leggi “naturali” violate, oppure del
“diritto” alla maternità.
Analoghe considerazioni valgono per il diritto delle
donne a non perdere il posto di lavoro per una gravidanza. Un diritto
difficilmente contestabile. Ciò che non si capisce è semmai il motivo per cui
le donne non abbiano mai fatto alcuna battaglia per dilatare i tempi del
congedo di maternità, dal momento che i neonati hanno bisogno della madre (non
del padre o della nonna o di una baby-sitter) per almeno un anno. In pratica,
il “diritto” di fare figli da abbandonare precocemente prevale socialmente e
culturalmente sul diritto di fare figli di cui aver cura (o sulla scelta di
rinunciare ad avere figli se non si ha alcun desiderio di offrire ciò di cui
hanno bisogno). Purtroppo, anche in questo caso, le sciocchezze sul cosiddetto
“istinto materno”, le idee vaghe sui “diritti” delle donne, gli interesse delle
aziende e l’indifferenza dello Stato per i cittadini più deboli (i bambini)
contribuiscono a celare i veri problemi, a trascurare le esigenze dei neonati e
a portare avanti discussioni interminabili ideologicamente appassionanti e
culturalmente vuote.
Le discriminazioni sociali sono sempre irrazionali, salvo quelle derivanti da condanne dovute a reati commessi. Mentre ogni
forma di schiavitù (non solo sessuale) o sfruttamento dovrebbe essere
contrastata alle radici, la prostituzione in quanto tale non può essere ragionevolmente
considerata diversa dalle altre attività professionali. Non si capisce perché
le prostitute debbano essere trattate come lavoratrici “speciali” da relegare
in appositi quartieri o da tutelare in quanto vittime di qualche oppressione
psicologica o culturale. Sicuramente la loro scelta professionale può derivare
anche da problemi psicologici non risolti, ma ciò si verifica nell’ambito di
qualsiasi professione: molti infermieri provano il bisogno (difensivo) di
sentirsi servizievoli e molti medici e psicoterapeuti provano il bisogno
(difensivo) di sentirsi indispensabili. Le discussioni sul “degrado” di certi quartieri
si capiscono solo all’interno di una cultura dell’intolleranza, della
discriminazione e della svalutazione della sessualità.
Ogni oppressione, ogni sfruttamento economico e
psicologico e ogni violenza gratuita è irrazionale, ma anche il vittimismo è
una forma subdola di sfruttamento; è un atteggiamento difensivo che diventa socialmente distruttivo appena viene fatto proprio da un gruppo ideologizzato o politicizzato.
L’idea che le persone con disturbi psicologici tanto gravi da uccidere altre
persone siano condannabili in quanto mosse da “istanze maschiliste” è
semplicemente un’idea assurda. Per questo motivo il concetto di femminicidio è
un oltraggio al buon senso (come quello di “omicidio stradale”) e serve solo ad
alimentare paure e rancori a loro volta irrazionali. Chi commette un omicidio
(qualsiasi tipo di omicidio) va isolato ed anche aiutato, nei limiti del
possibile, a trovare un equilibrio psicologico migliore. L’idea di svalutare i
criminali in quanto portatori di un’ideologia sessista costituisce un’acrobazie
mentale ingiustificabile, che però ottiene consensi perché “le masse” hanno
bisogno di colpevoli da odiare. Acrobazie mentali di questo tipo conducono
all’idea secondo cui un uomo che si ubriaca e uccide la moglie esprime un
atteggiamento “maschilista”, mentre una donna che partorisce un bambino e lo abbandona
perché “colpita” dalla depressione non è altro che una persona “in difficoltà”.
Le
tradizionali manifestazioni dei pregiudizi sessuali e dell’intolleranza nei
confronti del piacere sessuale, hanno prodotto risultati difficili da
contrastare persino nell’ambito linguistico, in cui, di fatto abbondano svalutazioni
sessuali. Credo che occorreranno tempi lunghissimi prima che espressioni come
“figlio di puttana” o “segaiolo” o “vaffanculo” cadano in disuso. Negli ultimi
anni, solo i termini volgari riguardanti l’omosessualità sono stati espunti
dall’elenco delle parole “consentite”, almeno in certi ambiti sociali e
culturali, ma non per un reale cambiamento nella consapevolezza delle persone.
Le altre espressioni pesantemente offensive restano in uso perché la gente
continua a considerare la prostituzione come un’attività degradante e continua
a considerare i giochi erotici extragenitali come sudici. La gente continua a
considerare la masturbazione come la prova di una “inadeguatezza” di chi è
troppo giovane o ha poco “successo” sul piano erotico, come se la sessualità
dovesse essere la prova di un normale inserimento sociale e non un’esperienza
gioiosa che purtroppo non è sempre realizzabile. Per questo occorrerà tempo
prima che molti termini svalutativi riguardanti la sfera della sessualità
vengano percepiti come “disturbanti”.
Il
linguaggio, nella sua inerzia conservatrice e nei suoi aggiornamenti
superficiali riflette la permanenza di una cultura antierotica che costituisce
solo la punta dell’iceberg costituito da una cultura fondata sulla paura del
dolore. Poco cambia se alle bambine non si impongono più i vestiti rosa alle
feste o addirittura si vieta di giocare con le bambole e se i bambini vengono
sgridati se vogliono giocare con pistole e fucili. Anche se le persone attente
alle mode culturali si concentrano su queste sciocchezze, il superamento degli
stereotipi di genere o dei pregiudizi sessuali può realizzarsi solo nell’ambito
di una cultura del piacere e del piacere sessuale e tale cultura
può essere autentica solo come riflesso di una reale e condivisa accettazione
del piacere e del dolore, cioè della
condizione umana.
In
una società basata sullo sfruttamento economico, sull’autoritarismo sociale,
sul disinteresse collettivo per la qualità della vita delle persone, sulla
negazione del dolore, sulla svalutazione del piacere sessuale e sull’indifferenza
nei confronti della sofferenza dei bambini, qualsiasi
rivendicazione “particolare” finisce per diventare un’oggettiva collusione con
il potere che a parole viene contestato. Ogni rivendicazione delle donne in quanto donne o delle minoranze
sessuali in quanto gruppi particolari, di fatto consolida la logica
dell’oppressione. In una realtà sociale in cui la politica è semplice
amministrazione dell’ingiustizia, le quote rosa consentono solo a più donne il
diritto di contribuire all’orrore della società “data”. In una realtà sociale
sessuonegativa e basata sulla famiglia e non sulle persone (e quindi sul
controllo pubblico della dimensione privata) il matrimonio delle persone
omosessuali costituisce una oggettiva conferma dell’istituzione del matrimonio.
Rivendicazioni di questo tipo possono essere appoggiate per contrastare
posizioni ancora più irrazionali, ma
non in quanto espressioni di cambiamenti significativi nella consapevolezza dei
problemi in questione.
Le
idee più strane sulla sessualità sono solo il sottoprodotto di idee normali e
strane sul piacere in generale e sulla dimensione soggettiva delle persone. I
bambini imparano a diffidare delle loro sensazioni e del loro piacere ben prima
di ricevere esplicite punizioni se colti a “giocare al dottore”. Prima di
capire cosa sia la sessualità imparano che essa ha a che fare con il piacere e
che il piacere non è accettabile come lo sono, invece, l’igiene, l’ordine,
l’efficienza, lo studio e i giochi che comportano la competizione e
l’autoaffermazione. I bambini “da qualche parte” sanno sempre di potersi (ed
anche di doversi) “affermare”, ma non sanno di poter “affermare” ciò che sono.
Senza la libertà di “affermare” ciò che sono e ciò che sentono non possono
sentirsi liberi di andare “oltre” la propria soggettività, di trascenderla e di
creare intimità. La repressione del piacere, del contatto e della sessualità è
un incubo sociale antico, continuamente aggiornato e mantenuto sia da chi prova
disagio, paura e rabbia e manifesta forme consolidate di intolleranza, sia da
chi per paura e rabbia reagisce manifestando nuove forme di intolleranza.
Questo incubo è davvero terribile e sembra occupare una notte che non finisce
mai.
La
repressione sessuale non è altro che l’esito inevitabile di una dissociazione
da un dolore troppo grande sperimentato dai bambini e dalle bambine troppo
presto e in solitudine. Non a caso ogni tentativo di emancipazione sessuale
fallisce oppure ha successo solo se è “recuperabile” dalla società “data”, e
quindi solo se è utilizzabile come “distrazione” o come ribellione
inconcludente. Una vera rivoluzione sessuale è semplicemente impensabile in un
mondo in cui i bambini sono trattati come oggetti da inserire in una società
composta da ex-bambini dissociati dal dolore e divenuti incapaci di essere
felici.
Migliaia
di psichiatri, psicologi, sessuologi e psicoterapeuti si occupano di tutto,
tranne che dei bambini. Se i bambini non sono violentati, brutalmente
maltrattati o “affetti” da “patologie diagnosticate”, sono ignorati o ritenuti
“sani”. La normale infelicità dei bambini non è argomento di interesse
specialistico. Gli psicologi scolastici possono “occuparsi” di bambini
“iperattivi” o “asociali”, ma non hanno nulla da dire sulla catena di montaggio
costituita da rigidi programmi scolastici, interrogazioni, votazioni e compiti
a casa. I bambini che fanno domande senza ottenere risposte, che cercano il
piacere e vengono colpevolizzati, che possono giocare a nascondino ma non
possono essere allattati per un anno intero se la madre lavora, sono bambini
infelici. Sono davvero nella norma, ma non vivono in una normalità adatta a
loro. Con il DM n. 17/2011 sono state introdotte delle lezioni tenute da
psicologi nei corsi di formazione per insegnanti e istruttori di autoscuole. La
notizia è passata inosservata, come l’affissione di un cartello che vieta in un
parco vicino a casa mia di giocare a pallone. Trovo bizzarro quel cartello, ma
trovo sconcertante che dopo un secolo abbondante di psicologia e di
psicoterapia gli psicologi si attivino per contribuire alla formazione degli
ingegneri che insegnano a guidare un’autovettura. Chi sentiva la mancanza di
questo contributo “formativo” in una società in cui i bambini vengono messi al
mondo da genitori che credono che il coito interrotto sia un metodo
anticoncezionale e vengono allevati da genitori interessati solo alla moda
autunno, al calcio, alle festività natalizie e magari alla dieta vegana, ma non
hanno la più pallida idea di cosa sia importante per un essere umano in
formazione? E’ davvero indispensabile spiegare ad un istruttore di scuola guida
come rendere ottimale la comprensione di concetti che da un secolo tutti
imparano benissimo? E’ davvero indispensabile tale impegno professionale mentre
le maestre normalmente mettono i bambini in competizione fra loro e li elogiano
se ottengono buoni voti? Ciò dimostra la necessità di chiarire sia i pregiudizi
(vecchi e nuovi) sulla sessualità, sia i pregiudizi che colpiscono i bambini.
La cultura della
“non compassione” è necessariamente una cultura della “non passione”, perché proprio
la compassione per il dolore favorisce l’empatia, l’attenzione alla
soggettività delle altre persone, il desiderio del contatto ed anche il
desiderio sessuale. La cultura della paura, invece, tollera solo alcune espressioni circoscritte del dolore e del piacere. Secondo tale cultura, ciò che supera
l’orizzonte concettuale della normalità non è previsto e, se diventa visibile,
risulta inaccettabile. Proprio tale tessuto culturale e sociale favorisce i pregiudizi, i contropregiudizi e l’intolleranza, generando la rassegnazione a vivere “poco”.