Il vittimismo non ha nulla a che fare con le
situazioni reali in cui una persona è oggettivamente vittima di azioni
distruttive o circostanze sfortunate. Il vittimismo va inteso come una
particolare espressione dell’intenzionalità difensiva e come un atteggiamento (inconscio)
volto a manipolare gli altri. L’atteggiamento vittimistico è “sostenuto” da
convinzioni irrazionali, desideri confusi ed emozioni costruite e si traduce in
comportamenti che aggravano la situazione di cui la persona vittimista si
lamenta e che favoriscono la crescita di sentimenti ostili e, prima o poi,
l’espressione della rabbia.
L’essere vittima reale di qualcuno o di qualche
circostanza sfortunata causa sia dolore (e non il bisogno di esibire la
sofferenza), sia il desiderio di modificare al più presto (se è possibile) la
realtà spiacevole. Tale desiderio diventa quindi ragionevolmente impegno attivo e costruttivo. E’ molto importante capire il legame fra questi
fatti. X aggredisce o insulta o inganna Y e l’azione di X causa un dolore a Y
ed il desiderio di non soffrire più. Tuttavia, se Y non accetta il dolore dato, può coprirlo con altri stati d'animo. La risposta comportamentale di Y non è, quindi, causata dall’azione di X, ma è scelta da Y
e dipende da tutto ciò che Y ha sentito e capito nella sua
storia personale fino a quel momento. Tale precisazione, per quanto “insolita”,
è corretta, dato che alla stessa aggressione o svalutazione persone diverse
possono rispondere in modi diversi: con un’aggressione fisica, con un insulto, con la fredda preparazione di una
vendetta, con un sorriso sprezzante, con una forzata indifferenza, con la
sottomissione, oppure mettendosi a “frignare” o addirittura sentendosi in
colpa. Le persone, in pratica, “fanno ciò che sono” e non fanno ciò che sono
“indotte a fare”. La comprensione di questo dato di fatto è scomoda, ma sgombra
il terreno dalla montagna di spazzatura concettuale che impedisce di capire che
le persone sono responsabili delle loro azioni.
Una mia giovane cliente, convivente con i genitori,
manifestava una fortissima tendenza a sentirsi sbagliata quando la madre la
svalutava: faceva davvero fatica ad accettare di non valere nulla per quella
donna persa nei propri incubi mai superati e preferiva sentirsi “compresa da lei e quindi giustamente
svalutata”. Un’altra mia cliente inconsciamente determinata a “fare
male le cose”, reagiva con rabbia ogni volta che il suo compagno le
suggeriva di annotare nell’agenda gli impegni che spesso scordava o di buttare
via alcune cose inutili che lei accatastava ovunque. Nel primo caso la vittima
(reale) reagiva alle aggressioni materne paralizzandosi e colpevolizzandosi, mentre nel
secondo caso la donna non era vittima di alcuna aggressione (anzi, era
frustrante e invadente), ma reagiva con rabbia ad un'aggressione da lei stessa
inventata.
Anche quando le persone sono vittime di eventi
naturali o di realtà sociali possono reagire in vari modi (razionali o
irrazionali) ed è quindi errato affermare che un incendio abbia causato il
panico o che la guerra abbia causato molti disturbi post-traumatici, dato che
non tutte le persone reagiscono nello stesso modo agli stessi eventi. L’idea
che le situazioni interpersonali o sociali e gli eventi naturali causino le risposte emotive individuali
è però molto radicata. In
altre parole, il vittimismo non ha molto a che fare con la condizione oggettiva
di chi è vittima di qualcuno o di un dato evento, ma costituisce solo una delle
tante strategie difensive possibili.
Nel vittimismo la persona si lamenta di una situazione che evita di cambiare e
che sfrutta (inconsciamente) per esibire sofferenza e per ottenere dei vantaggi
psicologici.
Siamo continuamente vittime di molte forme
socialmente strutturate di inganno, sfruttamento, oppressione e siamo anche
vittime di virus e terremoti. Se accettiamo questo fatto cerchiamo di evitare i
pericoli evitabili e, se capita il peggio, cerchiamo di fuggire, combattere,
salvare ciò che non è stato distrutto. In questo modo utilizziamo la nostra
razionalità e quindi esprimiamo la compassione e la cura per la nostra vita e
per quella degli altri. Le persone vittimiste, invece, restano passive in
situazioni spiacevoli (verificatesi casualmente, causate da altri o da loro stesse create), si
sentono e si dichiarano “incapaci” di reagire; alimentano molta rabbia per ciò
che “devono subire” e (prima o poi) esercitano (attivamente o passivamente) la
“collera dei giusti” attuando la loro (inutile) vendetta. Il “gioco”
vittimistico può essere condotto con una certa cautela, ma anche con imprudenza
e a volte le persone vittimiste non solo vivono una vita “povera”, ma si
danneggiano in modi gravi rischiando anche la vita. Scegliere un lavoro
frustrante o un/una partner insensibile e non veramente amato/a, per poi
recriminare su ciò che “non va bene”, guasta la qualità della vita, ma
scegliere un’attività molto pericolosa o criminale, oppure fare dei figli con
una persona distruttiva può avere conseguenze davvero devastanti.
Tra le varie opzioni difensive a disposizione dei
bambini, che sono incapaci di elaborare il dolore e di rendersi (o anche solo
immaginarsi) “autonomi” dai genitori, quella vittimista è una delle tante
possibili: il bambino (o la bambina) riconosce un rifiuto e si
sottomette, ma pensa che “tutto ciò sia inaccettabile” e si proietta in un
limbo emozionale di ansia e rabbia nel quale si focalizza su un futuro in cui
tutto dovrà andare a posto. In questo modo tratta il presente come una sorta di
temporaneo errore “del sistema”. Opponendosi passivamente alle pretese dei
genitori rifiutanti sente anche di esercitare un potere che in realtà non ha,
dato che il suo reale bisogno (doloroso) è quello di ricevere amore e non
quello di deludere e di esasperare i genitori rifiutanti.
Spesso le persone vittimiste sono erroneamente considerate “troppo buone”,
ma quando vengono “smascherate” sono erroneamente
disprezzate. La cosa più scomoda da tener presente è il fatto che le persone
vittimiste agiscono intenzionalmente, ma senza essere consapevoli di ciò che
fanno. Se fossero consapevoli di guastare la propria vita e quella degli altri
agirebbero diversamente. Fuggono dal contatto con il dolore manifestando una finta sottomissione. La persona
vittimista, nelle relazioni interpersonali frustranti non dichiara la propria
indisponibilità, né si rassegna ad adeguarsi, ma dichiara obbedienza e poi con
una “distrazione” o un ritardo o compiendo un errore o “tenendo il muso”
esaspera chi ha esercitato una “prepotenza” (spesso reale, ma a volte solo
immaginata). L’atteggiamento vittimistico in situazioni appena frustranti
risulta quasi comico, ma in circostanze drammatiche viene facilmente
“giustificato” e ciò consente alle persone vittimiste di raccogliere una
“comprensione” di cui non hanno bisogno e che le rende ancora più attaccate
alla loro distruttività difensiva (cfr. Hughes, 1993). In questo senso le
persone vittimiste esercitano in modo paradossale un potere sugli altri, o
almeno su quelli che subiscono o vogliono subire (inconsciamente) le
manipolazioni vittimistiche: “Se solo la vittima ha valore, se solo la vittima è un valore, la possibilità di
dichiararsi tale è una casamatta, una fortificazione, una posizione strategica
da occupare a tutti i costi. La vittima è irresponsabile, non risponde di
nulla, non ha bisogno di giustificarsi: il sogno di qualsiasi potere”
(Giglioli, 2014, p. 10).
Spesso il vittimismo rientra in una struttura
caratteriale abbastanza compatta, definita da Reich (1945), Lowen (1958) e
altri “carattere masochista”, ma è in qualche misura presente in molte
strutture caratteriali e nelle infinite “miscele” di atteggiamenti caratteriali
difensivi individuali, perché ha radici lontane nella “cultura della colpa”
che, di fatto, contamina un po’ tutti. Va notato, inoltre, che il vittimismo è
molto radicato socialmente non solo come
atteggiamento difensivo individuale, ma anche come diffusa “sensibilità” (pseudo)empatica nei confronti
delle persone vittimiste. Il fatto che le persone vittimiste spesso
arrivino davvero a mettersi nei guai o che evitino accuratamente di sottrarsi a
situazioni oggettivamente penose, rende difficile il compito di fare una netta
distinzione fra la loro reale sofferenza e il loro atteggiamento vittimistico.
In pratica, la gente tende a dare ragione alle lamentele di persone che si
guastano la vita, dato che mentre si guastano la vita “giurano” di star facendo
del loro meglio. Il successo del film più assurdo di Ridley Scott (Thelma e Louise) è indicativo del fatto
che è difficile denunciare l’autodistruttività delle persone che effettivamente
hanno subito qualche tipo di violenza. Io penso che sia inaccettabile
l’atteggiamento di chi sostiene che se le donne stessero a casa non
rischierebbero delle molestie sessuali, ma in quel film, due donne entrano in
un bar malfamato, seducono un uomo che manifesta la sensibilità di un
tagliaerba e all’ultimo momento respingono, con indignazione, le sue rozze
proposte. Poi avendo sparato per “legittima difesa” diventano eroine in fuga. A
mio parere il film è semplicemente banale, ma è anche offensivo nei confronti
delle donne che non sono stupide come quelle due “eroine”.
Per questi motivi sono egualmente irrazionali le due “tipiche” reazioni al vittimismo: sia
quella pseudo-empatica di chi offre comprensione e sostegno, sia quella
svalutante di chi disprezza le persone vittimiste affermando che “dovrebbero”
avere più coraggio o determinazione. Infatti, il termine “vittimista” è usato
raramente, ma quando viene usato è quasi sempre un insulto. Anche se gli atteggiamenti vittimistici sono distruttivi e vanno smascherati
e contrastati, le persone vittimiste
non meritano alcuna svalutazione: non hanno davvero alcuna consapevolezza del
male che fanno a se stesse e agli altri e non traggono alcun reale vantaggio
dal loro atteggiamento e dalle conseguenze che determinano.
L’Analisi
Transazionale, grazie soprattutto alle ricerche di Stephen Karpman (cfr.
Wollams-Brown, 1978, pp. 184-190) ha evidenziato i nessi fra i tre tipici ruoli
nelle relazioni caratterizzate dal vittimismo: il ruolo della vittima, quello
del “salvatore” e quello persecutorio. In tale analisi è ben evidenziata anche
l’interscambiabilità dei tre ruoli, perché la vittima sopporta il persecutore,
ma “perseguita” il persecutore frustrandolo con la propria oppositività passiva
e perché il salvatore, in fondo, perseguita la vittima pretendendo gratitudine
e obbedienza quando dispensa “buoni consigli”. Purtroppo l’AT offre analisi
molto lucide delle manipolazioni psicologiche, ma non sottolinea il dolore da
cui le persone si dissociano costruendo relazioni interpersonali irrazionali.
E’ sicuramente più utile delle psicoterapie basate sull’accudimento dei “poveri
pazienti” che “soffrono tanto”, ma stenta ad andare oltre l’esame dei
comportamenti e a favorire un’elaborazione dei vissuti dolorosi.
Il vittimismo è deresponsabilizzante. I bambini sono
realmente incapaci di reagire in modo costruttivo alle svalutazioni e all’autoritarismo
dei genitori, ma gli adulti possono sempre dire dei “no” (pagando dei prezzi) o
interrompere i rapporti insoddisfacenti. Persino sotto tortura c’è chi
“confessa tutto” e chi non cede. E’ quindi assolutamente folle credere che una
persona non possa abbandonare un lavoro umiliante o un/una partner distruttivo/a.
In questi casi, le difficoltà economiche o il senso di responsabilità nei
confronti dei figli costituiscono delle scuse con cui le persone vittimiste
evitano di modificare una situazione di cui sono corresponsabili. Quando la
“tipica moglie” pretende che il marito arrivi a casa per cena e il “tipico
marito” arriva sempre più tardi scusandosi e giustificandosi, è in atto una
guerra fredda, banale e disconosciuta ma devastante, in cui entrambe le persone si sentono
“calpestate”, mentre, di fatto sono carnefici. Quando poi tali conflitti si
traducono in cause di divorzio o in violenza fisica convogliano in tragedie oggettive
la distruttività psicologica manifestata fin dall’inizio da entrambe le
persone.
Non si deve dimenticare che il vittimismo può essere
presente sia quando esiste una reale oppressione, sia quando l’oppressione è
inesistente. La donna che svolge un lavoro part-time non ha motivo di sentirsi
sfruttata dal marito se questi, dopo otto ore di lavoro non ha voglia di
mettersi a cucinare e non ha motivo di lamentarsi nemmeno se pure lei è
impiegata a tempo pieno, dato che ha la possibilità di arrivare a casa e di
cucinare solo per sé in modo da dimostrare
al partner che non è la sua domestica. Il nazismo è stato combattuto apertamente
dai socialisti e dai comunisti, ma non dagli ebrei: le vittime dell’Olocausto
hanno subito passivamente delle atrocità indescrivibili e poi hanno rivendicato
con determinazione (e ottenuto) il loro “Stato ebraico”. Una lotta politica
condotta contro i nazisti in tempo reale sarebbe stata più razionale del
sionismo e dell’occupazione dei territori palestinesi. I neri degli Stati Uniti
e del Sudafrica hanno invece lottato con metodi non violenti e a volte anche
con metodi violenti e poi hanno cercato di costruire una società migliore per tutti. Questi fatti giustificano
l’idea che la contestazione di ogni
forma di intolleranza sociale dovrebbe accompagnarsi sempre alla contestazione
di ogni forma di vittimismo.
E’ davvero difficile reagire con fermezza al
vittimismo senza deludere le persone vittimiste, dato che il vittimismo non
“esiste” sganciato dalle persone. Tuttavia, è necessario tener presente che
l’intransigente e “spietata” denuncia del vittimismo è una necessità e non va
intesa come una sorta di vendetta nei confronti di chi “la deve smettere di
lamentarsi”. Paradossalmente, tale reazione al vittimismo sarebbe una reazione
a sua volta vittimistica e non servirebbe a nessuno. Sul piano sociale non si
può presumibilmente fare molto, dato che il vittimismo è “normalmente vincente”
e prevale nettamente sul buon senso, ma sul piano personale abbiamo ampi spazi
di manovra. Quando sentiamo la voglia di “chiudere la bocca” a qualcuno dicendo
“smettila di piangerti addosso”, stiamo solo evitando di sentire la nostra solitudine con una persona che ci
sta usando come un contenitore in cui svuota le proprie emozioni negative
irrazionali. Se accettiamo questo fatto doloroso possiamo offrire qualche
spunto di riflessione, proporre dei cambiamenti e, se ciò non ha alcun esito, possiamo
ritirarci dal rapporto senza intossicarci con una rabbia cieca da noi costruita.
In quanto atteggiamento difensivo, il vittimismo non ha a che fare in modo specifico con la
sessualità, ma, dato il ruolo centrale della sessualità (affermata o negata) nella
sfera emotiva degli esseri umani, il vittimismo ha un “peso” notevole nelle
relazioni di coppia e nel rapporto fra maschi e femmine in generale. Da
sempre gli uomini si lamentano delle donne e le donne si lamentano degli
uomini. Negli ultimi decenni le donne e gli uomini si lamentano e si vendicano
“pubblicamente” nelle cause di divorzio e le donne si lamentano
“ideologicamente” del “maschilismo” ottenendo in molti casi anche delle
risposte pseudo-empatiche (banalmente conformiste) da parte dei “maschi
pentiti”. Voglio riportare ora alcune sedute, svolte con un cliente nell’arco
di circa quattro anni, che possono evidenziare quanto il vittimismo sia
frustrante, ma anche quanto siano delicati i vissuti realmente dolorosi celati dalla compattezza delle manovre
vittimistiche.
Il
cliente, che chiamerò Michele, manifestava una marcata componente masochistica
tra i suoi atteggiamenti difensivi. Egli dichiarò fin dal colloquio iniziale di
voler essere "guarito" da un disturbo che egli (in modo inesatto)
definiva "depressione" e con cui in realtà manifestava una spiccata
tendenza a restare ostinatamente in un "pantano" caratterizzato da
pseudo-incapacità ad agire, noia, insoddisfazione e vittimismo. Evidenzierò,
riportando alcune sedute molto distanti nel tempo, che Michele tornava
al punto di partenza quando, dopo aver fatto dei sensibili passi avanti nella
comprensione di ciò che faceva, sentiva con angoscia di poter abbandonare del
tutto la sua (falsa) identità di "persona in difficoltà" e di potersi
pensare come soggetto adulto e quindi libero di accettare davvero o di
abbandonare la persona con la quale si sentiva coinvolto affettivamente.
All'inizio del nostro rapporto aveva trentacinque anni, faceva un lavoro
indipendente e non aveva figli. Era sposato, ma riusciva a mantenere con la
moglie un equilibrio basato soprattutto sulla reciproca silenziosa sopportazione.
Tale equilibrio comportava anche occasionali scontri, ma escludeva di fatto
qualsiasi reale chiarimento. Il vittimismo può essere espresso anche da persone
con atteggiamenti caratteriali non masochistici, intenzionate a “giustificarsi
e svalutare” o a rivendicare sostegno o ad esibire atteggiamenti di
“superiorità”. In pratica le persone masochiste costituiscono una sottoclasse
della classe costituita dalle persone vittimiste.
In
una delle prime sedute, Michele mi dice alcune frasi che risultano indicative
del suo modo di "aggiustarsi le cose".
M.
Mi sento più o meno come l'altra volta, anche se sono un po' più calmo. Starei
volentieri zitto e fermo.
GF.
OK, partiamo da qui. Vuoi lavorare su questo tuo stato d'animo?
M.
Va bene.
GF.
Allora, stenditi e ripeti la frase "ho voglia di stare zitto e fermo"
alcune volte, in modo da entrarci bene in contatto.
M.
[Dopo aver ripetuto alcune volte la frase] Io sono un salsicciotto, zitto e
fermo. Sono anche teso e temo che qualcosa possa “venir fuori”. Mi considero
inutile e scontento, schiavo di me stesso. Sento tensione al collo e nella zona
lombare.
GF.
Cosa senti di desiderare, ora?
M.
Vorrei essere lasciato in pace. Mi viene in mente la situazione tipica in cui
sto male con Piera [la moglie] e le chiedo di lasciarmi solo. Mi sento anche un
po' in colpa perché tu potresti pensare che chiedo anche a te di lasciarmi in
pace. C'è però una cosa: io vorrei essere aiutato da te, ma tu mi dici sempre
che sta a me fare le cose o non farle.
GF.
Vorresti il mio aiuto per quale tuo
obiettivo?
M.
Per venirne fuori.
GF.
Sei troppo generico.
M.
Non so. Vorrei che tu mi dicessi cosa devo
fare.
GF.
Prova a ripetere la frase "farò quel che mi dici", fino a sentirla
bene.
M.
[Lo fa] Vorrei che tu mi facessi entusiasmare per qualcosa.
GF.
Dunque vuoi che ti faccia sentire una cosa diversa da quella che senti, cioè
che ti faccia diventare un altro Michele. Ma questo Michele cosa desidera
da me, realmente?
M.
Io vorrei che mi parlassi delle cose che ti piacciono, così, forse diventerei
più positivo.
GF.
Cioè, tu pensi di far schifo, ma di poter diventare più "positivo"
grazie ad una mia “spinta”.
M.
Così come sono non credo di poter essere accettato, amato. Credo di essere
amabile solo se offro certe cose agli altri. A volte è come se mettessi alla
prova Piera: esaspero la mia negatività per vedere se mi ama lo stesso.
GF.
Questa è una sfida; è una guerra. Sei sicuro di essere amabile solo a
condizione di diventare qualcun altro? E non può essere che tu reciti già la
parte di un altro?
M.
Non so. Se però Piera è dolce con me, sento subito il dovere di attivarmi per fare all'amore e poi mi sento irritato.
E Piera si irrita per la mia irritazione.
GF.
Immagina di essere nato da poco e di essere in braccio a tua madre senza dover far niente.
M.
Mi è difficile immaginare questa scena. Credo che lei non sia capace di amare.
Vorrei essere amato anche se mi comporto male. Ora lo faccio di meno, ma un po'
lo faccio ancora. Non credo di essere amabile e se una persona mi dimostra
amore non ci credo e voglio un’ulteriore dimostrazione.
In
questa conversazione iniziale risulta evidente la chiave di lettura bizzarra
che il cliente usa per "spiegare" il proprio comportamento. Dice di voler
"prove d'amore", ma dice di non sentirsi amabile. La sua ammissione
di una certa ostilità verso la madre o la moglie indica però che egli non crede
affatto di non essere amabile, ma crede (ai margini della sua consapevolezza)
di essere amabile e ingiustamente rifiutato. La modalità
difensiva per l'evitamento del dolore relativo al rifiuto realmente subito
nell’infanzia consiste 1) nel sentirsi pregiudizialmente non amato dal mondo
intero e nel sentirsi infuriato per tale “ingiustizia”, 2) nel negare la rabbia
espressa indirettamente e 3) nel rendere difficile la vita alle persone da cui
desidera l'amore. Ovviamente ottiene rifiuti che giudica ingiusti e resta in
una posizione di immobilità ostile in cui sa di poter resistere senza soffrire
davvero, perché comunque gestisce sia l'autosvalutazione superficiale, sia il
disprezzo profondo per gli altri in una chiave vittimistica.
Questo
gioco ha molte varianti nelle persone che adottano le difese psicologiche di
Michele. C'è chi non pretende l'accettazione se mostra i lati peggiori, ma si
accontenta di essere accondiscendente per poi sentirsi vittima di una forma di
sfruttamento. C'è chi rimane stabilmente nel pantano concedendosi occasionali
"sfoghi" e c'è chi dopo un po' rompe il rapporto rabbiosamente per
poi cercare un altro rapporto identico.
In
una seduta svolta tre anni dopo l'inizio del lavoro, Michele mi comunica la sua
soddisfazione per aver finalmente parlato alla moglie con franchezza e mi dice
che facendo l'amore ha avuto la sensazione (del tutto nuova) di fare
un'esperienza molto profonda. Tuttavia, mi comunica anche di aver sentito astio
in una particolare occasione nei confronti di Piera e quindi di aver riattivato
una "vecchia chiusura". Quando ha compreso che stava evitando si
sentire il dolore causato dalle “distanze” create da Piera si è sentito più
leggero.
M.
Se mi capita di provare molto dolore scappo ancora arrabbiandomi nel modo
"comodo", cioè dichiarando che voglio “stare in pace”. La verità è
che starei con lei e soffro quando avverto quella distanza.
Comunicandomi
questa comprensione della propria difesa è commosso. Non ha ancora preso
familiarità con il pianto e non ha quindi esplorato l'intensità del suo
sentimento. Tuttavia è ormai consapevole delle emozioni superficiali che
esprime per difendersi e di quelle profonde e autentiche. Riporto ora una seduta
verificatasi pochi mesi dopo questi cambiamenti.
M.
A volte lotto ancora col mio dolore e divento passivo ritirandomi nel non far
niente, nel guardare la TV e cose simili. Forse vorrei esprimere rabbia e non
lo faccio. Finisco per arrabbiarmi con me stesso per il fatto che spreco il mio
tempo.
Lo
invito a lavorare sull'espressione fisica della rabbia, ma è meccanico e poco
collaborativo. Noto la sua chiusura e mi risponde che è stufo di lavorare
sempre sulle solite cose e che vorrebbe solo stare in pace. Rispondo che posso
andare nell'altra stanza per lasciarlo "in pace" e che
può chiamarmi appena sente di voler riprendere il lavoro. Si infuria, getta sul
tavolo il denaro del mio onorario e si dirige verso la porta mettendo
l'impermeabile mentre procede lungo il corridoio. Lo raggiungo e lo blocco
fisicamente, invitandolo con fermezza ad interrompere subito tale sceneggiata.
Gli ricordo che ha già tutti gli strumenti per capire che sta cercando anche
con me di portare al limite estremo il suo gioco vittimistico. Gli ricordo
soprattutto che dobbiamo lavorare su
quel gioco anziché fare quel gioco.
GF.
Quindi, ti prego, non fingere di voler essere lasciato in pace, come se fossimo
estranei. Cerca di dirmi cosa vuoi davvero.
M.
Io voglio essere trattato con comprensione, con dolcezza. E invece vanno tutti
via.
Qui
egli, interrompendo l’atteggiamento difensivo, mi chiede un abbraccio e piange
con lacrime e singhiozzi. Il pianto non è del tutto fluido e completo, ma è
sentito e, in certa misura, liberatorio. A quel punto, negli ultimi minuti
della seduta ricapitoliamo le cose fatte ed il significato dei suoi
atteggiamenti difensivi. Chiariamo che sta a lui la decisione di sentirsi
vittima di ingiusti rifiuti (peraltro da lui stesso provocati) o di accettare
il suo vissuto antico di rifiuto e verificare nel presente se, quando, quanto e come si sente accettato e da chi. La madre "lo accettava" solo se egli non esprimeva bisogni, desideri, entusiasmi
o sofferenze e se, quindi, non disturbava il suo passatempo preferito, che era
quello di recitare la parte della "moglie che soffre tanto per il
marito".
Il
lavoro analitico sulle difese caratteriali masochistiche comporta pazienza e un
atteggiamento inflessibile rispetto alle manovre psicologiche. Occorre che il
cliente verifichi che l'analista è sempre disponibile a capire e rispettare il
suo dolore, così come è sempre disinteressato alle sue pretese vittimistiche.
Nel lavoro analitico si devono considerare inevitabili moltissime sedute
dedicate a riportare piccoli dettagli al quadro generale: un sospiro che serve
solo a ottenere “pietà” per le "fatiche" sopportate, un sorriso amaro
che serve solo a confermare che "la vita non va come dovrebbe
andare", il risentimento ogni volta che l'analista rifiuta di essere
complice in un gioco, la pesantezza nel modo di camminare ed anche di parlare.
Si devono considerare fondamentali sia le sedute in cui il gioco viene spezzato
e le emozioni profonde affiorano, sia quelle in cui si riprende solo il filo di
un cambiamento già avviato e poi soffocato. L'obiettivo
da perseguire con il cliente è sempre la "leggerezza", ovvero la sua
capacità di accogliere sia la gioia, sia il dolore. Tale leggerezza implica il
crollo di una struttura pesante, grigia, opprimente che blocca la
consapevolezza del dolore.
In
una delle ultime sedute, Michele mi racconta un sogno che, di fatto ricapitola
tutto il suo lavoro analitico. "Sono con degli amici in un grande cinema
ricavato da un antico palazzo. Qualcuno mi fa notare che cade della sabbia
dall'alto e vedo una crepa che lentamente si allarga nel soffitto. Osservo la
scena, ma sono tranquillo. Crolla una piccola porzione della superficie e mi
dico che non è possibile un crollo così limitato, perché se c'è un cedimento,
cadrà tutto il soffitto. In effetti cadono pezzi di intonaco, mattoni, travi e
osservo la scena come a rallentatore, ma sono comunque al sicuro. E' come se
osservassi un parto". Michele non sapeva di costruire la propria
pesantezza per paura di accettare la solitudine sperimentata negli anni
dell’infanzia. Solo dopo aver chiarito la propria strategia difensiva ha potuto
affrontare il “crollo” delle sue false certezze sentendosi “al sicuro”.
Se
il dolore accomuna tutte le vittime, l’idea che qualcosa “non dovrebbe accadere”
o che qualcuno “non dovrebbe” agire in certi modi accomuna tutte le persone
vittimiste. Il rifiuto di conoscere le ragioni di ciò che accade, di accettare
il dolore e di agire in modi efficaci caratterizza qualsiasi vittimismo. La
manipolazione vittimistica funziona proprio perché le persone vittimiste sono
violente ma sembrano incapaci di reagire alla violenza degli altri. E’
difficile far notare a chi tossisce appena qualcuno accende una sigaretta, che
non aveva tossito al semaforo respirando tranquillamente il gas di scarico di
un TIR. La (pseudo)comprensione nei confronti delle persone vittimiste è quindi
tanto radicata quanto lo è il vittimismo. Se così non fosse, libri
“improponibili” come Donne che amano
troppo di Robin Norwood (1985) non diventerebbero best seller
internazionali.
Nell’ambito della sessualità il vittimismo devasta
sia le particolari relazioni interpersonali, sia il rapporto fra uomini e donne
in generale (e fra le persone eterosessuali e le minoranze sessuali).
Costituisce una grave fonte di incomprensione che soffoca il piacere,
l’intimità e la convivenza sociale. Le espressioni tipiche delle persone
vittimiste sono “tu mi critichi!” (come se ogni critica fosse una svalutazione) e
“tu mi hai ferito!”. La storia delle “ferite psicologiche” è complessa e
inquietante, dato che l’esibizione di ipotetiche ferite psicologiche è
“ipnotica” e facilmente paralizza qualsiasi interlocutore. La realtà è ben
diversa: fra adulti nessuno ferisce psicologicamente nessuno, anche se chiunque può
compiere azioni che causano dolore. L’idea della “ferita” implica un danno
(irreparabile) causato alla vittima che sicuramente non ha alcuna
responsabilità nella relazione e che ha semplicemente subito un abuso
ingestibile le cui tracce permarranno. Solo i bambini possono essere “feriti”
dalle parole degli adulti, perché non sono in grado di tollerare il rifiuto.
Tuttavia, anche le loro “ferite” si rimarginano e diventano “esperienze
passate”. Il fardello che i bambini si
trascinano nella vita adulta non è costituito dalle “ferite” subite, ma dalle
difese psicologiche che essi stessi hanno costruito per non restare in
contatto con rifiuti ingestibili. L’idea delle “ferite” dei bambini “non amati”
(cfr. Schellenbaum, 1988) commuove la gente, ma è errata. I bambini non amati
crescono come gli altri e senza “ferite non rimarginate”. Crescono però
induriti, chiusi, timidi o prepotenti, controllati o ribelli perché
inconsciamente continuano a reagire
al dolore mai accettato. Tale dolore è attuale:
le persone adulte, non avendo superato nell’infanzia il loro dolore, continuano
a sentire il bisogno di un accudimento protettivo (impossibile nella vita attuale)
e per questo motivo provano un dolore (attuale) a cui continuano a reagire
difensivamente.
I
clienti che giurano di sentirsi oppressi o che si sentono umiliati e incapaci
di reagire sono in buona fede, perché si sentono davvero così. Solo quando
familiarizzano con le emozioni temute si rendono conto di aver sempre preso in
giro tutti. Questo fatto getta un’ombra su tanti aspetti della cultura perché
la stessa determinazione/indignazione che tanti intellettuali, politici e
religiosi mettono nei loro discorsi costituisce un sintomo irrazionale che però
non viene analizzato e, anzi, produce consenso. La gente si entusiasma quando
giornalisti e politici affermano che una “cricca” di “politici corrotti” porta
via il pane alle “brave persone” e non vuole sentirsi dire che proprio le
“brave persone” hanno sempre mandato al potere i nazisti, i fascisti e i
politici peggiori.
La sincera e razionale intenzione di contrastare
l’oppressione comporta una coerente denuncia di tutti i tipi di oppressione e
una reale disponibilità a capire le radici di ogni violenza. Quando ciò non si
verifica, anche le proteste più sensate per particolari
situazioni oppressive diventano irrazionali, dato che focalizzano l’attenzione
su tali situazioni per non affrontare le altre egualmente gravi. La denuncia
delle (tante) iniquità riscontrabili ancor oggi fra maschi e femmine, su un
piano razionale dovrebbe essere fatta in tutte le direzioni: di fatto, il
vittimismo femminista mette in evidenza le violenze lievi o gravi maschili ma
occulta quelle femminili (cfr. Salerno–Giuliano, 2012) e soprattutto trascura
il fatto che le manipolazioni psicologiche, i ricatti affettivi e molte forme
di sfruttamento psicologico (e materiale) sono attuate sia dagli uomini che
dalle donne e hanno effetti devastanti. Tragedie come quelle delle “spose
bambine” o delle mutilazioni genitali femminili e tragedie più “eleganti” come
la normale “educazione morale” dei bambini e delle bambine non possono essere
ragionevolmente imputate ai maschi o ad una cultura “maschilista”, ma
all’irrazionalità distruttiva di donne e uomini indisponibili ad aver cura di
sé, dei/delle loro partner, dei figli e delle figlie.
Il vittimismo (individuale e sociale), di fatto,
cela i problemi reali ed ostacola qualsiasi realistica ricerca di soluzioni.
Mira ad alimentare illusioni alimentando conflitti e non mira a produrre
cambiamenti. Proprio l’indisponibilità delle persone al contatto emotivo facilita
l’accettazione di ideologie in cui le responsabilità sono colpe e le colpe sono
sempre degli “altri”. La critica del vittimismo non ha, quindi, alcun senso se
non diventa una riflessione critica sulla diffusa indifferenza manifestata nelle relazioni interpersonali, nella
società e nella cultura.