sabato 14 luglio 2018

19. Sessualità e vittimismo





Il vittimismo non ha nulla a che fare con le situazioni reali in cui una persona è oggettivamente vittima di azioni distruttive o circostanze sfortunate. Il vittimismo va inteso come una particolare espressione dell’intenzionalità difensiva e come un atteggiamento (inconscio) volto a manipolare gli altri. L’atteggiamento vittimistico è “sostenuto” da convinzioni irrazionali, desideri confusi ed emozioni costruite e si traduce in comportamenti che aggravano la situazione di cui la persona vittimista si lamenta e che favoriscono la crescita di sentimenti ostili e, prima o poi, l’espressione della rabbia.
L’essere vittima reale di qualcuno o di qualche circostanza sfortunata causa sia dolore (e non il bisogno di esibire la sofferenza), sia il desiderio di modificare al più presto (se è possibile) la realtà spiacevole. Tale desiderio diventa quindi ragionevolmente impegno attivo e costruttivo. E’ molto importante capire il legame fra questi fatti. X aggredisce o insulta o inganna Y e l’azione di X causa un dolore a Y ed il desiderio di non soffrire più. Tuttavia, se Y non accetta il dolore dato, può coprirlo con altri stati d'animo. La risposta comportamentale di Y non è, quindi, causata dall’azione di X, ma è scelta da Y e dipende da tutto ciò che Y ha sentito e capito nella sua storia personale fino a quel momento. Tale precisazione, per quanto “insolita”, è corretta, dato che alla stessa aggressione o svalutazione persone diverse possono rispondere in modi diversi: con un’aggressione fisica, con un insulto, con la fredda preparazione di una vendetta, con un sorriso sprezzante, con una forzata indifferenza, con la sottomissione, oppure mettendosi a “frignare” o addirittura sentendosi in colpa. Le persone, in pratica, “fanno ciò che sono” e non fanno ciò che sono “indotte a fare”. La comprensione di questo dato di fatto è scomoda, ma sgombra il terreno dalla montagna di spazzatura concettuale che impedisce di capire che le persone sono responsabili delle loro azioni.
Una mia giovane cliente, convivente con i genitori, manifestava una fortissima tendenza a sentirsi sbagliata quando la madre la svalutava: faceva davvero fatica ad accettare di non valere nulla per quella donna persa nei propri incubi mai superati e preferiva sentirsi “compresa da lei e quindi giustamente svalutata”. Un’altra mia cliente inconsciamente determinata a “fare male le cose”, reagiva con rabbia ogni volta che il suo compagno le suggeriva di annotare nell’agenda gli impegni che spesso scordava o di buttare via alcune cose inutili che lei accatastava ovunque. Nel primo caso la vittima (reale) reagiva alle aggressioni materne paralizzandosi e colpevolizzandosi, mentre nel secondo caso la donna non era vittima di alcuna aggressione (anzi, era frustrante e invadente), ma reagiva con rabbia ad un'aggressione da lei stessa inventata.
Anche quando le persone sono vittime di eventi naturali o di realtà sociali possono reagire in vari modi (razionali o irrazionali) ed è quindi errato affermare che un incendio abbia causato il panico o che la guerra abbia causato molti disturbi post-traumatici, dato che non tutte le persone reagiscono nello stesso modo agli stessi eventi. L’idea che le situazioni interpersonali o sociali e gli eventi naturali causino le risposte emotive individuali è però molto radicata. In altre parole, il vittimismo non ha molto a che fare con la condizione oggettiva di chi è vittima di qualcuno o di un dato evento, ma costituisce solo una delle tante strategie difensive possibili. Nel vittimismo la persona si lamenta di una situazione che evita di cambiare e che sfrutta (inconsciamente) per esibire sofferenza e per ottenere dei vantaggi psicologici.
Siamo continuamente vittime di molte forme socialmente strutturate di inganno, sfruttamento, oppressione e siamo anche vittime di virus e terremoti. Se accettiamo questo fatto cerchiamo di evitare i pericoli evitabili e, se capita il peggio, cerchiamo di fuggire, combattere, salvare ciò che non è stato distrutto. In questo modo utilizziamo la nostra razionalità e quindi esprimiamo la compassione e la cura per la nostra vita e per quella degli altri. Le persone vittimiste, invece, restano passive in situazioni spiacevoli (verificatesi casualmente, causate da altri o da loro stesse create), si sentono e si dichiarano “incapaci” di reagire; alimentano molta rabbia per ciò che “devono subire” e (prima o poi) esercitano (attivamente o passivamente) la “collera dei giusti” attuando la loro (inutile) vendetta. Il “gioco” vittimistico può essere condotto con una certa cautela, ma anche con imprudenza e a volte le persone vittimiste non solo vivono una vita “povera”, ma si danneggiano in modi gravi rischiando anche la vita. Scegliere un lavoro frustrante o un/una partner insensibile e non veramente amato/a, per poi recriminare su ciò che “non va bene”, guasta la qualità della vita, ma scegliere un’attività molto pericolosa o criminale, oppure fare dei figli con una persona distruttiva può avere conseguenze davvero devastanti.
Tra le varie opzioni difensive a disposizione dei bambini, che sono incapaci di elaborare il dolore e di rendersi (o anche solo immaginarsi) “autonomi” dai genitori, quella vittimista è una delle tante possibili: il bambino (o la bambina) riconosce un rifiuto e si sottomette, ma pensa che “tutto ciò sia inaccettabile” e si proietta in un limbo emozionale di ansia e rabbia nel quale si focalizza su un futuro in cui tutto dovrà andare a posto. In questo modo tratta il presente come una sorta di temporaneo errore “del sistema”. Opponendosi passivamente alle pretese dei genitori rifiutanti sente anche di esercitare un potere che in realtà non ha, dato che il suo reale bisogno (doloroso) è quello di ricevere amore e non quello di deludere e di esasperare i genitori rifiutanti.
Spesso le persone vittimiste sono erroneamente considerate “troppo buone”, ma quando vengono “smascherate” sono erroneamente disprezzate. La cosa più scomoda da tener presente è il fatto che le persone vittimiste agiscono intenzionalmente, ma senza essere consapevoli di ciò che fanno. Se fossero consapevoli di guastare la propria vita e quella degli altri agirebbero diversamente. Fuggono dal contatto con il dolore manifestando una finta sottomissione. La persona vittimista, nelle relazioni interpersonali frustranti non dichiara la propria indisponibilità, né si rassegna ad adeguarsi, ma dichiara obbedienza e poi con una “distrazione” o un ritardo o compiendo un errore o “tenendo il muso” esaspera chi ha esercitato una “prepotenza” (spesso reale, ma a volte solo immaginata). L’atteggiamento vittimistico in situazioni appena frustranti risulta quasi comico, ma in circostanze drammatiche viene facilmente “giustificato” e ciò consente alle persone vittimiste di raccogliere una “comprensione” di cui non hanno bisogno e che le rende ancora più attaccate alla loro distruttività difensiva (cfr. Hughes, 1993). In questo senso le persone vittimiste esercitano in modo paradossale un potere sugli altri, o almeno su quelli che subiscono o vogliono subire (inconsciamente) le manipolazioni vittimistiche: “Se solo la vittima ha valore, se solo la vittima è un valore, la possibilità di dichiararsi tale è una casamatta, una fortificazione, una posizione strategica da occupare a tutti i costi. La vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi: il sogno di qualsiasi potere” (Giglioli, 2014, p. 10).
Spesso il vittimismo rientra in una struttura caratteriale abbastanza compatta, definita da Reich (1945), Lowen (1958) e altri “carattere masochista”, ma è in qualche misura presente in molte strutture caratteriali e nelle infinite “miscele” di atteggiamenti caratteriali difensivi individuali, perché ha radici lontane nella “cultura della colpa” che, di fatto, contamina un po’ tutti. Va notato, inoltre, che il vittimismo è molto radicato socialmente non solo come atteggiamento difensivo individuale, ma anche come diffusa “sensibilità” (pseudo)empatica nei confronti delle persone vittimiste. Il fatto che le persone vittimiste spesso arrivino davvero a mettersi nei guai o che evitino accuratamente di sottrarsi a situazioni oggettivamente penose, rende difficile il compito di fare una netta distinzione fra la loro reale sofferenza e il loro atteggiamento vittimistico. In pratica, la gente tende a dare ragione alle lamentele di persone che si guastano la vita, dato che mentre si guastano la vita “giurano” di star facendo del loro meglio. Il successo del film più assurdo di Ridley Scott (Thelma e Louise) è indicativo del fatto che è difficile denunciare l’autodistruttività delle persone che effettivamente hanno subito qualche tipo di violenza. Io penso che sia inaccettabile l’atteggiamento di chi sostiene che se le donne stessero a casa non rischierebbero delle molestie sessuali, ma in quel film, due donne entrano in un bar malfamato, seducono un uomo che manifesta la sensibilità di un tagliaerba e all’ultimo momento respingono, con indignazione, le sue rozze proposte. Poi avendo sparato per “legittima difesa” diventano eroine in fuga. A mio parere il film è semplicemente banale, ma è anche offensivo nei confronti delle donne che non sono stupide come quelle due “eroine”.
Per questi motivi sono egualmente irrazionali le due “tipiche” reazioni al vittimismo: sia quella pseudo-empatica di chi offre comprensione e sostegno, sia quella svalutante di chi disprezza le persone vittimiste affermando che “dovrebbero” avere più coraggio o determinazione. Infatti, il termine “vittimista” è usato raramente, ma quando viene usato è quasi sempre un insulto. Anche se gli atteggiamenti vittimistici sono distruttivi e vanno smascherati e contrastati, le persone vittimiste non meritano alcuna svalutazione: non hanno davvero alcuna consapevolezza del male che fanno a se stesse e agli altri e non traggono alcun reale vantaggio dal loro atteggiamento e dalle conseguenze che determinano.
L’Analisi Transazionale, grazie soprattutto alle ricerche di Stephen Karpman (cfr. Wollams-Brown, 1978, pp. 184-190) ha evidenziato i nessi fra i tre tipici ruoli nelle relazioni caratterizzate dal vittimismo: il ruolo della vittima, quello del “salvatore” e quello persecutorio. In tale analisi è ben evidenziata anche l’interscambiabilità dei tre ruoli, perché la vittima sopporta il persecutore, ma “perseguita” il persecutore frustrandolo con la propria oppositività passiva e perché il salvatore, in fondo, perseguita la vittima pretendendo gratitudine e obbedienza quando dispensa “buoni consigli”. Purtroppo l’AT offre analisi molto lucide delle manipolazioni psicologiche, ma non sottolinea il dolore da cui le persone si dissociano costruendo relazioni interpersonali irrazionali. E’ sicuramente più utile delle psicoterapie basate sull’accudimento dei “poveri pazienti” che “soffrono tanto”, ma stenta ad andare oltre l’esame dei comportamenti e a favorire un’elaborazione dei vissuti dolorosi.
Il vittimismo è deresponsabilizzante. I bambini sono realmente incapaci di reagire in modo costruttivo alle svalutazioni e all’autoritarismo dei genitori, ma gli adulti possono sempre dire dei “no” (pagando dei prezzi) o interrompere i rapporti insoddisfacenti. Persino sotto tortura c’è chi “confessa tutto” e chi non cede. E’ quindi assolutamente folle credere che una persona non possa abbandonare un lavoro umiliante o un/una partner distruttivo/a. In questi casi, le difficoltà economiche o il senso di responsabilità nei confronti dei figli costituiscono delle scuse con cui le persone vittimiste evitano di modificare una situazione di cui sono corresponsabili. Quando la “tipica moglie” pretende che il marito arrivi a casa per cena e il “tipico marito” arriva sempre più tardi scusandosi e giustificandosi, è in atto una guerra fredda, banale e disconosciuta ma devastante, in cui entrambe le persone si sentono “calpestate”, mentre, di fatto sono carnefici. Quando poi tali conflitti si traducono in cause di divorzio o in violenza fisica convogliano in tragedie oggettive la distruttività psicologica manifestata fin dall’inizio da entrambe le persone.
Non si deve dimenticare che il vittimismo può essere presente sia quando esiste una reale oppressione, sia quando l’oppressione è inesistente. La donna che svolge un lavoro part-time non ha motivo di sentirsi sfruttata dal marito se questi, dopo otto ore di lavoro non ha voglia di mettersi a cucinare e non ha motivo di lamentarsi nemmeno se pure lei è impiegata a tempo pieno, dato che ha la possibilità di arrivare a casa e di cucinare solo per sé in modo da dimostrare al partner che non è la sua domestica. Il nazismo è stato combattuto apertamente dai socialisti e dai comunisti, ma non dagli ebrei: le vittime dell’Olocausto hanno subito passivamente delle atrocità indescrivibili e poi hanno rivendicato con determinazione (e ottenuto) il loro “Stato ebraico”. Una lotta politica condotta contro i nazisti in tempo reale sarebbe stata più razionale del sionismo e dell’occupazione dei territori palestinesi. I neri degli Stati Uniti e del Sudafrica hanno invece lottato con metodi non violenti e a volte anche con metodi violenti e poi hanno cercato di costruire una società migliore per tutti. Questi fatti giustificano l’idea che la contestazione di ogni forma di intolleranza sociale dovrebbe accompagnarsi sempre alla contestazione di ogni forma di vittimismo.
E’ davvero difficile reagire con fermezza al vittimismo senza deludere le persone vittimiste, dato che il vittimismo non “esiste” sganciato dalle persone. Tuttavia, è necessario tener presente che l’intransigente e “spietata” denuncia del vittimismo è una necessità e non va intesa come una sorta di vendetta nei confronti di chi “la deve smettere di lamentarsi”. Paradossalmente, tale reazione al vittimismo sarebbe una reazione a sua volta vittimistica e non servirebbe a nessuno. Sul piano sociale non si può presumibilmente fare molto, dato che il vittimismo è “normalmente vincente” e prevale nettamente sul buon senso, ma sul piano personale abbiamo ampi spazi di manovra. Quando sentiamo la voglia di “chiudere la bocca” a qualcuno dicendo “smettila di piangerti addosso”, stiamo solo evitando di sentire la nostra solitudine con una persona che ci sta usando come un contenitore in cui svuota le proprie emozioni negative irrazionali. Se accettiamo questo fatto doloroso possiamo offrire qualche spunto di riflessione, proporre dei cambiamenti e, se ciò non ha alcun esito, possiamo ritirarci dal rapporto senza intossicarci con una rabbia cieca da noi costruita.
In quanto atteggiamento difensivo, il vittimismo non ha a che fare in modo specifico con la sessualità, ma, dato il ruolo centrale della sessualità (affermata o negata) nella sfera emotiva degli esseri umani, il vittimismo ha un “peso” notevole nelle relazioni di coppia e nel rapporto fra maschi e femmine in generale. Da sempre gli uomini si lamentano delle donne e le donne si lamentano degli uomini. Negli ultimi decenni le donne e gli uomini si lamentano e si vendicano “pubblicamente” nelle cause di divorzio e le donne si lamentano “ideologicamente” del “maschilismo” ottenendo in molti casi anche delle risposte pseudo-empatiche (banalmente conformiste) da parte dei “maschi pentiti”. Voglio riportare ora alcune sedute, svolte con un cliente nell’arco di circa quattro anni, che possono evidenziare quanto il vittimismo sia frustrante, ma anche quanto siano delicati i vissuti realmente dolorosi celati dalla compattezza delle manovre vittimistiche.
Il cliente, che chiamerò Michele, manifestava una marcata componente masochistica tra i suoi atteggiamenti difensivi. Egli dichiarò fin dal colloquio iniziale di voler essere "guarito" da un disturbo che egli (in modo inesatto) definiva "depressione" e con cui in realtà manifestava una spiccata tendenza a restare ostinatamente in un "pantano" caratterizzato da pseudo-incapacità ad agire, noia, insoddisfazione e vittimismo. Evidenzierò, riportando alcune sedute molto distanti nel tempo, che Michele tornava al punto di partenza quando, dopo aver fatto dei sensibili passi avanti nella comprensione di ciò che faceva, sentiva con angoscia di poter abbandonare del tutto la sua (falsa) identità di "persona in difficoltà" e di potersi pensare come soggetto adulto e quindi libero di accettare davvero o di abbandonare la persona con la quale si sentiva coinvolto affettivamente. All'inizio del nostro rapporto aveva trentacinque anni, faceva un lavoro indipendente e non aveva figli. Era sposato, ma riusciva a mantenere con la moglie un equilibrio basato soprattutto sulla reciproca silenziosa sopportazione. Tale equilibrio comportava anche occasionali scontri, ma escludeva di fatto qualsiasi reale chiarimento. Il vittimismo può essere espresso anche da persone con atteggiamenti caratteriali non masochistici, intenzionate a “giustificarsi e svalutare” o a rivendicare sostegno o ad esibire atteggiamenti di “superiorità”. In pratica le persone masochiste costituiscono una sottoclasse della classe costituita dalle persone vittimiste.
In una delle prime sedute, Michele mi dice alcune frasi che risultano indicative del suo modo di "aggiustarsi le cose".
M. Mi sento più o meno come l'altra volta, anche se sono un po' più calmo. Starei volentieri zitto e fermo.
GF. OK, partiamo da qui. Vuoi lavorare su questo tuo stato d'animo?
M. Va bene.
GF. Allora, stenditi e ripeti la frase "ho voglia di stare zitto e fermo" alcune volte, in modo da entrarci bene in contatto.
M. [Dopo aver ripetuto alcune volte la frase] Io sono un salsicciotto, zitto e fermo. Sono anche teso e temo che qualcosa possa “venir fuori”. Mi considero inutile e scontento, schiavo di me stesso. Sento tensione al collo e nella zona lombare.
GF. Cosa senti di desiderare, ora?
M. Vorrei essere lasciato in pace. Mi viene in mente la situazione tipica in cui sto male con Piera [la moglie] e le chiedo di lasciarmi solo. Mi sento anche un po' in colpa perché tu potresti pensare che chiedo anche a te di lasciarmi in pace. C'è però una cosa: io vorrei essere aiutato da te, ma tu mi dici sempre che sta a me fare le cose o non farle.
GF. Vorresti il mio aiuto per quale tuo obiettivo?
M. Per venirne fuori.
GF. Sei troppo generico.
M. Non so. Vorrei che tu mi dicessi cosa devo fare.
GF. Prova a ripetere la frase "farò quel che mi dici", fino a sentirla bene.
M. [Lo fa] Vorrei che tu mi facessi entusiasmare per qualcosa.
GF. Dunque vuoi che ti faccia sentire una cosa diversa da quella che senti, cioè che ti faccia diventare un altro Michele. Ma questo Michele cosa desidera da me, realmente?
M. Io vorrei che mi parlassi delle cose che ti piacciono, così, forse diventerei più positivo.
GF. Cioè, tu pensi di far schifo, ma di poter diventare più "positivo" grazie ad una mia “spinta”.
M. Così come sono non credo di poter essere accettato, amato. Credo di essere amabile solo se offro certe cose agli altri. A volte è come se mettessi alla prova Piera: esaspero la mia negatività per vedere se mi ama lo stesso.
GF. Questa è una sfida; è una guerra. Sei sicuro di essere amabile solo a condizione di diventare qualcun altro? E non può essere che tu reciti già la parte di un altro?
M. Non so. Se però Piera è dolce con me, sento subito il dovere di attivarmi per fare all'amore e poi mi sento irritato. E Piera si irrita per la mia irritazione.
GF. Immagina di essere nato da poco e di essere in braccio a tua madre senza dover far niente.
M. Mi è difficile immaginare questa scena. Credo che lei non sia capace di amare. Vorrei essere amato anche se mi comporto male. Ora lo faccio di meno, ma un po' lo faccio ancora. Non credo di essere amabile e se una persona mi dimostra amore non ci credo e voglio un’ulteriore dimostrazione.
In questa conversazione iniziale risulta evidente la chiave di lettura bizzarra che il cliente usa per "spiegare" il proprio comportamento. Dice di voler "prove d'amore", ma dice di non sentirsi amabile. La sua ammissione di una certa ostilità verso la madre o la moglie indica però che egli non crede affatto di non essere amabile, ma crede (ai margini della sua consapevolezza) di essere amabile e ingiustamente rifiutato. La modalità difensiva per l'evitamento del dolore relativo al rifiuto realmente subito nell’infanzia consiste 1) nel sentirsi pregiudizialmente non amato dal mondo intero e nel sentirsi infuriato per tale “ingiustizia”, 2) nel negare la rabbia espressa indirettamente e 3) nel rendere difficile la vita alle persone da cui desidera l'amore. Ovviamente ottiene rifiuti che giudica ingiusti e resta in una posizione di immobilità ostile in cui sa di poter resistere senza soffrire davvero, perché comunque gestisce sia l'autosvalutazione superficiale, sia il disprezzo profondo per gli altri in una chiave vittimistica.
Questo gioco ha molte varianti nelle persone che adottano le difese psicologiche di Michele. C'è chi non pretende l'accettazione se mostra i lati peggiori, ma si accontenta di essere accondiscendente per poi sentirsi vittima di una forma di sfruttamento. C'è chi rimane stabilmente nel pantano concedendosi occasionali "sfoghi" e c'è chi dopo un po' rompe il rapporto rabbiosamente per poi cercare un altro rapporto identico.
In una seduta svolta tre anni dopo l'inizio del lavoro, Michele mi comunica la sua soddisfazione per aver finalmente parlato alla moglie con franchezza e mi dice che facendo l'amore ha avuto la sensazione (del tutto nuova) di fare un'esperienza molto profonda. Tuttavia, mi comunica anche di aver sentito astio in una particolare occasione nei confronti di Piera e quindi di aver riattivato una "vecchia chiusura". Quando ha compreso che stava evitando si sentire il dolore causato dalle “distanze” create da Piera si è sentito più leggero.
M. Se mi capita di provare molto dolore scappo ancora arrabbiandomi nel modo "comodo", cioè dichiarando che voglio “stare in pace”. La verità è che starei con lei e soffro quando avverto quella distanza.
Comunicandomi questa comprensione della propria difesa è commosso. Non ha ancora preso familiarità con il pianto e non ha quindi esplorato l'intensità del suo sentimento. Tuttavia è ormai consapevole delle emozioni superficiali che esprime per difendersi e di quelle profonde e autentiche. Riporto ora una seduta verificatasi pochi mesi dopo questi cambiamenti.
M. A volte lotto ancora col mio dolore e divento passivo ritirandomi nel non far niente, nel guardare la TV e cose simili. Forse vorrei esprimere rabbia e non lo faccio. Finisco per arrabbiarmi con me stesso per il fatto che spreco il mio tempo.
Lo invito a lavorare sull'espressione fisica della rabbia, ma è meccanico e poco collaborativo. Noto la sua chiusura e mi risponde che è stufo di lavorare sempre sulle solite cose e che vorrebbe solo stare in pace. Rispondo che posso andare nell'altra stanza per lasciarlo "in pace" e che può chiamarmi appena sente di voler riprendere il lavoro. Si infuria, getta sul tavolo il denaro del mio onorario e si dirige verso la porta mettendo l'impermeabile mentre procede lungo il corridoio. Lo raggiungo e lo blocco fisicamente, invitandolo con fermezza ad interrompere subito tale sceneggiata. Gli ricordo che ha già tutti gli strumenti per capire che sta cercando anche con me di portare al limite estremo il suo gioco vittimistico. Gli ricordo soprattutto che dobbiamo lavorare su quel gioco anziché fare quel gioco.
GF. Quindi, ti prego, non fingere di voler essere lasciato in pace, come se fossimo estranei. Cerca di dirmi cosa vuoi davvero.
M. Io voglio essere trattato con comprensione, con dolcezza. E invece vanno tutti via.
Qui egli, interrompendo l’atteggiamento difensivo, mi chiede un abbraccio e piange con lacrime e singhiozzi. Il pianto non è del tutto fluido e completo, ma è sentito e, in certa misura, liberatorio. A quel punto, negli ultimi minuti della seduta ricapitoliamo le cose fatte ed il significato dei suoi atteggiamenti difensivi. Chiariamo che sta a lui la decisione di sentirsi vittima di ingiusti rifiuti (peraltro da lui stesso provocati) o di accettare il suo vissuto antico di rifiuto e verificare nel presente se, quando, quanto e come si sente accettato e da chi. La madre "lo accettava" solo se egli non esprimeva bisogni, desideri, entusiasmi o sofferenze e se, quindi, non disturbava il suo passatempo preferito, che era quello di recitare la parte della "moglie che soffre tanto per il marito".
Il lavoro analitico sulle difese caratteriali masochistiche comporta pazienza e un atteggiamento inflessibile rispetto alle manovre psicologiche. Occorre che il cliente verifichi che l'analista è sempre disponibile a capire e rispettare il suo dolore, così come è sempre disinteressato alle sue pretese vittimistiche. Nel lavoro analitico si devono considerare inevitabili moltissime sedute dedicate a riportare piccoli dettagli al quadro generale: un sospiro che serve solo a ottenere “pietà” per le "fatiche" sopportate, un sorriso amaro che serve solo a confermare che "la vita non va come dovrebbe andare", il risentimento ogni volta che l'analista rifiuta di essere complice in un gioco, la pesantezza nel modo di camminare ed anche di parlare. Si devono considerare fondamentali sia le sedute in cui il gioco viene spezzato e le emozioni profonde affiorano, sia quelle in cui si riprende solo il filo di un cambiamento già avviato e poi soffocato. L'obiettivo da perseguire con il cliente è sempre la "leggerezza", ovvero la sua capacità di accogliere sia la gioia, sia il dolore. Tale leggerezza implica il crollo di una struttura pesante, grigia, opprimente che blocca la consapevolezza del dolore.
In una delle ultime sedute, Michele mi racconta un sogno che, di fatto ricapitola tutto il suo lavoro analitico. "Sono con degli amici in un grande cinema ricavato da un antico palazzo. Qualcuno mi fa notare che cade della sabbia dall'alto e vedo una crepa che lentamente si allarga nel soffitto. Osservo la scena, ma sono tranquillo. Crolla una piccola porzione della superficie e mi dico che non è possibile un crollo così limitato, perché se c'è un cedimento, cadrà tutto il soffitto. In effetti cadono pezzi di intonaco, mattoni, travi e osservo la scena come a rallentatore, ma sono comunque al sicuro. E' come se osservassi un parto". Michele non sapeva di costruire la propria pesantezza per paura di accettare la solitudine sperimentata negli anni dell’infanzia. Solo dopo aver chiarito la propria strategia difensiva ha potuto affrontare il “crollo” delle sue false certezze sentendosi “al sicuro”.
Se il dolore accomuna tutte le vittime, l’idea che qualcosa “non dovrebbe accadere” o che qualcuno “non dovrebbe” agire in certi modi accomuna tutte le persone vittimiste. Il rifiuto di conoscere le ragioni di ciò che accade, di accettare il dolore e di agire in modi efficaci caratterizza qualsiasi vittimismo. La manipolazione vittimistica funziona proprio perché le persone vittimiste sono violente ma sembrano incapaci di reagire alla violenza degli altri. E’ difficile far notare a chi tossisce appena qualcuno accende una sigaretta, che non aveva tossito al semaforo respirando tranquillamente il gas di scarico di un TIR. La (pseudo)comprensione nei confronti delle persone vittimiste è quindi tanto radicata quanto lo è il vittimismo. Se così non fosse, libri “improponibili” come Donne che amano troppo di Robin Norwood (1985) non diventerebbero best seller internazionali.
Nell’ambito della sessualità il vittimismo devasta sia le particolari relazioni interpersonali, sia il rapporto fra uomini e donne in generale (e fra le persone eterosessuali e le minoranze sessuali). Costituisce una grave fonte di incomprensione che soffoca il piacere, l’intimità e la convivenza sociale. Le espressioni tipiche delle persone vittimiste sono “tu mi critichi!” (come se ogni critica fosse una svalutazione) e “tu mi hai ferito!”. La storia delle “ferite psicologiche” è complessa e inquietante, dato che l’esibizione di ipotetiche ferite psicologiche è “ipnotica” e facilmente paralizza qualsiasi interlocutore. La realtà è ben diversa: fra adulti nessuno ferisce psicologicamente nessuno, anche se chiunque può compiere azioni che causano dolore. L’idea della “ferita” implica un danno (irreparabile) causato alla vittima che sicuramente non ha alcuna responsabilità nella relazione e che ha semplicemente subito un abuso ingestibile le cui tracce permarranno. Solo i bambini possono essere “feriti” dalle parole degli adulti, perché non sono in grado di tollerare il rifiuto. Tuttavia, anche le loro “ferite” si rimarginano e diventano “esperienze passate”. Il fardello che i bambini si trascinano nella vita adulta non è costituito dalle “ferite” subite, ma dalle difese psicologiche che essi stessi hanno costruito per non restare in contatto con rifiuti ingestibili. L’idea delle “ferite” dei bambini “non amati” (cfr. Schellenbaum, 1988) commuove la gente, ma è errata. I bambini non amati crescono come gli altri e senza “ferite non rimarginate”. Crescono però induriti, chiusi, timidi o prepotenti, controllati o ribelli perché inconsciamente continuano a reagire al dolore mai accettato. Tale dolore è attuale: le persone adulte, non avendo superato nell’infanzia il loro dolore, continuano a sentire il bisogno di un accudimento protettivo (impossibile nella vita attuale) e per questo motivo provano un dolore (attuale) a cui continuano a reagire difensivamente.
I clienti che giurano di sentirsi oppressi o che si sentono umiliati e incapaci di reagire sono in buona fede, perché si sentono davvero così. Solo quando familiarizzano con le emozioni temute si rendono conto di aver sempre preso in giro tutti. Questo fatto getta un’ombra su tanti aspetti della cultura perché la stessa determinazione/indignazione che tanti intellettuali, politici e religiosi mettono nei loro discorsi costituisce un sintomo irrazionale che però non viene analizzato e, anzi, produce consenso. La gente si entusiasma quando giornalisti e politici affermano che una “cricca” di “politici corrotti” porta via il pane alle “brave persone” e non vuole sentirsi dire che proprio le “brave persone” hanno sempre mandato al potere i nazisti, i fascisti e i politici peggiori.
La sincera e razionale intenzione di contrastare l’oppressione comporta una coerente denuncia di tutti i tipi di oppressione e una reale disponibilità a capire le radici di ogni violenza. Quando ciò non si verifica, anche le proteste più sensate per particolari situazioni oppressive diventano irrazionali, dato che focalizzano l’attenzione su tali situazioni per non affrontare le altre egualmente gravi. La denuncia delle (tante) iniquità riscontrabili ancor oggi fra maschi e femmine, su un piano razionale dovrebbe essere fatta in tutte le direzioni: di fatto, il vittimismo femminista mette in evidenza le violenze lievi o gravi maschili ma occulta quelle femminili (cfr. Salerno–Giuliano, 2012) e soprattutto trascura il fatto che le manipolazioni psicologiche, i ricatti affettivi e molte forme di sfruttamento psicologico (e materiale) sono attuate sia dagli uomini che dalle donne e hanno effetti devastanti. Tragedie come quelle delle “spose bambine” o delle mutilazioni genitali femminili e tragedie più “eleganti” come la normale “educazione morale” dei bambini e delle bambine non possono essere ragionevolmente imputate ai maschi o ad una cultura “maschilista”, ma all’irrazionalità distruttiva di donne e uomini indisponibili ad aver cura di sé, dei/delle loro partner, dei figli e delle figlie.
Il vittimismo (individuale e sociale), di fatto, cela i problemi reali ed ostacola qualsiasi realistica ricerca di soluzioni. Mira ad alimentare illusioni alimentando conflitti e non mira a produrre cambiamenti. Proprio l’indisponibilità delle persone al contatto emotivo facilita l’accettazione di ideologie in cui le responsabilità sono colpe e le colpe sono sempre degli “altri”. La critica del vittimismo non ha, quindi, alcun senso se non diventa una riflessione critica sulla diffusa indifferenza manifestata nelle relazioni interpersonali, nella società e nella cultura.