sabato 14 luglio 2018

20. Vergogna, orgoglio e castità







Quando si prova vergogna o orgoglio si confonde l’essere apprezzati (cioè stimati e “utilizzabili”) per aspetti o qualità personali (innate o acquisite) con l’essere amati. Chi prova vergogna (o orgoglio) desidera ricevere amore e sente di non ricevere amore, ma si dissocia dal dolore di tale situazione (che è “data”) complicandola con questioni (irrilevanti) di stima, per giungere a star male in modi ansiosi e rabbiosi. Tutto inizia con il bisogno di essere accuditi amorevolmente (da piccoli) e con l’esperienza di essere trascurati. I neonati e i bambini hanno bisogno di sperimentare la sicurezza di un accudimento amorevole perché non possono darsi alcun sostegno, non possono farsi compagnia, non possono nemmeno capire chi sono e cosa sta accadendo attorno a loro. Grazie al contatto dolce e rassicurante con la madre si sentono “totalmente bene”, perché senza quel contatto si sentono “totalmente male”. Solo in seguito, dopo aver acquisito la consapevolezza di essere se stessi e di essere in relazione con gli altri possono sentirsi a proprio agio da soli, perché quando sono da soli si sentono con se stessi e quindi non proprio soli. E possono comprendere le differenze fra le varie esperienze di contatto con gli altri. Possono quindi facilmente capire che è bello (anche se non indispensabile) essere amati, che è bello amare e che è vantaggioso essere apprezzati per il fatto di essere in qualche modo utili agli altri. Tutto ciò consente di provare desideri e sentimenti razionali e di agire razionalmente accettando le gioie reali e i dolori reali della vita. Questo però in genere non si verifica e i bambini costruiscono difese psicologiche, tra cui anche quelle che conducono a provare vergogna o orgoglio.
Le persone spesso sono orgogliose o si vergognano del loro aspetto fisico o della loro intelligenza trascurando il fatto che dispongono per pura fortuna o sfortuna di tali caratteristiche: i cinesi non sono piccoli di statura perché si impegnano poco a crescere, ma per via del loro patrimonio genetico. In ogni caso, anche le qualità che le stesse persone hanno sviluppato, (dedicandoci, ad esempio, allo studio o all’attività sportiva) dipendono dagli incoraggiamenti (o dalle imposizioni) che fin dall’infanzia hanno ricevuto e da tante circostanze. Provando orgoglio o vergogna le persone confondono la semplice gioia o il semplice dispiacere per particolari gratificazioni o frustrazioni dovute a circostanze fortunate o ai propri “meriti”, con la irrealistica sensazione-convinzione di essere amabili e amate. Riescono a fare tale confusione perché continuano a cercare quell’amore che consente ai bambini (e solo ai bambini) di stare “totalmente bene”.
L’impossibilità di gestire nei primi mesi e anni di vita il dolore dovuto ad un contatto poco amorevole con la madre e, successivamente con entrambi i genitori, costringe i bambini e le bambine a costruire rudimentali o complicati atteggiamenti difensivi. Se il dolore non fosse sperimentato troppo intensamente e troppo presto da bambini non sostenuti dai genitori sarebbe per tutta la vita tollerato come un semplice fatto. E’ invece tollerato solo quando è lieve o circoscritto, mentre è temuto (anche nella vita adulta) come un incubo ingestibile appena coinvolge aspetti significativi della dimensione affettiva. Solo in questo contesto teorico possiamo spiegare stati d’animo apparentemente inspiegabili come l’orgoglio o la vergogna. Quando le persone provano queste emozioni stanno scambiando la realtà (più o meno soddisfacente) del loro “valore d’uso”, con la loro accettabilità (o amabilità o “salvezza”). Poco cambia se una persona è orgogliosa del proprio aspetto fisico (per il quale tutto il “merito” va ai genitori) o per il coraggio che ha dimostrato (e che non avrebbe certo potuto dimostrare se fosse cresciuto in un’altra famiglia e in un altro ambiente) e poco conta se una persona si vergogna del proprio aspetto fisico o di un insuccesso professionale: in tali casi si sta illudendo di essere “accettabile” o “non accettabile” e si sta dissociando da vissuti dolorosi di non accettazione. Va infatti notato che la vergogna non riflette il dolore per una mancanza accettata, ma solo la rabbia per una mancanza “ingiusta”: chi si vergogna pensa che avrebbe avuto diritto a più opportunità o che avrebbe dovuto agire meglio e con questo trucco salva l’illusione di poter risultare accettabile in seguito a circostanze diverse o ad un maggior impegno personale. Tutti questi “epici tormenti” nascondono il vissuto doloroso di bambini semplicemente amabili (come tutti i bambini) e non amati (come quasi tutti i bambini). Il generale che si pavoneggia per un riconoscimento al valor militare o il cantante che non si stanca di firmare autografi o l’adolescente che ogni mattina si conta i brufoli, non fanno bilanci accurati della loro vita. Nessuna gioia, nessun dolore e tanta confusione. Una confusione generata da bambini spaventati e alimentata da una cultura prodotta dagli stessi bambini divenuti genitori, insegnanti, giornalisti e intellettuali.
Nei testi di psicoterapia non ho mai trovato una chiara esposizione della radicale opposizione esistente fra dolore e vergogna ed anche fra gioia e orgoglio, ma resta il fatto che chi prova vergogna “sta male” confusamente e non prova né compassione (per sé o per altri), né dolore e resta il fatto che chi prova orgoglio, pur “sentendosi bene”, non prova alcuna gioia.
L’orgoglio e la vergogna presuppongono l’illusione di un potere sugli altri che non esiste. Tale illusione costituisce una grave (ma efficace) difesa psicologica dal dolore di non poter far nulla per ottenere l’amore nutriente e rassicurante delle figure d’accudimento. Noi non abbiamo nemmeno alcun potere sull'amore degli altri nella vita adulta, ma se da adulti coltiviamo l'illusione di avere tale potere, manteniamo difese psicologiche costruite nell'infanzia. L’orgoglio e la vergogna, quindi, come molte altre difese psicologiche, mantengono una rabbiosa e ansiosa speranza in qualcosa che non si realizzerà mai. In pratica mantengono l’illusione che l’infanzia non sia ancora conclusa e possa concludersi con un lieto fine. Tante volte i genitori dicono ai figli “Vergognati!”, tanto per essere certi che non scorderanno di farsi del male, oppure “li gratificano” affermando di essere “fieri” di loro, per sottolineare che non devono godersi la vita, ma devono gratificare i genitori. Non c’è, quindi, da stupirsi se in una cultura come quella in cui cresciamo e viviamo, dopo aver commesso un errore possiamo provare vergogna e non c’è da stupirsi nemmeno se, dopo aver registrato un successo, possiamo non solo provare soddisfazione per il risultato raggiunto, ma anche orgoglio. Purtroppo, i piccoli equivoci individuali, a volte diventano incubi sociali. I ragazzi, completato lo sviluppo, smettono di pensare ai brufoli, ma altri “banali” equivoci hanno conseguenze ben più gravi. Se prendiamo in considerazione l’orgoglio dei membri di una immaginaria “razza superiore” oppure la vergogna (o l’orgoglio) delle persone omosessuali, ci passa la voglia di sorridere su certi equivoci. In ogni caso gli equivoci ideologizzati e condivisi hanno sempre come condizione di possibilità la presenza di tendenze individuali (difensiva) alla negazione dei fatti dolorosi.
Una studentessa, che chiamerò Cristina, attraversava un periodo difficile con un ragazzo (Dario) che trovava molto attraente e che considerava anche il suo possibile “grande amore”. Aveva avuto una relazione affettuosa e sessualmente piacevole con un altro ragazzo che poi l’aveva lasciata perché non si sentiva “davvero voluto” e ora si trovava a “volere davvero” Dario, ma a non “lasciarsi andare” sessualmente con lui. Mi aveva cercato per il suo “problema sessuale” e le avevo chiarito subito che non me ne sarei occupato, ma che ero invece disponibile a chiarire il suo rapporto con sé e con Dario. Dopo alcune sedute sintetizzò così ciò che la inquietava: “Mi sento eccitata appena Dario mi sfiora o mi guarda, ma non riesco a venire, come con Carlo. Io non voglio fingere un orgasmo, ma è avvilente stare tanto bene con lui e poi venire da sola toccandomi. Lui fa l’amore con me e lo fa con passione e io pure, però devo concludere da sola. La cosa intristisce entrambi”. Mi fece capire nelle prime sedute che provava stima e affetto per entrambi i ragazzi, ma che con Dario aveva delle sensazioni fisiche molto forti. Aveva pensato fin dall’inizio di poter avere con Dario un rapporto “perfetto” e aveva immaginato che non si sarebbe mai più potuta sentire così “vicina” ad un uomo.
GF. Quindi, devi essere “almeno perfetta” con lui.
C. Ho capito! Però adesso mi tiri fuori la storia dell’amore condizionale e dell’illusione di meritarlo.
GF. Brava! Mi hai fregato. E adesso cosa vinci?
C. Scusami, lo so che ti fai in quattro con me e che io faccio sempre cadere nel vuoto i tuoi spunti di riflessione. Però conosco le tue idee sull’argomento e mi sembra che in questo caso non servano a molto.
GF. Allora proviamo con le tue idee! Hai un ragazzo che consideri molto importante e poi ci fai sesso come se fossi frigida a metà. Cosa ti viene in mente?
C. Che io non posso essere così importante per lui, finché sembro un ghiacciolo.
GF. Ne sei sicura?
C. Perché dovrebbe apprezzarmi per un’incapacità che, tra l’altro, so di non avere? Un conto è che gli chieda di amarmi anche se non ho gli occhi azzurri e un conto è che gli chieda di amarmi anche se sono un ghiacciolo, dato che con lui mi sento un vulcano.
[Non le faccio notare che in questa frase ha usato il verbo “apprezzare” e il verbo “amare” come sinonimi, perché ci perderemmo in una discussione teorica. Lei pensa di conoscere “le mie idee”, ma in realtà continua a considerare le proprie capacità come un mezzo per conquistare l’amore. Mi limito a far presente che è più focalizzata su come può apparire che sul piacere di stare con Dario, ma non arriviamo da nessuna parte. Nella seduta successiva mi racconta con molto compiacimento l’esito (con lode) di un suo esame e mi parla con evidente orgoglio della possibilità di dare la tesi con il professore.]
GF. Mi sembri soddisfatta, ma anche compiaciuta. Direi “orgogliosa”.
C. Certo che lo sono!
GF. E perché? Ringrazia mamma e papà che ti hanno fatta intelligente!
C. Ma ho anche sputato sangue per fare quell’esame. Non ero solo preparata: avevo fatto molti approfondimenti.
GF. Ringrazia comunque mamma e papà ed anche le maestre, le professoresse e i librai che hai avuto a disposizione. Se fossi nata in un villaggio africano forse sapresti solo leggere e scrivere.
C. Ma sono nata qui e io mi impegno più di tante persone che sono nate qui.
GF. Ma tali persone con cui competi, pur essendo nate qui, hanno un’altra storia. Forse sono state meno aiutate o meno costrette a competere!
C. Allora a cosa serve impegnarsi nelle cose?
GF. Solo a raggiungere degli obiettivi. Sicuramente non a diventare “belle persone”. Tu saresti una bella persona anche in quel villaggio africano. E scommetto che Dario sarebbe d’accordo.
C. Cazzo!
GF. No: si chiama “vagina”, o “passerina” o in altri modi. E’ proprio la vagina che hai messo sotto chiave.
C. Smettila! Ho capito. Io però non ci credo! Non credo che Dario mi guarderebbe con amore se mi vedesse in quel villaggio!
GF. E quindi continui a credere che non ti possa amare per via del tuo “miserabile acme solitario”. E continui ad aspettare di essere davvero amata grazie al tuo orgasmo “vulcanico” adatto ad una “vera donna emancipata e disinibita”!
C. [ E’ commossa] Ora ho capito.
[Nella seduta successiva Cristina mi comunica di “essersi sbloccata”]
GF. Hai usato il kamasutra?
C. No. Ho chiesto scusa a Dario. Mi ha detto che mi trova davvero scema, ma che è lo stesso.
GF. Bel tipo quel Dario! Credo che tu possa smettere di essere così orgogliosa e che possa ringraziare sia i tuoi genitori che ti hanno fatta intelligente, sia l’amica che ti ha presentato il primo ragazzo che ti ama “così scema”.
Noi umani proviamo gioia (non orgoglio) quando risolviamo un problema o facciamo breccia nel cuore di una persona sessualmente attraente e proviamo dolore (non vergogna) se non risolviamo un problema che ci stava a cuore o se risultiamo indifferenti ad una persona con cui vorremmo far sesso o fare l’amore. Per gli stessi motivi, proviamo gioia (non orgoglio) quando facciamo gioire un’altra persona e proviamo tristezza (non vergogna) quando ci accorgiamo di aver fatto soffrire un’altra persona. In pratica, non abbiamo mai delle valide ragioni per provare orgoglio o vergogna.
La vergogna non ha nemmeno a che fare con “la coscienza morale”, perché ha a che fare solo con il terrore infantile di un rifiuto materno (o paterno) e con l’illusione di una vicinanza col genitore svalutante dovuta alla condivisione della sua svalutazione. Nella vergogna i bambini, in pratica, dimostrano di preferire la sintonia (illusoria) con i genitori rifiutanti, al rispetto di sé. Infatti sono troppo piccoli per rispettarsi da soli e farsi compagnia da soli. L’idea che la vergogna dipenda da un conflitto puramente “interiore” è semplicemente infondata: le ragazze in Iran si vergognerebbero ad andare in giro senza velo, mentre in Occidente si vergognano se non si sentono abbastanza sexy, e credo sia davvero difficile sostenere che le ragazze iraniane abbiano una “coscienza” diversa da quella delle ragazze di Milano o di Londra.
A chi obiettasse che alle bambine occidentali nessuno insegna ad essere sexy, si deve rispondere che l’obbedienza (e la vergogna) dei bambini e delle bambine riproduce nell’infanzia in modo diretto le aspettative dei genitori, ma poi nell’adolescenza, lo stesso bisogno (“antico”) di “appartenenza” o di “riconoscimento” viene “spostato” su altre figure e altri gruppi che manifestano altre svalutazioni. Le persone possono anche vergognarsi “fra sé e sé”, ma hanno sempre in mente una persona o un gruppo svalutante. Un ragazzo che ha avuto un insuccesso scolastico può vergognarsi se dipende psicologicamente da una famiglia “competitiva”, ma può essere anche “orgoglioso” di dimostrarsi un fannullone se dipende psicologicamente soprattutto da un gruppo di amici “ribelli”. Nell’orgoglio la stessa dissociazione è attuata in un altro modo: chi è orgoglioso non prova un piacere reale, ma solo l’entusiasmo per non aver fatto una “brutta figura”. L’intolleranza verso qualsiasi gruppo non realmente minaccioso o distruttivo si manifesta con una distruttività rivolta all’esterno, ma opera prima di tutto internamente: la persona intollerante disprezza certe persone o gruppi solo per “spostare sugli altri” la propria sensazione di vergogna e di “inaccettabilità” In pratica, chi disprezza i “deboli” con orgogliosa ma incerta arroganza cerca solo di offrire un’immagine “forte” di sé al proprio “gruppo di riferimento” perché disprezza la propria fragilità.
A volte si appartiene ad un gruppo oggettivamente, per nascita (ad esempio per il genere o per il colore della pelle) e altre volte si appartiene ad un gruppo oggettivamente per ciò che si è fatto: accettando un certo lavoro si rientra in una particolare categoria sociale. Tuttavia, l’appartenenza oggettiva ad un gruppo non implica automaticamente un’adesione soggettiva a convinzioni e atteggiamenti presenti o prevalenti in tale gruppo e soprattutto non implica un’adesione ad eventuali pregiudizi manifestati da molte persone di tale gruppo. Ciò significa, quindi, che anche l’appartenenza al gruppo dei maschi, delle femmine, degli adolescenti o degli anziani o dei medici o dei contadini non implica alcun “sentimento di gruppo” o alcun sentimento pregiudiziale nei confronti degli altri gruppi. In pratica, una persona eterosessuale che accetta senza conflitti interni la propria identità sessuale non ha alcun motivo razionale per vergognarsene o per provare orgoglio e non ha alcun bisogno di “dimostrare” nulla e tanto meno di esprimere ostilità nei confronti delle persone vergini o delle persone omosessuali. Una persona eterosessuale “orgogliosa” di essere tale ha un problema non risolto con sé e col gruppo di cui fa parte. Lo stesso vale per le persone omosessuali: non hanno un solo motivo razionale per provare vergogna o orgoglio in relazione al loro orientamento sessuale. Il semplice fatto di appartenere ad una minoranza o anche di appartenere ad una minoranza spesso socialmente svalutata comporta il dolore per una situazione frustrante (e l’impegno a modificarla), ma non implica alcun ragionevole sentimento di vergogna. Poiché le pressioni da sempre subite dalle persone omosessuali sono state notevoli si può facilmente pensare che ciò giustifichi il loro “ritrovato orgoglio”, ma tale pensiero non ha alcun senso, così come non ha mai avuto valide ragioni la “tradizionale” vergogna provata dalle persone omosessuali. La vergogna e l'orgoglio non si spiegano sul piano sociale; sono difese psicologiche e quindi risposte infantili a situazioni famigliari dolorose. Anche se "giustificate" o ideologizzate restano irrazionali.
Spesso, purtroppo, le assurdità manifestate dalle persone moraliste e bigotte vengono rifiutate solo per via del conformismo “aggiornato” delle persone che giurano di volersi “emancipare” dalle concezioni “antiquate”. Normalmente, le persone “emancipate” hanno semplicemente aggiustato il tiro e sostituito nuove forme di svalutazione alle vecchie svalutazioni. L’opposizione “giusto-sbagliato” e “accettabile-inaccettabile” attraversa le ideologie più conservatrici e quelle più “aperte”, perché alla base delle ideologie sta sempre e comunque un’attribuzione (esclusiva) di valore e una svalutazione. L’analisi di tali equivoci costituirebbe un impegno fondamentale degli psicoterapeuti se si dedicassero a spiegare le difese psicologiche anziché a conformarsi (difensivamente) alla società “data”.
Solo partendo da una reale comprensione della vergogna e dell’orgoglio è possibile capire quel fenomeno “estremo” costituito dalla castità e dalle teorizzazioni della castità. Infatti, le giustificazioni etiche o religiose della castità non sono altro che versioni intellettualizzate di semplici sentimenti di vergogna riguardanti il piacere sessuale. Nei casi in cui la castità è praticata da adulti non religiosi dipende da un semplice (ma grave) disinteresse per la sessualità e quindi da un blocco della percezione fisica del desiderio sessuale (e del desiderio di intimità). Nei casi in cui, invece, la castità è praticata per convinzioni etiche o religiose, può accompagnarsi ad una sofferta costante repressione di desideri sessuali intensamente percepiti, ma svalutati. In questo caso è importante capire le ragioni di un sacrificio tanto penoso che non reca vantaggi a nessuno.
Per "castità" si intende in generale la "astensione da ogni attività sessuale o anche da manifestazioni o pensieri che vi abbiano in qualche modo attinenza" (dal dizionario Devoto-Oli) e, in questa definizione, il concetto descrive una semplice condizione di "inattività sessuale". Tuttavia, il concetto di castità non è semplicemente descrittivo e ciò risulta evidente appena lo stesso dizionario elenca i significati dell'aggettivo "casto": "Che si astiene dai piaceri del sesso non consentiti al suo stato (...) Non macchiato da impurità o da amori illeciti". Risulta dunque chiaro per quale motivo non si parla mai di animali casti: il concetto di castità rinvia ad un modo di orientare la sessualità "consentito" e “non illecito". Non è quindi un concetto descrittivo come "verginità", perché un ginecologo può ragionevolmente chiedere ad una paziente se è vergine, ma non se è casta. Il concetto stesso di castità implica una svalutazione della sessualità.
Nella religione cattolica, ad esempio, la castità è opposta alla "lussuria" (la ricerca del piacere fine a se stesso) e non a caso la sessualità matrimoniale può essere considerata casta in quanto non è finalizzata al semplice piacere, ma è strumentale a finalità "ulteriori". Da queste elementari considerazioni risulta che la castità indica una rinuncia a comportamenti sessuali svalutati in quanto lussuriosi o peccaminosi. Questa premessa terminologica suggerisce che qualsiasi discorso sulla castità (o sulla "purezza") si regge sulla svalutazione del piacere sessuale in quanto tale. Se non si prova il bisogno (difensivo) di negare il piacere sessuale e se non si prova vergogna all’idea di provare piacere, qualsiasi affermazione (anche formulata in termini intellettualmente sofisticati) relativa al valore della rinuncia ad un piacere “egoistico” e “animalesco” come il sesso risulta incomprensibile, come lo sarebbe una concezione metafisica del “valore” dell’acqua minerale naturale e della natura lussuriosa di quella frizzante. Le persone che fanno voto di castità non affermano di vergognarsi del loro piacere sessuale o di svalutarlo in generale, ma di voler “offrire” a dio la rinuncia alla propria sessualità. Non chiariscono però per quale motivo una divinità dovrebbe apprezzare tale rinuncia. Inoltre, i sostenitori della castità non spiegano perché debba essere considerato “positivo” il proposito di amare tutti senza però “cedere” al piacere sessuale e non possa essere considerato “positivo” il proposito di far sesso il più possibile senza però “cedere” ai sentimenti d’amore. Dato che gli esseri umani sono capaci di provare piacere sessuale ed anche di amare, non si capisce perché solo il piacere debba essere considerato come qualcosa a cui le persone “migliori” rinunciano. Di fatto, l’amore che le religioni promuovono non è un sentimento, ma un dovere e si può, quindi, affermare che le religioni reprimono sia l’amore sia il piacere.
Non tutte le religioni sono egualmente svalutanti nei confronti del piacere sessuale, dato che ad esempio il buddhismo è meno moralistico della religione islamica, ma in genere il tratto dominante delle religioni è proprio costituito da una generale svalutazione della vita terrena rispetto alla vita eterna o all’insieme delle reincarnazioni e in questa svalutazione il puro e semplice desiderio di appagamento sessuale è ritenuto negativo o “banale”. Proprio per questo motivo in molte tradizioni religiose, è presente l’idea che la castità possa costituire un elemento favorevole al raggiungimento di una più profonda “spiritualità”. Tale idea dipende da due premesse che non si escludono reciprocamente. La prima è una premessa fondamentalmente mistica o “esistenziale”, mentre la seconda è strettamente “etica”. Entrambe sono irrazionali e tendono allo stesso obiettivo.
La prima premessa sottolinea il limite della vita terrena ed afferma una tensione verso la trascendenza, intesa come la vera realtà o la vera meta a cui gli esseri umani tendono, e quindi favorisce un orientamento al bene assoluto che rende ovviamente “apparenti” o “superficiali” tutti i piaceri terreni e prima di tutto quello più intenso costituito dalla sessualità. In questo quadro di riferimento la rinuncia totale al sesso ha senso come nei casi in cui una rinuncia produce conseguenze importanti. Tuttavia, se una persona rinuncia ad un rene per donarlo ad un’altra persona salva una vita, mentre se una persona rinuncia al sesso non salva nessuno. Si può dire che salva la propria anima, ma è decisamente bizzarra l’idea di una spiritualità basata sulle rinunce, cioè di una spiritualità che si nutre come un vampiro di gioie che non fanno alcun male e anzi danno “colore” alla vita. Tra l’altro, per alcune correnti spiritualistiche (soprattutto orientali) la spiritualità può essere compiutamente espressa proprio nella sessualità. In ogni caso, chiunque considererebbe bizzarro un artista che dichiarasse di rinunciare al sesso per essere più concentrato sulla sua attività espressiva, ma per motivi tutt’altro che evidenti si considera in genere comprensibile che la vocazione all’amore spirituale possa richiedere una rinuncia al piacere e all’intimità. Purtroppo, quindi, la concezione “mistica” dell’amore spirituale non ha come base né un genuino interesse per la trascendenza, né il desiderio di realizzare con maggiore impegno una ricerca interiore, ma solo una svalutazione del piacere in generale e della sessualità in particolare. George Orwell, in uno dei suoi romanzi "minori", ha descritto il tormento costante di una persona dedita ad evitare i pensieri atti a distoglierla dai sentimenti "elevati" che si sforzava di fare propri. "Ogni volta che si sorprendeva a non por mente alle preghiere, Dorothy osservava la regola di pungersi il braccio con forza sufficiente a farne uscire il sangue. Era la sua forma prescelta di autodisciplina, la salvaguardia contro l'irriverenza e i pensieri sacrileghi" (1935, p. 13).
La seconda premessa che giustifica la castità come scelta etica afferma una tensione o opposizione fra il piacere ed il “dovere”. Se (e solo se) la vita umana è intesa come un insieme di esperienze apprezzabili o disprezzabili sulla base di norme stabilite da dio o “scritte” nella “natura umana”, è comprensibile che quelle esperienze ritenute contrarie alla volontà divina o alla “legge naturale” siano svalutate ed è anche comprensibile che una radicale rinuncia al piacere sessuale possa essere inteso come condizione per vivere rettamente. Tuttavia, è tutt’altro che scontata l’idea di una divinità che legittima l’esperienza di bere se si ha sete e non quella di fare sesso se si ha voglia. E’ bizzarra e, in fondo, blasfema soprattutto l’idea di una divinità interessata a tali banalità.

Se è difficilmente comprensibile una contrapposizione fra il piacere ed il dovere stabilita dalla coscienza divina, è egualmente poco comprensibile un’intrinseca normatività della natura. Tra l’altro i sostenitori della legge naturale non spiegano mai perché considerino “innaturali” l’eterosessualità praticata con anticoncezionali, la masturbazione e l’omosessualità e non considerino innaturali i viaggi in aereo o l’uso del cemento armato. Purtroppo, la logica ed il buon senso non sono applicabili né al misticismo né all’etica, dato che le idee attribuite a dio ed alla natura sono proprio le idee manifestate da esseri umani che, per ragioni difensive e inconsce, non tollerano psicologicamente il piacere.
Solo in questa prospettiva si può spiegare l’esaltazione della rinuncia, del sacrificio e della sofferenza. A molti sembra grottesca la pratica religiosa dei flagellanti, ma la pratica della castità deriva dalle stesse premesse. Alla base di tale concezione della realtà non troviamo l’empatia, la compassione e l’amore, ma solo la brama di raggiungere eroicamente un’immaginaria perfezione. Una persona può rinunciare al proprio tempo o al proprio denaro per il bene di un’altra persona, ma se rinuncia a qualcosa senza migliorare la vita di nessuno, sicuramente non agisce per amore. Se io avessi fame apprezzerei l’offerta di una persona disponibile a dividere con me il suo panino, ma non potrei essere grato ad una persona che butta via il suo cibo “per solidarietà”. Per questo motivo, la valorizzazione della castità non ha nulla a che fare né con l’accettazione della trascendenza né con l’amore per gli altri, ma solo con l’odio per la vita. “Ora, noi siamo pieni di concupiscenza; dunque, siamo pieni di male: dobbiamo, pertanto, odiare noi stessi e tutto quanto ci spinge a amare altri che Dio” (Pascal, 1670, p. 315). Sant’Agostino, addirittura si preoccupava di provare ancora durante il sonno, nei sogni, i piaceri che con fatica era riuscito a dominare nella veglia: “Ma la tua mano, o Iddio onnipotente, non può anche sanare tutte le debolezze della mia anima e con grazia più abbondante estinguere anche i moti lascivi del mio sonno? O Signore! così Tu aumenterai sempre più i tuoi doni, in modo che l’anima mia, libera dal vischio della concupiscenza mi tenga dietro sino a Te e non si ribelli a se stessa, che anche durante il sonno non consumi sotto l’impulso di bestiali visioni codeste turpitudini della corruzione fino al flusso della carne, ma nemmeno vi acconsenta” (398, p. 288). L’idea alla base di queste tormentate riflessioni è di non essere amabili per ciò che si è, e quindi se si prova desiderio sessuale, si devono evitare gli "accoppiamenti fatti per cieco istinto naturale fra bruti" (Pio XI, 1930, par. 8, p. 5), dato che "le nozze sono buone" in virtù di scopi ulteriori, quali "la prole, la fede, il sacramento" (op. cit. par. 11, p. 6). Questa concezione orientata a svilire il piacere porta all'idea che gli “atti coniugali resi intenzionalmente infecondi" costituiscano un atto "indegno della persona umana" (Paolo VI, 1968, par. 14, pp. 14-15). Tutta questa concezione si fonda sull'idea che il piacere sia inaccettabile e che la gioia di vivere non renda "degne" di essere amate le persone. L’idea di un amore divino “concesso” a condizione che una persona non esprima ciò che la rende tale persona è semplicemente inconsistente: anche i nazisti avrebbero “amato” gli ebrei se non fossero stati ebrei.
In ogni caso l’idea basilare (nella versione “mistica” o in quella “etica”) della “concupiscenza terrena” e della spiritualità intesa come opposta al piacere, accomuna tutte le religioni, anche se con accentuazioni diverse. Nell’induismo è prevista tradizionalmente anche la “prostituzione sacra”, ma all’interno di una concezione comunque svalutativa del piacere sessuale nella vita quotidiana di tutti. Una preghiera induista è così formulata “Non sono capace di compiere gli atti imposti dalla rivelazione vedica, e, attaccato agli oggetti dei sensi, non so evitare le azioni proibite. … Io, miserabile, cadrò in basso. Perciò, tu Rama, discendente di Raghu, per carità proteggimi: sono il tuo servo. Onore a te!” (cit. in Franci, 2005, pp. 98-99). Nel tormento dell’autorepressione sessuale maschile e della dedizione delle donne al marito al fine di limitare la peccaminosità di entrambi praticando una sessualità “giustificata”, si riassume in termini “operativi” quella dissociazione basilare che nell’infanzia consiste nello sforzo di essere accettabili dimostrando di essere “altro” da ciò che si è.
La castità risulta comprensibile solo come vorace ricerca di “assoluto”, cioè come trasposizione su un piano ideale di bisogni infantili simbiotici e fusionali. La castità teorizzata in chiave teologica non deriva, quindi, né da ragionevoli convinzioni spiritualistiche, né dalla fede in una divinità trascendente (che, in quanto trascendente, dovrebbe essere disinteressata a banali norme e soprattutto ad inutili rinunce), né dall’amore per sé e per gli altri. La valorizzazione della castità è semplicemente un sintomo ed è davvero incomprensibile che essa non compaia negli elenchi dei disturbi psicologici stilati dagli esperti del settore. Purtroppo le diagnosi degli psichiatri e degli psicoterapeuti, anche se a volte sono complesse e articolate non prescindono dalla normalità statistica entro i cui confini tali professionisti operano.
Per questo motivo, la castità, essendo approvata da intere comunità religiose, non risulta “interessante” sul piano “clinico”. Se un individuo va in ansia immaginando una scena erotica, viene classificato come affetto da una patologia psichica. Se però migliaia di preti, di suore (o di sacerdoti di altre religioni) rinunciano alla sessualità con l’approvazione di milioni di devoti, gli studiosi finiscono per riclassificare tale sintomo come un “punto di vista” di tipo religioso, da rispettare in nome del pluralismo. Qui però si annida un equivoco tremendo: il pluralismo è irrinunciabile per chiunque rifiuti un’organizzazione sociale autoritaria (o magari teocratica!) e si traduce in una esplicita tolleranza per idee, atteggiamenti, preferenze diverse dalle nostra. La tolleranza esclude la svalutazione, l’esclusione e la persecuzione, ma non l’affermazione delle proprie idee e soprattutto delle proprie conoscenze. Gli specialisti del settore, purtroppo, hanno sempre evitato di opporre una teoria scientifica alle stupidaggini divenute “cultura di massa”. Poiché le religioni sono ancora di moda, gli studiosi delle discipline psicologiche non evidenziano i limiti, le contraddizioni o i paradossi delle concezioni religiose e della repressione sessuale razionalizzata in termini religiosi. In realtà potrebbero denunciare e contrastare almeno l’idea degli atti impuri, imposta a bambini intellettualmente ed emotivamente indifesi, dato che i minori vanno tutelati più degli adulti, ma l’idea (distorta) della libertà di pensiero prevale sull’idea della tutela dei bisogni dei bambini.

Nelle società in cui una religione è nettamente prevalente, tutta la cultura è schiacciata dalle convinzioni religiose identificate dalle autorità come verità assolute o almeno come elemento fondamentale della cultura. Ciò si è verificato nell’Europa cristiana del passato e si verifica in vari paesi islamici oggi. Anche nello Stato di Israele, " non esiste un matrimonio civile” e “per i cittadini ebrei il diritto rabbinico ha vigore di legge" (Stefani, 1997, p. 63). Ogni religione si caratterizza come presunta conoscenza di verità valide per tutti e quindi conduce necessariamente al proselitismo più che alla discussione. Conduce anche all’intolleranza, perché le religioni si dichiarano favorevoli alla tolleranza solo per ottenere dei vantaggi dagli Stati laici: se fossero davvero tolleranti, le religioni non imporrebbero le loro convinzioni ai bambini.
I concetti di libertà di pensiero, pluralismo, esame critico dei fatti, verifica empirica, falsificazione, si sono sviluppati in settori della filosofia e della scienza occidentale estranei alla metafisica ed alla religione. E’ un fatto bizzarro che le persone influenzate dal pensiero illuminista e laico si sentano tenute, per coerenza, a rispettare le idee religiose, mentre le persone religiose considerano errori o peccati le idee estranee alle loro “verità”. Mentre Voltaire riteneva necessario difendere fino alla morte la libertà di pensiero di chiunque, le religioni prima e dopo di lui hanno semplicemente sopportato come una sconfitta ogni passo compiuto nella direzione di un pluralismo tutelato da Stati laici. La radice di questa profonda divergenza sta nel fatto che chi cerca la verità sente il bisogno di discutere e controllare ogni elemento del proprio percorso conoscitivo, mentre chi sente il bisogno di affermare delle (presunte e precostituite) verità assolute sente soprattutto il bisogno di “salvare” gli altri, concepiti come persone che brancolano nell’errore (e nel peccato).
Questo aspetto psicologico non va minimizzato perché, anche se le religioni hanno spesso “fatto la storia” per interessi e per brama di potere (come tante caste, classi e Stati), le persone religiose si sono sempre sentite nei confronti dei non credenti un po’ come ci sentiamo tutti di fronte ad un estraneo in pericolo: interveniamo per salvarlo. Le persone religiose, proprio perché terrorizzate dall’idea di una divinità più crudele dei genitori umani, si sentono tenute a non far “cadere” gli altri nell’ateismo e impongono il loro punto di vista minacciando bambini e adulti con l’immagine di una punizione eterna che non costituisce sicuramente una ragionevole interpretazione di una eventuale realtà trascendente.
Questa paura dell’errore e della punizione non ha nulla a che fare con la conoscenza e nemmeno con l’amore, ma una volta che tale paura si è radicata, conduce ad “infliggere la salvezza” a tutte le persone e soprattutto a quelle più care. Voltaire narra un episodio la cui valenza distruttiva supera di gran lunga quella della pratica educativa che introduce nella mente dei bambini concetti come "atti impuri" o "dannazione eterna". Tale episodio merita di essere ricordato solo perché evidenzia la logica profonda di scelte (che lo stesso autore considera effettuate con le migliori intenzioni) basate sulla paura del rifiuto "assoluto". "Uno dei più sorprendenti esempi di fanatismo è stata una piccola setta in Danimarca, il cui principio era il migliore del mondo. Costoro volevano procurare la salvezza eterna ai loro fratelli; ma le conseguenze di questo principio erano singolari. Sapevano che tutti i bambini che muoiono senza battesimo sono dannati, e che quelli a cui capita di morire immediatamente dopo aver ricevuto il battesimo godono della gloria eterna: andavano sgozzando i bambini e le bambine appena battezzati che potevano incontrare; era certamente fare loro il maggior bene che si potesse: li si preservava contemporaneamente dal peccato, dalle miserie della vita e dall'inferno; li si mandava infallibilmente in cielo. Ma queste persone caritatevoli non consideravano che non è permesso fare un piccolo male per un gran bene; che non avevano nessun diritto sulla vita di quei bambini; che la maggior parte dei padri e delle madri sono abbastanza carnali da preferire di avere presso di sé i propri figli e figlie che di vederli sgozzare per mandarli in paradiso, e che, in una parola, il magistrato deve punire l'omicidio, anche se commesso con buone intenzioni" (1763, p. 132).
Sorge quindi la domanda più a monte relativa al motivo per cui le religioni siano così ferocemente ostili al piacere sessuale ed al piacere in generale. Ad esempio, ci sarà ben un motivo se il simbolo di una vicenda complessa ed anche intellettualmente ed emotivamente ricca come la predicazione di Gesù di Nazareth sia proprio la croce. In fondo, fra le tante cose preziose affermate (la fratellanza umana, la compassione per i malati e i poveri, la denuncia delle ingiustizie, la contemplazione della bellezza della vita, ecc.), il simbolo elettivo del cristianesimo è proprio la crocifissione, cioè l’unica cosa che è “finita male”. L’idea che il dolore sia strumento di riscatto e salvezza (anziché un’esperienza umana che purtroppo va accettata se non è evitabile), è un’idea imposta culturalmente in quanto strettamente collegata ai ricatti affettivi subiti da tutti nell’infanzia. Il mito della rinuncia, del sacrificio, dell’autocontrollo è attraente solo per i bambini che crescono in famiglie infelici. I genitori indifferenti ai figli e bisognosi di ottenere da loro delle gratificazioni impossibili, approvano e rinforzano ogni “rinuncia” alla spontaneità dei figli stessi. I genitori inclini al vittimismo ed all’auto-celebrazione della propria superiorità “morale” su altre persone “egoiste” e cattive”, fanno intendere ai bambini che il loro piacere li rende simili alle persone svalutate. Solo la paura del dolore del rifiuto induce i figli ad illudersi di poter “meritare” l’amore proprio con l’esibizione di inutili rinunce. Una volta divenuti piccoli mostri spaventati e rabbiosi che recitano una bontà basata su inutili tormenti, i bambini sono pronti a considerare “ovvie” le concezioni religiose che presentano lo stesso scenario più “in grande”: quello di una divinità che ama proprio chi si vergogna della propria ricerca del piacere.
La svalutazione del piacere sessuale e l’esaltazione della castità non vanno considerate delle “patologie psichiche”, ma aspetti di un progetto di vita difensivo costruito per paura e fondato su illusioni rassicuranti. Costituiscono un modo di pensare e sentire che va esaminato criticamente come qualsiasi pregiudizio. Non possono essere giustificate in nome della libertà di pensiero, ma solo tollerate (finché non causano sofferenza a bambini indifesi). La pedofilia non è un “punto di vista”, lo stupro non è un “punto di vista” e i ricatti affettivi “teologicamente giustificati” nei confronti dei bambini non possono essere considerati l’espressione di “punto di vista”, ma solo l’espressione di una cieca crudeltà.
I pregiudizi (etnocentrici o sessisti o di qualsiasi tipo) oggi sono in molti paesi ritenuti irrazionali, ma erano irrazionali anche quando erano normalmente manifestati da moltissime persone. Il superamento dell'apartheid non ha reso indegna la segregazione razziale nel Sudafrica, poiché essa era indegna anche prima. Ha reso semplicemente legali delle situazioni che erano in precedenza considerate illegali. Anche se, purtroppo, molte convinzioni irrazionali non stupiscono perché sono "normalmente" accettate, restano irrazionali e possono essere comprese solo come difese psicologiche. Sia le conoscenze scientifiche, sia le conquiste sul piano dei diritti umani non dovrebbero venire “sospese” per accondiscendenza nei confronti delle pretese irrazionali avanzate da genitori indisponibili a fare i genitori o da comunità religiose. Non c’è nulla di scientifico nel conformismo degli psicoterapeuti e non c’è nulla di democratico nell’opportunismo dei partiti “progressisti” quando il loro conformismo e il loro ‘opportunismo portano a minimizzare i bisogni e il dolore dei bambini. I bambini hanno bisogno di accudimento e hanno bisogno di essere protetti da chi li maltratta (anche se in nome dell’etica o di una religione). E hanno bisogno di essere protetti da chi li induce a vergognarsi, a inorgoglirsi o a sforzarsi di essere “puri”.
Le persone normalmente svalutano e reprimono il pianto e la sessualità. Lasciano che i giorni della loro vita trascorrano e fanno in modo che i desideri e le emozioni non guastino l’ordine di una normale infelicità concepita come un destino ineluttabile. Solo l’accettazione dei desideri rende possibile la consapevolezza della gioia e del dolore nell’esistenza umana e rende, quindi, inconcepibili la vergogna, l’orgoglio e la castità.