Quando si prova vergogna o orgoglio si confonde
l’essere apprezzati (cioè stimati e “utilizzabili”) per aspetti o qualità
personali (innate o acquisite) con l’essere amati. Chi prova vergogna (o
orgoglio) desidera ricevere amore e sente di non ricevere amore, ma si dissocia
dal dolore di tale situazione (che è “data”) complicandola con questioni (irrilevanti)
di stima, per giungere a star male in modi ansiosi e rabbiosi. Tutto inizia con
il bisogno di essere accuditi amorevolmente (da piccoli) e con l’esperienza di
essere trascurati. I neonati e i bambini hanno bisogno di sperimentare la sicurezza di un accudimento amorevole
perché non possono darsi alcun sostegno, non possono farsi compagnia, non
possono nemmeno capire chi sono e cosa sta accadendo attorno a loro. Grazie al
contatto dolce e rassicurante con la madre si sentono “totalmente bene”, perché
senza quel contatto si sentono “totalmente male”. Solo in seguito, dopo aver
acquisito la consapevolezza di essere se stessi e di essere in relazione con
gli altri possono sentirsi a proprio agio da soli, perché quando sono da soli
si sentono con se stessi e quindi non proprio soli. E possono comprendere le
differenze fra le varie esperienze di contatto con gli altri. Possono quindi
facilmente capire che è bello (anche se non indispensabile) essere amati, che è
bello amare e che è vantaggioso essere apprezzati per il fatto di essere in
qualche modo utili agli altri. Tutto ciò consente di provare desideri e
sentimenti razionali e di agire razionalmente accettando le gioie reali e i
dolori reali della vita. Questo però in genere non si verifica e i bambini
costruiscono difese psicologiche, tra cui anche quelle che conducono a provare
vergogna o orgoglio.
Le persone spesso sono orgogliose o si vergognano del
loro aspetto fisico o della loro intelligenza trascurando il fatto che dispongono
per pura fortuna o sfortuna di tali caratteristiche: i cinesi non sono piccoli
di statura perché si impegnano poco a crescere, ma per via del loro patrimonio
genetico. In ogni caso, anche le
qualità che le stesse persone hanno sviluppato, (dedicandoci, ad esempio, allo
studio o all’attività sportiva) dipendono dagli incoraggiamenti (o dalle
imposizioni) che fin dall’infanzia hanno ricevuto e da tante circostanze. Provando
orgoglio o vergogna le persone confondono la semplice gioia o il semplice dispiacere
per particolari gratificazioni o frustrazioni dovute a circostanze fortunate o
ai propri “meriti”, con la irrealistica sensazione-convinzione di essere
amabili e amate. Riescono a fare tale confusione perché continuano a cercare
quell’amore che consente ai bambini (e solo ai bambini) di stare “totalmente
bene”.
L’impossibilità di gestire nei primi mesi e anni di
vita il dolore dovuto ad un contatto poco amorevole con la madre e,
successivamente con entrambi i genitori, costringe i bambini e le bambine a
costruire rudimentali o complicati atteggiamenti difensivi. Se il dolore non
fosse sperimentato troppo intensamente e troppo presto da bambini non sostenuti dai genitori sarebbe per
tutta la vita tollerato come un semplice fatto. E’ invece tollerato solo quando
è lieve o circoscritto, mentre è temuto (anche nella vita adulta) come un
incubo ingestibile appena coinvolge aspetti significativi della dimensione
affettiva. Solo in questo contesto teorico possiamo spiegare stati d’animo
apparentemente inspiegabili come l’orgoglio o la vergogna. Quando le persone
provano queste emozioni stanno scambiando la realtà (più o meno soddisfacente) del
loro “valore d’uso”, con la loro accettabilità (o amabilità o “salvezza”). Poco
cambia se una persona è orgogliosa del proprio aspetto fisico (per il quale
tutto il “merito” va ai genitori) o per il coraggio che ha dimostrato (e che
non avrebbe certo potuto dimostrare se fosse cresciuto in un’altra famiglia e
in un altro ambiente) e poco conta se una persona si vergogna del proprio
aspetto fisico o di un insuccesso professionale: in tali casi si sta illudendo
di essere “accettabile” o “non accettabile” e si sta dissociando da vissuti
dolorosi di non accettazione. Va infatti notato che la vergogna non riflette il
dolore per una mancanza accettata, ma solo la rabbia per una mancanza
“ingiusta”: chi si vergogna pensa che avrebbe avuto diritto a più opportunità o
che avrebbe dovuto agire meglio e con questo trucco salva l’illusione di poter
risultare accettabile in seguito a circostanze diverse o ad un maggior impegno
personale. Tutti questi “epici tormenti” nascondono il vissuto doloroso di
bambini semplicemente amabili (come tutti i bambini) e non amati (come quasi
tutti i bambini). Il generale che si pavoneggia per un riconoscimento al valor
militare o il cantante che non si stanca di firmare autografi o l’adolescente
che ogni mattina si conta i brufoli, non fanno bilanci accurati della loro
vita. Nessuna gioia, nessun dolore e tanta confusione. Una confusione generata da
bambini spaventati e alimentata da una cultura prodotta dagli stessi bambini
divenuti genitori, insegnanti, giornalisti e intellettuali.
Nei testi di psicoterapia non ho mai trovato una
chiara esposizione della radicale opposizione
esistente fra dolore e vergogna ed anche fra gioia e orgoglio, ma resta il
fatto che chi prova vergogna “sta male” confusamente e non prova né compassione
(per sé o per altri), né dolore e resta il fatto che chi prova orgoglio, pur
“sentendosi bene”, non prova alcuna gioia.
L’orgoglio e la vergogna presuppongono l’illusione
di un potere sugli altri che non esiste.
Tale illusione costituisce una grave (ma efficace) difesa psicologica dal dolore
di non poter far nulla per ottenere l’amore nutriente e rassicurante delle
figure d’accudimento. Noi non abbiamo nemmeno alcun potere sull'amore degli altri nella vita adulta, ma se da adulti coltiviamo l'illusione di avere tale potere, manteniamo difese psicologiche costruite nell'infanzia. L’orgoglio e la vergogna, quindi, come molte altre difese
psicologiche, mantengono una rabbiosa e ansiosa speranza in qualcosa che non si
realizzerà mai. In pratica mantengono l’illusione che l’infanzia non sia ancora
conclusa e possa concludersi con un lieto fine. Tante volte i genitori dicono
ai figli “Vergognati!”, tanto per essere certi che non scorderanno di farsi del
male, oppure “li gratificano” affermando di essere “fieri” di loro, per
sottolineare che non devono godersi la vita, ma devono gratificare i genitori.
Non c’è, quindi, da stupirsi se in una cultura come quella in cui cresciamo e
viviamo, dopo aver commesso un errore possiamo provare vergogna e non c’è da
stupirsi nemmeno se, dopo aver registrato un successo, possiamo non solo provare
soddisfazione per il risultato raggiunto, ma anche orgoglio. Purtroppo, i
piccoli equivoci individuali, a volte diventano incubi sociali. I ragazzi,
completato lo sviluppo, smettono di pensare ai brufoli, ma altri “banali”
equivoci hanno conseguenze ben più gravi. Se prendiamo in considerazione
l’orgoglio dei membri di una immaginaria “razza superiore” oppure la vergogna (o
l’orgoglio) delle persone omosessuali, ci passa la voglia di sorridere su certi
equivoci. In ogni caso gli equivoci ideologizzati e condivisi hanno sempre come
condizione di possibilità la presenza di tendenze individuali (difensiva) alla
negazione dei fatti dolorosi.
Una studentessa, che chiamerò Cristina, attraversava
un periodo difficile con un ragazzo (Dario) che trovava molto attraente e che
considerava anche il suo possibile “grande amore”. Aveva avuto una relazione
affettuosa e sessualmente piacevole con un altro ragazzo che poi l’aveva
lasciata perché non si sentiva “davvero voluto” e ora si trovava a “volere
davvero” Dario, ma a non “lasciarsi andare” sessualmente con lui. Mi aveva
cercato per il suo “problema sessuale” e le avevo chiarito subito che non me ne
sarei occupato, ma che ero invece disponibile a chiarire il suo rapporto con sé
e con Dario. Dopo alcune sedute sintetizzò così ciò che la inquietava: “Mi
sento eccitata appena Dario mi sfiora o mi guarda, ma non riesco a venire, come
con Carlo. Io non voglio fingere un orgasmo, ma è avvilente stare tanto bene
con lui e poi venire da sola toccandomi. Lui fa l’amore con me e lo fa con
passione e io pure, però devo concludere da sola. La cosa intristisce
entrambi”. Mi fece capire nelle prime sedute che provava stima e affetto per
entrambi i ragazzi, ma che con Dario aveva delle sensazioni fisiche molto forti.
Aveva pensato fin dall’inizio di poter avere con Dario un rapporto “perfetto” e
aveva immaginato che non si sarebbe mai più potuta sentire così “vicina” ad un
uomo.
GF. Quindi, devi essere “almeno perfetta” con lui.
C. Ho capito! Però adesso mi tiri fuori la storia
dell’amore condizionale e dell’illusione di meritarlo.
GF. Brava! Mi hai fregato. E adesso cosa vinci?
C. Scusami, lo so che ti fai in quattro con me e che
io faccio sempre cadere nel vuoto i tuoi spunti di riflessione. Però conosco le
tue idee sull’argomento e mi sembra che in questo caso non servano a molto.
GF. Allora proviamo con le tue idee! Hai un ragazzo
che consideri molto importante e poi ci fai sesso come se fossi frigida a metà.
Cosa ti viene in mente?
C. Che io non posso essere così importante per lui,
finché sembro un ghiacciolo.
GF. Ne sei sicura?
C. Perché dovrebbe apprezzarmi per un’incapacità che, tra l’altro, so di non avere? Un
conto è che gli chieda di amarmi
anche se non ho gli occhi azzurri e un conto è che gli chieda di amarmi anche
se sono un ghiacciolo, dato che con lui mi sento un vulcano.
[Non le faccio notare che in questa frase ha usato
il verbo “apprezzare” e il verbo “amare” come sinonimi, perché ci perderemmo in
una discussione teorica. Lei pensa di conoscere “le mie idee”, ma in realtà
continua a considerare le proprie capacità come un mezzo per conquistare
l’amore. Mi limito a far presente che è più focalizzata su come può apparire
che sul piacere di stare con Dario, ma non arriviamo da nessuna parte. Nella
seduta successiva mi racconta con molto compiacimento l’esito (con lode) di un
suo esame e mi parla con evidente orgoglio della possibilità di dare la tesi
con il professore.]
GF. Mi sembri soddisfatta, ma anche compiaciuta.
Direi “orgogliosa”.
C. Certo che lo sono!
GF. E perché? Ringrazia mamma e papà che ti hanno
fatta intelligente!
C. Ma ho anche sputato sangue per fare quell’esame.
Non ero solo preparata: avevo fatto molti approfondimenti.
GF. Ringrazia comunque mamma e papà ed anche le
maestre, le professoresse e i librai che hai avuto a disposizione. Se fossi
nata in un villaggio africano forse sapresti solo leggere e scrivere.
C. Ma sono nata qui e io mi impegno più di tante
persone che sono nate qui.
GF. Ma tali persone con cui competi, pur essendo
nate qui, hanno un’altra storia. Forse sono state meno aiutate o meno costrette
a competere!
C. Allora a cosa serve impegnarsi nelle cose?
GF. Solo a raggiungere degli obiettivi. Sicuramente
non a diventare “belle persone”. Tu saresti una bella persona anche in quel
villaggio africano. E scommetto che Dario sarebbe d’accordo.
C. Cazzo!
GF. No: si chiama “vagina”, o “passerina” o in altri
modi. E’ proprio la vagina che hai messo sotto chiave.
C. Smettila! Ho capito. Io però non ci credo! Non
credo che Dario mi guarderebbe con amore se mi vedesse in quel villaggio!
GF. E quindi continui a credere che non ti possa
amare per via del tuo “miserabile acme solitario”. E continui ad aspettare di
essere davvero amata grazie al tuo orgasmo “vulcanico” adatto ad una “vera
donna emancipata e disinibita”!
C. [ E’ commossa] Ora ho capito.
[Nella seduta successiva Cristina mi comunica di
“essersi sbloccata”]
GF. Hai usato il kamasutra?
C. No. Ho chiesto scusa a Dario. Mi ha detto che mi
trova davvero scema, ma che è lo stesso.
GF. Bel tipo quel Dario! Credo che tu possa smettere
di essere così orgogliosa e che possa ringraziare sia i tuoi genitori che ti
hanno fatta intelligente, sia l’amica che ti ha presentato il primo ragazzo che
ti ama “così scema”.
Noi umani proviamo gioia (non orgoglio) quando
risolviamo un problema o facciamo breccia nel cuore di una persona sessualmente
attraente e proviamo dolore (non vergogna) se non risolviamo un problema che ci
stava a cuore o se risultiamo indifferenti ad una persona con cui vorremmo far
sesso o fare l’amore. Per gli stessi motivi, proviamo gioia (non orgoglio)
quando facciamo gioire un’altra persona e proviamo tristezza (non vergogna)
quando ci accorgiamo di aver fatto soffrire un’altra persona. In pratica, non
abbiamo mai delle valide ragioni per
provare orgoglio o vergogna.
La vergogna non ha nemmeno a che fare con “la
coscienza morale”, perché ha a che fare solo con il terrore infantile di un
rifiuto materno (o paterno) e con l’illusione di una vicinanza col genitore
svalutante dovuta alla condivisione della
sua svalutazione. Nella vergogna i bambini, in pratica, dimostrano di
preferire la sintonia (illusoria) con i genitori rifiutanti, al rispetto di sé.
Infatti sono troppo piccoli per rispettarsi da soli e farsi compagnia da soli.
L’idea che la vergogna dipenda da un conflitto puramente “interiore” è
semplicemente infondata: le ragazze in Iran si vergognerebbero ad andare in
giro senza velo, mentre in Occidente si vergognano se non si sentono abbastanza
sexy, e credo sia davvero difficile sostenere che le ragazze iraniane abbiano
una “coscienza” diversa da quella delle ragazze di Milano o di Londra.
A chi obiettasse che alle bambine occidentali
nessuno insegna ad essere sexy, si deve rispondere che l’obbedienza (e la
vergogna) dei bambini e delle bambine riproduce nell’infanzia in modo diretto
le aspettative dei genitori, ma poi nell’adolescenza, lo stesso bisogno (“antico”) di “appartenenza” o di
“riconoscimento” viene “spostato” su altre figure e altri gruppi che manifestano
altre svalutazioni. Le persone
possono anche vergognarsi “fra sé e sé”, ma hanno sempre in mente una persona o
un gruppo svalutante. Un ragazzo che ha avuto un insuccesso scolastico può
vergognarsi se dipende psicologicamente da una famiglia “competitiva”, ma può
essere anche “orgoglioso” di dimostrarsi un fannullone se dipende
psicologicamente soprattutto da un gruppo di amici “ribelli”. Nell’orgoglio la
stessa dissociazione è attuata in un altro modo: chi è orgoglioso non prova un
piacere reale, ma solo l’entusiasmo per non aver fatto una “brutta figura”. L’intolleranza
verso qualsiasi gruppo non realmente minaccioso o distruttivo si manifesta con
una distruttività rivolta all’esterno, ma opera prima di tutto internamente: la
persona intollerante disprezza certe persone o gruppi solo per “spostare sugli
altri” la propria sensazione di
vergogna e di “inaccettabilità” In pratica, chi disprezza i “deboli” con
orgogliosa ma incerta arroganza cerca solo di offrire un’immagine “forte” di sé
al proprio “gruppo di riferimento” perché disprezza la propria fragilità.
A volte si appartiene
ad un gruppo oggettivamente, per nascita (ad esempio per il genere o per il
colore della pelle) e altre volte si appartiene ad un gruppo oggettivamente per
ciò che si è fatto: accettando un certo lavoro si rientra in una particolare
categoria sociale. Tuttavia, l’appartenenza oggettiva ad un gruppo non implica
automaticamente un’adesione soggettiva a convinzioni e atteggiamenti presenti o
prevalenti in tale gruppo e soprattutto non implica un’adesione ad eventuali
pregiudizi manifestati da molte persone di tale gruppo. Ciò significa, quindi,
che anche l’appartenenza al gruppo dei maschi, delle femmine, degli adolescenti
o degli anziani o dei medici o dei contadini non implica alcun “sentimento di
gruppo” o alcun sentimento pregiudiziale nei confronti degli altri gruppi. In
pratica, una persona eterosessuale che accetta senza conflitti interni la propria identità sessuale non ha alcun
motivo razionale per vergognarsene o per provare orgoglio e non ha alcun bisogno
di “dimostrare” nulla e tanto meno di esprimere ostilità nei confronti delle
persone vergini o delle persone omosessuali. Una persona eterosessuale
“orgogliosa” di essere tale ha un problema non risolto con sé e col gruppo di cui fa parte. Lo stesso vale per le persone
omosessuali: non hanno un solo motivo razionale per provare vergogna o orgoglio
in relazione al loro orientamento sessuale. Il semplice fatto di appartenere ad
una minoranza o anche di appartenere ad una minoranza spesso socialmente svalutata
comporta il dolore per una situazione frustrante (e l’impegno a modificarla),
ma non implica alcun ragionevole sentimento di vergogna. Poiché le pressioni da
sempre subite dalle persone omosessuali sono state notevoli si può facilmente
pensare che ciò giustifichi il loro “ritrovato orgoglio”, ma tale pensiero non
ha alcun senso, così come non ha mai avuto valide ragioni la “tradizionale”
vergogna provata dalle persone omosessuali. La vergogna e l'orgoglio non si spiegano sul piano sociale; sono difese psicologiche e quindi risposte infantili a situazioni famigliari dolorose. Anche se "giustificate" o ideologizzate restano irrazionali.
Spesso, purtroppo, le
assurdità manifestate dalle persone moraliste e bigotte vengono rifiutate solo
per via del conformismo “aggiornato” delle persone che giurano di volersi
“emancipare” dalle concezioni “antiquate”. Normalmente, le persone “emancipate”
hanno semplicemente aggiustato il tiro e sostituito nuove forme di svalutazione
alle vecchie svalutazioni. L’opposizione “giusto-sbagliato” e
“accettabile-inaccettabile” attraversa le ideologie più conservatrici e quelle
più “aperte”, perché alla base delle ideologie sta sempre e comunque
un’attribuzione (esclusiva) di valore e una svalutazione. L’analisi di tali
equivoci costituirebbe un impegno fondamentale degli psicoterapeuti se si
dedicassero a spiegare le difese psicologiche anziché a conformarsi (difensivamente)
alla società “data”.
Solo partendo da una
reale comprensione della vergogna e dell’orgoglio è possibile capire quel
fenomeno “estremo” costituito dalla castità e dalle teorizzazioni della
castità. Infatti, le giustificazioni etiche o religiose della castità non sono
altro che versioni intellettualizzate di semplici sentimenti di vergogna
riguardanti il piacere sessuale. Nei casi in cui la castità è praticata da
adulti non religiosi dipende da un semplice (ma grave) disinteresse per la
sessualità e quindi da un blocco della percezione fisica del desiderio sessuale
(e del desiderio di intimità). Nei casi in cui, invece, la castità è praticata
per convinzioni etiche o religiose, può accompagnarsi ad una sofferta costante
repressione di desideri sessuali intensamente percepiti, ma svalutati. In
questo caso è importante capire le ragioni di un sacrificio tanto penoso che
non reca vantaggi a nessuno.
Per "castità"
si intende in generale la "astensione da ogni attività sessuale o anche da
manifestazioni o pensieri che vi abbiano in qualche modo attinenza" (dal
dizionario Devoto-Oli) e, in questa definizione, il concetto descrive una
semplice condizione di "inattività sessuale". Tuttavia, il concetto di
castità non è semplicemente descrittivo e ciò risulta evidente appena lo stesso
dizionario elenca i significati dell'aggettivo "casto": "Che si
astiene dai piaceri del sesso non consentiti al suo stato (...) Non macchiato
da impurità o da amori illeciti". Risulta dunque chiaro per quale motivo
non si parla mai di animali casti: il concetto di castità rinvia ad un modo di
orientare la sessualità "consentito" e “non illecito". Non è
quindi un concetto descrittivo come "verginità", perché un ginecologo
può ragionevolmente chiedere ad una paziente se è vergine, ma non se è casta.
Il concetto stesso di castità implica una svalutazione della sessualità.
Nella religione
cattolica, ad esempio, la castità è opposta alla "lussuria" (la
ricerca del piacere fine a se stesso) e non a caso la sessualità matrimoniale
può essere considerata casta in quanto non è finalizzata al semplice piacere,
ma è strumentale a finalità "ulteriori". Da queste elementari
considerazioni risulta che la castità indica una rinuncia a comportamenti
sessuali svalutati
in quanto lussuriosi o peccaminosi. Questa premessa
terminologica suggerisce che qualsiasi discorso sulla castità (o
sulla "purezza") si regge sulla svalutazione del piacere sessuale in quanto tale. Se
non si prova il bisogno (difensivo) di negare il piacere sessuale e se non si
prova vergogna all’idea di provare piacere, qualsiasi affermazione (anche
formulata in termini intellettualmente sofisticati) relativa al valore della
rinuncia ad un piacere “egoistico” e “animalesco” come il sesso risulta incomprensibile, come lo sarebbe una concezione metafisica del “valore”
dell’acqua minerale naturale e della natura lussuriosa di quella frizzante. Le
persone che fanno voto di castità non affermano di vergognarsi del loro piacere
sessuale o di svalutarlo in generale, ma di voler “offrire” a dio la rinuncia
alla propria sessualità. Non chiariscono però per quale motivo una divinità
dovrebbe apprezzare tale rinuncia. Inoltre, i sostenitori della castità non
spiegano perché debba essere considerato “positivo” il proposito di amare tutti
senza però “cedere” al piacere sessuale e non possa essere considerato
“positivo” il proposito di far sesso il più possibile senza però “cedere” ai
sentimenti d’amore. Dato che gli esseri umani sono capaci di provare piacere
sessuale ed anche di amare, non si
capisce perché solo il piacere debba essere considerato come qualcosa a cui
le persone “migliori” rinunciano. Di fatto, l’amore che le religioni promuovono
non è un sentimento, ma un dovere e si può, quindi, affermare che le religioni
reprimono sia l’amore sia il piacere.
Non tutte le religioni
sono egualmente svalutanti nei confronti del piacere sessuale, dato che ad
esempio il buddhismo è meno moralistico della religione islamica, ma in genere
il tratto dominante delle religioni è proprio costituito da una generale
svalutazione della vita terrena rispetto alla vita eterna o all’insieme delle
reincarnazioni e in questa svalutazione il puro e semplice desiderio di
appagamento sessuale è ritenuto negativo o “banale”. Proprio per questo motivo
in molte tradizioni religiose, è presente l’idea che la castità possa
costituire un elemento favorevole al raggiungimento di una più profonda
“spiritualità”. Tale idea dipende da due premesse che non si escludono
reciprocamente. La prima è una premessa fondamentalmente mistica o
“esistenziale”, mentre la seconda è strettamente “etica”. Entrambe sono
irrazionali e tendono allo stesso obiettivo.
La prima premessa sottolinea il limite della
vita terrena ed afferma una tensione verso la trascendenza, intesa come la vera
realtà o la vera meta a cui gli esseri umani tendono, e quindi favorisce un
orientamento al bene assoluto che rende ovviamente “apparenti” o “superficiali”
tutti i piaceri terreni e prima di tutto
quello più intenso costituito dalla sessualità. In questo quadro di
riferimento la rinuncia totale al sesso ha senso come nei casi in cui una rinuncia produce conseguenze importanti. Tuttavia, se una persona rinuncia ad
un rene per donarlo ad un’altra persona salva una vita, mentre se una persona
rinuncia al sesso non salva nessuno. Si può dire che salva la propria anima, ma
è decisamente bizzarra l’idea di una spiritualità basata sulle rinunce, cioè di
una spiritualità che si nutre come un vampiro di gioie che non fanno alcun male
e anzi danno “colore” alla vita. Tra l’altro, per alcune correnti spiritualistiche
(soprattutto orientali) la spiritualità può essere compiutamente espressa
proprio nella sessualità. In ogni caso, chiunque considererebbe bizzarro un
artista che dichiarasse di rinunciare al sesso per essere più concentrato sulla
sua attività espressiva, ma per motivi tutt’altro che evidenti si considera in
genere comprensibile che la vocazione all’amore spirituale possa richiedere una
rinuncia al piacere e all’intimità. Purtroppo, quindi, la concezione “mistica”
dell’amore spirituale non ha come base né un genuino interesse per la
trascendenza, né il desiderio di realizzare con maggiore impegno una ricerca interiore, ma solo una svalutazione del piacere in generale e della sessualità
in particolare. George Orwell, in uno dei suoi romanzi "minori", ha
descritto il tormento costante di una persona dedita ad evitare i pensieri atti
a distoglierla dai sentimenti "elevati" che si sforzava di fare
propri. "Ogni volta che si sorprendeva a non por mente alle preghiere,
Dorothy osservava la regola di pungersi il braccio con forza sufficiente a
farne uscire il sangue. Era la sua forma prescelta di autodisciplina, la
salvaguardia contro l'irriverenza e i pensieri sacrileghi" (1935, p. 13).
La
seconda premessa che
giustifica la castità come scelta etica afferma una tensione o opposizione fra
il piacere ed il “dovere”. Se (e solo se) la vita umana è intesa come un
insieme di esperienze apprezzabili o disprezzabili sulla base di norme
stabilite da dio o “scritte” nella “natura umana”, è comprensibile che quelle
esperienze ritenute contrarie alla volontà divina o alla “legge naturale” siano
svalutate ed è anche comprensibile che una radicale rinuncia al piacere
sessuale possa essere inteso come condizione per vivere rettamente. Tuttavia, è
tutt’altro che scontata l’idea di una divinità che legittima l’esperienza di
bere se si ha sete e non quella di fare sesso se si ha voglia. E’ bizzarra e,
in fondo, blasfema soprattutto l’idea di una divinità interessata a tali
banalità.
Se è difficilmente comprensibile una contrapposizione fra il piacere ed il dovere stabilita dalla coscienza divina, è egualmente poco comprensibile un’intrinseca normatività della natura. Tra l’altro i sostenitori della legge naturale non spiegano mai perché considerino “innaturali” l’eterosessualità praticata con anticoncezionali, la masturbazione e l’omosessualità e non considerino innaturali i viaggi in aereo o l’uso del cemento armato. Purtroppo, la logica ed il buon senso non sono applicabili né al misticismo né all’etica, dato che le idee attribuite a dio ed alla natura sono proprio le idee manifestate da esseri umani che, per ragioni difensive e inconsce, non tollerano psicologicamente il piacere.
Solo in questa
prospettiva si può spiegare l’esaltazione della rinuncia, del sacrificio e
della sofferenza. A molti sembra grottesca la pratica religiosa dei
flagellanti, ma la pratica della castità deriva dalle stesse premesse. Alla
base di tale concezione della realtà non troviamo l’empatia, la compassione e
l’amore, ma solo la brama di raggiungere eroicamente un’immaginaria perfezione.
Una persona può rinunciare al proprio tempo o al proprio denaro per il bene di
un’altra persona, ma se rinuncia a qualcosa senza migliorare la vita di
nessuno, sicuramente non agisce per amore. Se io avessi fame apprezzerei
l’offerta di una persona disponibile a dividere con me il suo panino, ma non
potrei essere grato ad una persona che butta via il suo cibo “per solidarietà”.
Per questo motivo, la valorizzazione della castità non ha nulla a che fare né
con l’accettazione della trascendenza né con l’amore per gli altri, ma solo con l’odio per la
vita. “Ora, noi siamo pieni di concupiscenza; dunque, siamo pieni di male:
dobbiamo, pertanto, odiare noi stessi e tutto quanto ci spinge a amare altri
che Dio” (Pascal, 1670, p. 315). Sant’Agostino, addirittura si preoccupava di
provare ancora durante il sonno, nei sogni, i piaceri che con fatica era
riuscito a dominare nella veglia: “Ma la tua mano, o Iddio onnipotente, non può
anche sanare tutte le debolezze della mia anima e con grazia più abbondante
estinguere anche i moti lascivi del mio sonno? O Signore! così Tu aumenterai
sempre più i tuoi doni, in modo che l’anima mia, libera dal vischio della
concupiscenza mi tenga dietro sino a Te e non si ribelli a se stessa, che anche
durante il sonno non consumi sotto l’impulso di bestiali visioni codeste
turpitudini della corruzione fino al flusso della carne, ma nemmeno vi
acconsenta” (398, p. 288). L’idea alla base di queste tormentate riflessioni è
di non essere amabili per ciò che si è, e quindi se si prova desiderio
sessuale, si devono evitare gli "accoppiamenti fatti per cieco istinto
naturale fra bruti" (Pio XI, 1930, par. 8, p. 5), dato che "le nozze
sono buone" in virtù di scopi ulteriori, quali "la prole, la fede, il
sacramento" (op. cit. par. 11, p. 6). Questa concezione orientata a
svilire il piacere porta all'idea che gli “atti coniugali resi intenzionalmente
infecondi" costituiscano un atto "indegno della persona umana"
(Paolo VI, 1968, par. 14, pp. 14-15). Tutta questa concezione si fonda
sull'idea che il piacere sia inaccettabile e che la gioia di vivere non renda
"degne" di essere amate le persone. L’idea di un amore divino
“concesso” a condizione che una persona non esprima ciò che la rende tale persona
è semplicemente inconsistente: anche i nazisti avrebbero “amato” gli ebrei se
non fossero stati ebrei.
In ogni caso l’idea
basilare (nella versione “mistica” o in quella “etica”) della “concupiscenza
terrena” e della spiritualità intesa come opposta al piacere, accomuna tutte le
religioni, anche se con accentuazioni diverse. Nell’induismo è prevista
tradizionalmente anche la “prostituzione sacra”, ma all’interno di una
concezione comunque svalutativa del piacere sessuale nella vita quotidiana di
tutti. Una preghiera induista è così formulata “Non sono capace di compiere gli
atti imposti dalla rivelazione vedica, e, attaccato agli oggetti dei sensi, non
so evitare le azioni proibite. … Io, miserabile, cadrò in basso. Perciò, tu
Rama, discendente di Raghu, per carità proteggimi: sono il tuo servo. Onore a
te!” (cit. in Franci, 2005, pp. 98-99). Nel tormento dell’autorepressione
sessuale maschile e della dedizione delle donne al marito al fine di limitare
la peccaminosità di entrambi praticando una sessualità “giustificata”, si
riassume in termini “operativi” quella dissociazione basilare che nell’infanzia
consiste nello sforzo di essere accettabili dimostrando di essere “altro” da
ciò che si è.
La castità risulta
comprensibile solo come
vorace ricerca di “assoluto”, cioè come trasposizione su
un piano ideale di bisogni infantili simbiotici e fusionali. La castità
teorizzata in chiave teologica non deriva, quindi, né da ragionevoli
convinzioni spiritualistiche, né dalla fede in una divinità trascendente (che,
in quanto trascendente, dovrebbe essere disinteressata a banali norme e
soprattutto ad inutili rinunce), né dall’amore per sé e per gli altri. La
valorizzazione della castità è
semplicemente un sintomo
ed è davvero incomprensibile che essa non compaia negli elenchi
dei disturbi psicologici stilati dagli esperti del settore. Purtroppo le
diagnosi degli psichiatri e degli psicoterapeuti, anche se a volte sono
complesse e articolate non prescindono dalla normalità statistica entro i cui
confini tali professionisti operano.
Per
questo motivo, la castità, essendo approvata da intere comunità religiose, non
risulta “interessante” sul piano “clinico”. Se un individuo va in ansia
immaginando una scena erotica, viene classificato come affetto da una patologia
psichica. Se però migliaia di preti, di suore (o di sacerdoti di altre
religioni) rinunciano alla sessualità con l’approvazione di milioni di devoti,
gli studiosi finiscono per riclassificare tale sintomo come un “punto di vista”
di tipo religioso, da rispettare in nome del pluralismo. Qui però si annida un
equivoco tremendo: il pluralismo è irrinunciabile per chiunque rifiuti
un’organizzazione sociale autoritaria (o magari teocratica!) e si traduce in
una esplicita tolleranza per idee, atteggiamenti, preferenze diverse dalle
nostra. La tolleranza esclude la
svalutazione, l’esclusione e la persecuzione, ma non l’affermazione delle
proprie idee e soprattutto delle proprie conoscenze. Gli specialisti del
settore, purtroppo, hanno sempre evitato di opporre una teoria scientifica alle
stupidaggini divenute “cultura di massa”. Poiché le religioni sono ancora di
moda, gli studiosi delle discipline psicologiche non evidenziano i limiti, le
contraddizioni o i paradossi delle concezioni religiose e della repressione
sessuale razionalizzata in termini religiosi. In realtà potrebbero denunciare e
contrastare almeno l’idea degli atti impuri,
imposta a bambini intellettualmente ed emotivamente indifesi, dato che i minori
vanno tutelati più degli adulti, ma l’idea (distorta) della libertà di pensiero
prevale sull’idea della tutela dei bisogni dei bambini.
Nelle società in cui
una religione è nettamente prevalente, tutta la cultura è schiacciata dalle
convinzioni religiose identificate dalle autorità come verità assolute o almeno
come elemento fondamentale della cultura. Ciò si è verificato nell’Europa
cristiana del passato e si verifica in vari paesi islamici oggi. Anche nello
Stato di Israele, " non esiste un matrimonio civile” e “per i cittadini
ebrei il diritto rabbinico ha vigore di legge" (Stefani, 1997, p. 63).
Ogni religione si caratterizza come presunta conoscenza di verità valide per
tutti e quindi conduce necessariamente al proselitismo più che alla
discussione. Conduce anche all’intolleranza, perché le religioni si dichiarano
favorevoli alla tolleranza solo per ottenere dei vantaggi dagli Stati laici: se
fossero davvero tolleranti, le religioni non imporrebbero le loro convinzioni
ai bambini.
I concetti di libertà
di pensiero, pluralismo, esame critico dei fatti, verifica empirica,
falsificazione, si sono sviluppati in settori della filosofia e della scienza
occidentale estranei alla metafisica ed alla religione. E’ un fatto bizzarro
che le persone influenzate dal pensiero illuminista e laico si sentano tenute,
per coerenza, a rispettare le idee religiose, mentre le persone religiose considerano
errori o peccati le idee estranee alle loro “verità”. Mentre Voltaire riteneva
necessario difendere fino alla morte la libertà di pensiero di chiunque, le
religioni prima e dopo di lui hanno semplicemente sopportato come una sconfitta
ogni passo compiuto nella direzione di un pluralismo tutelato da Stati laici.
La radice di questa profonda divergenza sta nel fatto che chi cerca la verità
sente il bisogno di discutere e controllare ogni elemento del proprio percorso conoscitivo,
mentre chi sente il bisogno di affermare delle (presunte e precostituite)
verità assolute sente soprattutto il bisogno di “salvare” gli altri, concepiti come persone che brancolano nell’errore (e nel
peccato).
Questo aspetto
psicologico non va minimizzato perché, anche se le religioni hanno spesso
“fatto la storia” per interessi e per brama di potere (come tante caste, classi
e Stati), le persone religiose si sono sempre sentite nei confronti dei non
credenti un po’ come ci sentiamo tutti di fronte ad un estraneo in pericolo: interveniamo per salvarlo. Le persone religiose, proprio perché terrorizzate dall’idea di una
divinità più crudele dei genitori umani, si sentono tenute a non far “cadere” gli altri nell’ateismo e impongono il loro punto di vista
minacciando bambini e adulti con l’immagine di una punizione eterna che non
costituisce sicuramente una ragionevole interpretazione di una eventuale realtà
trascendente.
Questa paura
dell’errore e della punizione non ha nulla a che fare con la conoscenza e
nemmeno con l’amore, ma una volta che tale paura si è radicata, conduce ad
“infliggere la salvezza” a tutte le persone e soprattutto a quelle più care.
Voltaire narra un episodio la cui valenza distruttiva supera di gran lunga
quella della pratica educativa che introduce nella mente dei bambini concetti
come "atti impuri" o "dannazione eterna". Tale episodio
merita di essere ricordato solo perché evidenzia la logica profonda di scelte
(che lo stesso autore considera effettuate con le migliori intenzioni) basate
sulla paura del rifiuto "assoluto". "Uno dei più sorprendenti
esempi di fanatismo è stata una piccola setta in Danimarca, il cui principio
era il migliore del mondo. Costoro volevano procurare la salvezza eterna ai
loro fratelli; ma le conseguenze di questo principio erano singolari. Sapevano
che tutti i bambini che muoiono senza battesimo sono dannati, e che quelli a
cui capita di morire immediatamente dopo aver ricevuto il battesimo godono
della gloria eterna: andavano sgozzando i bambini e le bambine appena battezzati
che potevano incontrare; era certamente fare loro il maggior bene che si
potesse: li si preservava contemporaneamente dal peccato, dalle miserie della
vita e dall'inferno; li si mandava infallibilmente in cielo. Ma queste persone
caritatevoli non consideravano che non è permesso fare un piccolo male per un
gran bene; che non avevano nessun diritto sulla vita di quei bambini; che la
maggior parte dei padri e delle madri sono abbastanza carnali da preferire di
avere presso di sé i propri figli e figlie che di vederli sgozzare per mandarli
in paradiso, e che, in una parola, il magistrato deve punire l'omicidio, anche
se commesso con buone intenzioni" (1763, p. 132).
Sorge quindi la domanda
più a monte relativa al motivo per cui le religioni siano così ferocemente
ostili al piacere sessuale ed al piacere in generale. Ad esempio, ci sarà ben
un motivo se il simbolo di una vicenda complessa ed anche intellettualmente ed
emotivamente ricca come la predicazione di Gesù di Nazareth sia proprio la
croce. In fondo, fra le tante cose preziose affermate (la fratellanza umana, la
compassione per i malati e i poveri, la denuncia delle ingiustizie, la
contemplazione della bellezza della vita, ecc.), il simbolo elettivo del
cristianesimo è proprio la crocifissione, cioè l’unica cosa che è “finita
male”. L’idea che il dolore sia strumento di
riscatto e salvezza
(anziché un’esperienza umana che purtroppo va accettata se non è
evitabile), è un’idea imposta culturalmente in quanto
strettamente collegata ai ricatti affettivi subiti da tutti nell’infanzia.
Il mito della rinuncia, del sacrificio, dell’autocontrollo è attraente solo per
i bambini che crescono in famiglie infelici. I genitori indifferenti ai figli e
bisognosi di ottenere da loro delle gratificazioni impossibili, approvano e
rinforzano ogni “rinuncia” alla spontaneità dei figli stessi. I genitori
inclini al vittimismo ed all’auto-celebrazione della propria superiorità
“morale” su altre persone “egoiste” e cattive”, fanno intendere ai bambini che
il loro piacere li rende simili alle persone svalutate. Solo la paura del
dolore del rifiuto induce i figli ad illudersi di poter “meritare” l’amore
proprio con l’esibizione di inutili rinunce. Una volta divenuti piccoli mostri
spaventati e rabbiosi che recitano una bontà basata su inutili tormenti, i
bambini sono pronti a considerare “ovvie” le concezioni religiose che
presentano lo stesso scenario più “in grande”: quello di una divinità che ama
proprio chi si vergogna della propria ricerca del piacere.
La svalutazione del piacere
sessuale e l’esaltazione della castità non vanno considerate delle “patologie
psichiche”, ma aspetti di un progetto di vita difensivo costruito per paura e
fondato su illusioni rassicuranti. Costituiscono un modo di pensare e sentire
che va esaminato criticamente come qualsiasi pregiudizio. Non possono essere
giustificate in nome della libertà di pensiero, ma solo tollerate (finché non
causano sofferenza a bambini indifesi). La pedofilia non è un “punto di vista”,
lo stupro non è un “punto di vista” e i ricatti affettivi “teologicamente
giustificati” nei confronti dei bambini non possono essere considerati
l’espressione di “punto di vista”, ma solo l’espressione di una cieca crudeltà.
I pregiudizi
(etnocentrici o sessisti o di qualsiasi tipo) oggi sono in molti paesi ritenuti
irrazionali, ma erano irrazionali anche quando erano normalmente manifestati da
moltissime persone. Il superamento dell'apartheid non ha reso indegna la
segregazione razziale nel Sudafrica, poiché essa era indegna anche prima. Ha reso
semplicemente legali delle situazioni che erano in precedenza considerate
illegali. Anche se, purtroppo, molte convinzioni irrazionali non stupiscono
perché sono "normalmente" accettate, restano irrazionali e possono
essere comprese solo come difese psicologiche. Sia le conoscenze scientifiche, sia
le conquiste sul piano dei diritti umani non dovrebbero venire “sospese” per
accondiscendenza nei confronti delle pretese irrazionali avanzate da genitori indisponibili
a fare i genitori o da comunità religiose. Non c’è nulla di scientifico nel
conformismo degli psicoterapeuti e non c’è nulla di democratico
nell’opportunismo dei partiti “progressisti” quando il loro conformismo e il
loro ‘opportunismo portano a minimizzare i bisogni e il dolore dei bambini. I bambini
hanno bisogno di accudimento e hanno bisogno di essere protetti da chi li
maltratta (anche se in nome dell’etica o di una religione). E hanno bisogno di
essere protetti da chi li induce a vergognarsi, a inorgoglirsi o a sforzarsi di
essere “puri”.
Le persone normalmente svalutano e reprimono il
pianto e la sessualità. Lasciano che i giorni della loro vita trascorrano e fanno
in modo che i desideri e le emozioni non guastino l’ordine di una normale infelicità
concepita come un destino ineluttabile. Solo l’accettazione dei desideri rende
possibile la consapevolezza della gioia e del dolore nell’esistenza umana e
rende, quindi, inconcepibili la
vergogna, l’orgoglio e la castità.