sabato 14 luglio 2018

21. Perché non esistono disturbi sessuali







La concezione più comune dei “disturbi sessuali” è riconducibile all’idea di qualche fattore che ostacola una normale attività sessuale. Le persone fanno fatica a spiegare i propri disturbi sessuali (come pure tutti i sintomi psicologici) perché con tali disturbi manifestano qualcosa proprio per non accettare qualcosa. Non cercando una spiegazione nella direzione giusta, tentano di inventare qualche spiegazione comoda. A volte pensano di “essere fatte così” e rinunciano ai rapporti sessuali oppure mantenengono rapporti sessuali con un/una partner che non trova troppo frustrante la situazione. In altri casi si tormentano segretamente pensando di “non essere normali” e convivono con un senso di “inadeguatezza” che, di fatto, è un altro sintomo. Altre persone, invece, sono molto turbate dalle loro difficoltà e cercano di “controllare” i sintomi, rendendoli così più accentuati, oppure cercano l’aiuto di un professionista per ottenere una terapia efficace. In tutti i casi, però, le persone evitano di chiedersi cosa stiano facendo per produrre il sintomo. La psicologia e la psicoterapia in più di un secolo si sono adattate alla mentalità comune senza far circolare domande scomode e risposte altrettanto scomode. Per questo motivo, quando le persone chiedono aiuto per un “problema sessuale” non vogliono interrogarsi sul loro modo di stare con sé e con gli altri: si propongono di “guarire” per continuare a vivere come sempre, cioè, per continuare a vivere “poco”. Accogliendo tale richiesta, gli psicoterapeuti diventano complici della strategia difensiva che ha prodotto il sintomo, sia che riescano sia che non riescano ad incidere sul sintomo.
La comune concezione “psicopatologica” dei disturbi sessuali trascura due fatti molto importanti: a) tutte le persone sono perfettamente capaci di far sesso se non sono affette da reali patologie (organiche) e b) se non fanno sesso in modo soddisfacente sono attivamente impegnate (inconsciamente) a fare qualcosa che ostacola l’espressione della sessualità. L’idea che le persone siano “affette” da disturbi sessuali, in altre parole, distoglie dall’interesse per ciò che le persone fanno e dall’interesse per le ragioni per cui fanno ciò che fanno. Tra l’altro, tale concezione impedisce di comprendere che in molti casi proprio la perfetta “efficienza” sessuale costituisce un disturbo psicologico, perché presuppone una mancanza di contatto emotivo con il/la partner. Non è infatti molto ragionevole né il comportamento delle persone che fanno sesso raramente, né quello di persone che litigano e poi fanno sesso senza aver risolto nulla, anche se si accoppiano rispettando la “normale procedura”. Se consideriamo la sessualità prescindendo dalle normali concezioni possiamo spiegare i “disturbi sessuali” in un modo completamente diverso: non come “corpi estranei” da eliminare o da curare, ma come il risultato di convinzioni, desideri ed emozioni che ostacolano la libera espressione del desiderio di contatto e anche del desiderio sessuale. In questa prospettiva non possiamo ragionevolmente proporci di curare (cioè di controllare) dei sintomi che già costituiscono un controllo.
Un mio cliente sessualmente molto “efficiente”, si lamentava spesso della scarsa complicità erotica della moglie, pur riconoscendo che, “se veniva invitata si concedeva quasi sempre”. Una volta mi disse di aver provato fastidio perché mentre la stava spogliando e accarezzando, lei aveva accennato ad un problema condominiale. Ovviamente ho chiesto come avesse reagito e mi ha risposto di aver messo da parte ciò che sentiva e di aver concluso il rapporto come sempre. In questa situazione “sessuologicamente perfetta” la donna “non era lì” e l’uomo “ha concluso” il rapporto accantonando le proprie sensazioni di solitudine. A mio parere, in una situazione di questo tipo, proprio il rapporto sessuale tecnicamente normale costituisce un disturbo sessuale, dato che ostacola sia il raggiungimento di un intenso appagamento, sia la realizzazione di una buona intimità, sia la consapevolezza di un problema significativo nella relazione di coppia. Ovviamente molte persone “afflitte” da disturbi sessuali ufficialmente diagnosticati vorrebbero essere in grado di far sesso in questo modo, ma vorrebbero avere tale capacità proprio perché non hanno alcun reale interesse per il piacere sessuale e per l’ intimità e perché sentono soprattutto il bisogno di fare “ciò che va fatto” per sentirsi normali ed “efficienti”.
Con diverse persone o coppie ho lavorato sulle difficoltà che manifestavano nei rapporti sessuali senza ottenere una reale collaborazione: appena cominciavano a capire che con quel “disturbo” nascondevano una montagna di sentimenti e che avevano impostato una relazione di coppia sulla base di aspettative non realistiche, esprimevano più o meno apertamente delle reazioni di fastidio per il lavoro svolto. Mi comunicavano quindi di voler mettere a posto il sesso senza scombinare tutta la loro vita, oppure interrompevano le sedute con qualche scusa. Ho anche avuto clienti di sesso maschile molto interessati a risolvere problemi di erezione che sono “guariti” appena hanno “sfiorato” i sentimenti delicati e profondi che non avevano mai voluto “maneggiare” e che non volevano affatto “maneggiare”: in pratica dopo poche chiacchiere e magari due lacrime hanno “risolto tutto” e, avendo raggiunto il loro obiettivo, hanno deciso di interrompere il lavoro. A mio parere hanno rinunciato al sintomo proprio per non entrare in contatto con le loro emozioni e quindi sono “guariti” proprio per non cambiare nulla. Nel lavoro analitico, quando una persona o una coppia chiede aiuto per un “problema sessuale”, prima di tutto cerco di chiarire se le due persone desiderano davvero stare assieme, cioè se desiderano godere della loro sessualità e rendere più intensa la loro intimità. Infatti, se le due persone vogliono solo fare ogni tanto un po’ di sesso, possibilmente in modo accettabile, concepiscono la loro relazione come la somma di due vite solitarie. Qualsiasi miglioramento nella “efficienza sessuale” servirebbe solo a rinsaldare una relazione programmaticamente “non erotica” e quindi falsa.
A questo punto, anziché elencare specifici “disturbi sessuali”, voglio evidenziare tre atteggiamenti molto comuni con i quali le persone riescono a disturbare la loro vita sessuale.
a.
Disturbi della sessualità normalmente disconosciuti. Molte persone provano desiderio sessuale e sono disponibili a fare sesso quando ne hanno la possibilità. Fanno correttamente “ciò che va fatto”, ma si coinvolgono poco sul piano emotivo. La loro sessualità è “affidabile” proprio perché è rivolta a oggetti sessuali “impersonali”. Possono anche essere persone “serie”, ma sono soprattutto emotivamente distaccate. Tale ruolo sessuale è prevalentemente maschile per via della “seconda catastrofe” di cui ho già parlato, ma non dipende dalla semplice appartenenza al genere maschile. Anche alcune donne, infatti, si rivelano molto disponibili sessualmente e sono capaci di cercare e provare piacere, come i tipici “maschi cacciatori”. Uomini e donne inclini ad una sessualità disinibita ma poco inclini al coinvolgimento emotivo, non hanno alcun problema sessuale, ma solo paura di provare emozioni intense. A volte pensano (a torto) di non aver ancora trovato il/la partner con cui lasciarsi andare “davvero”, ma, in realtà, evitano di “sciogliersi” emotivamente proprio dimostrandosi “indipendenti”.
Oltre ai maschi e alle femmine sessualmente molto disponibili, vi sono maschi e femmine sessualmente efficienti ma poco interessati/e al sesso. Hanno in mente altri interessi (sociali, culturali, famigliari) che in ogni caso costituiscono riedizioni dell’antico bisogno di accettazione e quindi fanno sesso in modo “corretto”, quando è il caso, esprimendo anche dell’affetto, ma “senza mai esagerare”. Si attengono al minimo sindacale prescritto dagli usi e costumi vigenti, ma fondamentalmente si considerano persone e non persone maschili o femminili. Considerano le “grandi storie d’amore” come cose insolite, dovute alla fantasia di scrittori e registi, ma che non riguardano la “vita reale”. Gli atteggiamenti che generano un’efficienza erotica emotivamente “povera” disturbano la sessualità, anche se non preoccupano le persone e non vengono diagnosticati dagli specialisti. Le persone che vivono la loro sessualità in questi modi non possono cercare un contatto emotivo e sperimentare un intenso appagamento sessuale.
b.
Disturbi sessuali riconosciuti dalle persone e dagli specialisti. Tali disturbi costituiscono l’altra faccia della stessa medaglia. In questi casi, è sentito ed è anche “sofferto” il desiderio di una relazione con un’altra persona, ma tale interesse non riguarda la possibilità attuale di un piacere sessuale e di una reale intimità. I desideri sono fondamentalmente desideri “antichi” sessualizzati, sentiti nel presente e non riconosciuti come definitivamente insoddisfacibili. Si può dire che (in vari modi) le persone non si lasciano andare al piacere sessuale ed al/alla partner semplicemente perché non desiderano davvero far sesso o fare l’amore con la persona reale con cui interagiscono, ma desiderano “essere fatte felici” dalla persona con cui immaginano di stare e che non coincide con la persona con cui hanno una reale relazione. Chi desidera “ricevere” la felicità, ha poca voglia di “attivarsi” e chi desidera “meritare” la felicità teme facilmente di sbagliare qualcosa e avverte comunque il fastidio per un (immaginario) ricatto.
In questi casi (anche molto diversi nelle loro espressioni sintomatiche) manca una chiara consapevolezza dell’impossibilità di “essere fatti felici” dall’accettazione degli altri. L’accettazione fa sempre piacere, ma la felicità degli adulti sta nel fare, nel creare armonia, nell’amare e non nell’aspettare al buio e al freddo l’amore che scalda e salva. Più o meno tutti abbiamo bisogno di riconoscere e piangere questo dolore, perché l’antico bisogno d’amore permane come sensazione di bisogno e perché la risposta della realtà è dolorosa come quella riscontrata nell’infanzia. Da bambini siamo stati infelici per via dei rifiuti o dell’indifferenza e da adulti non possiamo “ricevere la felicità” anche se siamo amati, perché chi ci ama è grande come noi e non può “salvarci”. In fondo, l’idea del principe azzurro che entusiasma tante signorine e donne mature e l’idea della “fatina buona” che (anche in versione sexy) turba tanti giovanotti e uomini maturi, rispecchia la perdurante pressione di questa sensazione di bisogno che non può essere placata dal sesso, ma solo dal pianto. Può essere placata solo dal lutto per una irrimediabile perdita. Proprio l’accettazione del dolore consente alle persone adulte di considerare la sessualità come un nuovo ambito in cui è possibile fare cose piacevoli con una persona reale e quindi sperimentare eccitazione e abbandono, complicità e intimità. Se la situazione è riconosciuta realisticamente, diventa abbastanza facile per le persone adulte (dei due sessi) essere attive ed accoglienti, passionali e tenere. Di conseguenza, la vagina si bagna e si dilata, il pene si espande, tutti i preliminari diventano interessanti e l’orgasmo è semplicemente desiderato e raggiunto.
c.
Quando le limitazioni della sessualità non dipendono da bisogni “antichi”, indicano che nella ricerca reale e attuale del piacere e dell’intimità tendiamo a fare compromessi troppo costosi o ad accontentarci di poco o ad illuderci di poter “sistemare” delle situazioni che sono più complesse di quanto vorremmo. In questi casi, i genitali reagiscono “in tempo reale” al posto del cuore e del cervello per evidenziare un dolore negato.
In realtà non è possibile tracciare una netta linea di confine fra i disturbi legati a sensazioni di bisogno “antiche” e quelli riguardanti frustrazioni attuali sottovalutate, perché se fossimo davvero in contatto con la realtà attuale, non sottovaluteremmo nulla e affronteremmo ogni problema immediatamente e con piena coscienza. Quindi, in qualche modo, se non manteniamo il contatto emotivo con la situazione in cui ci troviamo, stiamo comunque manifestando un atteggiamento difensivo che rispecchia la decisione “antica” di evitare la consapevolezza del dolore. Tuttavia, una differenza esiste fra le situazioni in cui i genitali “devono parlare al nostro posto” perché siamo fondamentalmente confusi sui nostri obiettivi e le situazioni in cui essi devono solo richiamare la nostra attenzione su qualche insoddisfazione ben definita e attuale che stiamo minimizzando.
Un mio cliente, che chiamerò Angelo, nonostante le chiusure e le illusioni su cui stava lavorando, aveva un atteggiamento abbastanza sereno sulla sessualità. Era single ed era aperto sia ad avventure erotiche, sia ad una relazione intima e impegnativa e cercava di conoscere e frequentare qualsiasi ragazza attraente e interessante. Quando faceva sesso provava piacere nei preliminari e alla fine si sentiva appagato, ma con alcune ragazze raggiungeva in ritardo o non raggiungeva l’acme; con una ragazza “troppo avvolgente” era venuto precocemente. Angelo faceva sesso per il piacere di farlo e proprio per questo, quando registrava un disturbo nell’eccitazione o nel raggiungimento dell’appagamento, cercava di capire se voleva davvero stare con quella donna e non si affliggeva per il “fallimento”. Proprio per questo atteggiamento rispettoso e razionale recuperava (con la stessa ragazza o, se la relazione non procedeva, con un’altra) la propria “efficienza”. Parlandone, chiarimmo che in certi casi cercava di fare sesso anche se non si sentiva abbastanza in confidenza, pur di non “perdere l’occasione”. Quindi, se la “confidenza” aumentava con il contatto fisico il rapporto sessuale veniva concluso, mentre risultava insoddisfacente se, proprio nel contatto fisico, egli si sentiva “solo”. In questi casi, quindi, Angelo non manifestava alcun disturbo sessuale, ma semplicemente comprendeva facendo sesso, anziché prima, di non sentirsi a suo agio. Per questo non si “avvitava” nel timore di ripetere esperienze insoddisfacenti.
In psicoterapia, la cosiddetta “ansia da prestazione” è facilmente identificata, ma è concepita come un sintomo da curare. L’intervento “psicoterapeutico” più intelligente in questi casi è costituito dalla "prescrizione del sintomo": si consiglia alla persona (o alla coppia) di tentare un approccio sessuale limitato, cioè caratterizzato solo da baci, carezze e coccole e si vieta di fare sesso “fino in fondo” per un certo periodo. E’ ovvio che la persona interessata a “fare il compito”, smette di preoccuparsi di ciò di cui si preoccupava, dato che deve sforzarsi di fare il contrario. E’ quindi possibile che tale persona si presenti alla seduta successiva scusandosi per non aver collaborato, per non essere stata capace di “resistere”, dimostrando però di aver risolto il problema di partenza. Tali tecniche, ovviamente, possono essere inutili se il disturbo ha radici profonde, ma in certi casi possono servire. Di fatto, l’intervento sul sintomo preclude la possibilità di un miglioramento davvero significativo nella relazione. Per questi motivi io preferisco tener ben distinte le due cose: l’ansia “tecnica” e attuale relativa al timore della ripetizione di un’esperienza frustrante e gli aspetti più delicati della relazione. Quindi, gioco sempre a carte scoperte: suggerisco alla persona o alla coppia di parlare dei loro desideri, dei rapporti piacevoli che hanno avuto e del fatto che per un po’ presumibilmente non riusciranno a rilassarsi abbastanza da ripetere le esperienze piacevoli che rimpiangono. Suggerisco di fare un accordo esplicito consistente nel fare sesso in altri modi, accontentandosi del piacere attualmente raggiungibile su un piano extragenitale, in modo da ristabilire la complicità/intimità. Se l’accordo viene accettato, l’ansia cessa e diventa possibile lavorare sugli aspetti più profondi della relazione senza l’intralcio del “disturbo sessuale”. Se la mia proposta non viene accettata ho la possibilità di lavorare sul fatto che la persona o le due persone non vogliono realmente migliorare la qualità del rapporto e vogliono semplicemente far finta di stare assieme e usare l’efficienza sessuale come dimostrazione di un’intimità che non c’è.
Una mia cliente, che chiamerò Anna, aveva sempre trovato soddisfacenti i rapporti sessuali con il marito, che chiamerò Dario, ma in una seduta mi disse che da mesi non provava desiderio e quindi evitava i rapporti oppure “concedeva” qualcosa a Dario “per dovere”. La “mancanza” di desiderio era in realtà l’effetto di una forte rabbia vittimistica che avevamo già analizzato (superficialmente) in situazioni di tipo non sessuale. Dario, da tempo era preso da gravi frustrazioni nell’ufficio in cui lavorava e tendeva a lamentarsi evitando sia di accettare la situazione, sia di cambiarla. Anna sentiva di “dover sopportare” tali lamentele inconcludenti e quindi, come tutte le persone vittimiste, da un lato offriva una (inutile) “comprensione”, anziché imporre dei limiti al compagno e, da un altro lato, covava rabbia per ciò che sentiva come “un peso”. A quel punto, “intossicata” dalla rabbia vittimistica non sentiva ovviamente alcun desiderio sessuale. Tale modo di reagire ad una situazione sicuramente difficile, non è in alcun modo concepibile come “patologico” perché costituisce una strategia difensiva e quindi una sequenza di azioni difensive. Non è nemmeno concepibile come problema “sessuale” perché costituisce una vendetta: le persone vittimiste a volte si vendicano facendo “sciopero” del sesso e altre volte scordando l’anniversario del matrimonio o negandosi in altri modi.
L’ultima edizione del DSM (il DSM5) che è il risultato della collaborazione di moltissimi autorevoli psichiatri e che costituisce un punto di riferimento “imprescindibile” per gli stessi psicoterapeuti, include un capitolo dedicato alle “disfunzioni sessuali”. Tali disfunzioni sono definite come “un gruppo eterogeneo di disturbi tipicamente caratterizzati da un’anomalia, clinicamente significativa, nella capacità di una persona di avere reazioni sessuali o di provare piacere sessuale” (A. P. A., 2013, p. 493). In tal senso, la mancanza di desiderio di Anna non rientrava nella diagnosi di “Disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile”, sia perché non perdurava da almeno sei mesi, sia perché “Se significativi fattori interpersonali o contestuali, come un grave disagio relazionale, la violenza intima del partner o altri significativi fattori stressanti, spiegano i sintomi del disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale, allora non dovrebbe essere posta una diagnosi di disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile” (A. P. A., 2013, p. 509). Dunque, gli specialisti non considererebbero patologico il “blocco” sessuale di Anna, ma in base a delle ragioni che sono difficili da capire. Il fatto che tale problema non perdurasse da almeno sei mesi mi sembra irrilevante, dato che fin dal primo giorno di “chiusura” o “insensibilità” Anna era stata irrazionalmente rabbiosa. Inoltre, il “disagio relazionale” non può “spiegare” tale chiusura psicologica perché altre donne, nella stessa situazione avrebbero reagito in modi del tutto diversi (infamando il marito insopportabile o tradendolo col primo uomo decente incontrato o anche manifestando un sincero dispiacere e chiarendo di voler condividere i problemi ma non le lagne).
Le definizioni delle patologie sessuali, per quanto accurate e basate su conoscenze notevoli assemblate con intelligenza, costituiscono un esempio di “talento sprecato”: precludono, ad esempio, la possibilità di comprendere che Anna, pur non essendo affetta da alcuna patologia si ostinava a disturbare la propria sessualità  perché si era organizzata tutta la vita in modo da sentirsi vittima di ingiustizie. Infatti, con il marito frustrante bloccava il desiderio sessuale, con le amiche frustranti bloccava l’apertura emotiva e con la madre, da sempre, bloccava la consapevolezza di un dipendenza psicologica molto dolorosa. D’altra parte la lettura psicoterapeutica delle difese psicologiche conduce regolarmente a diagnosi riguardanti gli aspetti più “oggettivi” dei “problemi” e quindi conduce all’idea di disturbi “sessuali” o “alimentari” o “dell’umore” e così via. In realtà, due persone che manifestano sintomi simili possono avere strategie difensive molto diverse e due persone con strategie difensive simili possono manifestare sintomi molto diversi.
Quando i problemi apparentemente sessuali dipendono da chiusure emotive molto antiche vengono superati in tempi inevitabilmente lunghi, proprio perché sono parte di un aspetto profondo della storia e dell’identità personale che richiede molti chiarimenti e l’elaborazione di un dolore da sempre evitato. Quando invece il lavoro analitico ha già reso possibile una certa confidenza con il dolore “antico”, eventuali “problemi sessuali” del momento possono essere superati in tempi molto brevi o con un semplice chiarimento in una sola seduta. Un disturbo apparentemente simile a quello di Anna, ma radicalmente diverso, è quello di cui mi parlò una cliente che chiamerò Gianna. Lei e il suo compagno (Giovanni) stavano assieme da circa un anno senza convivere e attraversavano un periodo molto difficile sul piano lavorativo che riduceva le loro possibilità di incontrarsi con tempi abbastanza dilatati da potersi rilassare, coccolare e arrivare con calma anche a fare l’amore.
G. Ho detto a Giovanni che a volte vorrei restare sola a riposarmi un po’ anziché correre da lui appena concludo la mia giornata lavorativa. Lui mi ha capita, ma in realtà sono io che finisco sempre per cercarlo anziché prendermi, quando mi servirebbe, del tempo solo per me. Ora il problema è questo: quando la stanchezza è forte e il mio desiderio sessuale è scarso comincio a temere di poter risultare frustrante per Giovanni. Con quest’ansia capita che il desiderio scompaia già quando la mattina penso di incontrarlo in serata.
GF. Cosa ci guadagni facendo la parte dell’ambulanza che teme di non salvare tutti?
G. Che strana domanda!
GF. Hai mai pensato che gli infermieri delle ambulanze svolgono un lavoro molto faticoso?
G. Sì.
GF. Io penso che possano essere anche empatici e preoccuparsi per i malati che devono soccorrere, ma credo che possano essere davvero empatici con gli altri solo se ammettono con loro stessi di fare un lavoro duro, stancante e caratterizzato da grosse responsabilità.
G. Mi stai dicendo che penso poco a me?
GF. Ti sto dicendo che usi Giovanni per non pensare a te. Io scommetto che lui può sopravvivere anche se ogni tanto non fa sesso con te, ma credo soprattutto che tu, pur avendo la capacità di fare tante cose, sia davvero sfinita.
G. [Commossa] E’ vero. Pensando a lui mi scordo della mia stanchezza.
GF. Sai, a volte capita di essere stanchissimi e di voler solo riposare o scambiare coccole e poi dalle coccole spunta una voglia imprevista di far sesso. Se però ti scordi della tua stanchezza e fai finta di essere un’eroica infermiera rischi di eccitarti davvero raramente con un amante classificato come un povero paziente!
In questo caso il calo del desiderio non era una sorta di vendetta nei confronti del partner, ma il risultato “meccanico” di un dialogo interno che escludeva la compassione per sé in una situazione nuova e frustrante. Lavorare tanto è spiacevole e Gianna si dissociava da questo dolore provando una compassione “esagerata” per le frustrazioni sessuali di Giovanni. Tutto qui. Anche in questo caso non c’era alcuna patologia, ma era presente un problema personale che stavamo già affrontando e che era stato dirottato su un versante sessuale.
Un cliente, che chiamerò Federico stava da quasi due anni con una ragazza (Silvia) che non manifestava semplicemente delle pretese, ma era “l’incarnazione del concetto di pretesa”. Aveva anche dei lati “umani” che Federico apprezzava molto, ma considerava ogni desiderio come un diritto. Federico, fin dall’infanzia si era invece abituato a fingere di non avere desideri e si era sempre dimostrato accondiscendente con tutti, pur essendo capace di essere assertivo sul lavoro o nelle situazioni in cui voleva affermare dei principi. Sul piano sessuale era più attento alle aspettative di Federica (come lo era stato con le altre compagne) che alle proprie esigenze e si trovava quindi molto a disagio perché, in modi più o meno accentuati, eiaculava precocemente. Lui non aveva messo quel problema al centro del nostro lavoro e io avevo evitato di affrontarlo preferendo occuparmi del suo atteggiamento di fondo e del fatto che tendeva a “sentire poco” e ad essere sempre convinto di “stare abbastanza bene”. Dopo aver chiarito in una seduta il suo fastidio per le pretese “storiche” di sua madre e soprattutto la sensazione di essere solo quando Silvia si impuntava su qualcosa, interruppe il lavoro per fare un mese di vacanza. Al ritorno mi disse che nelle prime tre settimane si era comportato in modo “insolito”: non aveva cercato di far sesso con Silvia, perché aveva sentito una cosa nuova: aveva sentito che “la situazione non era quella giusta”.
F. Una sera, però, verso la fine della vacanza, ho sentito il desiderio di far sesso e “ho pensato solo al mio desiderio”. Non sono stato dolce come al solito, ma, di fatto, i miei tempi si sono allungati. Nei giorni successivi lei si è mostrata irritata, mi ha rinfacciato di essere stato “egoista” e io ho risposto che se lei è sempre egoista, una volta ogni tanto posso esserlo anche io. Da questo battibecco siamo passati ad un dialogo più sereno e mi è sembrato che ci fosse un’intesa. Abbiamo fatto l’amore e siamo venuti assieme. Credo che ciò sia accaduto proprio perché lei non pretendeva nulla da me e nemmeno io pretendevo nulla da me.
Le persone possono esprimere il loro potenziale, provare piacere e realizzare intimità oppure limitare la loro sessualità per non accettare alcuni aspetti dolorosi (attuali o/e “antichi”) della loro vita. Per questo motivo trovo poco sensato considerare come sessuali o alimentari o lavorativi certi sintomi: tale concezione presuppone che le persone normalmente stiano bene e che se non stanno bene siano “affette” da una patologia che riguarda una particolare area della loro vita. Il lavoro analitico non serve a produrre diagnosi e terapie, ma a produrre curiosità, domande, risposte e a facilitare cambiamenti quando le persone desiderano realmente cambiare il loro modo di vivere.