La concezione più comune dei “disturbi sessuali” è
riconducibile all’idea di qualche fattore che ostacola una normale attività
sessuale. Le persone fanno fatica a spiegare i propri disturbi sessuali (come
pure tutti i sintomi psicologici) perché con tali disturbi manifestano qualcosa proprio per non accettare qualcosa. Non cercando
una spiegazione nella direzione giusta, tentano di inventare qualche
spiegazione comoda. A volte pensano di “essere fatte così” e rinunciano ai
rapporti sessuali oppure mantenengono rapporti sessuali con un/una partner che
non trova troppo frustrante la situazione. In altri casi si tormentano
segretamente pensando di “non essere normali” e convivono con un senso di
“inadeguatezza” che, di fatto, è un altro sintomo. Altre persone, invece, sono
molto turbate dalle loro difficoltà e cercano di “controllare” i sintomi,
rendendoli così più accentuati, oppure cercano l’aiuto di un professionista per
ottenere una terapia efficace. In tutti i casi, però, le persone evitano di
chiedersi cosa stiano facendo per
produrre il sintomo. La psicologia e la psicoterapia in più di un secolo si
sono adattate alla mentalità comune senza far circolare domande scomode e
risposte altrettanto scomode. Per questo motivo, quando le persone chiedono
aiuto per un “problema sessuale” non vogliono interrogarsi sul loro modo di
stare con sé e con gli altri: si propongono di “guarire” per continuare a vivere come sempre, cioè, per continuare a vivere
“poco”. Accogliendo tale richiesta, gli psicoterapeuti diventano complici della
strategia difensiva che ha prodotto il sintomo, sia che riescano sia che non riescano
ad incidere sul sintomo.
La comune concezione “psicopatologica” dei disturbi
sessuali trascura due fatti molto importanti: a) tutte le persone sono
perfettamente capaci di far sesso se non sono affette da reali patologie (organiche)
e b) se non fanno sesso in modo soddisfacente sono attivamente impegnate (inconsciamente)
a fare qualcosa che ostacola l’espressione della sessualità. L’idea che le
persone siano “affette” da disturbi
sessuali, in altre parole, distoglie dall’interesse per ciò che le persone fanno e dall’interesse per le ragioni per cui fanno ciò che fanno. Tra
l’altro, tale concezione impedisce di comprendere che in molti casi proprio la
perfetta “efficienza” sessuale costituisce un disturbo psicologico, perché presuppone
una mancanza di contatto emotivo con il/la partner. Non è infatti molto
ragionevole né il comportamento delle persone che fanno sesso raramente, né
quello di persone che litigano e poi fanno sesso senza aver risolto nulla,
anche se si accoppiano rispettando la “normale procedura”. Se consideriamo la
sessualità prescindendo dalle normali concezioni possiamo spiegare i
“disturbi sessuali” in un modo completamente diverso: non come “corpi estranei”
da eliminare o da curare, ma come il risultato di convinzioni, desideri ed
emozioni che ostacolano la libera espressione del desiderio di contatto e anche
del desiderio sessuale. In questa prospettiva non possiamo ragionevolmente
proporci di curare (cioè di controllare) dei sintomi che già costituiscono un controllo.
Un mio cliente sessualmente molto “efficiente”, si
lamentava spesso della scarsa complicità erotica della moglie, pur riconoscendo
che, “se veniva invitata si concedeva quasi sempre”. Una volta mi disse di aver
provato fastidio perché mentre la stava spogliando e accarezzando, lei aveva
accennato ad un problema condominiale. Ovviamente ho chiesto come avesse
reagito e mi ha risposto di aver messo da parte ciò che sentiva e di aver
concluso il rapporto come sempre. In questa situazione “sessuologicamente
perfetta” la donna “non era lì” e l’uomo “ha concluso” il rapporto accantonando
le proprie sensazioni di solitudine. A mio parere, in una situazione di questo
tipo, proprio il rapporto sessuale tecnicamente normale costituisce un disturbo
sessuale, dato che ostacola sia il raggiungimento di un intenso appagamento,
sia la realizzazione di una buona intimità, sia
la consapevolezza di un problema significativo nella relazione di coppia.
Ovviamente molte persone “afflitte” da disturbi sessuali ufficialmente
diagnosticati vorrebbero essere in grado di far sesso in questo modo, ma
vorrebbero avere tale capacità proprio
perché non hanno alcun reale interesse per il piacere sessuale e per l’
intimità e perché sentono soprattutto il bisogno di fare “ciò che va fatto” per
sentirsi normali ed “efficienti”.
Con diverse persone o coppie ho lavorato sulle
difficoltà che manifestavano nei rapporti sessuali senza ottenere una reale
collaborazione: appena cominciavano a capire che con quel “disturbo”
nascondevano una montagna di sentimenti e che avevano impostato una relazione
di coppia sulla base di aspettative non realistiche, esprimevano più o meno
apertamente delle reazioni di fastidio per il lavoro svolto. Mi comunicavano
quindi di voler mettere a posto il sesso senza scombinare tutta la loro vita,
oppure interrompevano le sedute con qualche scusa. Ho anche avuto clienti di
sesso maschile molto interessati a risolvere problemi di erezione che sono
“guariti” appena hanno “sfiorato” i sentimenti delicati e profondi che non
avevano mai voluto “maneggiare” e che non volevano affatto “maneggiare”: in
pratica dopo poche chiacchiere e magari due lacrime hanno “risolto tutto” e,
avendo raggiunto il loro obiettivo, hanno deciso di interrompere il lavoro. A
mio parere hanno rinunciato al sintomo proprio per non entrare in contatto con
le loro emozioni e quindi sono “guariti” proprio per non cambiare nulla. Nel
lavoro analitico, quando una persona o una coppia chiede aiuto per un “problema
sessuale”, prima di tutto cerco di chiarire se le due persone desiderano
davvero stare assieme, cioè se desiderano godere della loro sessualità e rendere
più intensa la loro intimità. Infatti, se le due persone vogliono solo fare
ogni tanto un po’ di sesso, possibilmente in modo accettabile, concepiscono la
loro relazione come la somma di due vite solitarie. Qualsiasi miglioramento
nella “efficienza sessuale” servirebbe solo a rinsaldare una relazione
programmaticamente “non erotica” e quindi falsa.
A questo punto, anziché elencare specifici “disturbi
sessuali”, voglio evidenziare tre atteggiamenti molto comuni con i quali le
persone riescono a disturbare la loro
vita sessuale.
a.
Disturbi della sessualità normalmente disconosciuti. Molte persone provano desiderio sessuale e sono disponibili a fare
sesso quando ne hanno la possibilità. Fanno correttamente “ciò che va fatto”,
ma si coinvolgono poco sul piano emotivo. La loro sessualità è “affidabile”
proprio perché è rivolta a oggetti sessuali “impersonali”. Possono anche essere
persone “serie”, ma sono soprattutto emotivamente distaccate. Tale ruolo
sessuale è prevalentemente maschile per via della “seconda catastrofe” di cui
ho già parlato, ma non dipende dalla semplice appartenenza al genere maschile.
Anche alcune donne, infatti, si rivelano molto disponibili sessualmente e sono
capaci di cercare e provare piacere, come i tipici “maschi cacciatori”. Uomini e donne inclini ad una
sessualità disinibita ma poco inclini al coinvolgimento emotivo, non hanno
alcun problema sessuale, ma solo paura di provare emozioni intense. A volte
pensano (a torto) di non aver ancora trovato il/la partner con cui lasciarsi
andare “davvero”, ma, in realtà, evitano di “sciogliersi” emotivamente proprio
dimostrandosi “indipendenti”.
Oltre ai maschi e alle femmine sessualmente molto
disponibili, vi sono maschi e femmine sessualmente efficienti ma poco
interessati/e al sesso. Hanno in mente altri interessi (sociali, culturali,
famigliari) che in ogni caso costituiscono riedizioni dell’antico bisogno di
accettazione e quindi fanno sesso in modo “corretto”, quando è il caso, esprimendo
anche dell’affetto, ma “senza mai esagerare”. Si attengono al minimo sindacale
prescritto dagli usi e costumi vigenti, ma fondamentalmente si considerano
persone e non persone maschili o femminili. Considerano le “grandi storie
d’amore” come cose insolite, dovute alla fantasia di scrittori e
registi, ma che non riguardano la “vita reale”. Gli atteggiamenti che generano un’efficienza erotica
emotivamente “povera” disturbano la sessualità, anche se non
preoccupano le persone e non vengono diagnosticati dagli specialisti. Le
persone che vivono la loro sessualità in questi modi non possono cercare un contatto
emotivo e sperimentare un intenso appagamento sessuale.
b.
Disturbi sessuali riconosciuti dalle persone e dagli specialisti. Tali disturbi costituiscono l’altra faccia della stessa medaglia. In
questi casi, è sentito ed è anche “sofferto” il desiderio di una
relazione con un’altra persona, ma tale interesse non riguarda la
possibilità attuale di un piacere sessuale e di una reale intimità. I desideri sono fondamentalmente desideri “antichi” sessualizzati, sentiti nel
presente e non riconosciuti come definitivamente insoddisfacibili. Si può dire
che (in vari modi) le persone non si lasciano andare al piacere sessuale ed al/alla partner semplicemente perché non desiderano davvero far sesso o fare
l’amore con la persona reale con cui interagiscono, ma desiderano “essere fatte
felici” dalla persona con cui immaginano di stare e che non coincide con la
persona con cui hanno una reale relazione. Chi desidera “ricevere” la felicità,
ha poca voglia di “attivarsi” e chi desidera “meritare” la felicità teme
facilmente di sbagliare qualcosa e avverte comunque il fastidio per un
(immaginario) ricatto.
In questi casi (anche molto diversi nelle loro
espressioni sintomatiche) manca una chiara consapevolezza dell’impossibilità di
“essere fatti felici” dall’accettazione degli altri. L’accettazione fa sempre
piacere, ma la felicità degli adulti sta nel fare, nel creare armonia,
nell’amare e non nell’aspettare al buio e al freddo l’amore che scalda e salva.
Più o meno tutti abbiamo bisogno di riconoscere e piangere questo dolore,
perché l’antico bisogno d’amore permane come sensazione di bisogno e perché la
risposta della realtà è dolorosa come quella riscontrata nell’infanzia. Da
bambini siamo stati infelici per via dei rifiuti o dell’indifferenza e da
adulti non possiamo “ricevere la felicità” anche se siamo amati, perché chi ci
ama è grande come noi e non può “salvarci”. In fondo, l’idea del principe
azzurro che entusiasma tante signorine e donne mature e l’idea della “fatina
buona” che (anche in versione sexy) turba tanti giovanotti e uomini maturi,
rispecchia la perdurante pressione di questa sensazione di bisogno che non può
essere placata dal sesso, ma solo dal pianto. Può essere placata solo dal lutto
per una irrimediabile perdita. Proprio l’accettazione del dolore consente alle
persone adulte di considerare la sessualità come un nuovo ambito in cui è possibile fare
cose piacevoli con una persona reale e quindi sperimentare eccitazione e
abbandono, complicità e intimità. Se la situazione è riconosciuta
realisticamente, diventa abbastanza facile per le persone adulte (dei due sessi)
essere attive ed accoglienti, passionali e tenere. Di conseguenza, la vagina si bagna e si dilata, il pene si espande, tutti
i preliminari diventano interessanti e l’orgasmo è semplicemente desiderato e
raggiunto.
c.
Quando le limitazioni della sessualità non dipendono da bisogni
“antichi”, indicano che nella ricerca reale
e attuale del piacere e dell’intimità tendiamo a fare compromessi troppo
costosi o ad accontentarci di poco o ad illuderci di poter “sistemare” delle
situazioni che sono più complesse di quanto vorremmo. In questi casi, i
genitali reagiscono “in tempo reale” al
posto del cuore e del cervello per evidenziare un dolore
negato.
In realtà non è possibile tracciare una netta linea
di confine fra i disturbi legati a sensazioni di bisogno “antiche” e
quelli riguardanti frustrazioni attuali sottovalutate, perché se
fossimo davvero in contatto con la realtà attuale, non sottovaluteremmo nulla e
affronteremmo ogni problema immediatamente e con piena coscienza. Quindi, in
qualche modo, se non manteniamo il contatto emotivo con la situazione in cui ci
troviamo, stiamo comunque manifestando un atteggiamento difensivo che
rispecchia la decisione “antica” di evitare la consapevolezza del dolore.
Tuttavia, una differenza esiste fra le situazioni in cui i genitali “devono
parlare al nostro posto” perché siamo fondamentalmente confusi sui nostri
obiettivi e le situazioni in cui essi devono solo richiamare la nostra attenzione
su qualche insoddisfazione ben definita e attuale che stiamo minimizzando.
Un mio cliente, che chiamerò Angelo, nonostante le
chiusure e le illusioni su cui stava lavorando, aveva un atteggiamento
abbastanza sereno sulla sessualità. Era single ed era aperto sia ad avventure
erotiche, sia ad una relazione intima e impegnativa e cercava di conoscere e
frequentare qualsiasi ragazza attraente e interessante. Quando faceva sesso
provava piacere nei preliminari e alla fine si sentiva appagato, ma con alcune
ragazze raggiungeva in ritardo o non raggiungeva l’acme; con una ragazza “troppo
avvolgente” era venuto precocemente. Angelo faceva sesso per il piacere di
farlo e proprio per questo, quando registrava un disturbo nell’eccitazione o
nel raggiungimento dell’appagamento, cercava di capire se voleva davvero stare
con quella donna e non si affliggeva per il “fallimento”. Proprio per questo
atteggiamento rispettoso e razionale recuperava (con la stessa ragazza o, se la
relazione non procedeva, con un’altra) la propria “efficienza”. Parlandone,
chiarimmo che in certi casi cercava di fare sesso anche se non si sentiva
abbastanza in confidenza, pur di non “perdere l’occasione”. Quindi,
se la “confidenza” aumentava con il contatto fisico il rapporto sessuale veniva
concluso, mentre risultava insoddisfacente se, proprio nel contatto fisico,
egli si sentiva “solo”. In questi casi, quindi, Angelo non manifestava alcun
disturbo sessuale, ma semplicemente comprendeva facendo sesso, anziché prima,
di non sentirsi a suo agio. Per questo non si “avvitava” nel timore di ripetere
esperienze insoddisfacenti.
In psicoterapia, la cosiddetta “ansia da
prestazione” è facilmente identificata, ma è concepita come un sintomo da
curare. L’intervento “psicoterapeutico” più intelligente in questi casi è costituito dalla "prescrizione del sintomo": si consiglia alla persona (o alla coppia) di tentare
un approccio sessuale limitato, cioè caratterizzato solo da baci, carezze e
coccole e si vieta di fare sesso “fino in fondo” per un certo periodo. E’ ovvio che la persona interessata
a “fare il compito”, smette di preoccuparsi di ciò di cui si preoccupava, dato
che deve sforzarsi di fare il contrario. E’ quindi possibile che tale persona si
presenti alla seduta successiva scusandosi per non aver collaborato, per non
essere stata capace di “resistere”, dimostrando però di aver risolto il
problema di partenza. Tali tecniche, ovviamente, possono essere inutili se il
disturbo ha radici profonde, ma in certi casi possono servire. Di fatto,
l’intervento sul sintomo preclude la possibilità di un miglioramento davvero
significativo nella relazione. Per questi motivi io preferisco tener ben
distinte le due cose: l’ansia “tecnica” e attuale relativa al timore della
ripetizione di un’esperienza frustrante e gli aspetti più delicati della
relazione. Quindi, gioco sempre a carte scoperte: suggerisco alla persona o
alla coppia di parlare dei loro desideri, dei rapporti piacevoli che hanno
avuto e del fatto che per un po’ presumibilmente non riusciranno a rilassarsi
abbastanza da ripetere le esperienze piacevoli che rimpiangono. Suggerisco di
fare un accordo esplicito consistente nel fare sesso in altri modi,
accontentandosi del piacere attualmente raggiungibile su un piano
extragenitale, in modo da ristabilire la complicità/intimità. Se l’accordo
viene accettato, l’ansia cessa e diventa possibile lavorare sugli aspetti più
profondi della relazione senza l’intralcio del “disturbo sessuale”. Se la mia
proposta non viene accettata ho la possibilità di lavorare sul fatto che la
persona o le due persone non vogliono realmente migliorare la qualità del
rapporto e vogliono semplicemente far finta di stare assieme e usare
l’efficienza sessuale come dimostrazione di un’intimità che non c’è.
Una mia cliente, che chiamerò Anna, aveva sempre
trovato soddisfacenti i rapporti sessuali con il marito, che chiamerò Dario, ma
in una seduta mi disse che da mesi non provava desiderio e quindi evitava i
rapporti oppure “concedeva” qualcosa a Dario “per dovere”. La “mancanza” di
desiderio era in realtà l’effetto di una forte rabbia vittimistica che avevamo
già analizzato (superficialmente) in situazioni di tipo non sessuale. Dario, da
tempo era preso da gravi frustrazioni nell’ufficio in cui lavorava e tendeva a
lamentarsi evitando sia di accettare la situazione, sia di cambiarla. Anna
sentiva di “dover sopportare” tali lamentele inconcludenti e quindi, come tutte
le persone vittimiste, da un lato offriva una (inutile) “comprensione”, anziché imporre dei
limiti al compagno e, da un altro lato, covava rabbia per ciò che sentiva come “un
peso”. A quel punto, “intossicata” dalla rabbia vittimistica non sentiva
ovviamente alcun desiderio sessuale. Tale modo di reagire ad una situazione
sicuramente difficile, non è in alcun modo concepibile come “patologico” perché
costituisce una strategia difensiva e quindi una sequenza di azioni difensive.
Non è nemmeno concepibile come problema “sessuale” perché costituisce una
vendetta: le persone vittimiste a volte si vendicano facendo “sciopero” del
sesso e altre volte scordando l’anniversario del matrimonio o negandosi in
altri modi.
L’ultima edizione del DSM (il DSM5) che è il risultato della collaborazione di moltissimi autorevoli psichiatri e che costituisce un punto
di riferimento “imprescindibile” per gli stessi psicoterapeuti, include un
capitolo dedicato alle “disfunzioni sessuali”. Tali disfunzioni sono definite
come “un gruppo eterogeneo di disturbi tipicamente caratterizzati da
un’anomalia, clinicamente significativa, nella capacità di una persona di avere
reazioni sessuali o di provare piacere sessuale” (A. P. A., 2013, p. 493). In
tal senso, la mancanza di desiderio di Anna non rientrava nella diagnosi di
“Disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile”, sia
perché non perdurava da almeno sei mesi, sia perché “Se significativi fattori
interpersonali o contestuali, come un grave disagio relazionale, la violenza
intima del partner o altri significativi fattori stressanti, spiegano i sintomi
del disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale, allora non
dovrebbe essere posta una diagnosi di disturbo del desiderio sessuale e
dell’eccitazione sessuale femminile” (A. P. A., 2013, p. 509). Dunque, gli
specialisti non considererebbero patologico il “blocco” sessuale di Anna, ma in
base a delle ragioni che sono difficili da capire. Il fatto che tale problema
non perdurasse da almeno sei mesi mi sembra irrilevante, dato che fin dal primo
giorno di “chiusura” o “insensibilità” Anna era stata irrazionalmente rabbiosa.
Inoltre, il “disagio relazionale” non può “spiegare” tale chiusura psicologica
perché altre donne, nella stessa situazione avrebbero reagito in modi del tutto
diversi (infamando il marito insopportabile o tradendolo col primo uomo decente
incontrato o anche manifestando un sincero dispiacere e chiarendo di voler condividere
i problemi ma non le lagne).
Le definizioni delle patologie sessuali, per quanto
accurate e basate su conoscenze notevoli assemblate con intelligenza,
costituiscono un esempio di “talento sprecato”: precludono, ad esempio, la
possibilità di comprendere che Anna, pur non essendo affetta da alcuna
patologia si ostinava a disturbare la
propria sessualità perché si era organizzata tutta la
vita in modo da sentirsi vittima di ingiustizie. Infatti, con il marito
frustrante bloccava il desiderio sessuale, con le amiche frustranti bloccava
l’apertura emotiva e con la madre, da sempre, bloccava la consapevolezza di un
dipendenza psicologica molto dolorosa. D’altra parte la lettura
psicoterapeutica delle difese psicologiche conduce regolarmente a diagnosi
riguardanti gli aspetti più “oggettivi” dei “problemi” e quindi conduce
all’idea di disturbi “sessuali” o “alimentari” o “dell’umore” e così via. In
realtà, due persone che manifestano sintomi simili possono avere strategie
difensive molto diverse e due persone con strategie difensive simili possono
manifestare sintomi molto diversi.
Quando i problemi apparentemente sessuali dipendono
da chiusure emotive molto antiche vengono superati in tempi inevitabilmente
lunghi, proprio perché sono parte di un aspetto profondo della storia e
dell’identità personale che richiede molti chiarimenti e l’elaborazione di un
dolore da sempre evitato. Quando invece il lavoro analitico ha già reso
possibile una certa confidenza con il dolore “antico”, eventuali “problemi
sessuali” del momento possono essere superati in tempi molto brevi o con un
semplice chiarimento in una sola seduta. Un disturbo apparentemente simile a
quello di Anna, ma radicalmente diverso, è quello di cui mi parlò una cliente
che chiamerò Gianna. Lei e il suo compagno (Giovanni) stavano assieme da circa
un anno senza convivere e attraversavano un periodo molto difficile sul piano
lavorativo che riduceva le loro possibilità di incontrarsi con tempi abbastanza
dilatati da potersi rilassare, coccolare e arrivare con calma anche a fare
l’amore.
G. Ho detto a Giovanni che a volte vorrei restare
sola a riposarmi un po’ anziché correre da lui appena concludo la mia giornata
lavorativa. Lui mi ha capita, ma in realtà sono io che finisco sempre per
cercarlo anziché prendermi, quando mi servirebbe, del tempo solo per me. Ora il
problema è questo: quando la stanchezza è forte e il mio desiderio sessuale è
scarso comincio a temere di poter risultare frustrante per Giovanni. Con
quest’ansia capita che il desiderio scompaia già quando la mattina penso di
incontrarlo in serata.
GF. Cosa ci guadagni facendo la parte dell’ambulanza
che teme di non salvare tutti?
G. Che strana domanda!
GF. Hai mai pensato che gli infermieri delle
ambulanze svolgono un lavoro molto faticoso?
G. Sì.
GF. Io penso che possano essere anche empatici e
preoccuparsi per i malati che devono soccorrere, ma credo che possano essere
davvero empatici con gli altri solo se ammettono con loro stessi di fare un
lavoro duro, stancante e caratterizzato da grosse responsabilità.
G. Mi stai dicendo che penso poco a me?
GF. Ti sto dicendo che usi Giovanni per non pensare
a te. Io scommetto che lui può sopravvivere anche se ogni tanto non fa sesso
con te, ma credo soprattutto che tu, pur avendo la capacità di fare tante cose,
sia davvero sfinita.
G. [Commossa] E’ vero. Pensando a lui mi scordo
della mia stanchezza.
GF. Sai, a volte capita di essere stanchissimi e di
voler solo riposare o scambiare coccole e poi dalle coccole spunta una voglia
imprevista di far sesso. Se però ti scordi della tua stanchezza e fai finta di
essere un’eroica infermiera rischi di eccitarti davvero raramente con un amante
classificato come un povero paziente!
In questo caso il calo del desiderio non era una
sorta di vendetta nei confronti del partner, ma il risultato “meccanico” di un
dialogo interno che escludeva la compassione per sé in una situazione nuova e
frustrante. Lavorare tanto è spiacevole e Gianna si dissociava da questo dolore
provando una compassione “esagerata” per le frustrazioni sessuali di Giovanni.
Tutto qui. Anche in questo caso non c’era alcuna patologia, ma era presente un
problema personale che stavamo già affrontando e che era stato dirottato su un
versante sessuale.
Un cliente, che chiamerò Federico stava da quasi due
anni con una ragazza (Silvia) che non manifestava semplicemente delle pretese,
ma era “l’incarnazione del concetto di pretesa”. Aveva anche dei lati “umani”
che Federico apprezzava molto, ma considerava ogni desiderio come un diritto.
Federico, fin dall’infanzia si era invece abituato a fingere di non avere
desideri e si era sempre dimostrato accondiscendente con tutti, pur essendo
capace di essere assertivo sul lavoro o nelle situazioni in cui voleva
affermare dei principi. Sul piano sessuale era più attento alle aspettative di
Federica (come lo era stato con le altre compagne) che alle proprie esigenze e
si trovava quindi molto a disagio perché, in modi più o meno accentuati,
eiaculava precocemente. Lui non aveva messo quel problema al centro del nostro
lavoro e io avevo evitato di affrontarlo preferendo occuparmi del suo
atteggiamento di fondo e del fatto che tendeva a “sentire poco” e ad essere
sempre convinto di “stare abbastanza bene”. Dopo aver chiarito in una seduta il
suo fastidio per le pretese “storiche” di sua madre e soprattutto la sensazione
di essere solo quando Silvia si impuntava su qualcosa, interruppe il lavoro per
fare un mese di vacanza. Al ritorno mi disse che nelle prime tre settimane si
era comportato in modo “insolito”: non aveva cercato di far sesso con Silvia,
perché aveva sentito una cosa nuova: aveva sentito che “la situazione non era quella giusta”.
F. Una sera, però, verso la fine della vacanza, ho
sentito il desiderio di far sesso e “ho pensato solo al mio desiderio”. Non
sono stato dolce come al solito, ma, di fatto, i miei tempi si sono allungati. Nei giorni successivi lei si è mostrata irritata, mi ha rinfacciato di essere stato “egoista” e
io ho risposto che se lei è sempre egoista, una volta ogni tanto posso esserlo
anche io. Da questo battibecco siamo passati ad un dialogo più sereno e mi è
sembrato che ci fosse un’intesa. Abbiamo fatto l’amore e siamo venuti assieme. Credo che ciò sia accaduto proprio perché lei non
pretendeva nulla da me e nemmeno io pretendevo nulla da me.
Le persone possono esprimere il loro potenziale,
provare piacere e realizzare intimità oppure limitare la loro sessualità per
non accettare alcuni aspetti dolorosi (attuali o/e “antichi”) della loro vita. Per questo motivo
trovo poco sensato considerare come sessuali o alimentari o lavorativi certi sintomi: tale concezione presuppone che le persone normalmente stiano bene e che
se non stanno bene siano “affette” da una patologia che riguarda una particolare area della loro vita. Il lavoro analitico non
serve a produrre diagnosi e terapie, ma a produrre curiosità, domande, risposte
e a facilitare cambiamenti quando le persone desiderano realmente cambiare il loro modo di vivere.