Le concezioni otto-novecentesche della sessualità,
anche se ritenute innovative o addirittura rivoluzionarie, non hanno modificato
in profondità i tradizionali pregiudizi relativi alla femminilità e alla
virilità. La psicoanalisi e le varie concezioni psicoterapeutiche hanno
riproposto con lievi correzioni (molto fantasiose) le antiche contrapposizioni popolari e
speculative, mentre l’ideologia femminista ha trasformato la tradizionale
“complementarità” fra virilità repressa e femminilità repressa in una
conflittualità fra la stessa virilità
repressa e la stessa femminilità
repressa senza prospettare un recupero di potenzialità inespresse. Cambia poco per i bambini e le bambine, per gli/le
adolescenti e per le persone adulte se il loro timore di “cadere nel peccato”
viene rimpiazzato dal timore di manifestare patologie psichiche, o se il loro timore di non
essere “veri maschi” o “vere femmine” viene rimpiazzato dal timore di essere
maschi “maschilisti” o femmine “sottomesse”. Anche il marxismo e altre correnti
culturali hanno cercato di affermare qualche tipo di “emancipazione” della
donna (Zetkin, 1925) ma, come la psicoanalisi e il femminismo, hanno continuato ad esaminare
il rapporto fra donne e uomini senza mettere a fuoco la vera questione: lo
scarto fra le potenzialità maschili e femminili e la realizzazione
di tali potenzialità. Poiché la cultura repressiva colpisce attraverso la
famiglia, anche se con sfumature diverse, sia i bambini che le bambine, ogni contrapposizione
(conservatrice o “emancipativa”) fra i generi soffoca la consapevolezza del
fatto che maschi e femmine subiscono nei primi anni rifiuti e manipolazioni irrazionali e
distruttive. In questo senso, chi sceglie di porsi dalla parte delle donne o delle bambine, anche se ha “buone
intenzioni”, consolida (aggiornandola) la negazione della felicità che i due
generi possono costruire assieme. In
pratica, nel secolo scorso, nuove versioni dell’antica cultura
sessuo-repressiva si sono affiancate a quelle tradizionali creando un
superficiale scompiglio, ma senza modificare la “atavica” sessuonegatività che
affligge da sempre la specie umana.
In fondo, solo i gruppi più radicali femministi e
omosessuali, riconducibili alla concezione “queer”
della sessualità (che mette in discussione la concezione “binaria” sia
dell’identità maschile/femminile, sia dell’identità eterosessuale/omosessuale),
hanno cercato di azzerare tutti i
modelli sessuali affermando che se il sesso biologico è “dato”, il genere è una
costruzione culturale e soggettiva. Il termine “queer”, letteralmente significa, nella lingua inglese, “eccentrico”
o “insolito” e si presta quindi ad indicare una basilare indipendenza dagli
schemi culturalmente imposti. L’idea che le persone “possano essere ciò che
vogliono” per quanto riguarda il genere, è sicuramente liberatoria in un mondo
in cui proprio le persone più confuse hanno l’abitudine di spiegare agli altri
come dovrebbero vivere e cosa dovrebbero sentire. Tuttavia, tale idea
costituisce una reazione
“postmoderna” alle tradizioni e trascura la complessità dei fatti. La
concezione queer attacca alle radici
la svalutazione incistata nella cultura, ma non favorisce la comprensione del
fatto che all’interno di questa cultura, spesso, le persone vogliono ribellarsi
proprio per non esprimersi. Infatti, le ribellioni tendono a trascurare gli
aspetti dolorosi della realtà. L’idea (ragionevole) che tutte le persone siano
accettabili, rispettabili ed amabili indipendentemente dalle loro preferenze,
non esclude l’esigenza di capire quando le preferenze delle persone esprimono
le loro potenzialità o sono risposte provocatorie volte a disconoscere la
solitudine che si sperimenta nelle famiglie, nelle relazioni interpersonali e
nella società. La tolleranza incondizionata è positiva e indispensabile, ma non basta; produce
cambiamenti reali solo se è associata al desiderio di conoscere sia la realtà, sia
il dolore della realtà, sia le potenzialità delle persone.
Cercherò di chiarire alcune cose su due questioni collegate,
ma distinte. La prima riguarda il
rapporto fra sessualità e genere e, di conseguenza, la distinzione fra le
caratteristiche basilari della virilità e della femminilità e quelle veicolate
culturalmente nelle varie epoche dalle varie società. La seconda riguarda le ragioni per cui, normalmente, le
caratteristiche di genere vengono definite in
modi che comunque soffocano la basilare capacità umana di cercare e creare
piacere e intimità. Le
concezioni più comuni della femminilità e della virilità sono profondamente
inquinate dalle difese psicologiche. Alcune difese caratterizzano
indifferentemente le persone dei due sessi (come ad esempio, l’illusione di
poter meritare l’amore assumendo
particolari atteggiamenti), mentre altre caratterizzano prevalentemente i
maschi o le femmine (come ad esempio, la negazione o l’esaltazione della
dipendenza affettiva), anche se non esistono difese psicologiche specificamente
maschili o femminili. Tale variegata presenza di atteggiamenti difensivi
risulta molto disturbante nelle relazioni di coppia e più in generale nei
rapporti fra i due generi.
La fondamentale
eguaglianza psicologica fra i maschi e le femmine, che sono comunque persone,
anche se con alcune caratteristiche distintive, è un fatto, e lo è da sempre. Non è un obiettivo da raggiungere,
come lo è, invece, una reale eguaglianza sul piano della collocazione degli
uomini e delle donne nella realtà sociale. Anche se ci fossero significative
differenze fra le due “metà del mondo”, esse non giustificherebbero alcuna
prevaricazione, ma tali differenze non sono affatto rilevanti e, con lo
sviluppo della civiltà (e quindi con la progressiva perdita di importanza della
forza fisica per la sopravvivenza), sono diventate davvero trascurabili.
Quindi, in una realtà umana inevitabilmente colpita dal dolore della morte e
delle tante mancanze e perdite, il rapporto fra uomini e donne potrebbe essere
l’oasi, la “zona franca”, l’ambito dell’intimità e della condivisione della
gioia e del dolore fra persone diverse ma complementari. Purtroppo, proprio all’interno
delle relazioni sessuali, le persone tendono ad attivare al massimo le loro
difese psicologiche. Da qui la normale “povertà” o distruttività delle
relazioni di coppia e le normali concezioni non realistiche della virilità e
della femminilità.
Le uniche differenze
significative fra i due sessi sono quelle anatomiche e quelle che dipendono
dalle (poche) specificità nel funzionamento neurobiologico. Varie ricerche
hanno evidenziato (cfr. Churchland, 2011, cap. 4) differenze (soprattutto
ormonali) fra i due generi che rendono sensata l’idea che le donne tendano ad
essere meno “aggressive” degli uomini. Ovviamente il fatto che solo le donne
possano avere una gravidanza e allattare i figli ha reso “vantaggiosa” per la
specie la selezione di tali caratteristiche. Tuttavia, vanno tenute presenti
anche le differenze individuali e le influenze culturali che possono accrescere
o ridurre notevolmente l’influenza di queste reali particolarità nelle
relazioni interpersonali. Se tali dati di fatto non rendono ragionevole l’accettazione
dei modelli culturalmente veicolati della virilità e della femminilità, non
rendono ragionevole nemmeno l’idea che le persone possano “scegliere” la loro
identità di genere, così come scelgono le loro concezioni politiche. La base
genetica di alcune circoscritte specificità psicologiche maschili e femminili è
un dato di fatto e chiunque abbia un po’ di familiarità con gli animali riesce
a distinguere gli esemplari maschili da quelli femminili anche senza andare a
controllare i loro organi genitali. Se quindi è opportuno e necessario mettere
in discussione stereotipi e conformismi inutili e dannosi, non ci sono ragioni
per ridurre l’identità di genere ad una mera convenzione sociale, dato che solo
entro certi limiti essa è “convenzionale”. Non a caso è molto più facile (con
un impeccabile travestimento) sembrare fisicamente dell’altro sesso, se si sta
fermi e zitti, di quanto lo sia dare quest’impressione comunicando liberamente:
le persone che “recitano” l’appartenenza all’altro sesso non
risultano femminili o maschili, ma semplicemente ambigue.
Il rapporto fra i due
sessi, è stato complicato storicamente non solo da stereotipi relativi all’idea
della virilità e della femminilità, ma anche da varie discriminazioni sul piano
relazionale e sociale. Gli uomini sono stati realmente schiacciati dalla
pressione costante di responsabilità, obblighi e proibizioni e le donne sono
state realmente oppresse dalla negazione di diritti (e anche di doveri)
socialmente riservati agli uomini. Ovviamente non c’è mai stata alcuna
giustificazione razionale per l’idea della “debolezza” femminile o per
l’esclusione delle donne dalla vita politica e da tante attività “maschili” e
non è mai stata giustificata razionalmente l’idea che gli uomini non potessero
mai aver bisogno d’affetto o provare paura o piangere, o non aver voglia di
morire per “la patria”. In una società già lacerata dall’iniqua distribuzione
delle ricchezze fra classi e popoli, le ulteriori discriminazioni economiche
fra il lavoro maschile e quello femminile sono semplicemente assurde. Ciò che
però va sottolineato è che le tante disparità e le feroci manifestazioni di
intolleranza che hanno caratterizzato la “tradizionale” contrapposizione fra
maschi e femmine colpiscono da sempre
entrambi i generi e hanno una radice
comune costituita dalla negazione del dolore e dalla repressione della
sessualità e dell’intimità. Tale disastro limita, fin dagli albori
dell’umanità, l’espressione delle potenzialità maschili e femminili in tutti
gli ambiti e un’analisi rigorosa di tale realtà deve cogliere la complessità
del rapporto fra i due sessi.
In questa chiave di lettura
è errato, ma soprattutto dannoso (per le donne) considerare le donne come
vittime di una prepotenza maschile perché la repressione sessuale colpisce
entrambi i sessi e una reale emancipazione non è nemmeno pensabile se intesa
come semplice reazione alla prevaricazione dell’altro sesso. E’ proprio Margaret Mead a
ricordarci questo fatto normalmente trascurato dalle donne che aspirano ad una
emancipazione femminile sganciata da un impegno di entrambi i generi per una comune emancipazione sessuale: “Tutte le
discussioni sullo stato delle donne, sul carattere e il temperamento delle
donne, sulla sottomissione o l’emancipazione delle donne, fanno perdere di
vista il fatto fondamentale, e cioè che le parti dei due sessi sono concepite
secondo la trama culturale che sta alla base dei rapporti umani e che il
fanciullo che cresce è modellato, altrettanto inesorabilmente come la
fanciulla, secondo un canone particolare e ben definito” (Mead, 1935, pp.
22-23).
Le difese psicologiche
bloccano la consapevolezza del dolore attivando processi legati all’ansia e
alla rabbia, ma sono molti i modi in cui l’ansia e la rabbia possono trovare
espressione nel contesto culturale. La rabbia, ad esempio, può essere
manifestata con urla, movimenti minacciosi, insulti e varie forme di aggressione
fisica, ma anche con finta sottomissione, vittimismo, ricatti affettivi,
sentimenti di rancore e di vendetta. In altre parole, la neurobiologia è di
aiuto nella comprensione delle reali specificità maschili e femminili, ma,
anche se spiega la maggior aggressività (nel senso di “propensione
all’attivazione”) dei maschi, non dimostra che gli uomini siano o debbano
essere più crudeli delle donne. Sia i bambini che le bambine possono attivare
difese molto distruttive, pur rivelando una maggior propensione per la
manifestazione “chiassosa” o “subdola” di tali difese. Infatti, varie ricerche
sulla distruttività femminile scombinano radicalmente, sulla base di dati
incontestabili, il pregiudizio secondo cui le donne sarebbero meno violente
degli uomini (cfr. Salerno – Giuliano, 2012, Pellizzari 2009, Vantaggiato,
2009).
Ho già fatto alcune
considerazioni su quella “catastrofe” che ha reso praticamente inevitabile
nella specie umana la costruzione di difese psicologiche che non si presentano
nelle altre specie animali. Luigi Pagliarani ha evidenziato “come il processo
che porta all’avvento dell’homo sapiens sia dovuto alla
convergenza ed all’interazione del bipedismo, dell’uso degli utensili e della
nascita prematura, da cui ha origine il sociale (con a fondamento l’accresciuta
responsabilità materna a causa del lento
sviluppo dei piccoli e la combinazione dell’impegno materno con i compiti
del maschio adulto)” (Introduzione al
volume di G. Lapassade, 1963, p. 7). Siamo più intelligenti, efficienti,
empatici, socievoli, sensibili degli altri animali, ma anche più irrazionali,
perché non otteniamo l’accudimento di cui abbiamo bisogno.
La basilare eguaglianza
fra le potenzialità espressive dei due generi riguarda tutti gli aspetti della dimensione sessuale ed emozionale.
Riguarda il desiderio sessuale, intenso e costante, l’aggressività sessuale
(intesa come capacità di “andare verso”, avvicinare, provocare sessualmente),
la tenerezza nell’espressione della sessualità, la capacità di raggiungere un
completo appagamento sessuale, la capacità di creare intimità sessuale,
amicale, famigliare, la curiosità intellettuale, la determinazione nel
raggiungimento degli obiettivi scelti, l’indifferenza nei confronti delle
competizioni non necessarie, l’avversione per i conflitti non inevitabili, la
capacità di lottare e il riconoscimento del dolore dovuto al fatto di dover (a
volte) lottare, la capacità di esprimere, contemplare e creare la bellezza, la
capacità di elaborare il dolore, di costruire un’esistenza per quanto possibile
felice e di contribuire alla felicità delle persone care ed al miglioramento
della convivenza sociale. A tali capacità, sostanzialmente identiche nei due
sessi si deve purtroppo aggiungere la capacità (ben sviluppata in entrambi i sessi)
di attivare difese psicologiche irrazionali e distruttive e quindi di non
capire, non sentire, non provare empatia e di agire con indifferenza o
crudeltà.
Per comprendere le
caratteristiche fondamentali dei leoni non dobbiamo studiare quelli nati e
cresciuti in uno zoo oppure in un circo, ma quelli cresciuti fra i leoni;
quindi, per capire la sessualità umana e le differenze di genere non possiamo
basarci sui questionari o sulle interviste fatte a persone cresciute in una
società normalmente devastata dall’irrazionalità. Per questo motivo dobbiamo
far tesoro delle ricerche meno viziate dalle ideologie. Soprattutto possiamo
cercare lumi nelle “situazioni anomale”: quelle educative in cui lo sviluppo
emozionale e sessuale dei bambini non viene
compromesso da genitori ed educatori insensibili e distruttivi e quelle
analitiche in cui le potenzialità personali “riaffiorano” in seguito ad un
lavoro “in negativo”, focalizzato sullo smantellamento delle difese
psicologiche. Il materiale è poco, ma è prezioso e consente di elencare vari
aspetti che, indipendentemente dall’appartenenza al genere maschile o
femminile, accomunano le persone che hanno un buon contatto emotivo e
funzionano psicologicamente su un piano razionale anziché su un piano
difensivo.
Le ricerche
antropologiche e le esperienze pedagogiche a cui ho già fatto riferimento
parlando dell’espressione delle potenzialità personali sono illuminanti anche
per la comprensione del fatto che maschi e femmine sono davvero simili nella
ricerca del piacere sessuale e nella realizzazione dell’intimità. Il lavoro
analitico conferma tale realtà, perché quando riscontro dei cambiamenti
profondi, noto che i maschi e le femmine si esprimono in modi più liberi e soprattutto molto
simili. Ho sentito da una cliente una frase “normalmente adatta ai maschi”:
“Non ne posso più di fare sesso da sola; mi serve ad allentare la tensione, ma
non è uno sballo come fare l’amore. Già una bella scopata sarebbe qualcosa, ma
gli uomini … insomma ti fanno anche passare la voglia quando cominciano a
recitare la parte. Però non mi scoraggio e continuo a cercare”. Ho anche
sentito da un cliente una frase “normalmente adatta alle femmine”: “Ho
finalmente spiegato a mia moglie che se a lei va bene così, a me non va bene.
Lei non si nega a letto, ma non mi cerca nella quotidianità. Non si può fare
sesso la sera se di giorno si parla solo di cose pratiche e se non c’è una
reale vicinanza. Lei fa le cose a modo suo e non sente il piacere di farle con
me. Però non so che farmene di una bella cenetta se non abbiamo nulla da dirci.
La mia fiducia sta calando ed anche il mio desiderio sessuale”. Le persone che
fanno affermazioni di questo tipo sono femmine e maschi che hanno semplicemente
ricostruito un buon dialogo interno, riescono a piangere e a far sesso con
piacere. Mostrano una femminilità e una virilità che è “roba loro” da sempre e
che non hanno dovuto “apprendere”. Si impegnano al massimo per migliorare una
relazione e arrivano a godere i frutti del loro sforzo oppure ad allontanarsi
senza recriminazioni. Soprattutto non sanno che farsene di un ruolo di genere
socialmente “accreditato” che non corrisponde alla loro emotività e non sanno
che farsene nemmeno dell’idea vittimistica di una “oppressione” attuata
dall’altro sesso.
Data questa basilare eguaglianza nella psicologia e
nelle competenze relazionali, conta poco, nella sfera dei rapporti
individuo-società, la presenza di organi sessuali maschili o femminili, o di
qualche differenza nella struttura fisica e negli equilibri ormonali. Ha invece
un “peso” reale il fatto che solo le
donne possano accogliere nell’utero degli esseri umani in formazione e che
solo le donne possano allattare e accudire appropriatamente per il primo anno i
neonati. Ciò rende le femmine particolarmente vulnerabili e particolarmente
“potenti”, per lo meno quando hanno dei figli piccoli da accudire: l’esercizio
del ruolo materno riduce temporaneamente la capacità di fare molte cose, mentre
consente l’espressione di capacità inimmaginabili per i maschi. Tale diversità,
però, non rende le donne in alcun modo superiori o inferiori, migliori o
peggiori rispetto agli uomini. Inoltre non crea necessariamente alcuna
contrapposizione di genere, perché, anzi, produce l’esigenza di una
strettissima collaborazione e armonia fra maschi e femmine, soprattutto nel
periodo della gravidanza e dell’allattamento.
L’idea che solo la
madre possa dispensare affetto ai figli e che solo il padre possa e debba
“educarli” è ingiustificata, dato che i maschi hanno, come le femmine, la
capacità di essere affettuosi con i figli e dato che i figli non hanno affatto
bisogno di essere “educati” (cfr. Neill, 1960). Ora, se la collaborazione fra
madri e padri era relativamente semplice nelle comunità primitive, risulta più
articolata, ma non meno importante, nelle società “progredite”. In tali
società, molto “frammentate”, sarebbero indispensabili delle tutele sociali
“forti”, ben diverse da quelle attualmente previste: alle madri non serve la
libertà di abbandonare i figli di
pochi mesi in un asilo pubblico, ma servirebbe una solida sicurezza economica
nel periodo in cui devono dedicarsi (più dei partner) all’accudimento dei
neonati. Anche i padri avrebbero bisogno di poter “sostenere” adeguatamente le
loro compagne impegnate nella maternità, senza con ciò rischiare la perdita del
lavoro.
In pratica, buone leggi
(che nessuno cerca di far approvare) potrebbero compensare alcune conseguenze
delle differenze ineliminabili fra i
due sessi e della frammentazione sociale. Consentirebbero alle donne e agli uomini di tornare alle loro attività lavorative senza alcuna penalizzazione, dopo aver dedicato tempo, attenzione ed energia ai
figli piccoli. Se la società si facesse carico delle esigenze delle madri, dei
loro compagni e dei bambini, non
dovrebbe in seguito farsi carico di tutte le (gravissime) conseguenze (anche
sociali) di uno sviluppo psicologico infantile normalmente caratterizzato da
vissuti di abbandono. Se tali premesse sono sensate, le differenze di genere
legate ai ruoli genitoriali diversi determinano differenze sociali inique fra maschi e femmine nella
società solo perché la società non dà
alcuna importanza ai bisogni dei bambini. La normale trascuratezza per
questa situazione non dipende dalla mancanza di informazioni e conoscenze, ma
dall’irrazionalità sociale a cui, purtroppo, contribuiscono maschi e femmine,
giovani e anziani e persino ricchi e poveri. E a cui contribuisce il silenzio
di psicologi e psicoterapeuti.
Al di là di ciò che la
società potrebbe fare e non fa per favorire l’ingresso dei cuccioli umani nella
comunità umana, occorre tener presente che le basilari differenze di genere non
giustificano alcuna discriminazione sociale e non giustificano razionalmente né
le differenze di trattamento economico nel mondo del lavoro fra donne e uomini,
né i ruoli sessuali stereotipati che sono comunemente accettati. Tuttavia, tali
incubi sociali hanno radici lontane, non dipendenti da immaginarie
contrapposizioni “essenziali” fra maschi e femmine, ma da un complessivo
contesto culturale in cui la sessualità e l’intimità sono da sempre svalutate e
in cui le difese psicologiche individuali sono così diffuse da rendere
“inevitabili” quelle forme di avidità, competizione, vittimismo, indifferenza e
crudeltà che rendono tutte le persone
emotivamente “povere”, intellettualmente ottuse (anche se ben formate
culturalmente) e incapaci di stabilire rapporti interpersonali costruttivi.
L’idea che le donne
siano soprattutto alla ricerca della “comunicazione” e della tenerezza e che
gli uomini siano “cacciatori e guerrieri” è una sciocchezza, anche se,
purtroppo, corrisponde alla normale confusione che caratterizza la nostra
società e anche società molto diverse dalla nostra. Se guardiamo i bambini,
notiamo che i maschi, come le femmine, manifestano un grande bisogno di
tenerezza e notiamo pure che maschi e femmine cercano attivamente il contatto
fisico e la complicità nel gioco; sono simili perché sono prima di tutto
persone e quindi, in quanto persone in formazione, sono tenere e aggressive. Se
non possono crescere esprimendo le loro potenzialità, devono “perdere dei
pezzi” e perdono anche dei “pezzi” riguardanti
l’identità di genere e le loro capacità sessuali. Solo una maggior apertura
mentale ed emozionale dei genitori può consentire ai bambini ed alle bambine di
crescere senza percorrere un binario prestabilito da una società irrazionale.
Per questo motivo, chi capisce in profondità l’importanza dello sviluppo
psicosessuale infantile non interviene in modi banali (ad esempio vietando ai
bambini le pistole ad acqua o alle bambine le bambole), ma mostrando ruoli
genitoriali non schematici e garantendo dialogo, ascolto e guida ai figli.
Maschi e femmine sono
egualmente capaci di procurarsi piacere con la masturbazione e,
preferibilmente, di cercare partner appaganti. Nel sesso sono responsabili del
raggiungimento del proprio orgasmo e in questo modo risultano eccitanti per il/la partner. Maschi
e femmine giocano al dottore da bambini, si mettono alla prova
nell’adolescenza, cercano di ottenere ciò che vogliono nella gioventù e sono in
grado di stabilizzare una vita sessuale intensa fino alla vecchiaia. Quando,
invece, nelle coppie la madre è “persa” nel suo ruolo di “generatrice di vita”
ed il padre “si smarrisce” in una confusa “identità sociale”, la relazione non
funziona. In tali casi, però, il disfunzionamento non dipende dalle
caratteristiche di genere o dall’eventuale presenza della prole, ma dal fatto
che fin dall’inizio la relazione era stata superficiale sul piano affettivo e sullo stesso piano
sessuale. La sessualità è superficiale quando è sperimentata all’interno di
relazioni emotivamente povere o ambivalenti o distruttive, perché in tali casi
è espressa a scopi difensivi e non è finalizzata alla ricerca del piacere e
dell’intimità. Le caratteristiche normalmente ritenute “specificamente”
femminili e maschili sono un miscuglio che include piccole dosi di
genetica e dosi massicce di paura difensiva e di rabbia difensiva. Le varie società, nelle
varie epoche e nei vari paesi, hanno razionalizzato culturalmente in modi
diversi questa miscela esplosiva che deriva dai disastri emozionali normalmente
subiti dai bambini e dalle bambine nei primi anni di vita. Voglio riportare due
descrizioni, crude e toccanti, dei lati peggiori della “normale” virilità e
della “normale” femminilità. Due delle tante, dato che in genere la letteratura
descrive la realtà (difensiva) della normale follia più che le qualità profonde
delle persone.
“Nei riguardi di una
ragazza del luogo, Molly, provai un eccezionale sentimento di confidenza che,
negli esseri paurosi, tiene il posto dell’amore. (…) Avevo persin vergogna di
tutta la pena che si dava per conservarmi per lei. L’amavo, certo, ma mi
piaceva di più ancora il mio vizio, quella voglia di fuggirmene da qualunque
posto, alla ricerca di non so che, per uno stupido orgoglio senza dubbio, per
convinzione d’una specie di superiorità. (…) Quel che si svolgeva nell’intimo
le bastava, nel suo cuore. Ci si abbracciava. Ma non l’abbracciavo bene io,
come avrei dovuto, in ginocchio davvero. Pensavo sempre un po’ ad altro, a non
perdere tempo e tenerezza, come se volessi conservare tutto per un non so che
di magnifico, di sublime, per più tardi, ma non per Molly, e non per quello”
(Céline, 1932, pp. 240-244).
“E mise al mondo molti
figli perché, col passare del tempo, non si oppose più al marito, né con le
parole né con le azioni. In apparenza, non gli badò più, gli si era sottomessa
lasciando che prendesse di lei quel che voleva e ne facesse quel che gli
aggradava. Era proprio come uno sparviero che si rassegna alla cattività, colmo
di disprezzo. I rapporti tra lei e il marito erano muti e volutamente ignorati,
ma profondi, terribili rapporti di totale distruzione reciproca ed egli, che
nel mondo trionfava, veniva via via svuotandosi della sua vitalità, che
sembrava fluire da lui come un’emorragia” (Lawrence, 1920, p. 173).
Maschi e femmine spesso
si mostrano in questi modi, magari con meno asprezza (o anche con più
crudeltà), ma possiamo essere certi che i maschi e le femmine sono “altro”.
Sono di più. Sono più di quanto osano ammettere, sono più di ciò che esprimono
e sono più di ciò che rivendicano. Ci sono donne e uomini capaci di lasciarsi
andare al piacere sessuale senza riserve e con tenerezza. Ci sono donne più
“forti” di tanti uomini (non per mania di competizione, ma per determinazione
positiva) e ci sono uomini capaci di essere più teneri e sensibili di tante
donne (non perché “tormentati”, ma perché liberi di gioire, di piangere e di
fregarsene dei ruoli sociali). La vera alternativa alla femminilità
tradizionale non è l’acquisizione di una “durezza” tradizionalmente “maschile”
e la vera alternativa alla virilità tradizionale non è il “pentimento” teso
all’ottenimento di un “perdono”. L’alternativa consiste proprio nella libertà
di trovare modi
comuni ai due generi di essere persone, sia accettando e valorizzando le
differenze realmente esistenti, sia esprimendo le potenzialità personali comuni
ai due generi. L’alternativa consiste nella ricerca del piacere sessuale e
dell’intimità, perché proprio tale
ricerca esclude qualsiasi interesse per i “tipici” ruoli sessuali che
dipendono da difese infantili. Anche nei classici testi del femminismo è
presente l’idea che i tradizionali ruoli sessuali non siano svantaggiosi solo
per le donne, ma per tutti. Elena Gianini Belotti ha scritto: “Che cosa può trarre di positivo un maschio dalla
arrogante presunzione di appartenere a una casta superiore soltanto perché è
nato maschio? La sua è una mutilazione altrettanto catastrofica di quella della
bambina persuasa della sua inferiorità” (1973, p. 9). Ovviamente, se questo è vero, è sensato stare dalla parte dei bambini e delle bambine e non solo
“dalla parte delle bambine”. Anche Carla Ravaioli ha centrato il nocciolo della
questione ponendo una domanda che è già un’affermazione: “… chi ci assicura che
la condizione di preminenza storicamente assegnata al maschio debba
necessariamente riuscire congeniale a tutti i maschi?” (1973, p. 9). Purtroppo il femminismo si è definito
soprattutto come l’ultima (e più pericolosa) manifestazione della cultura
sessuonegativa. La sua peculiarità sta nel fatto che conferma la “storica” negazione
del piacere sessuale e dell’intimità proprio prospettando un’emancipazione
sociale e psicologica dagli schemi repressivi tradizionali.
L’equivoco basilare
dell’ideologia femminista si riduce all’analogia stabilita fra i conflitti di
classe e i conflitti fra maschi e femmine. Le disparità di classe rientrano in
un grande gioco a somma zero: la ricchezza di chi ha di più dipende dalla
povertà di chi ha di meno. Ciò però non vale nei rapporti fra generi: gli
uomini non sono più felici delle donne e non sottraggono alle donne
soddisfazioni, libertà e successi in modo da goderne al loro posto. Ogni
discriminazione svantaggiosa per le donne costituisce un incubo sia per le
donne che per gli uomini, perché rafforza il ruolo maschile che è, appunto,
l’incubo degli uomini. In pratica, mentre la rivoluzione socialista (che non si
è mai realizzata) avrebbe ridistribuito fra le classi sociali la ricchezza
complessiva, un’ipotetica redistribuzione delle umiliazioni e dei “privilegi”
fra i due generi non cambierebbe nulla, perché gli uomini non hanno mai goduto
di una felicità “sottratta” alle donne, ma sono sempre stati infelici come le
donne, anche se in altri modi. La “superiorità” maschile ha massacrato
psicologicamente gli uomini e le donne così come la “inferiorità” femminile ha
massacrato psicologicamente le donne e gli uomini.
L’ideologia femminista
ha espresso la denuncia (razionale) delle discriminazioni sessiste (o almeno di
quelle svantaggiose per le donne) e ha sostenuto tante lotte pubbliche e
private finalizzate all’affermazione di vari diritti delle donne. Partendo da
premesse razionali ha però impedito
l’avvio di una trasformazione profonda della (falsa/difensiva) normale identità
femminile e della (falsa/difensiva) normale identità maschile. Infatti, ha
consolidato (in termini aggiornati) la “antica” rabbia vittimistica
“tipicamente femminile” e ha favorito il consolidamento (in termini aggiornati)
della protettività maschile. Se ci si riflette bene, la donna tradizionale,
asessuata, “persa” nel ruolo di madre che si lamenta con rassegnazione del
marito “insensibile” e delle sue “pretese”, assomiglia molto alla donna
moderna, asessuata, “persa” nel ruolo di persona libera ed emancipata che si
oppone agli uomini insensibili e pieni di pretese. Anche l’uomo tradizionale,
rassegnato ad “accontentarsi” sul piano sessuale, ma orgoglioso di avere un
“dignitoso” ruolo sociale (in un’azienda florida o nell’associazione bocciofila
del quartiere) che si lamenta della moglie sempre scontenta pur
“proteggendola”, assomiglia molto all’uomo moderno, rassegnato ad
“accontentarsi” sul piano sessuale, ma orgoglioso di essere superiore agli
uomini “maschilisti” e capace di “capire” le sofferenze delle donne (solo
quelle delle donne) e quindi di “proteggerle” da tutte le scorie di un oscuro
passato.
Solo superficialmente
il femminismo può essere considerato dai “progressisti” un contributo
all’emancipazione femminile e dai “reazionari” una minaccia per i “valori
tradizionali”. In profondità, purtroppo, il femminismo costituisce un pietra
tombale che schiaccia le già scarse aspirazioni all’espressione delle
potenzialità espressive femminili e maschili. L’apertura al mondo maschile prospettata
anni fa da Juliet Mitchell si riduce ad una
proposta di complicità in una versione aggiornata della repressione sessuale
che da sempre colpisce bambini, bambine, uomini e donne: “anche gli uomini (pur
con difficoltà) possono rinunciare ai loro privilegi patriarcali e diventare
femministi" (1974, p. 415). Tale “apertura”, purtroppo, ha trovato consensi e
attualmente, dopo mezzo secolo, i rapporti fra maschi e femmine sono rimasti disastrosi,
ma ai maschi ed alle femmine “inconsapevoli” si è aggiunta una nutrita schiera
di maschi e femmine che si ritengono “consapevoli” di tante cose pur restando
incapaci di attuare profondi cambiamenti interiori. Il nocciolo di questa finta
“rivoluzione” è infatti profondamente reazionario e sessista, perché disconosce
la responsabilità delle donne nella storica realizzazione di una società
repressiva. Il femminismo tratta, in fondo, le donne come “incapaci”, come
vittime e quindi come irresponsabili e prospetta una loro emancipazione da una
sottomissione subita per la loro “debolezza”. In tal modo ostacola la
consapevolezza del fatto che la tradizionale “sottomissione” femminile è stata
(inconsciamente) scelta dalle donne,
come la tradizionale “prepotenza” maschile è stata (inconsciamente) scelta dagli uomini, perché ha espresso
una dissociazione infantile dal dolore, una rinuncia al piacere e un’illusoria
ricerca del potere. Tradizionalmente gli uomini si sono presi il potere di
controllare e devastare ciò che potevano nell’ambito extra-famigliare, mentre
le donne si sono prese il potere di controllare e devastare ciò che potevano
nell’ambito famigliare. Le donne non sono vittime degli uomini, semplicemente
perché, come loro, nell’infanzia sono
state realmente vittime della famiglia in cui crescevano (e soprattutto delle
loro madri). Maschi e femmine hanno sviluppato strategie difensive diverse, ma
egualmente distruttive e hanno, quindi, l’esigenza di affrancarsi dalla propria distruttività e dalla propria paura del piacere e
dell’intimità. Proprio sollecitando le donne ad affrancarsi dall’autoritarismo
maschile, il femminismo impedisce alle donne di affrancarsi dall’autoritarismo
femminile.
Il tipico maschio
autoritario svaluta le donne trattandole come oggetti “deboli” da controllare,
ma anche il tipico maschio protettivo svaluta le donne trattandole come bambine
da accudire. Il tipico “seduttore” svaluta le donne trattandole come “oggetti
di piacere”, ma anche il tipico “padre di famiglia” svaluta la moglie
trattandola come “regina” della casa (ovvero come cuoca e bambinaia). La lista
si potrebbe allungare, ma non c’è alcuna caratteristica “tipicamente maschile”
che non si accompagni ad una svalutazione delle donne e anche l’uomo femminista
tratta le donne come vittime irresponsabili da tutelare e non come persone responsabili.
Se passiamo all’altra metà del mondo, la tipica donna “remissiva” svaluta gli
uomini sentendosi oppressa da un mostro e la tipica donna “bisognosa di un
appoggio” svaluta l’uomo trattandolo come un genitore o un infermiere. La
tipica donna “sensuale”, seduttiva, provocante (e sessualmente insensibile)
svaluta gli uomini trattandoli come oggetti che devono “ammirarla” e la tipica
madre-chioccia svaluta il marito trattandolo come capo della famiglia, ma
respingendolo come amante. La tipica femmina alla ricerca perenne del principe
azzurro svaluta i reali uomini che incontra trattandoli sempre come copie
sbiadite del principe. La lista si potrebbe allungare, ma non c’è alcuna
caratteristica “tipicamente femminile” che non si accompagni ad una svalutazione
degli uomini. In questo senso il femminismo non ha fatto altro che fornire un
abbellimento intellettuale alle tradizionali forme del vittimismo femminile.
Per questo motivo, tra
chi sostiene che gli uomini devono “affermarsi” e che le donne devono “stare al
loro posto” e chi afferma che gli uomini devono rinunciare ai “privilegi” e che
le donne devono “liberarsi” dal potere maschile, la differenza è irrilevante.
Donne e uomini hanno bisogno di avvicinarsi e non di combattersi. La
distruttività “tipicamente” maschile, non può essere sconfitta dalla
distruttività vittimistica “tipicamente” femminile (e femminista), perché le
due forme “storiche” di distruttività difensiva possono essere superate solo da
una consapevolezza delle loro radici comuni. Uomini e donne o si liberano assieme dalle proprie paure o non si liberano affatto. Il guaio di tutte le
teorie emancipative-rivoluzionarie-progressiste sta nel fatto che si
focalizzano su pochi dettagli che catturano l’attenzione e l’entusiasmo delle
“masse” e in tal modo ostacolano il riconoscimento dei problemi fondamentali
che non hanno soluzioni facili. La tendenza a cambiare tutto per non cambiare
nulla è molto radicata e, per questo motivo, solo le persone possono realmente
cambiare (a fatica), mentre le società restano quelle di sempre, proprio
ammantandosi di nuovi “valori” o “ideali”. Il paradosso del femminismo consiste
nell’utilizzazione di strumenti analitici razionali per il mantenimento
“aggiornato” delle stesse tensioni irrazionali fra i due sessi. Il femminismo ha danneggiato e danneggia soprattutto le
donne, favorendo con strumenti concettuali nuovi il mantenimento della loro
“atavica” opposizione ai maschi, al piacere e all’intimità. Il femminismo è le
“terapia” che ammazza il paziente per curare la sua malattia.
Mi rendo conto di fare
affermazioni insolite, ma in molti casi
proprio le concezioni più diffuse sono state anche le più folli. Negli anni
della Repubblica di Weimar, la Germania era ad un passo da una rivoluzione
socialista che, avrebbe avuto come obiettivo il cambiamento della reale,
oggettiva e terribile condizione della classe operaia. La lotta sui problemi
reali era intensa e il suo esito era incerto, ma ad un certo punto le destre
prevalsero (con il consenso delle “masse popolari”) proprio agitando il
vessillo dell’orgoglio nazionalistico (“umiliato” dagli altri Stati dopo la
prima grande guerra) e dello “spirito ariano” minacciato dalla “razza ebraica”.
Due totali stupidaggini senza alcun senso catturarono l’attenzione di persone appartenenti
a tutti gli strati sociali e culturali e divennero a livello psicologico la
forza motrice che frantumò la consapevolezza della realtà. George L. Mosse ha
concluso la sua importante ricerca su quel periodo con queste parole: “Questo
libro si occupa di un passato che per la maggior parte degli uomini sembrò
concluso con la seconda guerra mondiale. In realtà è invece ancora storia di
oggi” (1974, p. 244). Il bisogno diffuso
di contrapporre l’idea di “noi” all’idea degli “altri”, di collegare la vita
quotidiana a liturgie collettive, di annullare le sensazioni di precarietà e
vulnerabilità grazie a fantasie di controllo e di appartenenza continua ad
alimentare ideologie molto diverse e fra loro incompatibili, ma tali da
affascinare gli adulti terrorizzati dagli incubi mai superati nell’infanzia. L’idea
di una liberazione delle donne dal potere maschile realizzata grazie ad una
“autocoscienza femminista” è irrazionale proprio perché distoglie dalla reale
esigenza delle donne e degli uomini
di liberarsi dalle proprie illusioni
e di costruire relazioni appaganti, intime e realmente libere.
Un esempio può essere
rivelativo del terreno da dissodare per una liberazione comune a maschi-persone
e a femmine-persone. Varie ricerche sul bullismo hanno mostrato che questo
fenomeno non è solamente maschile, anche se fra le femmine ha connotazioni
spesso diverse. Ma ciò che voglio sottolineare è proprio la diversa percezione
nei maschi e nelle femmine del fenomeno e la tendenza a reagire in modi diversi
(cfr. Elena Buccoliero, in Salerno-Giuliano, 2012, pp. 139-141). Ragazzi e
ragazze intervengono in percentuali simili a favore delle vittime del bullismo,
ma quando non intervengono i ragazzi affermano di “farsi i fatti propri”,
mentre molte ragazze ammettono di aver paura. In altri termini, i ragazzi non
ammettono la paura mentre le ragazze si sentono libere di farlo. Inoltre, sia i
ragazzi, sia le ragazze si commuovono molto facilmente di fronte ad un animale
ferito, mentre le ragazze entrano in risonanza con persone tristi o sole più
dei ragazzi. Ora, questi elementi (e molti altri riportati nel volume appena
menzionato) indicano in termini davvero convincenti che le principali
differenze attribuite ai due generi hanno ben poco di “naturale’. La comune
compassione per gli animali evidenzia identiche competenze emozionali e le
altre differenze rinviano a pressioni educative e a chiusure psicologiche. Le
esperienze famigliari normalmente devastanti attivano rabbia difensiva diffusa
(nei maschi e nelle femmine) e in alcuni casi anche atteggiamenti
classificabili come bullismo. Il fatto che la crudeltà verbale sia più “facile”
per le femmine che tra i maschi e che la violenza fisica abbia più spazio fra i
maschi, può essere dovuto alla “costituzione fisica”, così come il fatto che il
bullismo delle femmine colpisca quasi esclusivamente altre femmine. Tuttavia,
l’aspetto davvero importante della questione sta nel fatto che sia i maschi,
sia le femmine, sono capaci di attivare atteggiamenti distruttivi in ambito
sociale quando subiscono maltrattamenti famigliari, allo scopo di non provare
smarrimento e impotenza.
Gli studiosi
definiscono da sempre l’aggressività (come pure l’amore, la tristezza e la
felicità) in vari modi e quindi, paradossalmente, anche in pubblicazioni autorevoli,
i concetti psicologici più importanti sono utilizzati con significati spesso
diversi o addirittura incompatibili. Le definizioni sono convenzionali e ciò
che conta è intendersi. Una distinzione che a mio parere è indispensabile
sottolineare è quella fra comportamenti attivi e finalizzati a scopi
costruttivi e comportamenti attivi e finalizzati a scopi distruttivi. Il fatto
che spesso l’aggressività sia intesa come sinonimo di violenza è un errore.
Anche l’etimologia della parola (adgredior sta per “procedere verso
qualcosa”) giustifica un’interpretazione ampia o “neutra” del termine. In
questo senso, l’aggressività maschile è una risorsa indispensabile, come pure
l’aggressività femminile. A mio parere è opportuno riservare al termine
“distruttività” il significato di “aggressività violenta”. La mitezza di Gandhi
era priva di distruttività, ma molto fattiva e quindi positivamente aggressiva.
La distruttività, invece, si spiega solo come difesa psicologica, a parte i
rari casi in cui la violenza viene attivata per proteggersi o per proteggere
qualcuno. La genuina aggressività, quindi, serve a sopravvivere e a vivere,
mentre la distruttività serve solo a vivere “poco” pur di non elaborare il
dolore. La distruttività sorge nell’infanzia come tutte le difese psicologiche
ed avvelena sia la vita delle persone distruttive (di genere maschile o
femminile), sia quella delle persone che vengono maltrattate.
Se
la basilare frustrazione “trasversale” colpisce tutti i bambini e tutte le
bambine, altre pressioni sociali colpiscono in modi diversi i maschi e le
femmine perché derivano da antiche letture semplificate della “natura umana
maschile e femminile”. Io credo che le stupidaggini “culturali” sui ruoli
sessuali si insinuino con tanta efficacia “nella testa” dei maschi e delle
femmine, fin dall’infanzia,
proprio perché trovano
il terreno fertile costituito da profonde sensazioni di svalutazione e da
consolidate tendenze difensive orientate alla ricerca del potere anziché del
piacere. Credo quindi che il radicamento dei pregiudizi relativi ai
generi ed alla sessualità sia così profondo perché, a differenza di altri
pregiudizi (più facilmente superabili e spesso superati), quelli relativi
all’identità di genere ed alla sessualità riguardano i rapporti emotivamente
più significativi. La distruttività non è un “privilegio” dei maschi e nemmeno
delle femmine, ma una “mostruosità democratica” che tutti esercitano. Dilagherà
finché non verrà smascherata
e compresa come difesa dal dolore. I maschi non hanno alcun vero bisogno di
esibire una distruttività chiassosa e le femmine non hanno alcun bisogno di
covare una distruttività silenziosa. I bisogni sono altri. Maschi e femmine
hanno bisogno di elaborare il lutto per ciò che non hanno avuto nell’infanzia e
non potranno più avere. Solo rinunciando al loro sogno infantile di un amore
protettivo e “rassicurante” o di un amore “meritato” o “conquistato” si
libereranno delle loro paure difensive e della loro distruttività e cercheranno l’amore possibile, quello
fra pari, quello per cui non si può combattere e per cui non si deve sopportare
nulla.
Solo la comprensione
della radice profonda delle difese psicologiche e delle loro particolari
espressioni “tipicamente” maschili e femminili può tradursi in una riflessione
critica razionale delle tante forme di distruttività che non solo i maschi, ma
anche le femmine, manifestano nella sfera della sessualità, nei rapporti fra i
due generi e nelle rigide espressioni delle identità di genere. Purtroppo, solo
le teorie semplicistiche, rivendicative, consolatorie hanno successo, dato che
rispondono al senso di frustrazione avvertito da tante persone senza
costringerle a confrontarsi con le loro paure e le loro responsabilità. Tale
mancato confronto reale si realizza grazie all’individuazione di un
confronto-scontro con gli “altri”, identificati come “colpevoli” in quanto
unici responsabili di una sofferenza che “non dovrebbe esserci”. Tale
scorciatoia mentale consente di colpire sempre il nemico, ma spesso colpisce
proprio il nemico che tale non è. Inoltre, conduce inevitabilmente alla
moltiplicazione indefinita dei nemici: le femministe hanno iniziato a
combattere i maschi, ma poi hanno dovuto contrapporsi anche alle donne che non
avevano molta voglia di mettere in discussione il piacere dell’intimità
sessuale con i maschi per diventare donne “autocoscienti”. La svalutazione
femminista è poi diventata più aspra nei confronti di quelle minoranze
femminili che, proprio per la loro marginalità erano più vulnerabili (e che
infatti erano e sono oggetto di svalutazioni moralistiche espresse da persone
religiose e da maschi tradizionalisti): le prostitute, le donne che lavorano
nell’ambito della pornografia e le persone transessuali. Le femministe più
“radicali” indicate con gli acronimi SWERF e TERF, ovvero “sex worker
escludenti” e “trans escludenti” (Sex Worker Exclusionary Radical Feminist
e Trans Exclusionary Radical Feminist) considerano le prostitute come
delle traditrici della “autentica” femminilità sottomesse al maschilismo e
considerano le persone transessuali come disturbanti per la “pura” identità
femminile. Queste idee grottesche, di fatto, trovano spazio in blog, libri e
studi accademici, a riprova del fatto che non c’è limite alla proliferazione di
forme sempre nuove di svalutazione, anche nei contesti culturali
originariamente caratterizzati proprio dall’analisi di alcune forme di
intolleranza e di discriminazione sociale. D’altra parte, se l’intolleranza non
è compresa come difesa psicologica, deve essere interpretata come “vizio
mentale”, come “colpa”, come realtà “eticamente inaccettabile” e può solo
essere “combattuta” in nome di “valori” opposti e quindi in modalità
intolleranti.
Le donne non riescono
più, grazie al femminismo a parlare come donne, ma solo come donne-vittime.
Tutte le ideologie vittimistiche mettono al centro dell’attenzione alcune
persone “privandole di soggettività, nonché di ogni diritto che non sia quello
al soccorso” (Giglioli, 2014, p. 19) e il femminismo ha devastato la
femminilità proprio capovolgendo meccanicamente la tradizionale concezione
della donna: se prima la donna era considerata “naturalmente” sottomessa (e
quindi priva di diritti) ora risulta “naturalmente” irresponsabile della propria tradizionale sottomissione e può solo
diventare cosciente del diritto di opporsi ai maschi (pienamente responsabili di un esercizio illegittimo
del potere). Il femminismo spezza l’alleanza basilare fra maschi e femmine che
potrebbe condurre alla gioia di vivere (e non alla famiglia patriarcale o matriarcale).
Negando questa alleanza, rinforza proprio l’alleanza perversa fra
madri-vittime-dei-mariti e figlie-vittime-dei-padri e ostacola l’affrancamento
delle donne (e degli uomini) dalla (purtroppo) radicata sessuonegatività
veicolata dalla famiglia e soprattutto dalle madri che all’interno della
famiglia hanno più potere. Il vittimismo deresponsabilizzante dell’ideologia
femminista, purtroppo, non solo ostacola la ricerca del piacere e
dell’intimità, ma ostacola anche il superamento delle situazioni in cui i
rapporti fra uomini e donne sono drammaticamente violenti, perché impedisce
alle donne di prendere coscienza della propria
violenza.
L’idea della violenza unilaterale (cioè maschile) nelle
relazioni di coppia non è plausibile. Le
relazioni di coppia sono spesso violente, ma tali sono in quanto relazioni e, infatti, è molto remota
la possibilità che uomini insensibili, ottusi e violenti risultino interessanti
per donne realmente mature, sensuali ed amorevoli. Tali uomini non affascinano
donne “troppo buone” o “ingenue”, ma donne inclini a stabilire relazioni
insoddisfacenti in cui prevalere “moralmente”. Alessandra Salerno sottolinea, a
questo proposito che “intervenire
sulla violenza femminile è un passo fondamentale per la prevenzione anche della
violenza sulla donna, dato che le ricerche evidenziano come spesso le azioni
aggressive dell’uomo siano una risposta a quelle della partner” (Salerno-Giuliano, 2012,
p. 63). Tra l’altro, anche se con minor frequenza, si presentano casi in cui
sono proprio le donne a manifestare fisicamente la loro distruttività,
provocando però conseguenze in genere meno visibili di quelle prodotte da
uomini violenti.
L’espressione “violenza
sessuale” è un ossimoro, come “quadrato circolare” o “silenzio assordante”. La
sessualità è “aggressiva” negli uomini e nelle donne perché è espressione di
vitalità e di desiderio, ma non è violenta. Un rapinatore che spara in banca
non attua una “violenza bancaria”, ma una semplice violenza. Il fatto che certe
persone siano violente nelle rapine, altre nel sesso, altre con gli animali
dice molto sulla loro condizione psicologica, ma non dice nulla sull’economia,
sul sesso o sulla zoologia. La gravità delle vicende dipende dall’intensità
della violenza esercitata, non dal tema in questione, così come un paranoico che
si sente spiato dai marziani non è necessariamente più grave di un paranoico
che si sente spiato dai vicini di casa. La “violenza sessuale” è quindi una
delle più gravi forme di violenza concepite ed attuate dagli esseri umani, ma
ha poco a che fare con la sessualità o con la virilità.
La “violenza sessuale”
fisicamente costrittiva è esercitata quasi esclusivamente dagli uomini
(fortunatamente pochi, ma sempre troppi). Ciò non dipende dalla sessualità
maschile, ma dalla distruttività che, in alcune persone, supera quella (già
eccessiva) della normalità. Nelle relazioni di coppia, la violenza sessuale
“passiva” esercitata con il “negarsi” dopo manifestazioni di disponibilità
caratterizza, invece, soprattutto le donne (ed è purtroppo molto frequente). Ci
sono anche uomini che dopo i primi sviluppi di una relazione diventano
sessualmente indifferenti, ma sono soprattutto le donne a negarsi sessualmente
dopo un periodo di innamoramento confuso e soprattutto dopo la nascita del
primo o del secondo figlio. Varie forme di violenza collegate alla sfera
sessuale o indipendenti da essa (ricatti, denigrazione, derisione, gelosia,
esclusione, minacce di suicidio, manipolazioni, inganni, ecc.) sono manifestate
da maschi e femmine. Una volta generata, la distruttività prende varie
direzioni a seconda delle circostanze, dei condizionamenti sociali e delle
difese psicologiche individuali, ma non è una caratteristica maschile o
femminile.
Tali fatti rendono
particolarmente grave lo sfruttamento “ideologico” delle vicende più tragiche:
ogni violenza maschile diventa occasione per “approfondimenti” da parte delle
femministe orientate a “dimostrare” la superiorità “etica” delle donne. Nei
casi in cui la violenza diventa omicidio, le reazioni sono ancora più forti e,
negli ultimi tempi, si è compiuto con pieno “successo” un vero e proprio “colpo
di stato” culturale: si è consolidato l’uso del neologismo “femminicidio” per
indicare con enfasi e rabbia ogni tragico evento in cui una donna viene
assassinata da un uomo. L’idea soggiacente è quella di un crimine dovuto
all’espressione estrema di una violenza “tipicamente maschile”, diffusa in modi
più lievi nel tessuto sociale. Grazie alla consolidata influenza del femminismo
sulla stampa, tali episodi riscuotono un’attenzione non paragonabile a quella
ottenuta da fatti altrettanto tragici (gli infanticidi, gli abbandoni dei
neonati, i suicidi in carcere, gli “omicidi bianchi”, i caduti in guerra).
Ovviamente un uomo che uccide la moglie o la ex-compagna non agisce sulla base
di pregiudizi ideologici, ma sulla base di gravi dissociazioni o di reali
disturbi psicotici, perché certi livelli di violenza non sono nemmeno
concepibili nei casi in cui sono attive solo le normali difese psicologiche.
Anche i torturatori degli Stati totalitari non erano animati dall’ideologia del
capitalismo, ma da un sadismo che avrebbero comunque esercitato in altri
contesti. Le stesse maestre che a volte puniscono con crudeltà i bambini poco
disciplinati non sono animate da convinzioni educative, ma da impulsi che
eserciterebbero sui cani se lavorassero in un canile. Ciò rende particolarmente
angosciante la facilità con cui l’idea del “femminicidio” ha influenzato tante
persone comuni, tanti intellettuali e persino tanti politici e giuristi. Di
fatto, ogni donna che muore per mano di uno squilibrato viene uccisa due volte: dall’assassino e da tutte le donne
fanatiche orientate a sfruttare tale evento per scatenare la loro indignazione
difensiva. Sarebbe di grande utilità sociale un impegno degli psicoterapeuti
volto a disinnescare questa conflittualità ideologizzata, ma, purtroppo, la
psicoterapia non ha mai nulla da dire quando l’irrazionalità permea ideologie
culturalmente radicate.
Il vittimismo è un
disturbo psicologico che nel femminismo viene ideologizzato. Nessuno subisce
volentieri delle prepotenze. Molto presto i bambini sono sensibili all’equità
nelle relazioni e protestano vivamente a due anni se qualcuno si appropria dei
loro oggetti e a tre anni anche se qualcuno sottrae ad altri degli oggetti
(cfr. Rossano-Rakoczy-Tomasello, 2011. p. 225). Per questo i bambini e le bambine
manifestano una spontanea generosità ed un’indisponibilità a subire ingiustizie.
A maggior ragione una donna di venti o quarant’anni non può accettare
umiliazioni “per amore”. Se lo fa, o è stupida o ha i suoi vantaggi (immaginari
e quindi difensivi) e solo la follia di massa ha reso possibile il successo di
libri semplicemente assurdi come Donne
che amano troppo (Norwood, 1985). Poiché le donne non sono più stupide
degli uomini, quando tendono a sottomettersi lo fanno per qualche ragione e, in
fondo, proprio per le stesse ragioni per cui molti uomini tendono ad essere
prepotenti.
L’idea di
un’oppressione maschile esercitata nei confronti di un genere femminile incline
alla sottomissione è semplicemente falsa.
Preferirei fosse vera. Ripeto: preferirei proprio che
fosse vera perché in tal caso potrei contare su metà
dell’umanità. Tre miliardi e mezzo di donne capaci d’amore, non inclini
alla distruttività o semplicemente da “risvegliare” con un po’ di
“autocoscienza” costituirebbero per me un grande conforto e mi farebbero
sentirei meno solo in questo grande mondo. Davvero vorrei poter credere
a questo dogma del femminismo, ma tale fede sarebbe tanto rassicurante quanto
infondata.