sabato 14 luglio 2018

22. Femminile e maschile







Le concezioni otto-novecentesche della sessualità, anche se ritenute innovative o addirittura rivoluzionarie, non hanno modificato in profondità i tradizionali pregiudizi relativi alla femminilità e alla virilità. La psicoanalisi e le varie concezioni psicoterapeutiche hanno riproposto con lievi correzioni (molto fantasiose) le antiche contrapposizioni popolari e speculative, mentre l’ideologia femminista ha trasformato la tradizionale “complementarità” fra virilità repressa e femminilità repressa in una conflittualità fra la stessa virilità repressa e la stessa femminilità repressa senza prospettare un recupero di potenzialità inespresse. Cambia poco per i bambini e le bambine, per gli/le adolescenti e per le persone adulte se il loro timore di “cadere nel peccato” viene rimpiazzato dal timore di manifestare patologie psichiche, o se il loro timore di non essere “veri maschi” o “vere femmine” viene rimpiazzato dal timore di essere maschi “maschilisti” o femmine “sottomesse”. Anche il marxismo e altre correnti culturali hanno cercato di affermare qualche tipo di “emancipazione” della donna (Zetkin, 1925) ma, come la psicoanalisi e il femminismo, hanno continuato ad esaminare il rapporto fra donne e uomini senza mettere a fuoco la vera questione: lo scarto fra le potenzialità maschili e femminili e la realizzazione di tali potenzialità. Poiché la cultura repressiva colpisce attraverso la famiglia, anche se con sfumature diverse, sia i bambini che le bambine, ogni contrapposizione (conservatrice o “emancipativa”) fra i generi soffoca la consapevolezza del fatto che maschi e femmine subiscono nei primi anni rifiuti e manipolazioni irrazionali e distruttive. In questo senso, chi sceglie di porsi dalla parte delle donne o delle bambine, anche se ha “buone intenzioni”, consolida (aggiornandola) la negazione della felicità che i due generi possono costruire assieme. In pratica, nel secolo scorso, nuove versioni dell’antica cultura sessuo-repressiva si sono affiancate a quelle tradizionali creando un superficiale scompiglio, ma senza modificare la “atavica” sessuonegatività che affligge da sempre la specie umana.
In fondo, solo i gruppi più radicali femministi e omosessuali, riconducibili alla concezione “queer” della sessualità (che mette in discussione la concezione “binaria” sia dell’identità maschile/femminile, sia dell’identità eterosessuale/omosessuale), hanno cercato di azzerare tutti i modelli sessuali affermando che se il sesso biologico è “dato”, il genere è una costruzione culturale e soggettiva. Il termine “queer”, letteralmente significa, nella lingua inglese, “eccentrico” o “insolito” e si presta quindi ad indicare una basilare indipendenza dagli schemi culturalmente imposti. L’idea che le persone “possano essere ciò che vogliono” per quanto riguarda il genere, è sicuramente liberatoria in un mondo in cui proprio le persone più confuse hanno l’abitudine di spiegare agli altri come dovrebbero vivere e cosa dovrebbero sentire. Tuttavia, tale idea costituisce una reazione “postmoderna” alle tradizioni e trascura la complessità dei fatti. La concezione queer attacca alle radici la svalutazione incistata nella cultura, ma non favorisce la comprensione del fatto che all’interno di questa cultura, spesso, le persone vogliono ribellarsi proprio per non esprimersi. Infatti, le ribellioni tendono a trascurare gli aspetti dolorosi della realtà. L’idea (ragionevole) che tutte le persone siano accettabili, rispettabili ed amabili indipendentemente dalle loro preferenze, non esclude l’esigenza di capire quando le preferenze delle persone esprimono le loro potenzialità o sono risposte provocatorie volte a disconoscere la solitudine che si sperimenta nelle famiglie, nelle relazioni interpersonali e nella società. La tolleranza incondizionata è positiva e indispensabile, ma non basta; produce cambiamenti reali solo se è associata al desiderio di conoscere sia la realtà, sia il dolore della realtà, sia le potenzialità delle persone.
Cercherò di chiarire alcune cose su due questioni collegate, ma distinte. La prima riguarda il rapporto fra sessualità e genere e, di conseguenza, la distinzione fra le caratteristiche basilari della virilità e della femminilità e quelle veicolate culturalmente nelle varie epoche dalle varie società. La seconda riguarda le ragioni per cui, normalmente, le caratteristiche di genere vengono definite in modi che comunque soffocano la basilare capacità umana di cercare e creare piacere e intimità. Le concezioni più comuni della femminilità e della virilità sono profondamente inquinate dalle difese psicologiche. Alcune difese caratterizzano indifferentemente le persone dei due sessi (come ad esempio, l’illusione di poter meritare l’amore assumendo particolari atteggiamenti), mentre altre caratterizzano prevalentemente i maschi o le femmine (come ad esempio, la negazione o l’esaltazione della dipendenza affettiva), anche se non esistono difese psicologiche specificamente maschili o femminili. Tale variegata presenza di atteggiamenti difensivi risulta molto disturbante nelle relazioni di coppia e più in generale nei rapporti fra i due generi.
La fondamentale eguaglianza psicologica fra i maschi e le femmine, che sono comunque persone, anche se con alcune caratteristiche distintive, è un fatto, e lo è da sempre. Non è un obiettivo da raggiungere, come lo è, invece, una reale eguaglianza sul piano della collocazione degli uomini e delle donne nella realtà sociale. Anche se ci fossero significative differenze fra le due “metà del mondo”, esse non giustificherebbero alcuna prevaricazione, ma tali differenze non sono affatto rilevanti e, con lo sviluppo della civiltà (e quindi con la progressiva perdita di importanza della forza fisica per la sopravvivenza), sono diventate davvero trascurabili. Quindi, in una realtà umana inevitabilmente colpita dal dolore della morte e delle tante mancanze e perdite, il rapporto fra uomini e donne potrebbe essere l’oasi, la “zona franca”, l’ambito dell’intimità e della condivisione della gioia e del dolore fra persone diverse ma complementari. Purtroppo, proprio all’interno delle relazioni sessuali, le persone tendono ad attivare al massimo le loro difese psicologiche. Da qui la normale “povertà” o distruttività delle relazioni di coppia e le normali concezioni non realistiche della virilità e della femminilità.
Le uniche differenze significative fra i due sessi sono quelle anatomiche e quelle che dipendono dalle (poche) specificità nel funzionamento neurobiologico. Varie ricerche hanno evidenziato (cfr. Churchland, 2011, cap. 4) differenze (soprattutto ormonali) fra i due generi che rendono sensata l’idea che le donne tendano ad essere meno “aggressive” degli uomini. Ovviamente il fatto che solo le donne possano avere una gravidanza e allattare i figli ha reso “vantaggiosa” per la specie la selezione di tali caratteristiche. Tuttavia, vanno tenute presenti anche le differenze individuali e le influenze culturali che possono accrescere o ridurre notevolmente l’influenza di queste reali particolarità nelle relazioni interpersonali. Se tali dati di fatto non rendono ragionevole l’accettazione dei modelli culturalmente veicolati della virilità e della femminilità, non rendono ragionevole nemmeno l’idea che le persone possano “scegliere” la loro identità di genere, così come scelgono le loro concezioni politiche. La base genetica di alcune circoscritte specificità psicologiche maschili e femminili è un dato di fatto e chiunque abbia un po’ di familiarità con gli animali riesce a distinguere gli esemplari maschili da quelli femminili anche senza andare a controllare i loro organi genitali. Se quindi è opportuno e necessario mettere in discussione stereotipi e conformismi inutili e dannosi, non ci sono ragioni per ridurre l’identità di genere ad una mera convenzione sociale, dato che solo entro certi limiti essa è “convenzionale”. Non a caso è molto più facile (con un impeccabile travestimento) sembrare fisicamente dell’altro sesso, se si sta fermi e zitti, di quanto lo sia dare quest’impressione comunicando liberamente: le persone che “recitano” l’appartenenza all’altro sesso non risultano femminili o maschili, ma semplicemente ambigue.
Il rapporto fra i due sessi, è stato complicato storicamente non solo da stereotipi relativi all’idea della virilità e della femminilità, ma anche da varie discriminazioni sul piano relazionale e sociale. Gli uomini sono stati realmente schiacciati dalla pressione costante di responsabilità, obblighi e proibizioni e le donne sono state realmente oppresse dalla negazione di diritti (e anche di doveri) socialmente riservati agli uomini. Ovviamente non c’è mai stata alcuna giustificazione razionale per l’idea della “debolezza” femminile o per l’esclusione delle donne dalla vita politica e da tante attività “maschili” e non è mai stata giustificata razionalmente l’idea che gli uomini non potessero mai aver bisogno d’affetto o provare paura o piangere, o non aver voglia di morire per “la patria”. In una società già lacerata dall’iniqua distribuzione delle ricchezze fra classi e popoli, le ulteriori discriminazioni economiche fra il lavoro maschile e quello femminile sono semplicemente assurde. Ciò che però va sottolineato è che le tante disparità e le feroci manifestazioni di intolleranza che hanno caratterizzato la “tradizionale” contrapposizione fra maschi e femmine colpiscono da sempre entrambi i generi e hanno una radice comune costituita dalla negazione del dolore e dalla repressione della sessualità e dell’intimità. Tale disastro limita, fin dagli albori dell’umanità, l’espressione delle potenzialità maschili e femminili in tutti gli ambiti e un’analisi rigorosa di tale realtà deve cogliere la complessità del rapporto fra i due sessi.
In questa chiave di lettura è errato, ma soprattutto dannoso (per le donne) considerare le donne come vittime di una prepotenza maschile perché la repressione sessuale colpisce entrambi i sessi e una reale emancipazione non è nemmeno pensabile se intesa come semplice reazione alla prevaricazione dell’altro sesso. E’ proprio Margaret Mead a ricordarci questo fatto normalmente trascurato dalle donne che aspirano ad una emancipazione femminile sganciata da un impegno di entrambi i generi per una comune emancipazione sessuale: “Tutte le discussioni sullo stato delle donne, sul carattere e il temperamento delle donne, sulla sottomissione o l’emancipazione delle donne, fanno perdere di vista il fatto fondamentale, e cioè che le parti dei due sessi sono concepite secondo la trama culturale che sta alla base dei rapporti umani e che il fanciullo che cresce è modellato, altrettanto inesorabilmente come la fanciulla, secondo un canone particolare e ben definito” (Mead, 1935, pp. 22-23).
Le difese psicologiche bloccano la consapevolezza del dolore attivando processi legati all’ansia e alla rabbia, ma sono molti i modi in cui l’ansia e la rabbia possono trovare espressione nel contesto culturale. La rabbia, ad esempio, può essere manifestata con urla, movimenti minacciosi, insulti e varie forme di aggressione fisica, ma anche con finta sottomissione, vittimismo, ricatti affettivi, sentimenti di rancore e di vendetta. In altre parole, la neurobiologia è di aiuto nella comprensione delle reali specificità maschili e femminili, ma, anche se spiega la maggior aggressività (nel senso di “propensione all’attivazione”) dei maschi, non dimostra che gli uomini siano o debbano essere più crudeli delle donne. Sia i bambini che le bambine possono attivare difese molto distruttive, pur rivelando una maggior propensione per la manifestazione “chiassosa” o “subdola” di tali difese. Infatti, varie ricerche sulla distruttività femminile scombinano radicalmente, sulla base di dati incontestabili, il pregiudizio secondo cui le donne sarebbero meno violente degli uomini (cfr. Salerno – Giuliano, 2012, Pellizzari 2009, Vantaggiato, 2009).
Ho già fatto alcune considerazioni su quella “catastrofe” che ha reso praticamente inevitabile nella specie umana la costruzione di difese psicologiche che non si presentano nelle altre specie animali. Luigi Pagliarani ha evidenziato “come il processo che porta all’avvento dell’homo sapiens sia dovuto alla convergenza ed all’interazione del bipedismo, dell’uso degli utensili e della nascita prematura, da cui ha origine il sociale (con a fondamento l’accresciuta responsabilità materna a causa del lento sviluppo dei piccoli e la combinazione dell’impegno materno con i compiti del maschio adulto)” (Introduzione al volume di G. Lapassade, 1963, p. 7). Siamo più intelligenti, efficienti, empatici, socievoli, sensibili degli altri animali, ma anche più irrazionali, perché non otteniamo l’accudimento di cui abbiamo bisogno.
La basilare eguaglianza fra le potenzialità espressive dei due generi riguarda tutti gli aspetti della dimensione sessuale ed emozionale. Riguarda il desiderio sessuale, intenso e costante, l’aggressività sessuale (intesa come capacità di “andare verso”, avvicinare, provocare sessualmente), la tenerezza nell’espressione della sessualità, la capacità di raggiungere un completo appagamento sessuale, la capacità di creare intimità sessuale, amicale, famigliare, la curiosità intellettuale, la determinazione nel raggiungimento degli obiettivi scelti, l’indifferenza nei confronti delle competizioni non necessarie, l’avversione per i conflitti non inevitabili, la capacità di lottare e il riconoscimento del dolore dovuto al fatto di dover (a volte) lottare, la capacità di esprimere, contemplare e creare la bellezza, la capacità di elaborare il dolore, di costruire un’esistenza per quanto possibile felice e di contribuire alla felicità delle persone care ed al miglioramento della convivenza sociale. A tali capacità, sostanzialmente identiche nei due sessi si deve purtroppo aggiungere la capacità (ben sviluppata in entrambi i sessi) di attivare difese psicologiche irrazionali e distruttive e quindi di non capire, non sentire, non provare empatia e di agire con indifferenza o crudeltà.
Per comprendere le caratteristiche fondamentali dei leoni non dobbiamo studiare quelli nati e cresciuti in uno zoo oppure in un circo, ma quelli cresciuti fra i leoni; quindi, per capire la sessualità umana e le differenze di genere non possiamo basarci sui questionari o sulle interviste fatte a persone cresciute in una società normalmente devastata dall’irrazionalità. Per questo motivo dobbiamo far tesoro delle ricerche meno viziate dalle ideologie. Soprattutto possiamo cercare lumi nelle “situazioni anomale”: quelle educative in cui lo sviluppo emozionale e sessuale dei bambini non viene compromesso da genitori ed educatori insensibili e distruttivi e quelle analitiche in cui le potenzialità personali “riaffiorano” in seguito ad un lavoro “in negativo”, focalizzato sullo smantellamento delle difese psicologiche. Il materiale è poco, ma è prezioso e consente di elencare vari aspetti che, indipendentemente dall’appartenenza al genere maschile o femminile, accomunano le persone che hanno un buon contatto emotivo e funzionano psicologicamente su un piano razionale anziché su un piano difensivo.
Le ricerche antropologiche e le esperienze pedagogiche a cui ho già fatto riferimento parlando dell’espressione delle potenzialità personali sono illuminanti anche per la comprensione del fatto che maschi e femmine sono davvero simili nella ricerca del piacere sessuale e nella realizzazione dell’intimità. Il lavoro analitico conferma tale realtà, perché quando riscontro dei cambiamenti profondi, noto che i maschi e le femmine si esprimono in modi più liberi e soprattutto molto simili. Ho sentito da una cliente una frase “normalmente adatta ai maschi”: “Non ne posso più di fare sesso da sola; mi serve ad allentare la tensione, ma non è uno sballo come fare l’amore. Già una bella scopata sarebbe qualcosa, ma gli uomini … insomma ti fanno anche passare la voglia quando cominciano a recitare la parte. Però non mi scoraggio e continuo a cercare”. Ho anche sentito da un cliente una frase “normalmente adatta alle femmine”: “Ho finalmente spiegato a mia moglie che se a lei va bene così, a me non va bene. Lei non si nega a letto, ma non mi cerca nella quotidianità. Non si può fare sesso la sera se di giorno si parla solo di cose pratiche e se non c’è una reale vicinanza. Lei fa le cose a modo suo e non sente il piacere di farle con me. Però non so che farmene di una bella cenetta se non abbiamo nulla da dirci. La mia fiducia sta calando ed anche il mio desiderio sessuale”. Le persone che fanno affermazioni di questo tipo sono femmine e maschi che hanno semplicemente ricostruito un buon dialogo interno, riescono a piangere e a far sesso con piacere. Mostrano una femminilità e una virilità che è “roba loro” da sempre e che non hanno dovuto “apprendere”. Si impegnano al massimo per migliorare una relazione e arrivano a godere i frutti del loro sforzo oppure ad allontanarsi senza recriminazioni. Soprattutto non sanno che farsene di un ruolo di genere socialmente “accreditato” che non corrisponde alla loro emotività e non sanno che farsene nemmeno dell’idea vittimistica di una “oppressione” attuata dall’altro sesso.
Data questa basilare eguaglianza nella psicologia e nelle competenze relazionali, conta poco, nella sfera dei rapporti individuo-società, la presenza di organi sessuali maschili o femminili, o di qualche differenza nella struttura fisica e negli equilibri ormonali. Ha invece un “peso” reale il fatto che solo le donne possano accogliere nell’utero degli esseri umani in formazione e che solo le donne possano allattare e accudire appropriatamente per il primo anno i neonati. Ciò rende le femmine particolarmente vulnerabili e particolarmente “potenti”, per lo meno quando hanno dei figli piccoli da accudire: l’esercizio del ruolo materno riduce temporaneamente la capacità di fare molte cose, mentre consente l’espressione di capacità inimmaginabili per i maschi. Tale diversità, però, non rende le donne in alcun modo superiori o inferiori, migliori o peggiori rispetto agli uomini. Inoltre non crea necessariamente alcuna contrapposizione di genere, perché, anzi, produce l’esigenza di una strettissima collaborazione e armonia fra maschi e femmine, soprattutto nel periodo della gravidanza e dell’allattamento.
L’idea che solo la madre possa dispensare affetto ai figli e che solo il padre possa e debba “educarli” è ingiustificata, dato che i maschi hanno, come le femmine, la capacità di essere affettuosi con i figli e dato che i figli non hanno affatto bisogno di essere “educati” (cfr. Neill, 1960). Ora, se la collaborazione fra madri e padri era relativamente semplice nelle comunità primitive, risulta più articolata, ma non meno importante, nelle società “progredite”. In tali società, molto “frammentate”, sarebbero indispensabili delle tutele sociali “forti”, ben diverse da quelle attualmente previste: alle madri non serve la libertà di abbandonare i figli di pochi mesi in un asilo pubblico, ma servirebbe una solida sicurezza economica nel periodo in cui devono dedicarsi (più dei partner) all’accudimento dei neonati. Anche i padri avrebbero bisogno di poter “sostenere” adeguatamente le loro compagne impegnate nella maternità, senza con ciò rischiare la perdita del lavoro.
In pratica, buone leggi (che nessuno cerca di far approvare) potrebbero compensare alcune conseguenze delle differenze ineliminabili fra i due sessi e della frammentazione sociale. Consentirebbero alle donne e agli uomini di tornare alle loro attività lavorative senza alcuna penalizzazione, dopo aver dedicato tempo, attenzione ed energia ai figli piccoli. Se la società si facesse carico delle esigenze delle madri, dei loro compagni e dei bambini, non dovrebbe in seguito farsi carico di tutte le (gravissime) conseguenze (anche sociali) di uno sviluppo psicologico infantile normalmente caratterizzato da vissuti di abbandono. Se tali premesse sono sensate, le differenze di genere legate ai ruoli genitoriali diversi determinano differenze sociali inique fra maschi e femmine nella società solo perché la società non dà alcuna importanza ai bisogni dei bambini. La normale trascuratezza per questa situazione non dipende dalla mancanza di informazioni e conoscenze, ma dall’irrazionalità sociale a cui, purtroppo, contribuiscono maschi e femmine, giovani e anziani e persino ricchi e poveri. E a cui contribuisce il silenzio di psicologi e psicoterapeuti.
Al di là di ciò che la società potrebbe fare e non fa per favorire l’ingresso dei cuccioli umani nella comunità umana, occorre tener presente che le basilari differenze di genere non giustificano alcuna discriminazione sociale e non giustificano razionalmente né le differenze di trattamento economico nel mondo del lavoro fra donne e uomini, né i ruoli sessuali stereotipati che sono comunemente accettati. Tuttavia, tali incubi sociali hanno radici lontane, non dipendenti da immaginarie contrapposizioni “essenziali” fra maschi e femmine, ma da un complessivo contesto culturale in cui la sessualità e l’intimità sono da sempre svalutate e in cui le difese psicologiche individuali sono così diffuse da rendere “inevitabili” quelle forme di avidità, competizione, vittimismo, indifferenza e crudeltà che rendono tutte le persone emotivamente “povere”, intellettualmente ottuse (anche se ben formate culturalmente) e incapaci di stabilire rapporti interpersonali costruttivi.
L’idea che le donne siano soprattutto alla ricerca della “comunicazione” e della tenerezza e che gli uomini siano “cacciatori e guerrieri” è una sciocchezza, anche se, purtroppo, corrisponde alla normale confusione che caratterizza la nostra società e anche società molto diverse dalla nostra. Se guardiamo i bambini, notiamo che i maschi, come le femmine, manifestano un grande bisogno di tenerezza e notiamo pure che maschi e femmine cercano attivamente il contatto fisico e la complicità nel gioco; sono simili perché sono prima di tutto persone e quindi, in quanto persone in formazione, sono tenere e aggressive. Se non possono crescere esprimendo le loro potenzialità, devono “perdere dei pezzi” e perdono anche dei “pezzi” riguardanti l’identità di genere e le loro capacità sessuali. Solo una maggior apertura mentale ed emozionale dei genitori può consentire ai bambini ed alle bambine di crescere senza percorrere un binario prestabilito da una società irrazionale. Per questo motivo, chi capisce in profondità l’importanza dello sviluppo psicosessuale infantile non interviene in modi banali (ad esempio vietando ai bambini le pistole ad acqua o alle bambine le bambole), ma mostrando ruoli genitoriali non schematici e garantendo dialogo, ascolto e guida ai figli.
Maschi e femmine sono egualmente capaci di procurarsi piacere con la masturbazione e, preferibilmente, di cercare partner appaganti. Nel sesso sono responsabili del raggiungimento del proprio orgasmo e in questo modo risultano eccitanti per il/la partner. Maschi e femmine giocano al dottore da bambini, si mettono alla prova nell’adolescenza, cercano di ottenere ciò che vogliono nella gioventù e sono in grado di stabilizzare una vita sessuale intensa fino alla vecchiaia. Quando, invece, nelle coppie la madre è “persa” nel suo ruolo di “generatrice di vita” ed il padre “si smarrisce” in una confusa “identità sociale”, la relazione non funziona. In tali casi, però, il disfunzionamento non dipende dalle caratteristiche di genere o dall’eventuale presenza della prole, ma dal fatto che fin dall’inizio la relazione era stata superficiale sul piano affettivo e sullo stesso piano sessuale. La sessualità è superficiale quando è sperimentata all’interno di relazioni emotivamente povere o ambivalenti o distruttive, perché in tali casi è espressa a scopi difensivi e non è finalizzata alla ricerca del piacere e dell’intimità. Le caratteristiche normalmente ritenute “specificamente” femminili e maschili sono un miscuglio che include piccole dosi di genetica e dosi massicce di paura difensiva e di rabbia difensiva. Le varie società, nelle varie epoche e nei vari paesi, hanno razionalizzato culturalmente in modi diversi questa miscela esplosiva che deriva dai disastri emozionali normalmente subiti dai bambini e dalle bambine nei primi anni di vita. Voglio riportare due descrizioni, crude e toccanti, dei lati peggiori della “normale” virilità e della “normale” femminilità. Due delle tante, dato che in genere la letteratura descrive la realtà (difensiva) della normale follia più che le qualità profonde delle persone.
“Nei riguardi di una ragazza del luogo, Molly, provai un eccezionale sentimento di confidenza che, negli esseri paurosi, tiene il posto dell’amore. (…) Avevo persin vergogna di tutta la pena che si dava per conservarmi per lei. L’amavo, certo, ma mi piaceva di più ancora il mio vizio, quella voglia di fuggirmene da qualunque posto, alla ricerca di non so che, per uno stupido orgoglio senza dubbio, per convinzione d’una specie di superiorità. (…) Quel che si svolgeva nell’intimo le bastava, nel suo cuore. Ci si abbracciava. Ma non l’abbracciavo bene io, come avrei dovuto, in ginocchio davvero. Pensavo sempre un po’ ad altro, a non perdere tempo e tenerezza, come se volessi conservare tutto per un non so che di magnifico, di sublime, per più tardi, ma non per Molly, e non per quello” (Céline, 1932, pp. 240-244).
“E mise al mondo molti figli perché, col passare del tempo, non si oppose più al marito, né con le parole né con le azioni. In apparenza, non gli badò più, gli si era sottomessa lasciando che prendesse di lei quel che voleva e ne facesse quel che gli aggradava. Era proprio come uno sparviero che si rassegna alla cattività, colmo di disprezzo. I rapporti tra lei e il marito erano muti e volutamente ignorati, ma profondi, terribili rapporti di totale distruzione reciproca ed egli, che nel mondo trionfava, veniva via via svuotandosi della sua vitalità, che sembrava fluire da lui come un’emorragia” (Lawrence, 1920, p. 173).
Maschi e femmine spesso si mostrano in questi modi, magari con meno asprezza (o anche con più crudeltà), ma possiamo essere certi che i maschi e le femmine sono “altro”. Sono di più. Sono più di quanto osano ammettere, sono più di ciò che esprimono e sono più di ciò che rivendicano. Ci sono donne e uomini capaci di lasciarsi andare al piacere sessuale senza riserve e con tenerezza. Ci sono donne più “forti” di tanti uomini (non per mania di competizione, ma per determinazione positiva) e ci sono uomini capaci di essere più teneri e sensibili di tante donne (non perché “tormentati”, ma perché liberi di gioire, di piangere e di fregarsene dei ruoli sociali). La vera alternativa alla femminilità tradizionale non è l’acquisizione di una “durezza” tradizionalmente “maschile” e la vera alternativa alla virilità tradizionale non è il “pentimento” teso all’ottenimento di un “perdono”. L’alternativa consiste proprio nella libertà di trovare modi comuni ai due generi di essere persone, sia accettando e valorizzando le differenze realmente esistenti, sia esprimendo le potenzialità personali comuni ai due generi. L’alternativa consiste nella ricerca del piacere sessuale e dell’intimità, perché proprio tale ricerca esclude qualsiasi interesse per i “tipici” ruoli sessuali che dipendono da difese infantili. Anche nei classici testi del femminismo è presente l’idea che i tradizionali ruoli sessuali non siano svantaggiosi solo per le donne, ma per tutti. Elena Gianini Belotti ha scritto: “Che cosa può trarre di positivo un maschio dalla arrogante presunzione di appartenere a una casta superiore soltanto perché è nato maschio? La sua è una mutilazione altrettanto catastrofica di quella della bambina persuasa della sua inferiorità” (1973, p. 9). Ovviamente, se questo è vero, è sensato stare dalla parte dei bambini e delle bambine e non solo “dalla parte delle bambine”. Anche Carla Ravaioli ha centrato il nocciolo della questione ponendo una domanda che è già un’affermazione: “… chi ci assicura che la condizione di preminenza storicamente assegnata al maschio debba necessariamente riuscire congeniale a tutti i maschi?” (1973, p. 9). Purtroppo il femminismo si è definito soprattutto come l’ultima (e più pericolosa) manifestazione della cultura sessuonegativa. La sua peculiarità sta nel fatto che conferma la “storica” negazione del piacere sessuale e dell’intimità proprio prospettando un’emancipazione sociale e psicologica dagli schemi repressivi tradizionali.
L’equivoco basilare dell’ideologia femminista si riduce all’analogia stabilita fra i conflitti di classe e i conflitti fra maschi e femmine. Le disparità di classe rientrano in un grande gioco a somma zero: la ricchezza di chi ha di più dipende dalla povertà di chi ha di meno. Ciò però non vale nei rapporti fra generi: gli uomini non sono più felici delle donne e non sottraggono alle donne soddisfazioni, libertà e successi in modo da goderne al loro posto. Ogni discriminazione svantaggiosa per le donne costituisce un incubo sia per le donne che per gli uomini, perché rafforza il ruolo maschile che è, appunto, l’incubo degli uomini. In pratica, mentre la rivoluzione socialista (che non si è mai realizzata) avrebbe ridistribuito fra le classi sociali la ricchezza complessiva, un’ipotetica redistribuzione delle umiliazioni e dei “privilegi” fra i due generi non cambierebbe nulla, perché gli uomini non hanno mai goduto di una felicità “sottratta” alle donne, ma sono sempre stati infelici come le donne, anche se in altri modi. La “superiorità” maschile ha massacrato psicologicamente gli uomini e le donne così come la “inferiorità” femminile ha massacrato psicologicamente le donne e gli uomini.
L’ideologia femminista ha espresso la denuncia (razionale) delle discriminazioni sessiste (o almeno di quelle svantaggiose per le donne) e ha sostenuto tante lotte pubbliche e private finalizzate all’affermazione di vari diritti delle donne. Partendo da premesse razionali ha però impedito l’avvio di una trasformazione profonda della (falsa/difensiva) normale identità femminile e della (falsa/difensiva) normale identità maschile. Infatti, ha consolidato (in termini aggiornati) la “antica” rabbia vittimistica “tipicamente femminile” e ha favorito il consolidamento (in termini aggiornati) della protettività maschile. Se ci si riflette bene, la donna tradizionale, asessuata, “persa” nel ruolo di madre che si lamenta con rassegnazione del marito “insensibile” e delle sue “pretese”, assomiglia molto alla donna moderna, asessuata, “persa” nel ruolo di persona libera ed emancipata che si oppone agli uomini insensibili e pieni di pretese. Anche l’uomo tradizionale, rassegnato ad “accontentarsi” sul piano sessuale, ma orgoglioso di avere un “dignitoso” ruolo sociale (in un’azienda florida o nell’associazione bocciofila del quartiere) che si lamenta della moglie sempre scontenta pur “proteggendola”, assomiglia molto all’uomo moderno, rassegnato ad “accontentarsi” sul piano sessuale, ma orgoglioso di essere superiore agli uomini “maschilisti” e capace di “capire” le sofferenze delle donne (solo quelle delle donne) e quindi di “proteggerle” da tutte le scorie di un oscuro passato.
Solo superficialmente il femminismo può essere considerato dai “progressisti” un contributo all’emancipazione femminile e dai “reazionari” una minaccia per i “valori tradizionali”. In profondità, purtroppo, il femminismo costituisce un pietra tombale che schiaccia le già scarse aspirazioni all’espressione delle potenzialità espressive femminili e maschili. L’apertura al mondo maschile prospettata anni fa da Juliet Mitchell si riduce ad una proposta di complicità in una versione aggiornata della repressione sessuale che da sempre colpisce bambini, bambine, uomini e donne: “anche gli uomini (pur con difficoltà) possono rinunciare ai loro privilegi patriarcali e diventare femministi" (1974, p. 415). Tale “apertura”, purtroppo, ha trovato consensi e attualmente, dopo mezzo secolo, i rapporti fra maschi e femmine sono rimasti disastrosi, ma ai maschi ed alle femmine “inconsapevoli” si è aggiunta una nutrita schiera di maschi e femmine che si ritengono “consapevoli” di tante cose pur restando incapaci di attuare profondi cambiamenti interiori. Il nocciolo di questa finta “rivoluzione” è infatti profondamente reazionario e sessista, perché disconosce la responsabilità delle donne nella storica realizzazione di una società repressiva. Il femminismo tratta, in fondo, le donne come “incapaci”, come vittime e quindi come irresponsabili e prospetta una loro emancipazione da una sottomissione subita per la loro “debolezza”. In tal modo ostacola la consapevolezza del fatto che la tradizionale “sottomissione” femminile è stata (inconsciamente) scelta dalle donne, come la tradizionale “prepotenza” maschile è stata (inconsciamente) scelta dagli uomini, perché ha espresso una dissociazione infantile dal dolore, una rinuncia al piacere e un’illusoria ricerca del potere. Tradizionalmente gli uomini si sono presi il potere di controllare e devastare ciò che potevano nell’ambito extra-famigliare, mentre le donne si sono prese il potere di controllare e devastare ciò che potevano nell’ambito famigliare. Le donne non sono vittime degli uomini, semplicemente perché, come loro, nell’infanzia sono state realmente vittime della famiglia in cui crescevano (e soprattutto delle loro madri). Maschi e femmine hanno sviluppato strategie difensive diverse, ma egualmente distruttive e hanno, quindi, l’esigenza di affrancarsi dalla propria distruttività e dalla propria paura del piacere e dell’intimità. Proprio sollecitando le donne ad affrancarsi dall’autoritarismo maschile, il femminismo impedisce alle donne di affrancarsi dall’autoritarismo femminile.
Il tipico maschio autoritario svaluta le donne trattandole come oggetti “deboli” da controllare, ma anche il tipico maschio protettivo svaluta le donne trattandole come bambine da accudire. Il tipico “seduttore” svaluta le donne trattandole come “oggetti di piacere”, ma anche il tipico “padre di famiglia” svaluta la moglie trattandola come “regina” della casa (ovvero come cuoca e bambinaia). La lista si potrebbe allungare, ma non c’è alcuna caratteristica “tipicamente maschile” che non si accompagni ad una svalutazione delle donne e anche l’uomo femminista tratta le donne come vittime irresponsabili da tutelare e non come persone responsabili. Se passiamo all’altra metà del mondo, la tipica donna “remissiva” svaluta gli uomini sentendosi oppressa da un mostro e la tipica donna “bisognosa di un appoggio” svaluta l’uomo trattandolo come un genitore o un infermiere. La tipica donna “sensuale”, seduttiva, provocante (e sessualmente insensibile) svaluta gli uomini trattandoli come oggetti che devono “ammirarla” e la tipica madre-chioccia svaluta il marito trattandolo come capo della famiglia, ma respingendolo come amante. La tipica femmina alla ricerca perenne del principe azzurro svaluta i reali uomini che incontra trattandoli sempre come copie sbiadite del principe. La lista si potrebbe allungare, ma non c’è alcuna caratteristica “tipicamente femminile” che non si accompagni ad una svalutazione degli uomini. In questo senso il femminismo non ha fatto altro che fornire un abbellimento intellettuale alle tradizionali forme del vittimismo femminile.
Per questo motivo, tra chi sostiene che gli uomini devono “affermarsi” e che le donne devono “stare al loro posto” e chi afferma che gli uomini devono rinunciare ai “privilegi” e che le donne devono “liberarsi” dal potere maschile, la differenza è irrilevante. Donne e uomini hanno bisogno di avvicinarsi e non di combattersi. La distruttività “tipicamente” maschile, non può essere sconfitta dalla distruttività vittimistica “tipicamente” femminile (e femminista), perché le due forme “storiche” di distruttività difensiva possono essere superate solo da una consapevolezza delle loro radici comuni. Uomini e donne o si liberano assieme dalle proprie paure o non si liberano affatto. Il guaio di tutte le teorie emancipative-rivoluzionarie-progressiste sta nel fatto che si focalizzano su pochi dettagli che catturano l’attenzione e l’entusiasmo delle “masse” e in tal modo ostacolano il riconoscimento dei problemi fondamentali che non hanno soluzioni facili. La tendenza a cambiare tutto per non cambiare nulla è molto radicata e, per questo motivo, solo le persone possono realmente cambiare (a fatica), mentre le società restano quelle di sempre, proprio ammantandosi di nuovi “valori” o “ideali”. Il paradosso del femminismo consiste nell’utilizzazione di strumenti analitici razionali per il mantenimento “aggiornato” delle stesse tensioni irrazionali fra i due sessi. Il femminismo ha danneggiato e danneggia soprattutto le donne, favorendo con strumenti concettuali nuovi il mantenimento della loro “atavica” opposizione ai maschi, al piacere e all’intimità. Il femminismo è le “terapia” che ammazza il paziente per curare la sua malattia.
Mi rendo conto di fare affermazioni insolite, ma in molti casi proprio le concezioni più diffuse sono state anche le più folli. Negli anni della Repubblica di Weimar, la Germania era ad un passo da una rivoluzione socialista che, avrebbe avuto come obiettivo il cambiamento della reale, oggettiva e terribile condizione della classe operaia. La lotta sui problemi reali era intensa e il suo esito era incerto, ma ad un certo punto le destre prevalsero (con il consenso delle “masse popolari”) proprio agitando il vessillo dell’orgoglio nazionalistico (“umiliato” dagli altri Stati dopo la prima grande guerra) e dello “spirito ariano” minacciato dalla “razza ebraica”. Due totali stupidaggini senza alcun senso catturarono l’attenzione di persone appartenenti a tutti gli strati sociali e culturali e divennero a livello psicologico la forza motrice che frantumò la consapevolezza della realtà. George L. Mosse ha concluso la sua importante ricerca su quel periodo con queste parole: “Questo libro si occupa di un passato che per la maggior parte degli uomini sembrò concluso con la seconda guerra mondiale. In realtà è invece ancora storia di oggi” (1974, p. 244). Il bisogno diffuso di contrapporre l’idea di “noi” all’idea degli “altri”, di collegare la vita quotidiana a liturgie collettive, di annullare le sensazioni di precarietà e vulnerabilità grazie a fantasie di controllo e di appartenenza continua ad alimentare ideologie molto diverse e fra loro incompatibili, ma tali da affascinare gli adulti terrorizzati dagli incubi mai superati nell’infanzia. L’idea di una liberazione delle donne dal potere maschile realizzata grazie ad una “autocoscienza femminista” è irrazionale proprio perché distoglie dalla reale esigenza delle donne e degli uomini di liberarsi dalle proprie illusioni e di costruire relazioni appaganti, intime e realmente libere.
Un esempio può essere rivelativo del terreno da dissodare per una liberazione comune a maschi-persone e a femmine-persone. Varie ricerche sul bullismo hanno mostrato che questo fenomeno non è solamente maschile, anche se fra le femmine ha connotazioni spesso diverse. Ma ciò che voglio sottolineare è proprio la diversa percezione nei maschi e nelle femmine del fenomeno e la tendenza a reagire in modi diversi (cfr. Elena Buccoliero, in Salerno-Giuliano, 2012, pp. 139-141). Ragazzi e ragazze intervengono in percentuali simili a favore delle vittime del bullismo, ma quando non intervengono i ragazzi affermano di “farsi i fatti propri”, mentre molte ragazze ammettono di aver paura. In altri termini, i ragazzi non ammettono la paura mentre le ragazze si sentono libere di farlo. Inoltre, sia i ragazzi, sia le ragazze si commuovono molto facilmente di fronte ad un animale ferito, mentre le ragazze entrano in risonanza con persone tristi o sole più dei ragazzi. Ora, questi elementi (e molti altri riportati nel volume appena menzionato) indicano in termini davvero convincenti che le principali differenze attribuite ai due generi hanno ben poco di “naturale’. La comune compassione per gli animali evidenzia identiche competenze emozionali e le altre differenze rinviano a pressioni educative e a chiusure psicologiche. Le esperienze famigliari normalmente devastanti attivano rabbia difensiva diffusa (nei maschi e nelle femmine) e in alcuni casi anche atteggiamenti classificabili come bullismo. Il fatto che la crudeltà verbale sia più “facile” per le femmine che tra i maschi e che la violenza fisica abbia più spazio fra i maschi, può essere dovuto alla “costituzione fisica”, così come il fatto che il bullismo delle femmine colpisca quasi esclusivamente altre femmine. Tuttavia, l’aspetto davvero importante della questione sta nel fatto che sia i maschi, sia le femmine, sono capaci di attivare atteggiamenti distruttivi in ambito sociale quando subiscono maltrattamenti famigliari, allo scopo di non provare smarrimento e impotenza.
Gli studiosi definiscono da sempre l’aggressività (come pure l’amore, la tristezza e la felicità) in vari modi e quindi, paradossalmente, anche in pubblicazioni autorevoli, i concetti psicologici più importanti sono utilizzati con significati spesso diversi o addirittura incompatibili. Le definizioni sono convenzionali e ciò che conta è intendersi. Una distinzione che a mio parere è indispensabile sottolineare è quella fra comportamenti attivi e finalizzati a scopi costruttivi e comportamenti attivi e finalizzati a scopi distruttivi. Il fatto che spesso l’aggressività sia intesa come sinonimo di violenza è un errore. Anche l’etimologia della parola (adgredior sta per “procedere verso qualcosa”) giustifica un’interpretazione ampia o “neutra” del termine. In questo senso, l’aggressività maschile è una risorsa indispensabile, come pure l’aggressività femminile. A mio parere è opportuno riservare al termine “distruttività” il significato di “aggressività violenta”. La mitezza di Gandhi era priva di distruttività, ma molto fattiva e quindi positivamente aggressiva. La distruttività, invece, si spiega solo come difesa psicologica, a parte i rari casi in cui la violenza viene attivata per proteggersi o per proteggere qualcuno. La genuina aggressività, quindi, serve a sopravvivere e a vivere, mentre la distruttività serve solo a vivere “poco” pur di non elaborare il dolore. La distruttività sorge nell’infanzia come tutte le difese psicologiche ed avvelena sia la vita delle persone distruttive (di genere maschile o femminile), sia quella delle persone che vengono maltrattate.
Se la basilare frustrazione “trasversale” colpisce tutti i bambini e tutte le bambine, altre pressioni sociali colpiscono in modi diversi i maschi e le femmine perché derivano da antiche letture semplificate della “natura umana maschile e femminile”. Io credo che le stupidaggini “culturali” sui ruoli sessuali si insinuino con tanta efficacia “nella testa” dei maschi e delle femmine, fin dall’infanzia, proprio perché trovano il terreno fertile costituito da profonde sensazioni di svalutazione e da consolidate tendenze difensive orientate alla ricerca del potere anziché del piacere. Credo quindi che il radicamento dei pregiudizi relativi ai generi ed alla sessualità sia così profondo perché, a differenza di altri pregiudizi (più facilmente superabili e spesso superati), quelli relativi all’identità di genere ed alla sessualità riguardano i rapporti emotivamente più significativi. La distruttività non è un “privilegio” dei maschi e nemmeno delle femmine, ma una “mostruosità democratica” che tutti esercitano. Dilagherà finché non verrà smascherata e compresa come difesa dal dolore. I maschi non hanno alcun vero bisogno di esibire una distruttività chiassosa e le femmine non hanno alcun bisogno di covare una distruttività silenziosa. I bisogni sono altri. Maschi e femmine hanno bisogno di elaborare il lutto per ciò che non hanno avuto nell’infanzia e non potranno più avere. Solo rinunciando al loro sogno infantile di un amore protettivo e “rassicurante” o di un amore “meritato” o “conquistato” si libereranno delle loro paure difensive e della loro distruttività e cercheranno l’amore possibile, quello fra pari, quello per cui non si può combattere e per cui non si deve sopportare nulla.

Solo la comprensione della radice profonda delle difese psicologiche e delle loro particolari espressioni “tipicamente” maschili e femminili può tradursi in una riflessione critica razionale delle tante forme di distruttività che non solo i maschi, ma anche le femmine, manifestano nella sfera della sessualità, nei rapporti fra i due generi e nelle rigide espressioni delle identità di genere. Purtroppo, solo le teorie semplicistiche, rivendicative, consolatorie hanno successo, dato che rispondono al senso di frustrazione avvertito da tante persone senza costringerle a confrontarsi con le loro paure e le loro responsabilità. Tale mancato confronto reale si realizza grazie all’individuazione di un confronto-scontro con gli “altri”, identificati come “colpevoli” in quanto unici responsabili di una sofferenza che “non dovrebbe esserci”. Tale scorciatoia mentale consente di colpire sempre il nemico, ma spesso colpisce proprio il nemico che tale non è. Inoltre, conduce inevitabilmente alla moltiplicazione indefinita dei nemici: le femministe hanno iniziato a combattere i maschi, ma poi hanno dovuto contrapporsi anche alle donne che non avevano molta voglia di mettere in discussione il piacere dell’intimità sessuale con i maschi per diventare donne “autocoscienti”. La svalutazione femminista è poi diventata più aspra nei confronti di quelle minoranze femminili che, proprio per la loro marginalità erano più vulnerabili (e che infatti erano e sono oggetto di svalutazioni moralistiche espresse da persone religiose e da maschi tradizionalisti): le prostitute, le donne che lavorano nell’ambito della pornografia e le persone transessuali. Le femministe più “radicali” indicate con gli acronimi SWERF e TERF, ovvero “sex worker escludenti” e “trans escludenti” (Sex Worker Exclusionary Radical Feminist e Trans Exclusionary Radical Feminist) considerano le prostitute come delle traditrici della “autentica” femminilità sottomesse al maschilismo e considerano le persone transessuali come disturbanti per la “pura” identità femminile. Queste idee grottesche, di fatto, trovano spazio in blog, libri e studi accademici, a riprova del fatto che non c’è limite alla proliferazione di forme sempre nuove di svalutazione, anche nei contesti culturali originariamente caratterizzati proprio dall’analisi di alcune forme di intolleranza e di discriminazione sociale. D’altra parte, se l’intolleranza non è compresa come difesa psicologica, deve essere interpretata come “vizio mentale”, come “colpa”, come realtà “eticamente inaccettabile” e può solo essere “combattuta” in nome di “valori” opposti e quindi in modalità intolleranti.
Le donne non riescono più, grazie al femminismo a parlare come donne, ma solo come donne-vittime. Tutte le ideologie vittimistiche mettono al centro dell’attenzione alcune persone “privandole di soggettività, nonché di ogni diritto che non sia quello al soccorso” (Giglioli, 2014, p. 19) e il femminismo ha devastato la femminilità proprio capovolgendo meccanicamente la tradizionale concezione della donna: se prima la donna era considerata “naturalmente” sottomessa (e quindi priva di diritti) ora risulta “naturalmente” irresponsabile della propria tradizionale sottomissione e può solo diventare cosciente del diritto di opporsi ai maschi (pienamente responsabili di un esercizio illegittimo del potere). Il femminismo spezza l’alleanza basilare fra maschi e femmine che potrebbe condurre alla gioia di vivere (e non alla famiglia patriarcale o matriarcale). Negando questa alleanza, rinforza proprio l’alleanza perversa fra madri-vittime-dei-mariti e figlie-vittime-dei-padri e ostacola l’affrancamento delle donne (e degli uomini) dalla (purtroppo) radicata sessuonegatività veicolata dalla famiglia e soprattutto dalle madri che all’interno della famiglia hanno più potere. Il vittimismo deresponsabilizzante dell’ideologia femminista, purtroppo, non solo ostacola la ricerca del piacere e dell’intimità, ma ostacola anche il superamento delle situazioni in cui i rapporti fra uomini e donne sono drammaticamente violenti, perché impedisce alle donne di prendere coscienza della propria violenza.
L’idea della violenza unilaterale (cioè maschile) nelle relazioni di coppia non è plausibile. Le relazioni di coppia sono spesso violente, ma tali sono in quanto relazioni e, infatti, è molto remota la possibilità che uomini insensibili, ottusi e violenti risultino interessanti per donne realmente mature, sensuali ed amorevoli. Tali uomini non affascinano donne “troppo buone” o “ingenue”, ma donne inclini a stabilire relazioni insoddisfacenti in cui prevalere “moralmente”. Alessandra Salerno sottolinea, a questo proposito che “intervenire sulla violenza femminile è un passo fondamentale per la prevenzione anche della violenza sulla donna, dato che le ricerche evidenziano come spesso le azioni aggressive dell’uomo siano una risposta a quelle della partner” (Salerno-Giuliano, 2012, p. 63). Tra l’altro, anche se con minor frequenza, si presentano casi in cui sono proprio le donne a manifestare fisicamente la loro distruttività, provocando però conseguenze in genere meno visibili di quelle prodotte da uomini violenti.
L’espressione “violenza sessuale” è un ossimoro, come “quadrato circolare” o “silenzio assordante”. La sessualità è “aggressiva” negli uomini e nelle donne perché è espressione di vitalità e di desiderio, ma non è violenta. Un rapinatore che spara in banca non attua una “violenza bancaria”, ma una semplice violenza. Il fatto che certe persone siano violente nelle rapine, altre nel sesso, altre con gli animali dice molto sulla loro condizione psicologica, ma non dice nulla sull’economia, sul sesso o sulla zoologia. La gravità delle vicende dipende dall’intensità della violenza esercitata, non dal tema in questione, così come un paranoico che si sente spiato dai marziani non è necessariamente più grave di un paranoico che si sente spiato dai vicini di casa. La “violenza sessuale” è quindi una delle più gravi forme di violenza concepite ed attuate dagli esseri umani, ma ha poco a che fare con la sessualità o con la virilità.
La “violenza sessuale” fisicamente costrittiva è esercitata quasi esclusivamente dagli uomini (fortunatamente pochi, ma sempre troppi). Ciò non dipende dalla sessualità maschile, ma dalla distruttività che, in alcune persone, supera quella (già eccessiva) della normalità. Nelle relazioni di coppia, la violenza sessuale “passiva” esercitata con il “negarsi” dopo manifestazioni di disponibilità caratterizza, invece, soprattutto le donne (ed è purtroppo molto frequente). Ci sono anche uomini che dopo i primi sviluppi di una relazione diventano sessualmente indifferenti, ma sono soprattutto le donne a negarsi sessualmente dopo un periodo di innamoramento confuso e soprattutto dopo la nascita del primo o del secondo figlio. Varie forme di violenza collegate alla sfera sessuale o indipendenti da essa (ricatti, denigrazione, derisione, gelosia, esclusione, minacce di suicidio, manipolazioni, inganni, ecc.) sono manifestate da maschi e femmine. Una volta generata, la distruttività prende varie direzioni a seconda delle circostanze, dei condizionamenti sociali e delle difese psicologiche individuali, ma non è una caratteristica maschile o femminile.
Tali fatti rendono particolarmente grave lo sfruttamento “ideologico” delle vicende più tragiche: ogni violenza maschile diventa occasione per “approfondimenti” da parte delle femministe orientate a “dimostrare” la superiorità “etica” delle donne. Nei casi in cui la violenza diventa omicidio, le reazioni sono ancora più forti e, negli ultimi tempi, si è compiuto con pieno “successo” un vero e proprio “colpo di stato” culturale: si è consolidato l’uso del neologismo “femminicidio” per indicare con enfasi e rabbia ogni tragico evento in cui una donna viene assassinata da un uomo. L’idea soggiacente è quella di un crimine dovuto all’espressione estrema di una violenza “tipicamente maschile”, diffusa in modi più lievi nel tessuto sociale. Grazie alla consolidata influenza del femminismo sulla stampa, tali episodi riscuotono un’attenzione non paragonabile a quella ottenuta da fatti altrettanto tragici (gli infanticidi, gli abbandoni dei neonati, i suicidi in carcere, gli “omicidi bianchi”, i caduti in guerra). Ovviamente un uomo che uccide la moglie o la ex-compagna non agisce sulla base di pregiudizi ideologici, ma sulla base di gravi dissociazioni o di reali disturbi psicotici, perché certi livelli di violenza non sono nemmeno concepibili nei casi in cui sono attive solo le normali difese psicologiche. Anche i torturatori degli Stati totalitari non erano animati dall’ideologia del capitalismo, ma da un sadismo che avrebbero comunque esercitato in altri contesti. Le stesse maestre che a volte puniscono con crudeltà i bambini poco disciplinati non sono animate da convinzioni educative, ma da impulsi che eserciterebbero sui cani se lavorassero in un canile. Ciò rende particolarmente angosciante la facilità con cui l’idea del “femminicidio” ha influenzato tante persone comuni, tanti intellettuali e persino tanti politici e giuristi. Di fatto, ogni donna che muore per mano di uno squilibrato viene uccisa due volte: dall’assassino e da tutte le donne fanatiche orientate a sfruttare tale evento per scatenare la loro indignazione difensiva. Sarebbe di grande utilità sociale un impegno degli psicoterapeuti volto a disinnescare questa conflittualità ideologizzata, ma, purtroppo, la psicoterapia non ha mai nulla da dire quando l’irrazionalità permea ideologie culturalmente radicate.
Il vittimismo è un disturbo psicologico che nel femminismo viene ideologizzato. Nessuno subisce volentieri delle prepotenze. Molto presto i bambini sono sensibili all’equità nelle relazioni e protestano vivamente a due anni se qualcuno si appropria dei loro oggetti e a tre anni anche se qualcuno sottrae ad altri degli oggetti (cfr. Rossano-Rakoczy-Tomasello, 2011. p. 225). Per questo i bambini e le bambine manifestano una spontanea generosità ed un’indisponibilità a subire ingiustizie. A maggior ragione una donna di venti o quarant’anni non può accettare umiliazioni “per amore”. Se lo fa, o è stupida o ha i suoi vantaggi (immaginari e quindi difensivi) e solo la follia di massa ha reso possibile il successo di libri semplicemente assurdi come Donne che amano troppo (Norwood, 1985). Poiché le donne non sono più stupide degli uomini, quando tendono a sottomettersi lo fanno per qualche ragione e, in fondo, proprio per le stesse ragioni per cui molti uomini tendono ad essere prepotenti.
L’idea di un’oppressione maschile esercitata nei confronti di un genere femminile incline alla sottomissione è semplicemente falsa. Preferirei fosse vera. Ripeto: preferirei proprio che fosse vera perché in tal caso potrei contare su metà dell’umanità. Tre miliardi e mezzo di donne capaci d’amore, non inclini alla distruttività o semplicemente da “risvegliare” con un po’ di “autocoscienza” costituirebbero per me un grande conforto e mi farebbero sentirei meno solo in questo grande mondo. Davvero vorrei poter credere a questo dogma del femminismo, ma tale fede sarebbe tanto rassicurante quanto infondata.