Nel film The
Sessions, di Ben Lewin, uno scrittore paralizzato dalla poliomielite (Mark)
ricorre all’aiuto di una “specialista sessuale” o “partner surrogata” per
scoprire, nei limiti consentiti dalla sua condizione fisica, il piacere del
sesso. Il film narra una storia particolare con una delicatezza e una
profondità davvero notevoli e, stranamente, anche con umorismo. In un dialogo
molto impegnativo fra Mark e l’amico sacerdote, questi gli chiede quale sia “la
differenza fra una partner surrogata e una comune prostituta” e Mark risponde:
“Non lo so, ma io credo che ci sia una differenza”. Egli ottiene la solidarietà
dell’amico probabilmente proprio perché prospetta una ricerca del piacere non
assimilabile a quella di chi si rivolge ad una “comune” prostituta. Quindi, anche se il
film resta apprezzabile, ripropone in modi “aggiornati” l’idea che il desiderio
sessuale debba comunque essere “giustificato".
Voglio partire proprio dall’affermazione, a
mio parere errata, di una “differenza” fra “assistenzialismo sessuale” e sesso
a pagamento per evidenziare che nell’ambito della cultura della “emancipazione”
il moralismo tradizionale viene spesso “corretto”, ma non viene messo in
discussione alle radici. I moralisti “progressisti” arrivano (a volte) ad
ammettere che la sessualità delle persone disabili sia stata sempre ingiustamente
disconosciuta e che l’incapacità pratica di tali persone di sperimentare il
piacere sessuale giustifichi degli
interventi professionali assimilabili a quelli di una relazione d’aiuto. Di
fronte alla disabilità, questi moralisti sospendono le loro svalutazioni
etiche. Tuttavia, ripristinano immediatamente tali svalutazioni quando non
considerano una disabilità certificata dai medici, ma il “banale” desiderio
sessuale di una persona sola o timida o confusa o superficiale. Nella stessa logica dell’emancipazione “selettiva” i gruppi
femministi evidenziano le discriminazioni e le oppressioni che affliggono le
donne, ma non quelle che affliggono gli uomini e denunciano la violenza “tipicamente
maschile”, ma non quella “tipicamente femminile”. Anche i sostenitori dei
diritti delle persone omosessuali, non a caso, sottolineano soprattutto il loro
diritto al matrimonio e alla genitorialità, in modo da far notare che non
pensano “solamente” al piacere. Non si deve nemmeno dimenticare che molte
persone riconoscono con facilità che la masturbazione possa essere una
necessità per gli adolescenti e per le persone sole, ma con meno facilità
considerano la pornografia un settore commerciale e culturale “dignitoso”.
Ovviamente ci sono anche persone realmente tolleranti, che non si limitano a tollerare qualcosa pur di continuare a
svalutare “il resto”, e che cercano di capire
la realtà e non solo di giustificare
qualche segmento della realtà, ma in genere le battaglie ideologiche sono
combattute da persone che non immaginano nemmeno di poter accettare
incondizionatamente il piacere sessuale e quindi non riconoscono la sua
importanza nell’esistenza umana. Ora, nella cultura sessuonegativa in cui siamo
immersi, se sono “insolite” le proposte relative all’assistenza sessuale (cfr.
ad es. Ulivieri, 2013), sono per molti ancora “impensabili” le proposte delle
persone che fanno sesso a pagamento (cfr. ad es. Covre, 2015).
Amnesty International ha approvato di recente
(11 Agosto 2015) una bozza di proposta per la depenalizzazione in tutti i paesi
della prostituzione, perché la depenalizzazione costituisce l’unica reale garanzia per i diritti umani delle
persone che fanno sesso a pagamento (Cfr. Noury, 2015). Solo riconoscendo tale
professione, infatti, gli Stati possono scoraggiare ogni forma di sfruttamento,
traffico o violenza e soprattutto possono facilmente punire ogni abuso. Di fatto, tale decisione è stata molto sofferta,
perché l’impegno per il riconoscimento di tale attività come attività
professionale è stata da molte persone interpretata (pretestuosamente) come una
forma di complicità nei confronti dello sfruttamento della prostituzione che,
invece, è favorito proprio dalla marginalizzazione dell’attività. Tutte le
scuse sono buone, purtroppo, quando non si tollera qualche aspetto della vita
umana e si pretende di decidere cosa gli altri dovrebbero essere e dovrebbero
fare.
Ciò che a mio parere va chiarito per spiegare la
diffusione della prostituzione in Italia (che coinvolge milioni di persone ogni
anno) e nel mondo, è il fatto che la prostituzione si colloca proprio all’interno dell’orizzonte culturale e
sociale in cui rientra l’idealizzazione della famiglia. L’idea che la
“nostra” cultura sia quella della famiglia e che la prostituzione costituisca
il “vizio” che vi si oppone è falsa e nasconde il fatto che la cultura
sessualmente repressiva genera negli uomini e nelle donne sia il culto della “affettività asessuata famigliare”, sia la ricerca di rapporti sessuali in
spazi e tempi circoscritti (praticati a volte nelle “avventure” occasionali e
in altri casi in incontri a pagamento). Tuttavia, la realtà è quella che è,
anche se viene disconosciuta: viviamo in una società in cui esistono poche
persone fisicamente disabili e moltissime persone “relazionalmente disabili”
che, pur essendo “sessualmente abili”, sono “incastrate” in relazioni
“normalmente devastanti” e cercano “assistenza”. La sessualità a pagamento
costituisce una risposta (non entusiasmante, ma realistica) ai bisogni non
soddisfatti e anche calpestati dalla cultura del non-piacere e della
non-intimità.
Nei rapporti sessuali a pagamento delle persone reali fanno delle esperienze
reali, piacevoli e dolorose, come nei normali rapporti di coppia. Io credo
che un po’ di compassione e di passione si manifesti in tutte le relazioni
matrimoniali, extra-matrimoniali, a pagamento, eterosessuali, omosessuali e
persino nelle fantasie erotiche della masturbazione maschile e femminile.
Tuttavia, questi sprazzi di compassione e di passione creano una melodia
psicologica disturbata dal rumore di fondo delle invettive sui diritti, sui
doveri e sui “valori” inventati da chi non sa che fare della propria vita e si
dedica alla devastazione della vita degli altri. In questo senso, quindi,
l’idealizzazione del sesso matrimoniale/famigliare “giustificato” e la ricerca
di esperienze sessuali “ingiustificabili” (sia quelle definite “tradimenti”,
sia quelle a pagamento) costituiscono due facce della stessa medaglia.
Parlerò soprattutto della prostituzione femminile e
quindi delle sex worker o accompagnatrici e di clienti maschi,
senza con ciò implicare che il sesso a pagamento si riduca solo ai casi di
uomini che acquistano “accoglienza sessuale” e di donne che mettono a
disposizione tempo e capacità personali. Esiste infatti una realtà complementare in cui
sono le donne ad acquistare accoglienza sessuale e gli uomini a rendersi disponibili. E’ solo
questione di proporzioni. Nelle “normali” relazioni di coppia sono
soprattutto le donne a negarsi (o a “concedersi”) e sono soprattutto gli uomini
a sentirsi frustrati; la masturbazione è praticata da maschi e femmine, ma
soprattutto dai maschi; la pornografia è rivolta a uomini e donne, ma
soprattutto agli uomini; i tradimenti coniugali sono attuati da mariti e mogli,
ma soprattutto dai mariti. Quindi, anche il sesso a pagamento riguarda entrambi
i sessi, ma in misura sensibilmente maggiore è offerto dalle donne agli uomini.
Questi fatti dipendono da quella che ho definito la “seconda catastrofe”
dell’umanità, che nelle donne ha “colpito” soprattutto il desiderio e negli
uomini ha colpito soprattutto la capacità di legare il desiderio alla
tenerezza. Non voglio tornare sul tema, ma voglio sottolineare che la
diffusione del sesso a pagamento dipende proprio dalla repressione sessuale
(che colpisce maschi e femmine) e non da particolari “inclinazioni” (o “colpe”)
dipendenti dal genere. Se moltissime donne riscoprissero le loro capacità erotiche,
diminuirebbe immediatamente il numero delle accompagnatrici e aumenterebbe
vertiginosamente il numero degli accompagnatori. Parlerò, quindi, di sesso a
pagamento in generale e, solo per non complicare il discorso, mi riferirò
prevalentemente al sesso a pagamento offerto da donne a uomini.
Come ulteriore premessa al discorso da sviluppare,
voglio precisare che il sesso a pagamento deve essere esaminato solo per ciò che è, e non per gli aspetti che in certi casi ne
condizionano l’espressione. Il sesso a pagamento, in quanto tale, quindi, non ha nulla a che fare con il controllo
mafioso di tale attività e con la riduzione in schiavitù di donne, così come la
religione islamica, in quanto tale,
non ha nulla a che fare con il terrorismo o come la religione cattolica, in quanto tale, non ha nulla a che fare
con la pedofilia manifestata da alcuni sacerdoti. Ciò va sottolineato, perché
molte persone “progressiste”, con la
scusa della lotta al controllo criminale della prostituzione (di cui, di
fatto, nessuno si occupa davvero)
avanzano proposte bizzarre volte al “contenimento” del “degrado urbano” indotto
dalle signorine che “adescano” i passanti. Purtroppo, tali normali assurdità
non devono stupire: se pochi anni fa le persone di colore nel “civile e
sviluppato” Sudafrica non potevano mescolarsi ai bianchi nelle città (se non
per svolgere lavori umili in certi orari) e ciò appariva normale a tutti (o quasi), non ci si può stupire del fatto che la
mentalità “escludente” oggi colpisca persone che svolgono un’attività assistenziale come tante altre, ma
considerata “non dignitosa” solo perché ha a che fare con il sesso.
Ogni proposta di “regolamentazione” (dalla creazione
di “zone a luci rosse” all’istituzione di “locali a luci rosse”) non risolve il
problema del possibile sfruttamento delle sex worker, ma consolida idee
bizzarre come quelle del “corpo mercificato”, della “femminilità svilita” o del
“turbamento” delle “persone per bene”. Chi dice che non sa come spiegare ai
figli la presenza delle “lucciole” per strada dovrebbe chiarire come mai riesca
a spiegare con tanta facilità ai figli i notiziari nei quali si riporta che il
papa ha condannato pubblicamente (con notevole ritardo) la pedofilia presente
persino nella chiesa, o che dei terroristi hanno compiuto un massacro. Di
fatto, nessuno vuole ammettere che il sesso a pagamento crea inquietudine proprio perché nell’immaginario delle
persone sessualmente represse è un’oasi di “eccessiva felicità” e quindi,
deve essere negato e, se non può essere ignorato, deve essere contrastato.
Questa idea, ovviamente, attraversa solo la mente di persone terrorizzate dalla
propria spontaneità, dai propri desideri e dal piacere. Chi odia le proprie
sensazioni non sopporta che gli altri abbiano delle sensazioni e pensa che
qualsiasi sensazione sia “troppo bella” e quindi “indegna” e debba essere
svalutata e contrastata in qualsiasi modo.
Ciò che mi colpisce maggiormente in questa piccola guerra è
la massa ingombrante di discorsi, di proposte e di testi pubblicati in cui si
dà sempre per scontato che il sesso a pagamento sia “una cosa a sé”, sia un
“problema” e sia quindi qualcosa su cui si deve “intervenire”. Le divergenze
che si rilevano quando il “tema” è trattato senza i toni del fanatismo,
riguardano solo la “incisività” degli interventi. Non è facile capire perché
sia necessario e urgente intervenire su tale realtà e non sulla crudeltà delle
cause di divorzio, o sulle persone che vivono assieme, fanno figli e poi
smettono di far sesso e iniziano a ingrassare, a litigare e a frequentare tanti
amici e amiche perché in casa si annoiano. Le cose difficili da capire sono
davvero tante, ma soprattutto quelle che nessuno vuole capire accendono le
polemiche e infiammano gli animi. Perché anche sui giornali progressisti si
trovano contributi di persone che “ragionano” sul modo di contrastare la
“piaga” della prostituzione e non la piaga della televisione o
dei Testimoni di Geova? Molti si suicidano durante le festività natalizie
considerate da tutti una cosa sensata, ma ben pochi si suicidano dopo aver
fatto sesso con una sex worker: allora di quali “piaghe” si può parlare su un
piano razionale?
Per completare la lista delle premesse “scomode”,
credo di dover ricordare che nella “realtà reale”, quella che viene comunemente
indicata come prostituzione è solo la
componente consapevolmente accettata e quindi onesta del sesso a pagamento. Il sesso a pagamento, però, di fatto,
è molto più praticato di quanto si voglia ammettere. In tutti i casi in cui il
sesso non è sperimentato con gioia, con passione e per una consapevole e
reciproca ricerca del piacere e dell’intimità, è offerto in cambio di qualcosa.
Quindi è offerto a pagamento. Mi
spiace dover essere così “tagliente”, ma le cose stanno come stanno, anche se
ciò non risulta rassicurante: il sesso è
venduto e comprato in tutti i casi in cui non esprime complicità, gioco e
coinvolgimento emotivo. Se un uomo o una donna cerca una persona con cui è
“disponibile” anche a far sesso, ma
con cui vuole soprattutto formare una
famiglia e quindi vuole “sentirsi come tutti” o avere un sostegno economico o
condividere la gestione della casa, fa un commercio
sessuale, anche se non lo dichiara e persino se non ne è consapevole. Se
invece “subisce” una manipolazione credendo a (false) dichiarazioni di “amore”
da parte del/della partner, si trova comunque a pagare per una disponibilità
sessuale ingannevole, espressa e poi “revocata”. Nei divorzi, i nodi vengono al
pettine e gli equivoci vengono inequivocabilmente monetizzati.
E’ davvero strano che molte persone si indignino se
una persona chiede una certa somma di denaro e non di più, per una prestazione concordata e per un tempo definito, e trovino del tutto accettabile “eticamente”
che una persona rivendichi in una causa di divorzio beni mobili e immobili ed
anche un vitalizio in cambio di una manciata di rapporti sessuali dichiarati
inizialmente “amorevoli” e in seguito sempre più associati a rifiuti, contrasti
e litigi. Poco conta che chi ci rimette sia l’uomo o la donna, ma sicuramente una
relazione di coppia è tale se è una relazione sessuale (altrimenti va definita
relazione d’amicizia o di reciproco sostegno in una convivenza) e non si
capisce perché nei divorzi siano soprattutto i soldi ad essere pretesi da
qualcuno. In ogni caso, a mio parere, vi è prostituzione anche quando il sesso
è “concesso” per l’ottenimento di “vantaggi” psicologici (reali o immaginari) anziché per passione. In questo senso,
ciò di cui comunemente ci si indigna quando si stigmatizza il “fenomeno” della
prostituzione, è semplicemente la punta “trasparente” (e quindi “onesta”) di un
grande iceberg costituito dalla normale (e “disonesta”) prostituzione culturalmente
e socialmente accettata, nella quale il sesso è offerto per l’ottenimento di benefici
estranei alla dimensione sessuale.
Se lasciamo da parte le situazioni in cui vi è
sfruttamento della prostituzione (le uniche che dovrebbero suscitare
indignazione e soprattutto interventi
risolutivi) e che sono situazioni di violenza criminale, al pari di quelle
(tutt’altro che erotiche) in cui gli extracomunitari vengono sfruttati per
raccogliere pomodori, dobbiamo tener
presente che la realtà del sesso a pagamento è molto variegata. Vi sono sex
worker (femmine, maschi e transessuali) che cercano clienti in strada
(accettando/subendo a volte una “protezione”) e che hanno un ruolo sociale
assimilabile a quello delle persone che al semaforo puliscono i vetri; vi sono
sex worker che in altri paesi meno moralisti lavorano in locali pubblici, pagano
le tasse e hanno un ruolo sociale assimilabile a quello di qualsiasi
commerciante; vi sono anche accompagnatrici
(e accompagnatori) che lavorano in piena autonomia e che hanno un tenore di
vita elevato. Queste differenze, significative sul piano pratico ed economico, non cambiano ciò che è essenziale nei
rapporti sessuali a pagamento, sia per chi offre tali servizi, sia per chi
li richiede.
Ciò che è “essenziale” in tutti gli incontri
sessuali a pagamento, non è tale sul piano etico, dato che il piano etico è
solo un piano immaginario, ma è tale su un piano esperienziale e umano: nelle
relazioni sessuali a pagamento una persona offre un contatto fisico intimo senza necessariamente desiderarlo e
quindi in cambio di una ricompensa e un’altra persona accetta questa offerta e vi si adegua. All’interno di questo
contesto si realizzano esperienze emotive che sono sempre uniche, così come
all’interno di altri contesti (quello della “avventura”, quello della
convivenza, quello del matrimonio, quello del “tradimento” o quello della
separazione). Come non possiamo sapere nulla
di ciò che di dolce, terribile, passionale o devastante si verifica in una
relazione matrimoniale, se siamo a conoscenza solo dell’esistenza di un
certificato di matrimonio, così non possiamo (e non dobbiamo pretendere di)
sapere nulla di ciò che si verifica in una relazione sessuale a pagamento, se
sappiamo solo che è una relazione a pagamento. Chi ha dei dubbi può utilizzare
la rete e navigare fra blog e siti che riportano confidenze e riflessioni di
persone “del mestiere” ed anche di loro clienti: si renderà conto del fatto che
in questo “mondo” si trova davvero di tutto, come nel “mondo normale”. In tale
mondo esistono persone lucide, persone confuse, persone lucide ed anche
confuse, persone distaccate, persone compassionevoli e persone superficiali.
Persone. Persone come gli/le amanti, come i mariti e le mogli delle normali
famiglie, come i ragazzi e le ragazze obbedienti o ribelli. Solo persone con
un’unica storia, con particolari sentimenti, con conoscenze e illusioni, con la
loro umanità e le loro difese psicologiche, impegnate ogni giorno a costruire
la loro esistenza.
Come in rete si possono leggere pensieri e
riflessioni di tutti i tipi, girando per strada si possono leggere messaggi di
tutti i tipi trasmessi con il corpo. Nella zona in cui abito molte ragazze “si
offrono” per strada in modi assolutamente particolari: alcune, molto vivaci, si
presentano come dispensatrici di allegria, altre si pongono come “irraggiungibili”
o almeno difficili da conquistare, altre, più dimesse, sembrano “rassegnate” a
“fare quella vita”. In altre parole, nel mondo del sesso a pagamento si
trasmettono le stesse verità e le stesse bugie che si trasmettono nel mondo
“normale”. L’unica specificità riguarda la realtà di un servizio di tipo
erotico offerto e accettato in cambio di un pagamento. Chi si ostina ad
aggiungere altri fattori “essenziali” a tale realtà cerca solo di dare
consistenza “oggettiva” alle proprie paure e alla propria rabbia.
E’ indispensabile, a questo punto, dissolvere anche
alcune comuni “interpretazioni” del tutto irrazionali del sesso a pagamento.
L’idea che le accompagnatrici “vendano il proprio corpo” è
semplicemente falsa, oltre che sciocca. Chi offre servizi sessuali mantiene la
piena proprietà ed il pieno controllo del proprio corpo. Sicuramente accetta
nell’ambito professionale un grado di confidenza che abitualmente non accetta,
ma in tal modo fa ciò che fanno anche i professionisti del settore sanitario e
assistenziale: un ginecologo non vorrebbe osservare la vagina di qualsiasi
donna che incontra sull’autobus e le badanti in vacanza non sono disponibili a
lavare qualsiasi persona sudata che incontrano al mare. Sex worker, medici e
badanti, quindi, si fanno pagare per le loro competenze ed anche per quell’eccesso di
intimità che decidono di concedere. Si obietterà che l’intimità sessuale
ha, inevitabilmente, una forte valenza psicologica ed emozionale, ma nemmeno
questa precisazione giustifica l’idea che chi si prostituisce venda il proprio
corpo e persino la propria “psiche”. Infatti io non credo di “vendere la mia
psiche”, pur facilitando nelle sedute un’intimità (emotiva, non erotica) che in
genere i miei clienti non hanno sperimentato nemmeno con i loro migliori amici.
Accetto di chiarire (quando ci riesco) delle difficoltà e delle sofferenze e mi
impegno in tal senso nelle sedute in cambio di denaro semplicemente perché non provo
alcun desiderio di occuparmi dei problemi degli altri. Ciò non significa, nel
mio caso, che io “venda i miei sentimenti”: quelli, più o meno intensi, sono sempre gratuiti, dato che vendo
solo il mio tempo e le mie conoscenze. Per questi stessi motivi, l’idea che nel
sesso a pagamento venga “venduto il corpo” o anche l’affettività, non sta in
piedi e, sotto questo profilo, l’indignazione colpisce le/i sex worker e non gli
infermieri o gli insegnanti o gli psicologi, solo per l’insofferenza radicata
ed endemica nei confronti della sessualità. Un’insofferenza che è un sintomo
grave, ma che, rientrando nella normalità, non viene notato dagli
psicoterapeuti.
La convinzione pregiudiziale relativa al sesso
“giustificato” solo dall’amore e non “giustificabile” dal semplice piacere e
tanto meno da una remunerazione economica è talmente radicata da entrare
persino nella mente di persone che si ritengono distanti da qualsiasi moralismo
e, infatti, ho trovato anche in me
delle tracce (lievi ma disturbanti) di tale radicato pregiudizio. Una sera,
portando a spasso la mia cagnona, passai alle spalle di una ragazza “del
mestiere” che si girò, fece un complimento alla mia “amica” e mi chiese se
potesse accarezzarla. Rispondendole con gentilezza, dopo un attimo mi accorsi
di provare un vago disagio: nel quartiere tutti mi conoscono e qualcuno forse
mi stava osservando mentre “interagivo” con una sex worker. Fu solo un attimo e
immediatamente pensai che tutto il mondo poteva anche pensare ciò che
preferiva, ma io avrei comunque goduto della bellezza del sorriso di quella
ragazza e avrei comunque lasciato che accarezzasse la mia amica a quattro
zampe. Quell’attimo di disagio mi turbò e mi fece riflettere sulle scorie di
pregiudizi che non avevo ancora smaltito in anni di analisi, di letture e di
lotte. Compresi anche che il mio pregiudizio riguardava più i clienti delle
prostitute che le prostitute: in fondo pensavo “da qualche parte” che la
ricerca del sesso a pagamento implicasse l’idea secondo cui le donne sarebbero
fondamentalmente delle “bistecche” da consumare. Di fatto, le cose non stanno
così e molte sex worker raccontano in rete con autentica empatia storie
semplicemente “umane” e spiegano che molti dei loro clienti cercano più un
contatto affettivo che un semplice contatto sessuale, oppure portano in quel
contesto “professionale” le ansie che non riescono a sciogliere nei rapporti
matrimoniali, oppure cercano un po’ di piacere per distrarsi da una vita dura e
solitaria. Anche i clienti delle sex worker, quindi, sono persone: persone
arroganti o timide, rozze o delicate, incapaci di provare sentimenti o inclini
ad innamorarsi perdutamente della signorina che vuole offrire solo un po’ di
calore e di contatto. Persone. Sempre e solo persone. Persone che mostrano il
meglio ed il peggio di ciò che sono, a seconda di quanto riescono ad esprimere
delle proprie potenzialità. In questo senso è davvero istruttivo leggere pagine
scritte da “accompagnatrici”, “accompagnatori” ed anche da persone transessuali
o omosessuali. Si trovano solo pagine scritte da persone. Persone con le stesse
confusioni e con le stesse lucide consapevolezze che caratterizzano le madri, i
padri, i medici, i preti, gli psicologi, gli adolescenti, i militari e i
contadini.
Nelle indignate denunce del sesso a pagamento, viene
sistematicamente negato proprio il fatto che esso sia praticato da persone.
Persone che con quel lavoro mantengono delle famiglie in difficoltà, che pagano
gli studi ai figli o che non ne potevano più di lavorare tutto il giorno per
uno stipendio davvero umiliante. Persone che, come clienti, offrono un po’ di
denaro per ricevere un po’ di piacere e di compagnia; o che hanno subito un
lutto o una separazione traumatica e non contano di potersi più innamorare; o
persone anziane, persone timide e così via. Persone che, come le altre, sentono
qualcosa, offrono qualcosa, cercano qualcosa. Persone che sono però concepite
solo come peccatori/peccatrici o vittime/complici del maschilismo da parte di
chi ha troppa paura e rabbia per riflettere e provare emozioni comprensibili.
Io non so se sia più offensiva per le sex worker la svalutazione di chi le
considera immorali (e quindi da “redimere”) o la svalutazione di chi le
considera “vittime” del maschilismo (e quindi da “liberare”). Non lo so, come
non so se sia preferibile la fucilazione o la sedia elettrica. So però una
cosa: la svalutazione feroce di questo ambito della sessualità è una piaga che
meriterebbe di essere affrontata.
Con le osservazioni fin qui fatte ho semplicemente
sgombrato il terreno da domande mal poste e da riflessioni inappropriate sulla
sessualità a pagamento. In pratica ho solo chiarito cosa essa non sia e come non possa ragionevolmente essere esaminata. Manca però ancora tutto
il resto, cioè tutto ciò che è sensato e utile chiarire a proposito di quello
che è a volte definito il più antico mestiere del mondo e che è quindi anche il
più antico consumo del mondo. Un dubbio sorge a questo punto: se il sesso a
pagamento è un lavoro come un altro, che comporta una particolare intimità
fisica (come quella sperimentata in molte attività sanitarie o assistenziali) e
una particolare intimità psicologica (come quella analitica o quella psicoterapeutica
o quella religiosa) e che si sviluppa in infiniti modi (come qualsiasi
relazione umana), possiamo davvero dire qualcosa di specifico su tale attività
e su ciò che pensano e sentono, nel contesto di tale attività, le persone che
offrono o richiedono “accoglienza sessuale”? O dobbiamo limitarci a “smontare”
i pregiudizi?
Credo che smontare i pregiudizi non sia mai una cosa
da poco e credo che tale impegno comporti, anche nel caso del sesso a
pagamento, una reale disponibilità a mettere in discussione idee, atteggiamenti
e sentimenti molto profondi. Credo però che, dopo aver sgombrato il terreno da
convinzioni irrazionali, si possa anche individuare qualcosa che realmente
riguarda le persone che offrono o cercano sesso a pagamento. Non qualcosa di
“etico” o di “clinico”, ovviamente, ma qualcosa che l’irrazionalità sociale
occulta proprio con i pregiudizi, la superficialità e l’intolleranza.
Ciò che caratterizza necessariamente la sessualità a pagamento è una particolare sofferenza, più o meno consapevole e accettata, ma
reale. Una specifica declinazione del
dolore psicologico che in altri modi permea tutti i rapporti interpersonali e
tutte le attività professionali. Se la consapevolezza di tale dolore manca, le/i
sex worker fanno sesso a pagamento in “piena incoscienza”, così come
normalmente moltissime persone fanno in piena incoscienza esperienze sessuali
“terribilmente normali”, o svolgono in piena incoscienza altre attività
professionali. Il sesso a pagamento
implica necessariamente, da parte di chi lo offre, il dolore di sperimentare
rapporti più intimi di quelli corrispondenti ai desideri personali e implica,
da parte di chi lo cerca, il dolore di trovare un’intimità psicologica meno
intensa di quella ottenuta sul piano fisico. Sex worker e clienti possono
(come le/gli amanti) fare sesso con più o meno coinvolgimento e con più o meno
piacere, ma (a differenza delle/degli amanti) si trovano a far sesso con una
persona con la quale, al di fuori del rapporto professionale/economico non vorrebbero o non potrebbero far sesso. A parte i casi (certamente poco frequenti) di
un rapporto a pagamento che si trasforma in una relazione passionale, chi offre
sesso a pagamento al cliente si negherebbe in assenza del pagamento e chi
ottiene sesso a pagamento non otterrebbe nulla se non accettasse di pagare il
tempo, le competenze e la disponibilità. Tale situazione è dolorosa, ma il
dolore può essere disconosciuto se chi offre sesso trova una gratificazione (illusoria) proprio nel rapporto a pagamento
e se chi cerca sesso trova una
gratificazione (illusoria) proprio nell’esperienza di pagare una
“prestazione sessuale”.
Tali possibili “gratificazioni” rientrano in una
logica di potere e di controllo che non ha molto a che fare con la sessualità e
che, invece, rientra nell’ambito delle difese psicologiche. Ovviamente, tali
difese limitano la percezione del dolore, ma lasciano intatto sia il dolore
generato dalla situazione attuale, sia il dolore antico, da sempre soffocato.
Le sex worker molto cercate e ben pagate che provano orgoglio per il loro
“successo”, attuano sul piano lavorativo delle difese psicologiche analoghe a
quelle dei medici o degli architetti o dei cantanti più soddisfatti della
propria “visibilità” che dei servizi che offrono, e quindi più appagati
dall’idea di essere “accettabili” (come non
lo erano nell’infanzia) che dal fatto reale di fare qualcosa di sensato e utile
nel mondo dei grandi. La “logica” del potere è sempre e comunque irrazionale e
rinvia all’illusione infantile di poter ottenere un “valore personale” e quindi
una “sicurezza” con il successo.
L’autocompiacimento dovuto al fatto di avere qualità
speciali che in realtà sono “doni ricevuti” (la bellezza, o anche le
competenze) è del tutto irrazionale, dato che dobbiamo solo ringraziare i
genitori se siamo belli e la società se siamo bravi a fare qualcosa e non siamo
condannati a vivere da primitivi. Le qualità generano stima, non amore e
qualsiasi sex worker o qualsiasi intellettuale sa benissimo che dei bambini
brutti e stupidi possono essere stati amati più di loro. Proprio nella loro
infanzia hanno inventato le olimpiadi dell’accettazione e hanno dedicato la
vita a dimostrarsi “superiori” in qualcosa o almeno “normali”. Ciò vale ovviamente
solo per le persone che sono “attaccate” alla loro immagine, ma, purtroppo, le
persone realisticamente umili sono poche. Anche quelle che si disprezzano lo
fanno semplicemente per cullarsi nell’idea di avere qualche qualità che
dovrebbero e potrebbero (prima o poi) esibire.
Le sex worker facilmente provano spesso anche il
bisogno di dimostrare (a loro stesse), proprio
con il loro lavoro, che non dipendono affettivamente
da nessuno. La loro “autonomia” è oggettivamente dimostrata dal fatto che i clienti
le pagano e che loro non hanno chiesto nulla. In realtà, proprio il bisogno di
dimostrare ogni giorno questo fatto, dimostra che sono terrorizzate dall’idea
di rischiare una dipendenza emotiva che potrebbe riaprire una ferita antica,
mai sanata. E’ comprensibile, quindi, che le sex worker proverebbero dolore per
gli aspetti realmente dolorosi della loro professione se non attivassero la
contro-dipendenza che genera distacco emotivo. Questo atteggiamento difensivo,
ovviamente, caratterizza anche persone che fanno altri lavori e che “dimostrano
la stessa bugia” in altri modi. La contro-dipendenza impoverisce la vita delle
persone, sia che facciano sesso a pagamento, sia che svolgano altre attività
professionali centrate sui bisogni degli
altri, sia che mantengano una relazione di coppia con un/una partner che
non stimano e che non lasciano inventando una comoda scusa (ad esempio quella
per cui “si sentirebbero in colpa”, dato che lui/lei non potrebbe “reggere” la
separazione). Sembra incredibile che le persone contro-dipendenti credano
davvero alle bugie che si raccontano, ma sono sia convinte di ciò che pensano,
sia capaci di provare le emozioni corrispondenti ai loro pensieri. Di fatto
rinunciano a cercare rapporti reali, caratterizzati da una reale dipendenza
dovuta al piacere realmente sperimentato ed all’affetto realmente condiviso. In
un rapporto reale si sentirebbero vulnerabili e, ricevendo amore, finirebbero
per “ricollegarsi” all’amore che non hanno mai ottenuto.
Ovviamente,
le difese psicologiche delle sex worker possono essere moltissime, come quelle
delle commesse o dei magistrati o degli astronauti, perché le sex worker sono
persone come le altre e sono limpide e contorte come tutte le altre. Il dolore
che le accomuna e che dipende proprio dal lavoro che svolgono è costituito
dall’intimità “eccessiva” (rispetto al loro desiderio) che devono accettare ed
anche favorire per garantirsi la sopravvivenza. Le badanti e i professionisti
che svolgono un lavoro psicologico sperimentano lo stesso dolore, se non se ne dissociano con fantasie di
potere (essere “indispensabili”, “molto disponibili”, “molto competenti”,
ecc.). Anche se questo discorso può risultare insolito o
scomodo a chi crede che il dolore delle sex worker sia riconducibile alla
“umiliazione” o allo “squallore” delle prestazioni, credo che le mie
convinzioni siano fondate. Le sex worker che svolgono un’attività indipendente
hanno il controllo della loro attività e fanno ciò che qualsiasi amante
appassionata desidera fare. Fanno
quindi ciò che risulta umiliante o “squallido” solo a chi non ha un buon
rapporto con la propria sessualità. Purtroppo non fanno sesso con i partner
“giusti” e quindi, se non sono dissociate dal proprio desiderio di contatto
emotivo, soffrono necessariamente per l’intimità “eccessiva” che favoriscono.
Per questo motivo credo che spesso attivino delle dissociazioni dai loro
desideri ed anche da vissuti antichi di dipendenza emotiva terribilmente
dolorosi. Il dolore dell’umiliazione e dello squallore delle prestazioni non
riguarda però in modo specifico le sex-worker: se si adattano al modo di far
sesso di clienti rozzi fanno esperienze non meno squallide di quelle fatte
dalle mogli o dalle amanti di tali clienti e certamente lo fanno con più consapevolezza,
più distacco e meno vittimismo.
Se passiamo alle esperienze dei clienti, dobbiamo
riconoscere che, avendo scelto una persona per cui provano desiderio, non
possono non provare dolore nel momento in cui pagano la prestazione, perché il
pagamento è un rifiuto. Se la
relazione fosse un quadro con la didascalia, tale didascalia riporterebbe
queste parole: “io non voglio alcuna intimità con te, ma sono disponibile ad un
rapporto intimo perché mi paghi”. In queste parole non c’è solo il rifiuto, ma anche un’accettazione, dato che una sex
worker che svolge autonomamente la professione è libera di non lavorare con
alcune persone e, di fatto, non lavora con chiunque. In ogni caso nel sesso a
pagamento, il rifiuto è determinato proprio dal pagamento. Il rifiuto non è da
intendersi come una svalutazione o come un rifiuto della totalità della persona
o comunque in termini drammatici, ma è presente. Può non essere sentito e,
ovviamente, la difesa più comune fra i clienti delle prostitute è la
superficialità: la mancanza di contatto con il semplice fatto che l’incontro
sessuale è limitato ed include un rifiuto.
Qualche moralista religioso o femminista può pensare
che in tale superficialità si manifesta la concezione o la “percezione” della
donna come semplice oggetto, ma proprio chi fa queste riflessioni tratta come
oggetti (peraltro disprezzati) le sex worker e i loro clienti: oggetti da
collocare in una crociata, non persone da capire. Tra l’altro, negli indignati
piagnistei sulle donne-oggetto viene completamente trascurato il fatto che i
clienti delle prostitute, se si dissociano dal proprio dolore, riducono ad
oggetti anche loro stessi. L’esperienza “elementare” di chi fa sesso a
pagamento con allegria perché “se la spassa un’oretta”, presuppone che non sia
percepita alcuna sensazione di solitudine. In altre parole, i clienti allegri e
soddisfatti non provano dolore perché “non ricordano” più di essere persone. Se
invece ammettono di essere persone possono egualmente far sesso a pagamento con
gioia e con una sincera simpatia per la partner scelta (ed anche frequentata
regolarmente), ma provano anche
dolore, per ciò che manca in tale relazione e per ciò che manca nella loro vita
e che li ha condotti a fare quell’esperienza.
Ci sono anche clienti che desiderano proprio
rapporti a pagamento per mantenere la sensazione (illusoria) di avere un potere
o un controllo sulla persona dalla quale, pagando, possono pretendere una prestazione sessuale e con questa arroganza (che può
avere sfumature sadiche) coprono ovviamente una storia terribile di solitudine
e di rifiuti. Occorre tener presente che non c’è nulla di realmente piacevole
nell’idea di controllare qualcuno con il proprio potere (economico) e
soprattutto che, sul piano emotivo, nessuna persona può essere controllata. In
ogni caso, tali clienti possono provare poco dolore solo perché si dissociano
da un dolore che esiste nella loro vita e che resta intatto. Tale dissociazione
carica di ostilità non ha nulla a che fare con gli ormoni maschili o col
maschilismo, ma riflette una gestione irrazionale di vicende interiori mai
superate. In tutte le relazioni (anche non erotiche) in cui una persona (un
uomo o una donna) cerca di avere (o si illude di avere) un potere su qualcuno, tale
persona fa del male e si fa del male senza aver alcuna consapevolezza di ciò
che realmente fa.
Le considerazioni fin qui svolte, ovviamente valgono
anche per i rapporti a pagamento in cui l’uomo offre una prestazione e la donna
“cerca compagnia”, perché uomini e donne sono assolutamente uguali nell’avere
desideri, nell’essere vulnerabili e nel decidere se accettare o negare il
dolore della loro vita. Tutto ciò che nel sesso a pagamento viene scambiato sul
piano affettivo è scambiato gratuitamente,
perché non è comprato e non potrebbe
essere comprato. E’ un regalo, piccolo o grande che sia. Quindi, se si accantonano
le bugie dei moralisti, degli ideologi ed anche delle persone che realmente
praticano il sesso a pagamento, resta il fatto che tale tipo di esperienza
sessuale può riflettere infinite sfumature di piacere e infiniti sentimenti, ma
sicuramente comporta un particolare
dolore, anche nei casi di relazioni cordiali, corrette, reciprocamente
rispettose o persino affettuose e prolungate nel tempo.
L’irrazionalità sociale aiuta le persone a non
provare dolore e a non provarlo nemmeno nel sesso a pagamento o nelle varie
relazioni d’aiuto, ma tale dolore esiste. Il “distacco professionale” nei
confronti dei “pazienti” suggerito agli psicoterapeuti in formazione
costituisce un modo per evitare rapporti simbiotici, confusi ed anche dannosi,
ma è comunque difensivo: sia gli psicoterapeuti, sia gli analisti, sia i
sacerdoti, sia gli insegnanti, sia i/le sex worker, possono evitare relazioni
confuse senza necessariamente mantenere alcun “distacco”, ma, in questo caso,
devono accettare il dolore delle relazioni in cui si impegnano. Nel mio lavoro
cerco sempre di tener presente che sono coinvolto emotivamente con le persone
con cui faccio sedute da un po’ di tempo e di cui ho visto la bellezza e la
delicatezza, ma da cui non posso cercare ciò che cerco in altri rapporti.
Implica anche la consapevolezza di essere spesso “desiderato” proprio per ciò
che non sono (ad esempio, una “fonte
di sicurezza”) e di essere poco importante per ciò che realmente sono come
persona. Tengo presente anche il fatto di essere benvoluto in qualche misura e
in qualche caso. Non solo: anche con la consapevolezza del mio affetto e
dell’affetto (più o meno “lineare”) dei clienti, tengo presente che mantengo
con loro un livello di intimità psicologica paragonabile, per certi aspetti, a
quello che ho sperimentato e sperimento con gli amici, ma tengo pure presente
che non mi accompagnano nella vita. Non sono estranei, sono persone care, ma
non sono le persone con cui vivo ogni giorno l’avventura di inventarmi la mia
vita.
In pratica, l’unico discorso sensato che può essere
sviluppato in modo specifico sui
rapporti sessuali a pagamento riguarda la
specificità del dolore che essi comportano. Il resto non caratterizza in
modo specifico tali rapporti e su ciò voglio essere molto chiaro. Ad esempio, è
facile (non necessario, però) che le/i sex worker, proprio scegliendo tale
attività, abbiano una propensione (difensiva) di fondo ad una promiscuità
sessuale o ad uno scarso coinvolgimento affettivo nel sesso o in generale. Può
capitare, quindi, che una ragazza abituata a relazioni brevi, confuse,
ambivalenti e molto corteggiata, in particolari circostanze decida di iniziare
a fare a pagamento e con più “sistematicità” ciò che comunque faceva in
precedenza, o può capitare che una persona senza inibizioni sessuali e poco
incline ad innamorarsi decida di offrire sesso per denaro in un momento di
difficoltà economiche. Le ragioni possono essere anche altre, ma in questi
casi, gli aspetti caratteriali e difensivi espressi nell’attività professionale
erano presenti anche prima e permarrebbero anche se l’attività professionale
venisse interrotta. Anche i clienti che trovano del tutto soddisfacenti i
rapporti sessuali a pagamento, sicuramente non mettono in gioco sentimenti
particolarmente intensi nelle relazioni di coppia o nelle avventure, e ciò
significa che questa “povertà” affettiva non ha a che fare con una specifica
relazione a pagamento, ma con il progetto di vita.
Un altro aspetto doloroso che caratterizza
l’esperienza di chi fa sesso a pagamento riguarda la storica e ancora
devastante presenza di pregiudizi “etici” e di manifestazioni di intolleranza.
Una grossa “fetta” delle espressioni volgari del linguaggio quotidiano riflette
un disprezzo molto radicato e anche molte norme incidono negativamente sulla
qualità della vita di chi offre servizi sessuali anziché assistenziali, tecnici
o intellettuali. L’intolleranza colpisce anche i clienti, ma colpisce soprattutto
chi offre prestazioni sessuali. A tale proposito, è opportuno fare qualche
riflessione sia sulle ragioni di tanto accanimento da parte delle persone
“moraliste e indignate”, sia sul modo in cui le vittime (reali) di tale
accanimento hanno reagito e reagiscono.
I livelli di intolleranza, esclusione, disprezzo (e
anche violenza) che caratterizzano i rapporti fra le persone “normali” e chi fa
sesso a pagamento sono sicuramente paragonabili a quelli che hanno colpito
altre minoranze. In genere, chi fa sesso a pagamento deve organizzarsi una
“doppia vita”: i famigliari non devono sapere e anche i conoscenti non devono
sapere. Inoltre lo Stato pretende da tutti i cittadini il versamento delle
imposte e riconosce a tutti i cittadini alcuni diritti, ma chi fa sesso a
pagamento vive in un limbo caratterizzato da una sorta di “disconoscimento
burocratico”. Si trovano in rete molti documenti che elencano rivendicazioni
del tutto ragionevoli delle/dei sex worker, ma tali istanze non seducono i
giornalisti e i politici. Se una prostituta viene ammazzata compare solo nei
registri della polizia e in un trafiletto della cronaca locale, o al massimo
viene inclusa nella lista dei “femminicidi”, mentre se un omosessuale viene
semplicemente insultato, la cosa risulta “intollerabile” per la “sensibilità”
delle persone “emancipate”. Io non credo che chi fa sesso a pagamento abbia
problemi più lievi o più gravi con “la gente” di quelli di altre minoranze o di
quelli di altri gruppi sociali colpiti da antiche o recenti forme di
intolleranza. Le persone che offrono sesso a pagamento non utilizzano, però,
come pure i fumatori e gli automobilisti, due “armi” che altri gruppi hanno
utilizzato per contrastare, ottenendo parziali o significativi successi,
l’ostracismo sociale e l’esclusione: l’arma (a volte, ma non sempre, razionale)
della formazione di un gruppo compatto e l’arma (irrazionale) del vittimismo.
Le minoranze etniche e religiose hanno ottenuto
indiscutibili vantaggi proprio definendosi come gruppi caratterizzati da convinzioni
condivise e le minoranze sessuali, soprattutto quella omosessuale, hanno
reagito all’intolleranza come a qualcosa che colpiva sia le persone sia il
gruppo. Ciò non si è mai verificato nel caso delle persone che offrono sesso a
pagamento e nemmeno nel caso dei fumatori e degli automobilisti: queste persone
non si sentono e non si definiscono come
“gruppo”. Le leggi, i divieti e anche le persone intolleranti, quindi,
possono colpire facilmente le persone poco inclini ad identificarsi in un
gruppo, mentre si devono confrontare con l’opposizione di interi gruppi che esprimono
una “identità condivisa dai loro membri”. Oggi solo le persone molto ignoranti usano ancora
parole come “checca”, ma anche i docenti universitari possono dire
tranquillamente, almeno fra amici, che senza finanziamenti statali la cultura
“va a puttane”.
Il sesso a pagamento continua ad essere oggetto di
intolleranza culturale e pratica anche perché le/i sex worker (come pure i
fumatori e gli automobilisti) non hanno mai giocato la carta (purtroppo sempre
vincente) del vittimismo. Appena un individuo o un gruppo riesce a presentarsi
come non responsabile di ingiustizie subite da altre persone perfettamente
responsabili, e si dichiara incapace di reagire, anche le persone meno
coinvolte emotivamente sentono l’esigenza irrefrenabile di dimostrare che non
sono “egoiste” e che appoggiano chi ha attuato la strategia vittimistica. Le
donne, i gruppi omosessuali e alcuni
gruppi etnici (non tutti) hanno ottenuto degli indiscutibili successi e
persino dei privilegi proprio grazie al loro vittimismo. Nei campi di
concentramento finivano gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari e i comunisti.
Tutte queste persone sono state oggettivamente
vittime del nazismo, ma gli ebrei hanno poi occupato, con la complicità o la
tolleranza del mondo “libero”, i territori del popolo palestinese, mentre i Rom
continuano a subire violenze fisiche e psicologiche; non sono più assassinati,
ma sono ancora trattati con disprezzo sia se compiono dei reati, sia se non
fanno nulla. Gli omosessuali hanno rovesciato il pregiudizio di cui erano
vittime, introducendo nella cultura “progressista” il concetto di “omofobia”
(che è solo un insulto spacciato per nozione teorica o clinica), mentre i
comunisti non hanno mai ottenuto alcuno “sconto” sulle valutazioni degli errori
di cui sono stati responsabili. Di fatto, il vittimismo è estraneo alla cultura
gitana ed alla cultura marxista, mentre è stato molto importante nelle
auto-descrizioni del popolo ebraico e della comunità omosessuale. Il vittimismo
non caratterizza le sex worker, che si sentono “costrette” solo nei casi in cui
sono davvero costrette con la
violenza o il ricatto a svolgere un’attività non scelta. Per questi motivi, la
cultura sessuonegativa continua ad esprimere una forte svalutazione ed una
marcata intolleranza nei confronti delle persone che fanno sesso a pagamento.
Il sesso a pagamento non esiste in quanto fenomeno
omogeneo e implica sempre solo un particolare tipo di limitazione della sessualità ed un particolare tipo di solitudine e
di dolore. Non caratterizza in alcun modo le persone e si declina con
infinite sfumature emotive. Di fatto, è l’altra faccia dell’idealizzazione
della famiglia e non è, quindi, un vizio da estirpare, ma una realtà che solo
una cultura del piacere e dell’intimità potrebbe ridimensionare.