sabato 14 luglio 2018

24. Sesso a pagamento







Nel film The Sessions, di Ben Lewin, uno scrittore paralizzato dalla poliomielite (Mark) ricorre all’aiuto di una “specialista sessuale” o “partner surrogata” per scoprire, nei limiti consentiti dalla sua condizione fisica, il piacere del sesso. Il film narra una storia particolare con una delicatezza e una profondità davvero notevoli e, stranamente, anche con umorismo. In un dialogo molto impegnativo fra Mark e l’amico sacerdote, questi gli chiede quale sia “la differenza fra una partner surrogata e una comune prostituta” e Mark risponde: “Non lo so, ma io credo che ci sia una differenza”. Egli ottiene la solidarietà dell’amico probabilmente proprio perché prospetta una ricerca del piacere non assimilabile a quella di chi si rivolge ad una “comune” prostituta. Quindi, anche se il film resta apprezzabile, ripropone in modi “aggiornati” l’idea che il desiderio sessuale debba comunque essere “giustificato".
Voglio partire proprio dall’affermazione, a mio parere errata, di una “differenza” fra “assistenzialismo sessuale” e sesso a pagamento per evidenziare che nell’ambito della cultura della “emancipazione” il moralismo tradizionale viene spesso “corretto”, ma non viene messo in discussione alle radici. I moralisti “progressisti” arrivano (a volte) ad ammettere che la sessualità delle persone disabili sia stata sempre ingiustamente disconosciuta e che l’incapacità pratica di tali persone di sperimentare il piacere sessuale giustifichi degli interventi professionali assimilabili a quelli di una relazione d’aiuto. Di fronte alla disabilità, questi moralisti sospendono le loro svalutazioni etiche. Tuttavia, ripristinano immediatamente tali svalutazioni quando non considerano una disabilità certificata dai medici, ma il “banale” desiderio sessuale di una persona sola o timida o confusa o superficiale. Nella stessa logica dell’emancipazione “selettiva” i gruppi femministi evidenziano le discriminazioni e le oppressioni che affliggono le donne, ma non quelle che affliggono gli uomini e denunciano la violenza “tipicamente maschile”, ma non quella “tipicamente femminile”. Anche i sostenitori dei diritti delle persone omosessuali, non a caso, sottolineano soprattutto il loro diritto al matrimonio e alla genitorialità, in modo da far notare che non pensano “solamente” al piacere. Non si deve nemmeno dimenticare che molte persone riconoscono con facilità che la masturbazione possa essere una necessità per gli adolescenti e per le persone sole, ma con meno facilità considerano la pornografia un settore commerciale e culturale “dignitoso”. Ovviamente ci sono anche persone realmente tolleranti, che non si limitano a tollerare qualcosa pur di continuare a svalutare “il resto”, e che cercano di capire la realtà e non solo di giustificare qualche segmento della realtà, ma in genere le battaglie ideologiche sono combattute da persone che non immaginano nemmeno di poter accettare incondizionatamente il piacere sessuale e quindi non riconoscono la sua importanza nell’esistenza umana. Ora, nella cultura sessuonegativa in cui siamo immersi, se sono “insolite” le proposte relative all’assistenza sessuale (cfr. ad es. Ulivieri, 2013), sono per molti ancora “impensabili” le proposte delle persone che fanno sesso a pagamento (cfr. ad es. Covre, 2015).
Amnesty International ha approvato di recente (11 Agosto 2015) una bozza di proposta per la depenalizzazione in tutti i paesi della prostituzione, perché la depenalizzazione costituisce l’unica reale garanzia per i diritti umani delle persone che fanno sesso a pagamento (Cfr. Noury, 2015). Solo riconoscendo tale professione, infatti, gli Stati possono scoraggiare ogni forma di sfruttamento, traffico o violenza e soprattutto possono facilmente punire ogni abuso. Di fatto, tale decisione è stata molto sofferta, perché l’impegno per il riconoscimento di tale attività come attività professionale è stata da molte persone interpretata (pretestuosamente) come una forma di complicità nei confronti dello sfruttamento della prostituzione che, invece, è favorito proprio dalla marginalizzazione dell’attività. Tutte le scuse sono buone, purtroppo, quando non si tollera qualche aspetto della vita umana e si pretende di decidere cosa gli altri dovrebbero essere e dovrebbero fare.
Ciò che a mio parere va chiarito per spiegare la diffusione della prostituzione in Italia (che coinvolge milioni di persone ogni anno) e nel mondo, è il fatto che la prostituzione si colloca proprio all’interno dell’orizzonte culturale e sociale in cui rientra l’idealizzazione della famiglia. L’idea che la “nostra” cultura sia quella della famiglia e che la prostituzione costituisca il “vizio” che vi si oppone è falsa e nasconde il fatto che la cultura sessualmente repressiva genera negli uomini e nelle donne sia il culto della “affettività asessuata famigliare”, sia la ricerca di rapporti sessuali in spazi e tempi circoscritti (praticati a volte nelle “avventure” occasionali e in altri casi in incontri a pagamento). Tuttavia, la realtà è quella che è, anche se viene disconosciuta: viviamo in una società in cui esistono poche persone fisicamente disabili e moltissime persone “relazionalmente disabili” che, pur essendo “sessualmente abili”, sono “incastrate” in relazioni “normalmente devastanti” e cercano “assistenza”. La sessualità a pagamento costituisce una risposta (non entusiasmante, ma realistica) ai bisogni non soddisfatti e anche calpestati dalla cultura del non-piacere e della non-intimità.
Nei rapporti sessuali a pagamento delle persone reali fanno delle esperienze reali, piacevoli e dolorose, come nei normali rapporti di coppia. Io credo che un po’ di compassione e di passione si manifesti in tutte le relazioni matrimoniali, extra-matrimoniali, a pagamento, eterosessuali, omosessuali e persino nelle fantasie erotiche della masturbazione maschile e femminile. Tuttavia, questi sprazzi di compassione e di passione creano una melodia psicologica disturbata dal rumore di fondo delle invettive sui diritti, sui doveri e sui “valori” inventati da chi non sa che fare della propria vita e si dedica alla devastazione della vita degli altri. In questo senso, quindi, l’idealizzazione del sesso matrimoniale/famigliare “giustificato” e la ricerca di esperienze sessuali “ingiustificabili” (sia quelle definite “tradimenti”, sia quelle a pagamento) costituiscono due facce della stessa medaglia.
Parlerò soprattutto della prostituzione femminile e quindi delle sex worker o accompagnatrici e di clienti maschi, senza con ciò implicare che il sesso a pagamento si riduca solo ai casi di uomini che acquistano “accoglienza sessuale” e di donne che mettono a disposizione tempo e capacità personali. Esiste infatti una realtà complementare in cui sono le donne ad acquistare accoglienza sessuale e gli uomini a rendersi disponibili. E’ solo questione di proporzioni. Nelle “normali” relazioni di coppia sono soprattutto le donne a negarsi (o a “concedersi”) e sono soprattutto gli uomini a sentirsi frustrati; la masturbazione è praticata da maschi e femmine, ma soprattutto dai maschi; la pornografia è rivolta a uomini e donne, ma soprattutto agli uomini; i tradimenti coniugali sono attuati da mariti e mogli, ma soprattutto dai mariti. Quindi, anche il sesso a pagamento riguarda entrambi i sessi, ma in misura sensibilmente maggiore è offerto dalle donne agli uomini. Questi fatti dipendono da quella che ho definito la “seconda catastrofe” dell’umanità, che nelle donne ha “colpito” soprattutto il desiderio e negli uomini ha colpito soprattutto la capacità di legare il desiderio alla tenerezza. Non voglio tornare sul tema, ma voglio sottolineare che la diffusione del sesso a pagamento dipende proprio dalla repressione sessuale (che colpisce maschi e femmine) e non da particolari “inclinazioni” (o “colpe”) dipendenti dal genere. Se moltissime donne riscoprissero le loro capacità erotiche, diminuirebbe immediatamente il numero delle accompagnatrici e aumenterebbe vertiginosamente il numero degli accompagnatori. Parlerò, quindi, di sesso a pagamento in generale e, solo per non complicare il discorso, mi riferirò prevalentemente al sesso a pagamento offerto da donne a uomini.
Come ulteriore premessa al discorso da sviluppare, voglio precisare che il sesso a pagamento deve essere esaminato solo per ciò che è, e non per gli aspetti che in certi casi ne condizionano l’espressione. Il sesso a pagamento, in quanto tale, quindi, non ha nulla a che fare con il controllo mafioso di tale attività e con la riduzione in schiavitù di donne, così come la religione islamica, in quanto tale, non ha nulla a che fare con il terrorismo o come la religione cattolica, in quanto tale, non ha nulla a che fare con la pedofilia manifestata da alcuni sacerdoti. Ciò va sottolineato, perché molte persone “progressiste”, con la scusa della lotta al controllo criminale della prostituzione (di cui, di fatto, nessuno si occupa davvero) avanzano proposte bizzarre volte al “contenimento” del “degrado urbano” indotto dalle signorine che “adescano” i passanti. Purtroppo, tali normali assurdità non devono stupire: se pochi anni fa le persone di colore nel “civile e sviluppato” Sudafrica non potevano mescolarsi ai bianchi nelle città (se non per svolgere lavori umili in certi orari) e ciò appariva normale a tutti (o quasi), non ci si può stupire del fatto che la mentalità “escludente” oggi colpisca persone che svolgono un’attività assistenziale come tante altre, ma considerata “non dignitosa” solo perché ha a che fare con il sesso.
Ogni proposta di “regolamentazione” (dalla creazione di “zone a luci rosse” all’istituzione di “locali a luci rosse”) non risolve il problema del possibile sfruttamento delle sex worker, ma consolida idee bizzarre come quelle del “corpo mercificato”, della “femminilità svilita” o del “turbamento” delle “persone per bene”. Chi dice che non sa come spiegare ai figli la presenza delle “lucciole” per strada dovrebbe chiarire come mai riesca a spiegare con tanta facilità ai figli i notiziari nei quali si riporta che il papa ha condannato pubblicamente (con notevole ritardo) la pedofilia presente persino nella chiesa, o che dei terroristi hanno compiuto un massacro. Di fatto, nessuno vuole ammettere che il sesso a pagamento crea inquietudine proprio perché nell’immaginario delle persone sessualmente represse è un’oasi di “eccessiva felicità” e quindi, deve essere negato e, se non può essere ignorato, deve essere contrastato. Questa idea, ovviamente, attraversa solo la mente di persone terrorizzate dalla propria spontaneità, dai propri desideri e dal piacere. Chi odia le proprie sensazioni non sopporta che gli altri abbiano delle sensazioni e pensa che qualsiasi sensazione sia “troppo bella” e quindi “indegna” e debba essere svalutata e contrastata in qualsiasi modo.
Ciò che mi colpisce maggiormente in questa piccola guerra è la massa ingombrante di discorsi, di proposte e di testi pubblicati in cui si dà sempre per scontato che il sesso a pagamento sia “una cosa a sé”, sia un “problema” e sia quindi qualcosa su cui si deve “intervenire”. Le divergenze che si rilevano quando il “tema” è trattato senza i toni del fanatismo, riguardano solo la “incisività” degli interventi. Non è facile capire perché sia necessario e urgente intervenire su tale realtà e non sulla crudeltà delle cause di divorzio, o sulle persone che vivono assieme, fanno figli e poi smettono di far sesso e iniziano a ingrassare, a litigare e a frequentare tanti amici e amiche perché in casa si annoiano. Le cose difficili da capire sono davvero tante, ma soprattutto quelle che nessuno vuole capire accendono le polemiche e infiammano gli animi. Perché anche sui giornali progressisti si trovano contributi di persone che “ragionano” sul modo di contrastare la “piaga” della prostituzione e non la piaga della televisione o dei Testimoni di Geova? Molti si suicidano durante le festività natalizie considerate da tutti una cosa sensata, ma ben pochi si suicidano dopo aver fatto sesso con una sex worker: allora di quali “piaghe” si può parlare su un piano razionale?
Per completare la lista delle premesse “scomode”, credo di dover ricordare che nella “realtà reale”, quella che viene comunemente indicata come prostituzione è solo la componente consapevolmente accettata e quindi onesta del sesso a pagamento. Il sesso a pagamento, però, di fatto, è molto più praticato di quanto si voglia ammettere. In tutti i casi in cui il sesso non è sperimentato con gioia, con passione e per una consapevole e reciproca ricerca del piacere e dell’intimità, è offerto in cambio di qualcosa. Quindi è offerto a pagamento. Mi spiace dover essere così “tagliente”, ma le cose stanno come stanno, anche se ciò non risulta rassicurante: il sesso è venduto e comprato in tutti i casi in cui non esprime complicità, gioco e coinvolgimento emotivo. Se un uomo o una donna cerca una persona con cui è “disponibile” anche a far sesso, ma con cui vuole soprattutto formare una famiglia e quindi vuole “sentirsi come tutti” o avere un sostegno economico o condividere la gestione della casa, fa un commercio sessuale, anche se non lo dichiara e persino se non ne è consapevole. Se invece “subisce” una manipolazione credendo a (false) dichiarazioni di “amore” da parte del/della partner, si trova comunque a pagare per una disponibilità sessuale ingannevole, espressa e poi “revocata”. Nei divorzi, i nodi vengono al pettine e gli equivoci vengono inequivocabilmente monetizzati.
E’ davvero strano che molte persone si indignino se una persona chiede una certa somma di denaro e non di più, per una prestazione concordata e per un tempo definito, e trovino del tutto accettabile “eticamente” che una persona rivendichi in una causa di divorzio beni mobili e immobili ed anche un vitalizio in cambio di una manciata di rapporti sessuali dichiarati inizialmente “amorevoli” e in seguito sempre più associati a rifiuti, contrasti e litigi. Poco conta che chi ci rimette sia l’uomo o la donna, ma sicuramente una relazione di coppia è tale se è una relazione sessuale (altrimenti va definita relazione d’amicizia o di reciproco sostegno in una convivenza) e non si capisce perché nei divorzi siano soprattutto i soldi ad essere pretesi da qualcuno. In ogni caso, a mio parere, vi è prostituzione anche quando il sesso è “concesso” per l’ottenimento di “vantaggi” psicologici (reali o immaginari) anziché per passione. In questo senso, ciò di cui comunemente ci si indigna quando si stigmatizza il “fenomeno” della prostituzione, è semplicemente la punta “trasparente” (e quindi “onesta”) di un grande iceberg costituito dalla normale (e “disonesta”) prostituzione culturalmente e socialmente accettata, nella quale il sesso è offerto per l’ottenimento di benefici estranei alla dimensione sessuale.
Se lasciamo da parte le situazioni in cui vi è sfruttamento della prostituzione (le uniche che dovrebbero suscitare indignazione e soprattutto interventi risolutivi) e che sono situazioni di violenza criminale, al pari di quelle (tutt’altro che erotiche) in cui gli extracomunitari vengono sfruttati per raccogliere pomodori, dobbiamo tener presente che la realtà del sesso a pagamento è molto variegata. Vi sono sex worker (femmine, maschi e transessuali) che cercano clienti in strada (accettando/subendo a volte una “protezione”) e che hanno un ruolo sociale assimilabile a quello delle persone che al semaforo puliscono i vetri; vi sono sex worker che in altri paesi meno moralisti lavorano in locali pubblici, pagano le tasse e hanno un ruolo sociale assimilabile a quello di qualsiasi commerciante; vi sono anche accompagnatrici (e accompagnatori) che lavorano in piena autonomia e che hanno un tenore di vita elevato. Queste differenze, significative sul piano pratico ed economico, non cambiano ciò che è essenziale nei rapporti sessuali a pagamento, sia per chi offre tali servizi, sia per chi li richiede.
Ciò che è “essenziale” in tutti gli incontri sessuali a pagamento, non è tale sul piano etico, dato che il piano etico è solo un piano immaginario, ma è tale su un piano esperienziale e umano: nelle relazioni sessuali a pagamento una persona offre un contatto fisico intimo senza necessariamente desiderarlo e quindi in cambio di una ricompensa e un’altra persona accetta questa offerta e vi si adegua. All’interno di questo contesto si realizzano esperienze emotive che sono sempre uniche, così come all’interno di altri contesti (quello della “avventura”, quello della convivenza, quello del matrimonio, quello del “tradimento” o quello della separazione). Come non possiamo sapere nulla di ciò che di dolce, terribile, passionale o devastante si verifica in una relazione matrimoniale, se siamo a conoscenza solo dell’esistenza di un certificato di matrimonio, così non possiamo (e non dobbiamo pretendere di) sapere nulla di ciò che si verifica in una relazione sessuale a pagamento, se sappiamo solo che è una relazione a pagamento. Chi ha dei dubbi può utilizzare la rete e navigare fra blog e siti che riportano confidenze e riflessioni di persone “del mestiere” ed anche di loro clienti: si renderà conto del fatto che in questo “mondo” si trova davvero di tutto, come nel “mondo normale”. In tale mondo esistono persone lucide, persone confuse, persone lucide ed anche confuse, persone distaccate, persone compassionevoli e persone superficiali. Persone. Persone come gli/le amanti, come i mariti e le mogli delle normali famiglie, come i ragazzi e le ragazze obbedienti o ribelli. Solo persone con un’unica storia, con particolari sentimenti, con conoscenze e illusioni, con la loro umanità e le loro difese psicologiche, impegnate ogni giorno a costruire la loro esistenza.
Come in rete si possono leggere pensieri e riflessioni di tutti i tipi, girando per strada si possono leggere messaggi di tutti i tipi trasmessi con il corpo. Nella zona in cui abito molte ragazze “si offrono” per strada in modi assolutamente particolari: alcune, molto vivaci, si presentano come dispensatrici di allegria, altre si pongono come “irraggiungibili” o almeno difficili da conquistare, altre, più dimesse, sembrano “rassegnate” a “fare quella vita”. In altre parole, nel mondo del sesso a pagamento si trasmettono le stesse verità e le stesse bugie che si trasmettono nel mondo “normale”. L’unica specificità riguarda la realtà di un servizio di tipo erotico offerto e accettato in cambio di un pagamento. Chi si ostina ad aggiungere altri fattori “essenziali” a tale realtà cerca solo di dare consistenza “oggettiva” alle proprie paure e alla propria rabbia.
E’ indispensabile, a questo punto, dissolvere anche alcune comuni “interpretazioni” del tutto irrazionali del sesso a pagamento. L’idea che le accompagnatrici “vendano il proprio corpo” è semplicemente falsa, oltre che sciocca. Chi offre servizi sessuali mantiene la piena proprietà ed il pieno controllo del proprio corpo. Sicuramente accetta nell’ambito professionale un grado di confidenza che abitualmente non accetta, ma in tal modo fa ciò che fanno anche i professionisti del settore sanitario e assistenziale: un ginecologo non vorrebbe osservare la vagina di qualsiasi donna che incontra sull’autobus e le badanti in vacanza non sono disponibili a lavare qualsiasi persona sudata che incontrano al mare. Sex worker, medici e badanti, quindi, si fanno pagare per le loro competenze ed anche per quell’eccesso di intimità che decidono di concedere. Si obietterà che l’intimità sessuale ha, inevitabilmente, una forte valenza psicologica ed emozionale, ma nemmeno questa precisazione giustifica l’idea che chi si prostituisce venda il proprio corpo e persino la propria “psiche”. Infatti io non credo di “vendere la mia psiche”, pur facilitando nelle sedute un’intimità (emotiva, non erotica) che in genere i miei clienti non hanno sperimentato nemmeno con i loro migliori amici. Accetto di chiarire (quando ci riesco) delle difficoltà e delle sofferenze e mi impegno in tal senso nelle sedute in cambio di denaro semplicemente perché non provo alcun desiderio di occuparmi dei problemi degli altri. Ciò non significa, nel mio caso, che io “venda i miei sentimenti”: quelli, più o meno intensi, sono sempre gratuiti, dato che vendo solo il mio tempo e le mie conoscenze. Per questi stessi motivi, l’idea che nel sesso a pagamento venga “venduto il corpo” o anche l’affettività, non sta in piedi e, sotto questo profilo, l’indignazione colpisce le/i sex worker e non gli infermieri o gli insegnanti o gli psicologi, solo per l’insofferenza radicata ed endemica nei confronti della sessualità. Un’insofferenza che è un sintomo grave, ma che, rientrando nella normalità, non viene notato dagli psicoterapeuti.
La convinzione pregiudiziale relativa al sesso “giustificato” solo dall’amore e non “giustificabile” dal semplice piacere e tanto meno da una remunerazione economica è talmente radicata da entrare persino nella mente di persone che si ritengono distanti da qualsiasi moralismo e, infatti, ho trovato anche in me delle tracce (lievi ma disturbanti) di tale radicato pregiudizio. Una sera, portando a spasso la mia cagnona, passai alle spalle di una ragazza “del mestiere” che si girò, fece un complimento alla mia “amica” e mi chiese se potesse accarezzarla. Rispondendole con gentilezza, dopo un attimo mi accorsi di provare un vago disagio: nel quartiere tutti mi conoscono e qualcuno forse mi stava osservando mentre “interagivo” con una sex worker. Fu solo un attimo e immediatamente pensai che tutto il mondo poteva anche pensare ciò che preferiva, ma io avrei comunque goduto della bellezza del sorriso di quella ragazza e avrei comunque lasciato che accarezzasse la mia amica a quattro zampe. Quell’attimo di disagio mi turbò e mi fece riflettere sulle scorie di pregiudizi che non avevo ancora smaltito in anni di analisi, di letture e di lotte. Compresi anche che il mio pregiudizio riguardava più i clienti delle prostitute che le prostitute: in fondo pensavo “da qualche parte” che la ricerca del sesso a pagamento implicasse l’idea secondo cui le donne sarebbero fondamentalmente delle “bistecche” da consumare. Di fatto, le cose non stanno così e molte sex worker raccontano in rete con autentica empatia storie semplicemente “umane” e spiegano che molti dei loro clienti cercano più un contatto affettivo che un semplice contatto sessuale, oppure portano in quel contesto “professionale” le ansie che non riescono a sciogliere nei rapporti matrimoniali, oppure cercano un po’ di piacere per distrarsi da una vita dura e solitaria. Anche i clienti delle sex worker, quindi, sono persone: persone arroganti o timide, rozze o delicate, incapaci di provare sentimenti o inclini ad innamorarsi perdutamente della signorina che vuole offrire solo un po’ di calore e di contatto. Persone. Sempre e solo persone. Persone che mostrano il meglio ed il peggio di ciò che sono, a seconda di quanto riescono ad esprimere delle proprie potenzialità. In questo senso è davvero istruttivo leggere pagine scritte da “accompagnatrici”, “accompagnatori” ed anche da persone transessuali o omosessuali. Si trovano solo pagine scritte da persone. Persone con le stesse confusioni e con le stesse lucide consapevolezze che caratterizzano le madri, i padri, i medici, i preti, gli psicologi, gli adolescenti, i militari e i contadini.
Nelle indignate denunce del sesso a pagamento, viene sistematicamente negato proprio il fatto che esso sia praticato da persone. Persone che con quel lavoro mantengono delle famiglie in difficoltà, che pagano gli studi ai figli o che non ne potevano più di lavorare tutto il giorno per uno stipendio davvero umiliante. Persone che, come clienti, offrono un po’ di denaro per ricevere un po’ di piacere e di compagnia; o che hanno subito un lutto o una separazione traumatica e non contano di potersi più innamorare; o persone anziane, persone timide e così via. Persone che, come le altre, sentono qualcosa, offrono qualcosa, cercano qualcosa. Persone che sono però concepite solo come peccatori/peccatrici o vittime/complici del maschilismo da parte di chi ha troppa paura e rabbia per riflettere e provare emozioni comprensibili. Io non so se sia più offensiva per le sex worker la svalutazione di chi le considera immorali (e quindi da “redimere”) o la svalutazione di chi le considera “vittime” del maschilismo (e quindi da “liberare”). Non lo so, come non so se sia preferibile la fucilazione o la sedia elettrica. So però una cosa: la svalutazione feroce di questo ambito della sessualità è una piaga che meriterebbe di essere affrontata.
Con le osservazioni fin qui fatte ho semplicemente sgombrato il terreno da domande mal poste e da riflessioni inappropriate sulla sessualità a pagamento. In pratica ho solo chiarito cosa essa non sia e come non possa ragionevolmente essere esaminata. Manca però ancora tutto il resto, cioè tutto ciò che è sensato e utile chiarire a proposito di quello che è a volte definito il più antico mestiere del mondo e che è quindi anche il più antico consumo del mondo. Un dubbio sorge a questo punto: se il sesso a pagamento è un lavoro come un altro, che comporta una particolare intimità fisica (come quella sperimentata in molte attività sanitarie o assistenziali) e una particolare intimità psicologica (come quella analitica o quella psicoterapeutica o quella religiosa) e che si sviluppa in infiniti modi (come qualsiasi relazione umana), possiamo davvero dire qualcosa di specifico su tale attività e su ciò che pensano e sentono, nel contesto di tale attività, le persone che offrono o richiedono “accoglienza sessuale”? O dobbiamo limitarci a “smontare” i pregiudizi?
Credo che smontare i pregiudizi non sia mai una cosa da poco e credo che tale impegno comporti, anche nel caso del sesso a pagamento, una reale disponibilità a mettere in discussione idee, atteggiamenti e sentimenti molto profondi. Credo però che, dopo aver sgombrato il terreno da convinzioni irrazionali, si possa anche individuare qualcosa che realmente riguarda le persone che offrono o cercano sesso a pagamento. Non qualcosa di “etico” o di “clinico”, ovviamente, ma qualcosa che l’irrazionalità sociale occulta proprio con i pregiudizi, la superficialità e l’intolleranza.
Ciò che caratterizza necessariamente la sessualità a pagamento è una particolare sofferenza, più o meno consapevole e accettata, ma reale. Una specifica declinazione del dolore psicologico che in altri modi permea tutti i rapporti interpersonali e tutte le attività professionali. Se la consapevolezza di tale dolore manca, le/i sex worker fanno sesso a pagamento in “piena incoscienza”, così come normalmente moltissime persone fanno in piena incoscienza esperienze sessuali “terribilmente normali”, o svolgono in piena incoscienza altre attività professionali. Il sesso a pagamento implica necessariamente, da parte di chi lo offre, il dolore di sperimentare rapporti più intimi di quelli corrispondenti ai desideri personali e implica, da parte di chi lo cerca, il dolore di trovare un’intimità psicologica meno intensa di quella ottenuta sul piano fisico. Sex worker e clienti possono (come le/gli amanti) fare sesso con più o meno coinvolgimento e con più o meno piacere, ma (a differenza delle/degli amanti) si trovano a far sesso con una persona con la quale, al di fuori del rapporto professionale/economico non vorrebbero o non potrebbero far sesso. A parte i casi (certamente poco frequenti) di un rapporto a pagamento che si trasforma in una relazione passionale, chi offre sesso a pagamento al cliente si negherebbe in assenza del pagamento e chi ottiene sesso a pagamento non otterrebbe nulla se non accettasse di pagare il tempo, le competenze e la disponibilità. Tale situazione è dolorosa, ma il dolore può essere disconosciuto se chi offre sesso trova una gratificazione (illusoria) proprio nel rapporto a pagamento e se chi cerca sesso trova una gratificazione (illusoria) proprio nell’esperienza di pagare una “prestazione sessuale”.
Tali possibili “gratificazioni” rientrano in una logica di potere e di controllo che non ha molto a che fare con la sessualità e che, invece, rientra nell’ambito delle difese psicologiche. Ovviamente, tali difese limitano la percezione del dolore, ma lasciano intatto sia il dolore generato dalla situazione attuale, sia il dolore antico, da sempre soffocato. Le sex worker molto cercate e ben pagate che provano orgoglio per il loro “successo”, attuano sul piano lavorativo delle difese psicologiche analoghe a quelle dei medici o degli architetti o dei cantanti più soddisfatti della propria “visibilità” che dei servizi che offrono, e quindi più appagati dall’idea di essere “accettabili” (come non lo erano nell’infanzia) che dal fatto reale di fare qualcosa di sensato e utile nel mondo dei grandi. La “logica” del potere è sempre e comunque irrazionale e rinvia all’illusione infantile di poter ottenere un “valore personale” e quindi una “sicurezza” con il successo.
L’autocompiacimento dovuto al fatto di avere qualità speciali che in realtà sono “doni ricevuti” (la bellezza, o anche le competenze) è del tutto irrazionale, dato che dobbiamo solo ringraziare i genitori se siamo belli e la società se siamo bravi a fare qualcosa e non siamo condannati a vivere da primitivi. Le qualità generano stima, non amore e qualsiasi sex worker o qualsiasi intellettuale sa benissimo che dei bambini brutti e stupidi possono essere stati amati più di loro. Proprio nella loro infanzia hanno inventato le olimpiadi dell’accettazione e hanno dedicato la vita a dimostrarsi “superiori” in qualcosa o almeno “normali”. Ciò vale ovviamente solo per le persone che sono “attaccate” alla loro immagine, ma, purtroppo, le persone realisticamente umili sono poche. Anche quelle che si disprezzano lo fanno semplicemente per cullarsi nell’idea di avere qualche qualità che dovrebbero e potrebbero (prima o poi) esibire.
Le sex worker facilmente provano spesso anche il bisogno di dimostrare (a loro stesse), proprio con il loro lavoro, che non dipendono affettivamente da nessuno. La loro “autonomia” è oggettivamente dimostrata dal fatto che i clienti le pagano e che loro non hanno chiesto nulla. In realtà, proprio il bisogno di dimostrare ogni giorno questo fatto, dimostra che sono terrorizzate dall’idea di rischiare una dipendenza emotiva che potrebbe riaprire una ferita antica, mai sanata. E’ comprensibile, quindi, che le sex worker proverebbero dolore per gli aspetti realmente dolorosi della loro professione se non attivassero la contro-dipendenza che genera distacco emotivo. Questo atteggiamento difensivo, ovviamente, caratterizza anche persone che fanno altri lavori e che “dimostrano la stessa bugia” in altri modi. La contro-dipendenza impoverisce la vita delle persone, sia che facciano sesso a pagamento, sia che svolgano altre attività professionali centrate sui bisogni degli altri, sia che mantengano una relazione di coppia con un/una partner che non stimano e che non lasciano inventando una comoda scusa (ad esempio quella per cui “si sentirebbero in colpa”, dato che lui/lei non potrebbe “reggere” la separazione). Sembra incredibile che le persone contro-dipendenti credano davvero alle bugie che si raccontano, ma sono sia convinte di ciò che pensano, sia capaci di provare le emozioni corrispondenti ai loro pensieri. Di fatto rinunciano a cercare rapporti reali, caratterizzati da una reale dipendenza dovuta al piacere realmente sperimentato ed all’affetto realmente condiviso. In un rapporto reale si sentirebbero vulnerabili e, ricevendo amore, finirebbero per “ricollegarsi” all’amore che non hanno mai ottenuto.
Ovviamente, le difese psicologiche delle sex worker possono essere moltissime, come quelle delle commesse o dei magistrati o degli astronauti, perché le sex worker sono persone come le altre e sono limpide e contorte come tutte le altre. Il dolore che le accomuna e che dipende proprio dal lavoro che svolgono è costituito dall’intimità “eccessiva” (rispetto al loro desiderio) che devono accettare ed anche favorire per garantirsi la sopravvivenza. Le badanti e i professionisti che svolgono un lavoro psicologico sperimentano lo stesso dolore, se non se ne dissociano con fantasie di potere (essere “indispensabili”, “molto disponibili”, “molto competenti”, ecc.). Anche se questo discorso può risultare insolito o scomodo a chi crede che il dolore delle sex worker sia riconducibile alla “umiliazione” o allo “squallore” delle prestazioni, credo che le mie convinzioni siano fondate. Le sex worker che svolgono un’attività indipendente hanno il controllo della loro attività e fanno ciò che qualsiasi amante appassionata desidera fare. Fanno quindi ciò che risulta umiliante o “squallido” solo a chi non ha un buon rapporto con la propria sessualità. Purtroppo non fanno sesso con i partner “giusti” e quindi, se non sono dissociate dal proprio desiderio di contatto emotivo, soffrono necessariamente per l’intimità “eccessiva” che favoriscono. Per questo motivo credo che spesso attivino delle dissociazioni dai loro desideri ed anche da vissuti antichi di dipendenza emotiva terribilmente dolorosi. Il dolore dell’umiliazione e dello squallore delle prestazioni non riguarda però in modo specifico le sex-worker: se si adattano al modo di far sesso di clienti rozzi fanno esperienze non meno squallide di quelle fatte dalle mogli o dalle amanti di tali clienti e certamente lo fanno con più consapevolezza, più distacco e meno vittimismo.
Se passiamo alle esperienze dei clienti, dobbiamo riconoscere che, avendo scelto una persona per cui provano desiderio, non possono non provare dolore nel momento in cui pagano la prestazione, perché il pagamento è un rifiuto. Se la relazione fosse un quadro con la didascalia, tale didascalia riporterebbe queste parole: “io non voglio alcuna intimità con te, ma sono disponibile ad un rapporto intimo perché mi paghi”. In queste parole non c’è solo il rifiuto, ma anche un’accettazione, dato che una sex worker che svolge autonomamente la professione è libera di non lavorare con alcune persone e, di fatto, non lavora con chiunque. In ogni caso nel sesso a pagamento, il rifiuto è determinato proprio dal pagamento. Il rifiuto non è da intendersi come una svalutazione o come un rifiuto della totalità della persona o comunque in termini drammatici, ma è presente. Può non essere sentito e, ovviamente, la difesa più comune fra i clienti delle prostitute è la superficialità: la mancanza di contatto con il semplice fatto che l’incontro sessuale è limitato ed include un rifiuto.
Qualche moralista religioso o femminista può pensare che in tale superficialità si manifesta la concezione o la “percezione” della donna come semplice oggetto, ma proprio chi fa queste riflessioni tratta come oggetti (peraltro disprezzati) le sex worker e i loro clienti: oggetti da collocare in una crociata, non persone da capire. Tra l’altro, negli indignati piagnistei sulle donne-oggetto viene completamente trascurato il fatto che i clienti delle prostitute, se si dissociano dal proprio dolore, riducono ad oggetti anche loro stessi. L’esperienza “elementare” di chi fa sesso a pagamento con allegria perché “se la spassa un’oretta”, presuppone che non sia percepita alcuna sensazione di solitudine. In altre parole, i clienti allegri e soddisfatti non provano dolore perché “non ricordano” più di essere persone. Se invece ammettono di essere persone possono egualmente far sesso a pagamento con gioia e con una sincera simpatia per la partner scelta (ed anche frequentata regolarmente), ma provano anche dolore, per ciò che manca in tale relazione e per ciò che manca nella loro vita e che li ha condotti a fare quell’esperienza.
Ci sono anche clienti che desiderano proprio rapporti a pagamento per mantenere la sensazione (illusoria) di avere un potere o un controllo sulla persona dalla quale, pagando, possono pretendere una prestazione sessuale e con questa arroganza (che può avere sfumature sadiche) coprono ovviamente una storia terribile di solitudine e di rifiuti. Occorre tener presente che non c’è nulla di realmente piacevole nell’idea di controllare qualcuno con il proprio potere (economico) e soprattutto che, sul piano emotivo, nessuna persona può essere controllata. In ogni caso, tali clienti possono provare poco dolore solo perché si dissociano da un dolore che esiste nella loro vita e che resta intatto. Tale dissociazione carica di ostilità non ha nulla a che fare con gli ormoni maschili o col maschilismo, ma riflette una gestione irrazionale di vicende interiori mai superate. In tutte le relazioni (anche non erotiche) in cui una persona (un uomo o una donna) cerca di avere (o si illude di avere) un potere su qualcuno, tale persona fa del male e si fa del male senza aver alcuna consapevolezza di ciò che realmente fa.
Le considerazioni fin qui svolte, ovviamente valgono anche per i rapporti a pagamento in cui l’uomo offre una prestazione e la donna “cerca compagnia”, perché uomini e donne sono assolutamente uguali nell’avere desideri, nell’essere vulnerabili e nel decidere se accettare o negare il dolore della loro vita. Tutto ciò che nel sesso a pagamento viene scambiato sul piano affettivo è scambiato gratuitamente, perché non è comprato e non potrebbe essere comprato. E’ un regalo, piccolo o grande che sia. Quindi, se si accantonano le bugie dei moralisti, degli ideologi ed anche delle persone che realmente praticano il sesso a pagamento, resta il fatto che tale tipo di esperienza sessuale può riflettere infinite sfumature di piacere e infiniti sentimenti, ma sicuramente comporta un particolare dolore, anche nei casi di relazioni cordiali, corrette, reciprocamente rispettose o persino affettuose e prolungate nel tempo.
L’irrazionalità sociale aiuta le persone a non provare dolore e a non provarlo nemmeno nel sesso a pagamento o nelle varie relazioni d’aiuto, ma tale dolore esiste. Il “distacco professionale” nei confronti dei “pazienti” suggerito agli psicoterapeuti in formazione costituisce un modo per evitare rapporti simbiotici, confusi ed anche dannosi, ma è comunque difensivo: sia gli psicoterapeuti, sia gli analisti, sia i sacerdoti, sia gli insegnanti, sia i/le sex worker, possono evitare relazioni confuse senza necessariamente mantenere alcun “distacco”, ma, in questo caso, devono accettare il dolore delle relazioni in cui si impegnano. Nel mio lavoro cerco sempre di tener presente che sono coinvolto emotivamente con le persone con cui faccio sedute da un po’ di tempo e di cui ho visto la bellezza e la delicatezza, ma da cui non posso cercare ciò che cerco in altri rapporti. Implica anche la consapevolezza di essere spesso “desiderato” proprio per ciò che non sono (ad esempio, una “fonte di sicurezza”) e di essere poco importante per ciò che realmente sono come persona. Tengo presente anche il fatto di essere benvoluto in qualche misura e in qualche caso. Non solo: anche con la consapevolezza del mio affetto e dell’affetto (più o meno “lineare”) dei clienti, tengo presente che mantengo con loro un livello di intimità psicologica paragonabile, per certi aspetti, a quello che ho sperimentato e sperimento con gli amici, ma tengo pure presente che non mi accompagnano nella vita. Non sono estranei, sono persone care, ma non sono le persone con cui vivo ogni giorno l’avventura di inventarmi la mia vita.
In pratica, l’unico discorso sensato che può essere sviluppato in modo specifico sui rapporti sessuali a pagamento riguarda la specificità del dolore che essi comportano. Il resto non caratterizza in modo specifico tali rapporti e su ciò voglio essere molto chiaro. Ad esempio, è facile (non necessario, però) che le/i sex worker, proprio scegliendo tale attività, abbiano una propensione (difensiva) di fondo ad una promiscuità sessuale o ad uno scarso coinvolgimento affettivo nel sesso o in generale. Può capitare, quindi, che una ragazza abituata a relazioni brevi, confuse, ambivalenti e molto corteggiata, in particolari circostanze decida di iniziare a fare a pagamento e con più “sistematicità” ciò che comunque faceva in precedenza, o può capitare che una persona senza inibizioni sessuali e poco incline ad innamorarsi decida di offrire sesso per denaro in un momento di difficoltà economiche. Le ragioni possono essere anche altre, ma in questi casi, gli aspetti caratteriali e difensivi espressi nell’attività professionale erano presenti anche prima e permarrebbero anche se l’attività professionale venisse interrotta. Anche i clienti che trovano del tutto soddisfacenti i rapporti sessuali a pagamento, sicuramente non mettono in gioco sentimenti particolarmente intensi nelle relazioni di coppia o nelle avventure, e ciò significa che questa “povertà” affettiva non ha a che fare con una specifica relazione a pagamento, ma con il progetto di vita.
Un altro aspetto doloroso che caratterizza l’esperienza di chi fa sesso a pagamento riguarda la storica e ancora devastante presenza di pregiudizi “etici” e di manifestazioni di intolleranza. Una grossa “fetta” delle espressioni volgari del linguaggio quotidiano riflette un disprezzo molto radicato e anche molte norme incidono negativamente sulla qualità della vita di chi offre servizi sessuali anziché assistenziali, tecnici o intellettuali. L’intolleranza colpisce anche i clienti, ma colpisce soprattutto chi offre prestazioni sessuali. A tale proposito, è opportuno fare qualche riflessione sia sulle ragioni di tanto accanimento da parte delle persone “moraliste e indignate”, sia sul modo in cui le vittime (reali) di tale accanimento hanno reagito e reagiscono.
I livelli di intolleranza, esclusione, disprezzo (e anche violenza) che caratterizzano i rapporti fra le persone “normali” e chi fa sesso a pagamento sono sicuramente paragonabili a quelli che hanno colpito altre minoranze. In genere, chi fa sesso a pagamento deve organizzarsi una “doppia vita”: i famigliari non devono sapere e anche i conoscenti non devono sapere. Inoltre lo Stato pretende da tutti i cittadini il versamento delle imposte e riconosce a tutti i cittadini alcuni diritti, ma chi fa sesso a pagamento vive in un limbo caratterizzato da una sorta di “disconoscimento burocratico”. Si trovano in rete molti documenti che elencano rivendicazioni del tutto ragionevoli delle/dei sex worker, ma tali istanze non seducono i giornalisti e i politici. Se una prostituta viene ammazzata compare solo nei registri della polizia e in un trafiletto della cronaca locale, o al massimo viene inclusa nella lista dei “femminicidi”, mentre se un omosessuale viene semplicemente insultato, la cosa risulta “intollerabile” per la “sensibilità” delle persone “emancipate”. Io non credo che chi fa sesso a pagamento abbia problemi più lievi o più gravi con “la gente” di quelli di altre minoranze o di quelli di altri gruppi sociali colpiti da antiche o recenti forme di intolleranza. Le persone che offrono sesso a pagamento non utilizzano, però, come pure i fumatori e gli automobilisti, due “armi” che altri gruppi hanno utilizzato per contrastare, ottenendo parziali o significativi successi, l’ostracismo sociale e l’esclusione: l’arma (a volte, ma non sempre, razionale) della formazione di un gruppo compatto e l’arma (irrazionale) del vittimismo.
Le minoranze etniche e religiose hanno ottenuto indiscutibili vantaggi proprio definendosi come gruppi caratterizzati da convinzioni condivise e le minoranze sessuali, soprattutto quella omosessuale, hanno reagito all’intolleranza come a qualcosa che colpiva sia le persone sia il gruppo. Ciò non si è mai verificato nel caso delle persone che offrono sesso a pagamento e nemmeno nel caso dei fumatori e degli automobilisti: queste persone non si sentono e non si definiscono come “gruppo”. Le leggi, i divieti e anche le persone intolleranti, quindi, possono colpire facilmente le persone poco inclini ad identificarsi in un gruppo, mentre si devono confrontare con l’opposizione di interi gruppi che esprimono una “identità condivisa dai loro membri”. Oggi solo le persone molto ignoranti usano ancora parole come “checca”, ma anche i docenti universitari possono dire tranquillamente, almeno fra amici, che senza finanziamenti statali la cultura “va a puttane”.
Il sesso a pagamento continua ad essere oggetto di intolleranza culturale e pratica anche perché le/i sex worker (come pure i fumatori e gli automobilisti) non hanno mai giocato la carta (purtroppo sempre vincente) del vittimismo. Appena un individuo o un gruppo riesce a presentarsi come non responsabile di ingiustizie subite da altre persone perfettamente responsabili, e si dichiara incapace di reagire, anche le persone meno coinvolte emotivamente sentono l’esigenza irrefrenabile di dimostrare che non sono “egoiste” e che appoggiano chi ha attuato la strategia vittimistica. Le donne, i gruppi omosessuali e alcuni  gruppi etnici (non tutti) hanno ottenuto degli indiscutibili successi e persino dei privilegi proprio grazie al loro vittimismo. Nei campi di concentramento finivano gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari e i comunisti. Tutte queste persone sono state oggettivamente vittime del nazismo, ma gli ebrei hanno poi occupato, con la complicità o la tolleranza del mondo “libero”, i territori del popolo palestinese, mentre i Rom continuano a subire violenze fisiche e psicologiche; non sono più assassinati, ma sono ancora trattati con disprezzo sia se compiono dei reati, sia se non fanno nulla. Gli omosessuali hanno rovesciato il pregiudizio di cui erano vittime, introducendo nella cultura “progressista” il concetto di “omofobia” (che è solo un insulto spacciato per nozione teorica o clinica), mentre i comunisti non hanno mai ottenuto alcuno “sconto” sulle valutazioni degli errori di cui sono stati responsabili. Di fatto, il vittimismo è estraneo alla cultura gitana ed alla cultura marxista, mentre è stato molto importante nelle auto-descrizioni del popolo ebraico e della comunità omosessuale. Il vittimismo non caratterizza le sex worker, che si sentono “costrette” solo nei casi in cui sono davvero costrette con la violenza o il ricatto a svolgere un’attività non scelta. Per questi motivi, la cultura sessuonegativa continua ad esprimere una forte svalutazione ed una marcata intolleranza nei confronti delle persone che fanno sesso a pagamento.
Il sesso a pagamento non esiste in quanto fenomeno omogeneo e implica sempre solo un particolare tipo di limitazione della sessualità ed un particolare tipo di solitudine e di dolore. Non caratterizza in alcun modo le persone e si declina con infinite sfumature emotive. Di fatto, è l’altra faccia dell’idealizzazione della famiglia e non è, quindi, un vizio da estirpare, ma una realtà che solo una cultura del piacere e dell’intimità potrebbe ridimensionare.