Il
fatto che le persone omosessuali costituiscano una minoranza, come le persone
particolarmente intelligenti o stupide, con un notevole talento musicale o
prive di un televisore, non spiega i
pregiudizi e l’intolleranza nei confronti dell’omosessualità. Non a caso, la
minoranza costituita dalle persone orientate a preservare la propria castità ha
sempre avuto meno difficoltà con “il resto del mondo” della minoranza
costituita dalle persone omosessuali. Poiché molte convinzioni, atteggiamenti e
sentimenti irrazionali determinano una significativa intolleranza per la
sessualità in generale, determinano una particolare intolleranza nei confronti
delle manifestazioni inconsuete della sessualità e non nei
confronti delle manifestazioni di
rinuncia alla sessualità. Infatti, i pregiudizi e i
comportamenti intolleranti, dipendono da
chi li manifesta, e non da chi li subisce.
Mentre
i pregiudizi nei confronti dei fumatori hanno radici recenti in una filosofia esistenziale (pseudo)medica secondo la
quale è opportuno sacrificare i piaceri della vita pur di allungare la sopravvivenza,
i pregiudizi nei confronti dell’omosessualità hanno le loro radici antiche nel fatto che l’omosessualità non può avere le “giustificazioni ulteriori”
(soprattutto la procreazione) che vengono “riconosciute” all’eterosessualità. In
realtà, non ha alcun senso l’idea che la sessualità debba essere giustificata, perché
mentre la selezione naturale è stata molto “interessata” alle conseguenze
procreative del sesso, gli esseri umani sono sempre stati interessati
soprattutto al piacere del sesso. Solo l’avversione etica per il piacere e, in
particolare, per il piacere sessuale può aver prodotto sia la pretesa di
“giustificazioni” per l’eterosessualità, sia l’intolleranza per la “ingiustificabile”
omosessualità.
Le
tradizionali concezioni etiche sessuonegative sono state affiancate, negli
ultimi due secoli, da concezioni mediche e psicologiche volte a considerare
patologica, più che immorale, l’omosessualità. Tali concezioni non avevano basi
scientifiche, come non dipende da alcuna nuova “scoperta” la recente
derubricazione dell’omosessualità dalle patologie psichiche. Psichiatri e
psicoterapeuti hanno sempre cercato di adattarsi alla società “data” ed anche ai
cambiamenti culturali e tale aspirazione li ha portati a mettere e togliere
etichette diagnostiche più che a capire la sessualità umana. Tratterò, quindi,
il tema dell’omosessualità da un’angolatura insolita, evitando sia di aderire
alle tradizionali concezioni persecutorie “naturalistiche”, etiche e “psicopatologiche”,
sia alle recenti concezioni “giustificative” basate su nuove assunzioni etiche
e su “aggiornamenti” dei consueti schemi diagnostici. Mi spiace scombinare le
carte sul tavolo, ma credo che le carte siano già in disordine.
Nel
1973 l’American Psychiatric Association ha cancellato l’omosessualità
dall’elenco dei disturbi mentali, anche se con una votazione e quindi con una
decisione presa a maggioranza. La
stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha in seguito (nel 1990) corretto
negli stessi termini l’International Classification of Deseases (ICD). Tali
correzioni hanno indotto gli specialisti a suggerire nuove concezioni dell’omosessualità
e quindi l’OMS ha definito l’omosessualità come “una variante naturale del
comportamento umano”, mentre l’American Psychological Association ha definito
le attrazioni sessuali romantiche, i sentimenti e i comportamenti di natura
omosessuale come varianti “normali e positive” della sessualità umana (cfr.
Cantelmi – Lambiase, 2010, p. 82). In pratica, nell’ambito della cultura laica
l’omosessualità è stata riconosciuta come variante della sessualità naturale e normale. Tale riconoscimento
trascura però il fatto che la sessualità umana (anche l’eterosessualità) non è mai semplicemente “naturale” e trascura
pure il fatto che essa è normalmente
inibita, distorta o bloccata. Non c’è nulla di naturale in un gioco erotico fra
un uomo e una donna, fra due uomini o fra due donne, dato che in tutti i casi
tale gioco è scelto dalle persone e
non imposto da meccanismi genetici. Gli esseri umani sono animali culturali e autocoscienti
che di naturale hanno ben poco. L’idea dell’omosessualità come variante
naturale del comportamento umano, quindi, per quanto politicamente corretta, è
priva di significato conoscitivo come lo era quella dell'omosessualità
“innaturale”.
La
“svolta” nella concezione dell’omosessualità da parte degli psichiatri e degli
psicoterapeuti è stata salutata come un indiscutibile progresso dalla comunità
omosessuale e dalle persone non “tradizionaliste”, ma, di fatto, ha consolidato
la basilare sessuonegatività della società proprio dispensando “riconoscimenti”
solo ad alcune vittime
dell’intolleranza e, in particolare, al gruppo di vittime più orientato a
manifestare atteggiamenti vittimistici. Mentre gli omosessuali maschi sono
diventati ufficialmente “gay”, le prostitute continuano ad essere “solo
puttane”, i loro clienti dei semplici “puttanieri”, le persone sole restano
persone “sfigate”, i bambini continuano a ricevere un’educazione religiosa
sessuonegativa, le coppie eterosessuali che non si sfasciano continuano ad
essere unite più dalla paura della solitudine che dall’intimità sessuale e così
via. Non è cambiato proprio nulla nella cultura antierotica ed emotivamente
“povera” in cui siamo immersi e il peso attribuito ai problemi delle persone
omosessuali rientra in una più o meno consapevole strategia volta a modificare
qualcosa proprio per non mettere in
discussione l’insieme.
I
temi più discussi sui giornali, nei blog e nei convegni sono i seguenti: a) l’idea
dell’omosessualità come insieme di comportamenti “diversamente normali” e
quindi non “perversi” b) i “diritti” delle persone omosessuali e c)
l’intolleranza di cui sono state e sono ancora, in modi diversi nei diversi
paesi, vittime le persone omosessuali. In pratica, i temi più discussi sono
quelli più adatti ad alimentare polemiche senza
sfiorare il dolore delle persone omosessuali. Il loro dolore non fa
notizia. L’unica loro sofferenza comunemente evidenziata è quella dell’esclusione
sociale. Prima di approfondire le questioni più importanti voglio quindi fare
qualche osservazione su questi tre punti.
a)
L’idea dell’omosessualità come variante della normalità è davvero poco
esaltante in una società normalmente irrazionale e sessuorepressiva. Sarebbe
molto più radicale un discorso volto ad affermare che la sessualità è una faccenda personale e che qualsiasi
comportamento sessuale liberamente scelto merita sempre e comunque rispetto. Tale discorso sarebbe onestamente politico,
non pseudo-scientifico e non “politicamente corretto” (cioè conformista). Gli organismi sono sani o malati, mentre
le persone agiscono come preferiscono
e i loro comportamenti risultano più o meno graditi agli altri, ma non per
questo sono da considerare sani in quanto molto diffusi o culturalmente
approvati. Le preferenze che esulano dalla normalità (compresa l’ottima e
rarissima abitudine di leggere più di dieci libri in un anno) non meritano
alcuna forma di intolleranza, almeno fino a quando non risultano distruttive:
la violenza carnale e la pedofilia sono anormali, ma vanno combattute in tutti
i modi in quanto comportamenti
distruttivi, non in quanto comportamenti anormali. Le speculazioni sulla
sessualità naturale e normale, quindi, bloccano semplicemente l’analisi
razionale di ciò che nella sessualità è espressivo o difensivo. E bloccano le reali
aspirazioni politiche ad una società migliore.
b)
In una società realmente democratica e libera i diritti fondamentali dovrebbero
essere riconosciuti a tutte le persone. Non si capisce affatto perché alcuni
desideri “significativi” e comprensibili come quello di lasciare a qualcuno dei
beni in caso di morte o quello di ricevere visite in ospedale debbano essere soddisfatti dalla società solo se espressi da persone sposate.
La rivendicazione del matrimonio per le persone omosessuali equivale, quindi,
all’accettazione di una società basata sui vincoli famigliari. Ovviamente è più
facile fare rivendicazioni di questo tipo che mettere in discussione la cultura
della famiglia, ma ciò non cambia un dato di fatto: le persone omosessuali non
hanno alcun bisogno dei “riconoscimenti” che già imprigionano le persone eterosessuali. Avrebbero semmai bisogno di
vivere, come le persone eterosessuali, in una società rispettosa di tutte le persone. Avrebbero bisogno di
realizzare i cambiamenti reali che nemmeno immaginano proprio perché immaginano
soprattutto il loro “riconoscimento” da parte della società semplicemente
“data”.
c)
La contestazione dell’intolleranza nei confronti dell’omosessualità è
ragionevole, ma è riduttiva se è sganciata da una contestazione di tutte le forme di intolleranza e,
soprattutto, se formulata vittimisticamente in modo da far sembrare le persone
omosessuali “più vittime delle altre”.
Le persone omosessuali non sono condannate a vivere un vita che non vogliono
più vivere come le persone immobilizzate da una malattia, alle quali la società
nega l’eutanasia. Le persone omosessuali non sono impossibilitate a far sesso,
come lo sono le persone colpite da gravi forme di disabilità. Le persone
omosessuali che non fumano possono stare a loro agio in qualsiasi ristorante,
caffetteria, treno o aereo, mentre le persone (omosessuali o eterosessuali) che
apprezzano il gusto del tabacco non possono godere dello stesso “privilegio”.
Sicuramente le persone omosessuali sono disturbate dalle prediche svalutanti
delle autorità religiose, ma tutti i
bambini e tutte le bambine (anche
prima di porsi il problema del loro orientamento sessuale) subiscono un indottrinamento
religioso che svaluta tutte le
manifestazioni della sessualità. Alcuni diranno che ogni gruppo ha buoni motivi
per far valere i propri interessi,
ma, a mio parere, chi fa così non dovrebbe presentarsi come movimento di
liberazione, ma come lobby di pressione.
L’intolleranza non è
altro che una negazione dell’amore per sé che diventa odio per egli altri.
L’unica vera alternativa all’intolleranza è data dall’analisi razionale dei
fatti, dalla condanna di tutte le
forme di intolleranza ed anche dalla determinazione a non manifestare rivendicazioni particolaristiche e atteggiamenti
vittimistici. Quando una ministra che si occupava di “pari opportunità” in un
governo reazionario accolse l’idea (ormai consolidata culturalmente)
dell’inaccettabilità dell’intolleranza nei confronti delle persone omosessuali
ricapitolò in uno slogan le sue (confuse) idee: “Rifiuta l’omofobia, non essere tu quello diverso”. Non stupisce
tale esito delle sue riflessioni personali, ma preoccupa il fatto che nessuno
si sia indignato (o infuriato) per la svalutazione
delle persone omosessuali espressa con tali parole: le persone omosessuali
meritano rispetto perché sono persone come le altre e non hanno certo bisogno
di essere rispettate per conformismo da chi teme l’accusa di “omofobia”.
Il vittimismo e il
particolarismo ostacolano qualsiasi reale cambiamento positivo. Gli articoli
nei quali si afferma che un omosessuale si è suicidato a causa dell’omofobia
dimostrano un’inutile protettività, ma non certo un reale rispetto per le
persone omosessuali. Le persone che si suicidano, nella maggior parte dei casi,
lo fanno perché non si amano, non amano qualcuno, detestano la vita e sono
quindi vittime di se stesse. Per questo motivo, l’idea degli omosessuali
“indotti” al suicidio dalla “omofobia” è una interpretazione arbitraria di
fatti tragici che non viene smentita da chi sa benissimo come stanno le cose,
ma vuole “dare un contributo” alle battaglie vittimistiche. Nemmeno gli
imprenditori che si suicidano lo fanno “a causa” della crisi economica o di
Equitalia, perché se la miseria causasse il suicidio non ci sarebbero barboni
nelle grandi città e molti paesi dell’Africa sarebbero popolati solo da animali
selvatici. Partendo da queste premesse, anziché esaminare la
“omosessualità-di-cui-tutti-parlano-volentieri”, cercherò di esaminare
l’omosessualità dal punto di vista scomodo
che ha caratterizzato le mie precedenti analisi dell’eterosessualità, della
virilità, della femminilità, della masturbazione, della pornografia e del sesso
a pagamento. Le riflessioni sulla gioia e
sul dolore sono scomode, non alimentano polemiche e non prospettano
soluzioni facili ai problemi, ma sono l’unico strumento adatto a contrastare
l’irrazionalità e il conformismo.
Nell’intimità sessuale
fra un uomo e una donna sono particolarmente intensi i momenti in cui lui o lei
dice “voglio sentirti dentro” o “voglio sentirti del tutto”. O in cui non lo dice,
ma mostra di voler superare completamente la distanza che si riduceva, ma
permaneva, in tutti i giochi erotici. Quando il desiderio diventa davvero
intenso reclama un superamento della semplice complicità, comporta la
realizzazione di un contatto più “profondo”, davvero “interno” e di una reale,
tangibile unione. Un’unione in cui il piacere di entrambi cresce nello stesso modo. Un’unione in cui nessuno dei due è attivo
o passivo, ma entrambi si prendono attivamente il piacere e offrono tutto
ciò che sono. L’unione dei genitali e la particolare crescita simultanea del piacere delle due persone
non è uno dei tanti contatti o giochi erotici possibili, perché costituisce il
passaggio all’intimità pienamente accettata
e condivisa. Consente la compresenza di un abbraccio esterno e
“interno”. La genitalità non è l’unico ambito dell’espressione dell’amore
perché l’amore passa anche da tutte le altre provocazioni, penetrazioni e
accoglienze possibili (se realizzate con amore, ovviamente): è possibile dire o
pensare “ti amo” anche in altri momenti e in altre posizioni, ma solo
nell’unione “completa” dei genitali il piacere cresce in entrambe le persone con la stessa intensità e l’amore è espresso con la massima compiutezza e reciprocità.
Ciò
significa che l’impossibilità di sperimentare un’eccitazione, una sintonia ed
un orgasmo genitale limita la
completa espressione del piacere e dell’intimità. Tutto ciò non può essere
compreso da chi considera la sessualità solo un rituale divertente o
un’ignobile mania o da chi raggiunge il piacere da solo/da sola utilizzando
meccanicamente il corpo di un’altra persona o da chi non comprende la
differenza fra un acme un orgasmo. Ciò non può essere compreso come io non
posso comprendere la differenza fra gli strumenti musicali con cui gli studenti
si esercitano e quelli che i musicisti considerano davvero “adatti” al loro
lavoro. Ovviamente io ho la delicatezza di non dissertare sugli strumenti
musicali, ma purtroppo chiunque pensa, comunica e scrive ciò che vuole sulla
sessualità. Anche se chiunque può pensare che la sessualità sia ciò che
preferisce, voglio sottolineare i fatti che rendono poco convincenti alcune
concezioni rispetto ad altre. Ora, l’unico fatto dell’omosessualità che non è
mai risultato interessante per nessuno è l’incompletezza
espressiva che limita tale orientamento sessuale. Tale limite non lo rende
“sbagliato”, disgustoso, immorale o patologico, ma, semplicemente, lo rende
limitato. Questo fatto ovvio, scontato, evidente, non è mai stato sottolineato
e accettato né dalle persone eterosessuali intente a disprezzare, né dalle
persone omosessuali inclini a vergognarsi o inorgoglirsi, né dagli studiosi
determinati ieri a diagnosticare e oggi a giustificare. Io provo un reale
turbamento a dover sottolineare che l’acqua calda è più calda di quella fredda,
ma sono turbato soprattutto dal fatto che l’omosessualità sia stata inclusa nel
capitolo degli atti impuri o delle perversioni o delle devianze o delle
“varianti della normalità”, ma non nel capitolo delle limitazioni della sessualità. L’unico capitolo realisticamente
adatto ad includerla.
Ovviamente
anche in una coppia eterosessuale l’orgasmo può non essere simultaneo e a volte
può manifestarsi il desiderio di non concludere il rapporto su un piano
genitale. L’orgasmo può anche non esserci affatto, ma ciò non annulla una
differenza fondamentale: in una relazione eterosessuale le persone hanno la libertà di esprimersi
sessualmente ed affettivamente scegliendo fra tutti i modi possibili di fare sesso, mentre in una relazione
omosessuale alcune modalità sono semplicemente irrealizzabili. Il dolore dovuto
ad un orientamento sessuale che comporta necessariamente delle limitazioni non
è mai stato e non è tuttora argomento di discussione. Queste considerazioni non
escludono, ovviamente, che una relazione omosessuale possa essere più appagante ed intensa di una relazione eterosessuale:
il dolore dell’omosessualità riguarda lo scarto fra ciò che si desidera e ciò
che è possibile esprimere, ma non riguarda il confronto con
l’eterosessualità in generale. In genere le esperienze eterosessuali sono
davvero “povere” sia sul piano erotico, sia sul piano affettivo e basta davvero
poco perché una relazione omosessuale emotivamente limpida e intensa sia più
appagante di una esperienza eterosessuale. Tuttavia, anche le esperienze omosessuali possono essere “povere” e nulla
lascia sospettare il contrario.
L’indisponibilità
a comprendere le limitazioni dell’omosessualità dipende dal fatto che tutte le
persone moraliste non vogliono capire ma solo svalutare e dal fatto che molte
persone omosessuali focalizzano la loro attenzione più sull’essere o non essere
“accettabili” che sull’essere più o meno appagate. E con ciò si torna al fatto
che la sessualità non è davvero sentita come preziosa dagli esseri umani. Tutto
il “dibattito” etico-clinico-politico sulla questione verte sulla
“accettabilità” (cioè su un bisogno infantile) e non sulla gioia e sul dolore.
Tale consueto “spazio culturale” è fondamentalmente spietato, arido, gelido,
proprio perché prescinde dalla passione e dalla compassione. Se, per qualsiasi
motivo, una persona desidera solo persone del proprio sesso, può
ragionevolmente provare solo la gioia per ogni appagamento possibile e il
dolore per ogni limitazione inevitabile. L’accettazione o non accettazione
degli altri è irrilevante. Solo se ci togliamo il peso dei falsi problemi
relativi alla “accettabilità” dell’omosessualità possiamo porci con lucidità
delle domande sincere sulle ragioni
per cui alcune persone desiderano sessualmente persone del proprio sesso.
L’omosessualità
non comporta solo il dolore di un limite nell’espressione della sessualità, ma
anche il dolore di un altro limite,
ovvio, scontato, ma sempre minimizzato o negato: l’omosessualità comporta
(rispetto all’eterosessualità) una notevole riduzione
delle opportunità di incontrare un/una partner. Se una persona
eterosessuale provasse attrazione sessuale solo nei confronti delle persone con
i capelli rossi, avrebbe a disposizione un numero molto ristretto di potenziali
partner. Di fatto, trovare il/la partner davvero “giusto/a” non è semplice
nemmeno per chi ha in linea di principio a disposizione più di tre miliardi di
potenziali partner. Escludendo le persone esteticamente o psicologicamente non
“adatte”, quelle che sarebbero adatte ma non ricambiano il desiderio, quelle
che lo ricambierebbero ma sono già felicemente unite ad un’altra persona,
quelle che non hanno l’età giusta e quelle che semplicemente esistono da
qualche parte ma non vengono incontrate, resta un numero molto ristretto di
persone con cui costruire una soddisfacente relazione di coppia. In questa
situazione, l’ulteriore limitazione costituita dai capelli rossi sarebbe
devastante. Si potrebbero mettere annunci rivolti proprio a tali persone, ma
l’aritmetica sarebbe comunque nemica. Io, in tutta la mia vita avrei fatto
sesso solo con una persona e solo una volta e in età avanzata. Inoltre non
sarei sicuramente ottimista sul futuro e considererei il mio orientamento sessuale
come una vera disgrazia pur continuando a volermi bene e a pretendere rispetto
da tutti. Ora, questa “banale questione aritmetica” è sempre minimizzata nel
caso delle persone omosessuali, per lo stesso motivo per cui l’altra questione (quella
dei limiti nell’espressione del desiderio sessuale) è trascurata: il dolore
reale non conta se ci si focalizza sulle questioni dell’accettazione sociale,
della moralità o della devianza. Resta però il fatto che appartenere ad una minoranza è sempre limitante e quindi doloroso.
Tra l’altro, il fatto di non poter condividere un aspetto tanto importante
dell’esistenza come la sessualità è molto più doloroso di quanto possano
esserlo altre situazioni di isolamento o marginalità. La solitudine nell’ambito
delle convinzioni è molto meno dolorosa della solitudine sperimentata nella
sfera della sessualità e dell’intimità.
Credo
che in tutte le questioni delicate dell’esistenza personale ogni mancanza di
compassione sia un vero crimine. Tale “spietatezza” non colpisce solo le persone
omosessuali, ma anche i bambini (trattati come animaletti simpatici da educare
o come fonte di “gratificazione” per i genitori), le persone anziane, le
persone povere, le persone malate, e così via. La compassione scarseggia nella
specie umana, anche se essa è l’unica specie capace di provare compassione in
misura significativa. Ciò che, purtroppo, caratterizza l’omosessualità è la
prevalenza di risposte non
compassionevoli agli atteggiamenti non compassionevoli. Le risposte
“tipiche” delle persone omosessuali sono la vergogna e l’orgoglio e proprio questo fatto rende la condizione
omosessuale particolarmente drammatica, perché essa non è disturbata solo
dall’insensibilità degli “altri” (le persone “normali”), ma anche dalle tipiche
reazioni delle persone omosessuali a tale insensibilità.
La
realtà è complessa ed è più grande delle nostre paure. Ogni volta che cerchiamo
di “afferrarla” senza riconoscere che siamo solo piccoli soggetti smarriti in
un’immensa realtà oggettiva, perdiamo ogni possibilità di conoscere tale realtà
e soprattutto di collocarci in essa senza farci e fare del male. Già, perché a
volte servono tanti sforzi per conquistare un po’ di consapevolezza e di
felicità, ma basta poco per guastare tutto. La cultura umana è un grande museo degli
orrori prodotti dall’inutile brama di accettazione, di controllo, di
(s)valutazione e di facili certezze. Solo la paura ci spinge a voler
“inquadrare” le cose in modi rassicuranti e a dare alle cose un ordine che
genera sofferenze inutili. Questo conflitto fra il desiderio di conoscere e la
paura di conoscere cose dolorose e di sentire “troppo” è sempre in atto, ma
nella sfera dei desideri, della sessualità e del piacere il conflitto è sempre
stato (ed è tuttora) disastroso. Il desiderio sessuale ci conduce nel cuore
della bellezza, nell’incanto del contatto, nell’avventura dell’incontro e nella
quiete della resa a noi stessi ed alla persona amata. Senza tale desiderio si
sopravvive soltanto e proprio i cultori della sopravvivenza sentono il bisogno di
condannare e giustificare il piacere e quindi la sessualità. Proprio chi non sa
nulla prova l’esigenza irrefrenabile di “spiegare tutto” sugli atti puri e
impuri o, in alternativa, su quelli normali e patologici.
Solo
all’interno di questo quadro di riferimento si possono capire i problemi
apparentemente incomprensibili che vengono “dibattuti” dagli adoratori del
nulla. Nella neolingua dell’incubo sociale immaginato da Orwell (1949) non
c’erano parole adatte a favorire la conoscenza della sessualità: le uniche
parole incluse nel lessico erano “sesbuono” e “reasesso”. Anche nella nostra
cultura, in fondo, la sessualità è “buona” oppure è un reato. Magari è solo un
reato mentale (etico o “clinico”) e può essere buona in tanti modi (ed essere
“pura”, procreativa, “naturale” o “normale”), ma non è mai semplicemente e
fondamentalmente bella, appassionante, entusiasmante, libera e facilmente
comprensibile. Proprio all’interno di questa follia condivisa, sorgono come
funghi le norme, le colpe, le diagnosi e le giustificazioni. Proprio
all’interno di questa follia condivisa ogni piacere extragenitale è “reasesso”
(con l’eccezione del bacio romantico, ma solo se prelude ad una relazione
“seria”). E l’omosessualità, caratterizzata dall’incompatibilità genitale e
necessariamente limitata alla sfera della sessualità extragenitale, non può
altro che essere reasesso. E cambia davvero poco se l’omosessualità viene
riabilitata come sesbuona in quanto approvata da un certo numero di persone
come “diversamente naturale” o “diversamente normale”, perché tale “progresso
culturale” è un allargamento della stessa cella della stessa prigione.
Solo
all’esterno di quella prigione si può parlare della sessualità in termini di
gioia, felicità e dolore, cioè prescindendo da qualsiasi neolingua orwelliana,
etica o psicoterapeutica. La sessualità è gioiosa. Sempre. Comunque. Chi non è
d’accordo non sa nulla e ha mille ragioni (infantili) per non voler sapere
nulla, ma non può cambiare i fatti. La sessualità è anche dolorosa. Sempre e
comunque, in qualche modo e in qualche misura. E’ dolorosa l’eterosessualità
perché l’armonia cercata è sempre realizzata con qualche limite, ma è gioiosa
perché l’accettazione dei limiti riduce il loro “peso”. E’ dolorosa la
sessualità solitaria perché è solitaria, ma l’accettazione di tale dolore
consente almeno la gioia possibile nella solitudine. E’ dolorosa la sessualità
a pagamento, ma l’accettazione del dolore consente sia a chi la offre, sia a
chi la cerca, di far sesso con un po’ di simpatia e anche di dolcezza. E’
dolorosa la limitazione della sessualità al piano extragenitale che
caratterizza l’omosessualità, ma proprio l’accettazione di tale dolore libera
la mente dalla vergogna e dall’orgoglio e può consentire esperienze di
intimità.
L’omosessualità
non deve essere confusa con l’identità di genere e con il ruolo di genere. L’identità di genere riguarda il fatto
che le persone si considerino maschili, femminili o ambivalenti rispetto ai
generi. Nel ruolo di genere, invece,
confluiscono le caratteristiche culturalmente e storicamente attribuite in ogni
società ai maschi e alle femmine e anche le rielaborazioni personali di tali
caratteristiche. L’orientamento sessuale
(eterosessuale o omosessuale) è un’altra cosa: riguarda la tendenza
personale a rispondere con eccitazione sessuale a certi stimoli e non ad altri.
Una persona omosessuale di sesso maschile, quindi, può identificarsi
inequivocabilmente nel genere maschile ed anche accettare un ruolo sessuale
tradizionale, ma trova eccitanti sessualmente degli stimoli che in genere non
sono eccitanti per le persone di sesso maschile. I tre aspetti possono
intrecciarsi in vari modi. Lo sviluppo dell’identità di genere ha come base dei
precisi aspetti biologici geneticamente trasmessi, ma dipende anche da fattori
psicosociali, mentre è dovuta soprattutto alla cultura ed alla storia personale
la manifestazione di un preciso ruolo di genere. Questi tre aspetti sono
tuttora oggetto di ricerche volte a definire l’intreccio dei fattori genetici,
psicologici e sociali che contribuiscono nei vari individui a favorire un
particolare modo di sentirsi e di esprimersi sessualmente. Per approfondimenti
rinvio ad un’ottima sintesi delle ricerche più interessanti svolta da Davide
Dèttore (2010a e 2010b).
Ben
poche sono state le ricerche volte a mettere in discussione negli “anni bui” la
compatta tendenza a diagnosticare come patologica l’omosessualità. Tra queste
rare ricerche contro corrente si ricorda in vari testi quella di Evelyn Hooker
che nel lontano 1957 sottopose ad una batteria di test psicologici due campioni
di uomini, uno composto da eterosessuali e l’altro composto da omosessuali.
Presentò poi i risultati a vari esperti affinché valutassero la salute mentale
dei soggetti e possibilmente individuassero quelli omosessuali e quelli
eterosessuali. Gli esperti non riscontrarono patologie tali da individuare i
soggetti omosessuali.
Purtroppo,
ricerche di questo tipo non chiariscono nulla di significativo. Sfido qualsiasi
ricercatore a fare lo stesso test con un gruppo di persone con altre
caratteristiche personali diagnosticate tuttora dal DSM come indiscutibili
“patologie”: problemi di eiaculazione precoce, di anorgasmia femminile, ecc. Il
risultato sarebbe lo stesso. Né le persone eterosessuali, né quelle omosessuali
né quelle con altre caratteristiche ancora definite “patologiche” dagli
psichiatri e psicoterapeuti vedono marziani o credono di aver causato la
seconda guerra mondiale o manifestano identici tratti della personalità. Quindi,
il fatto che le persone omosessuali siano “normali”, non chiarisce nulla che
non fosse noto da sempre e lascia aperta la questione delle cause (o delle
ragioni) dell’omosessualità. Dati i dolorosi inconvenienti che caratterizzano
la condizione omosessuale, devono esserci delle forti cause genetiche o delle
ragioni psicologiche a monte di tale risultato, ma probabilmente proprio
l’urgenza di diagnosticare le devianze dalla normalità o di giustificare la
“quasi normalità” hanno impedito una reale comprensione di tali cause o
ragioni.
La
specie umana è caratterizzata dalla riproduzione sessuata e questa si
accompagna inevitabilmente a predisposizioni psicologiche fondamentali
associate alla capacità riproduttiva, mentre proprio le caratteristiche
estranee a tale realtà richiedono spiegazioni. Ovviamente, poiché siamo animali
più culturali che naturali, non possiamo ricavare ragionevolmente da ciò nulla
di normativo, ma semplicemente dobbiamo accettare che è l’omosessualità e non
l’eterosessualità a richiedere spiegazioni. Meritano spiegazioni tutti i
comportamenti non facilmente comprensibili, soprattutto se comportano delle
limitazioni. In questo senso non richiede alcuna spiegazione il fatto che le
persone lavorino per vivere, mentre va spiegato come i mai alcune persone
limitino inutilmente il loro piacere di vivere per “realizzarsi” sul lavoro. I
limiti “dati” o imposti o scelti sono sempre e comunque dolorosi.
L’omosessualità va perciò spiegata, come pure il voto di castità, che
costituisce una limitazione ben più grave del piacere e dell’intimità, ma
questo non ha nulla a che fare con l’idea di disprezzare o perseguitare
omosessuali o preti o suore.
Risultano
quindi del tutto pretestuose le posizioni polemiche manifestate da persone come
la psicoterapeuta Marina Castaneda: “Dobbiamo inoltre chiederci perché è così
importante conoscere le ragioni dell’omosessualità. Dopo tutto, gli
eterosessuali non si chiedono mai perché sono eterosessuali. E a nessuno
psicologo o psicoanalista, esplorando la storia di un paziente, viene in mente
di cercare le ragioni storiche della sua eterosessualità. Questa domanda
diventa pertinente solo quando l’orientamento sessuale è percepito come
anormale, o come deficitario” (1999, pp. 21-22). In questa bizzarra citazione
si manifesta il bisogno, che caratterizza tanti psicoterapeuti di “proteggere”
le persone omosessuali, che però non hanno bisogno di alcuna “protezione”,
proprio perché non sono né “incapaci”, né “inferiori”. Un gruppo sociale che
include il due o cinque per cento della popolazione merita tutto il rispetto
che una società civile dichiara di riconoscere a chiunque, ma non rientra nella
normalità ed è, quindi, “a-normale” come lo sono i geni e gli idioti. L’idea
che il rispetto coincida con la negazione delle differenze è un’idea errata e,
nella stessa logica, è diventato uso comune definire “diversamente abili” i
disabili, ma ciò non ha eliminato alcuna sofferenza. In questo senso, sia le antiche “diagnosi”, sia il recente atteggiamento di tanti
psicoterapeuti, così come la storica vergogna e il recente orgoglio di tante
persone omosessuali, rispecchiano una non superata mentalità rigida e
svalutante. Quando si dice che l’omosessualità non è né scelta, né causata, ma
viene “scoperta” dal soggetto, non si formula un’asserzione, ma un’imposizione:
quella di non cercare alcuna
spiegazione coerente e convincente delle cause o delle ragioni
dell’omosessualità.
Posto
che le persone omosessuali non danno fastidio a nessuno (se non alle persone
disturbate dai propri problemi irrisolti),
diventa interessante capire le cause o le ragioni del loro orientamento
sessuale. Se ci fossero specifici motivi genetici, avremmo una spiegazione
soddisfacente, ma al momento la genetica non fornisce dati conclusivi.
Purtroppo, i dati psicologici disponibili sono ancor meno significativi, dato
che le teorie psicologiche più diffuse, solo una manciata d’anni fa erano così
rozze da “dimostrare” la “patologia” omosessuale. Le ricerche sul versante
genetico hanno comunque prodotto alcuni risultati. “Le teorie biologiche
relative allo sviluppo dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale si
sono concentrate recentemente sul dimorfismo cerebrale nella convinzione che vi
siano delle differenze genere-specifiche nei meccanismi ipotalamici e ipofisari
che regolano la produzione di taluni ormoni sessuali. Questa teoria, detta
dell’ormone prenatale, sorse soprattutto da studi su animali in cui le
differenze di genere nel comportamento potevano essere manipolate mediante
cambiamenti ormonali in utero (cioè esposizione del feto ad androgeni).
L’estrapolazione agli esseri umani dei dati presenti in tali studi su modelli
animali portò Dorner (…) a postulare che l’identificazione col sesso opposto
e/o l’omosessualità potessero essere il risultato di eccessi o carenze di
androgeni in utero durante un periodo sensibile per lo sviluppo delle strutture
ipotalamiche che regolano la produzione ormonale” (Dèttore, 2010a, p. 16). In
ogni caso, va ricordato che “La disputa fra fattori biologici e sociali (…) è
ben lungi dall’essere risolta e, molto probabilmente, una soluzione definitiva
non sarà mai possibile, anche perché quasi sicuramente entrambi i fattori
contribuiscono allo sviluppo di tale elemento dell’identità personale”
(Dèttore, 2010a, p. 22).
Uno
dei dati più significativi relativo alle componenti genetiche dell’orientamento
sessuale è costituito dal maggiore tasso di concordanza dell’orientamento
sessuale fra gemelli monozigoti rispetto a quelli dizigoti, anche nelle coppie di gemelli allevati
separatamente. Il fatto che il tasso di concordanza sia “maggiore”
evidenzia qualche tipo di condizionamento genetico, ma non una netta
determinazione genetica dell’omosessualità. Tra l’altro va tenuto presente che
la genetica non determina specifici comportamenti complessi. Patricia S.
Churchland è molto chiara in proposito: “Le relazioni tra geni e comportamento
(…) non sono uno-a-uno, e neanche uno-a-molti; sono molti-a-molti. Il significato di tutto ciò, oggi generalmente
riconosciuto dai genetisti, sta nell’aver eroso l’idea che un gene possa avere
un vasto effetto per questo o per quello specifico comportamento” (2011, p.
119). L’orientamento omosessuale, dunque, sembra l’esito di vari fattori non
sempre facili da individuare. Dato che l’omosessualità comporta specifiche
frustrazioni, limitazioni e anche sofferenze, eventuali fattori psicologici
possono solo essere di tipo difensivo, ma da ciò non consegue che
l’omosessualità derivi necessariamente da difese psicologiche, perché le
determinanti genetiche in certi casi potrebbero essere molto forti.
Le parole
colpiscono come le pietre quando vengono usate per alimentare la rabbia
irrazionale o per cementare l’appartenenza ad un gruppo contrapposto ad altri.
Poiché il rapporto fra persone omosessuali e società tradizionale è sempre
stato difficile, i cambiamenti degli ultimi decenni hanno generato nuove
“parole-pietre” che fanno male (anche a chi le usa) come facevano male le
parole svalutative del passato. Il termine “gay” ed il termine “omofobia”
riflettono questo passaggio da una “vecchia” cultura distruttiva ad una “nuova”
cultura distruttiva. “Il termine stesso di ‘gay’ mi imbarazza, perché lo sento
falso; esprime una ‘difesa euforica’ che pretende di negare il versante
depressivo, dando una patina di vitalità e gaiezza aprioristica a percorsi di
vita che sono per lo più travagliati. L’idealizzazione è sempre l’altra faccia
della svalutazione. Vorrei tanto che ciascuno non dovesse né essere orgoglioso
né vergognarsi della propria sessualità” (Argentieri, 2010, p. 43).
Nel
passaggio dal termine provenzale “gai” (gaio, allegro) a quello anglosassone
“gay” (nel ‘700 e nell’800) il significato ha assunto connotazioni sessuali, ma
senza riferimenti all’omosessualità. Una “gay house” era un bordello e una “gay
woman” era una prostituta (così come in italiano si usava l’espressione
“donnine allegre”). All’inizio del ‘900, negli Stati Uniti, il termine “gay”
iniziò ad essere usato per indicare persone omosessuali (maschi e femmine) e
negli anni ’60 venne utilizzato dai movimenti omosessuali. Negli anni ’70 è
prevalso l’uso del termine “gay” per i maschi e “lesbica” per le femmine. Di
fatto, la “gaiezza” degli omosessuali non è molto più giustificata di quella
delle persone con gli occhi azzurri, perché le persone non sono mai gaie o
tristi per una loro particolare caratteristica. Se poi tale caratteristica
riflette dei limiti (nella espressività erotica e nella facilità di incontrare
partner adatti), il termine risulta decisamente scorretto e acquista solo una
valenza provocatoria: serve solo a negare l’altrettanto ingiustificato senso di
“inadeguatezza” tanto diffuso da sempre fra le persone omosessuali e
sicuramente non superato con l’esibizione dell’orgoglio.
In
ogni caso, l’esito linguistico peggiore di questa “falsa rivoluzione” dei
movimenti omosessuali è costituito dal termine “omofobia” che ormai ha
irreparabilmente inquinato la cultura “progressista”. Pochi sanno che il
termine omofobia è stato coniato per un (apprezzabile) intento polemico nel
1966 da George H. Weinberg, uno psicologo che in una pubblicazione del 1972
riuscì a “smontare” con eleganza le classiche “interpretazioni” psicoanalitiche
dell’omosessualità. Secondo Jack Dresher, “Il maggior contributo di Weinberg
(…) è quello per cui è egualmente plausibile costruire una ‘malattia’ chiamata
‘omofobia’ come lo è costruirne una chiamata ‘omosessualità’ ” (2000, p. 76). La
dimostrazione del fatto che da una teoria sballata si possa dedurre non solo un
enunciato, ma anche il suo opposto, ovviamente non dimostra tale “nuova
conclusione”, ma dimostra solo la debolezza della teoria e, in questo caso,
della teoria psicoanalitica. La provocatoria operazione di Weinberg, per quanto
interessante come contributo polemico, non costituisce, quindi, un contributo
conoscitivo, e non giustifica in alcun modo l’uso corrente del concetto di
omofobia. Tuttavia, il termine “omofobia”, pur essendo sorto da una polemica
specifica, è stato utilizzato normalmente nella comunità omosessuale, nella
cultura “progressista” e persino fra gli psicoterapeuti di tutte le scuole, ma
è un termine utilizzato impropriamente (così come i termini “femminicidio”,
“omicidio stradale”, “maschilismo”, ecc.). Le interpretazioni ideologiche dei
fatti, ricapitolate in una nuova parola e ripetute molte volte portano
facilmente le persone a considerare evidente ciò che evidente non è. Alla
domanda “Condividi gli atteggiamenti omofobi?” è difficile rispondere “Ma di
che stai parlando?” ed è molto facile rispondere “Certo che no!”. Perché?
Perché l’interpretazione (semplicistica, riduttiva o distorta) di certi fatti sembra
una descrizione oggettiva dei fatti quando viene implicata (e data per scontata) anziché dimostrata. Non posso non pensare
alla neolingua descritta da Orwell nell’appendice del suo libro più noto: “Il
vocabolario B consisteva di parole che erano state create deliberatamente per
scopi politici, vale a dire parole che avevano non solo, in ogni caso, un
significato politico, ma che erano per l’appunto intese a imporre un
atteggiamento mentale, in una direzione desiderata, nella persona che ne faceva
uso” (1949, p. 334).
Oltre
a tener presenti i motivi della ripetizione di neologismi a dir poco
discutibili è il caso di chiarire bene perché sono discutibili. Il termine
“omofobia” fa eco a quelli clinici utilizzati da psichiatri e psicoterapeuti:
claustrofobia, agorafobia, ecc. Tuttavia, al momento, i manuali diagnostici non includono il termine “omofobia” che
è invece rimbalzato nelle polemiche dei giornalisti e di tante persone
politicamente interessate ai diritti delle persone omosessuali. Dunque, non è un concetto clinico e se lo fosse
sarebbe errato, perché isolerebbe un sintomo che in realtà costituisce solo
una delle possibili “estensioni” di un atteggiamento caratteriale e di una
complessa chiusura mentale. Nella Scala F (la personalità “fascista”) delle
ricerche di Adorno e collaboratori (1950), si riscontrò una notevole
correlazione fra convinzioni politiche autoritarie e ostilità nei confronti
delle persone omosessuali. Quando le persone pensano rigidamente in termini di
“noi e loro”, di controllo e di cieca obbedienza alle tradizioni e
all’autorità, facilmente tendono a provare sentimenti negativi verso tutte le deviazioni dalla normalità e
quindi anche verso l’omosessualità,
ma questo non significa che abbiano particolari problemi con l’omosessualità.
Negli anni ’60 le persone che disprezzavano i ragazzi con i capelli lunghi o le
ragazze con le minigonne non avevano fobie relative ai capelli o agli abiti, ma
provavano semplicemente rabbia nei confronti di una cultura giovanile che
metteva in discussione le loro “certezze” e le loro tendenze all’auto-repressione. Credo quindi che il
termine omofobia non verrà incluso nemmeno nelle prossime edizioni del DSM
perché una specifica fobia relativa all’omosessualità o non esiste o crea una
significativa inquietudine solo a pochissime persone. Fermo restando il diritto
ed anche il dovere di contrastare i pregiudizi, sarebbe logico farlo in modi
corretti e non utilizzando concetti pseudo-clinici come insulti. Già, perché,
se X fosse davvero affetto da una reale patologia (l’omofobia) meriterebbe
comprensione e cure, mentre se fosse intollerante e manifestasse atteggiamenti
violenti meriterebbe delle risposte decise e anche violente, ma non delle
diagnosi sballate.
A
mio parere, le persone omosessuali (e in generale le persone intelligenti e
rispettose) non dovrebbero utilizzare il termine “omofobia” proprio per
dimostrare che reagiscono razionalmente all’irrazionalità delle persone
intolleranti. Ma forse è chiedere troppo. La cosa più strana, però è un’altra:
gli psicoterapeuti sono molto gelosi del loro giardino privato e fanno vere
battaglie legali nei confronti di chiunque si azzardi a fare interventi
professionali più o meno simili a quelli riservati agli iscritti all’Ordine
degli psicologi, ma si sono dimostrati incredibilmente accondiscendenti nei
confronti di persone omosessuali, di blogger “esperti” nei “gender problems”,
di giornalisti e di politici totalmente privi di qualsiasi formazione
specifica, che “diagnosticano” a propria discrezione l’omofobia dei loro
interlocutori. Ovviamente è chiedere troppo anche chiedere agli psicoterapeuti
di scontrarsi con le chiusure mentali ben radicate: non denunciano il
catechismo imposto ai bambini, non hanno mai denunciato la comune svalutazione
delle persone omosessuali e non stanno denunciando l’irrazionale uso
“progressista” del concetto di “omofobia”. Il loro rigore scientifico sembra
arrestarsi sulla soglia di qualsiasi tradizione o moda culturale.
Una
delle peggiori conseguenze dell’introduzione del concetto di omofobia sta nel
fatto che tale concetto, essendo generico e infondato, oltre ad essere
utilizzato contro le persone
intolleranti viene utilizzato contro
qualsiasi teoria o speculazione
passata o presente non gradita alle persone omosessuali. Queste stesse mie
pagine potrebbero essere ritenute un esempio di omofobia, dato che in esse
metto in discussione anche le
contraddizioni riscontrabili nelle idee manifestate dai movimenti omosessuali.
Come nella Russia stalinista qualsiasi dissidente era un “revisionista
reazionario” e nell’America maccartista qualsiasi libero pensatore era “un
comunista”, da un po’ di tempo qualsiasi idea non rassicurante nei confronti
dell’omosessualità è automaticamente bollata come espressione dell’omofobia. La
cosa è preoccupante, perché quando l’insulto e l’esclusione sostituiscono
l’esame critico dei fatti, la razionalità viene calpestata. Ad esempio, Jack
Drescher (2000, p. 76) non esita a definire omofoba l’interpretazione
dell’omosessualità delineata da Edmund Bergler nei suoi libri (1949 e 1956), ma
la sua contestazione trascura un fatto importante: un errore è tale perché
viola la logica o i fatti e non perché disturba qualcuno. Io trovo errate le
tesi portanti di questo psicoanalista, ma penso che le teorie cliniche errate vadano
contestate sul piano empirico-scientifico e non vadano censurate in quanto
“omofobe” o “revisioniste” o “comuniste”.
L’uso
scorretto e ambiguo di un termine clinico che però è usato come una clava
anziché come un “ferro del mestiere” e che è anche “prestato” a persone che del
mestiere non sono, ha prodotto un consenso diffuso fra le persone terrorizzate
dalla possibilità di apparire
“reazionarie e omofobe”, ma tale consenso non deriva da alcuna reale convinzione
e da alcun autentico rispetto umano. La “banalità del male” (Arendt, 1963) è in
fondo la paura di esercitare la razionalità in un mondo irrazionale e quindi si
riduce al conformismo. Se è tragico il conformismo della “gente comune” lo è
maggiormente quello degli “specialisti”. Trovo quindi condivisibile la triste,
ma realistica, sintesi tracciata da Simona Argentieri: “Come reazione alla
rozza condanna della parte più retriva della società (odiosa ma esplicita) è
nato così un nuovo conformismo: dalla condanna moralistica all’ipocrisia
normalizzante; dalla repressione alla collusione; due modi opposti di eludere
la fatica del dubbio e la responsabilità delle proprie idee, rifugiandosi in un
cortocircuito del senso” (2010, p. 121). Purtroppo tutta la storia della
sessualità umana e delle concezioni della sessualità umana è tragica. La
ricerca del piacere, del contatto e dell’intimità sopravvive da sempre e
continua a dare frutti bellissimi, ma sempre ai margini di una realtà
caratterizzata da incubi personali, culturali e sociali.