Si
potrebbe scrivere un intero libro sui “ritardi” della psicoterapia rispetto
alle svolte verificatesi nella storia della cultura occidentale e quindi
sull’assenza di una vera “conoscenza psicologica” capace di anticipare tali svolte. Rispetto ai
cambiamenti storici e culturali, la psicoterapia è stata in ritardo nell’esame della
personalità autoritaria, della svalutazione della femminilità ed anche
dell’intolleranza nei confronti dell’omosessualità. Si è dimostrata una valigia
caricata all’ultimo momento su un treno già in partenza. Per chiarire meglio il
ruolo ideologico più che scientifico della psicoterapia nello studio della
sessualità voglio iniziare ricapitolando le idee psicoterapeutiche tradizionali
e recenti sull’omosessualità. Chiarirò quindi le ragioni per cui la
psicoterapia offre da sempre un’analisi “povera” dei principali aspetti della
sessualità umana.
L’emarginazione
e la condanna morale dell’omosessualità si è realizzata in occidente in modi
diversi nei diversi paesi. In Italia è mancata una legislazione ferocemente
punitiva come quella di altri Stati e quindi proprio all’estero sono sorti i
primi movimenti di protesta. Il medico Magnus Hirschfeld fondò a Berlino nel
1897 un comitato umanitario che raccolse l’adesione di molti studiosi orientati
a tutelare i diritti delle persone omosessuali. L’idea che l’omosessualità
avesse basi biologiche e quindi non potesse essere soggetta a condanne morali
avviò un dibattito e varie ricerche. Il nazismo cancellò tutta la cultura
tedesca e non solo quel segmento della cultura rispettoso delle persone
omosessuali. Di fatto cancellò anche fisicamente moltissimi omosessuali nei
campi di concentramento. Persino nell’Unione Sovietica di Stalin si
verificarono persecuzioni gravissime e molte persone omosessuali furono
deportate in Siberia. Se la rivoluzione comunista aveva abolito le leggi
repressive zariste e aveva dato spazio a varie istanze libertarie,
l’involuzione staliniana cancellò tutto.
Nei
paesi occidentali, dopo la seconda guerra mondiale, la ripresa delle tematiche
civili fu lenta, ma negli anni ’60 il nuovo clima culturale e politico favorì sia
le lotte operaie e studentesche, sia quelle riguardanti i diritti civili. Il 28 Giugno 1969 un
raid della polizia di New York nel locale Stonewall Inn, frequentato da persone
omosessuali, incontrò per la prima volta resistenza e i frequentatori
protrassero per giorni la rivolta. Negli anni si rafforzò la presenza
“visibile” degli omosessuali, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa
si pubblicarono libri, si organizzarono movimenti e si radicò l’idea che la
minoranza omosessuale potesse rivendicare dei diritti civili. Nel Regno Unito,
la Homosexual Law Reform Society venne fondata nel 1957, in
Francia, il FHAR (Fronte omosessuale di azione rivoluzionaria) venne fondato
nel 1971 e in Italia venne fondato nel 1970 il F.U.O.R.I (Fronte Unitario
Omosessuale Rivoluzionario Italiano). Il primo libro specificamente dedicato
alla condizione sociale delle persone omosessuali fu pubblicato nel 1977 da
Mario Mieli.
Nella
concezione psicoanalitica l’omosessualità è stata fin dalle origini concepita
come un arresto dello sviluppo “libidico” o psicosessuale. A difesa di Freud va
ricordato che egli non ha mai alimentato atteggiamenti intolleranti nei
confronti di nessuno e nemmeno delle persone omosessuali. Ha rifiutato
espressioni svalutative e moralistiche come “vizio”, ma ha mantenuto fino alla
fine l’idea che l’omosessualità dipendesse da uno sviluppo psicosessuale
incompleto. Alcuni psicoanalisti cercano, oggi, di evidenziare le “aperture” di
Freud, citando ad esempio una delle sue ultime osservazioni sull’argomento in
cui esplicitamente egli negava che l’omosessualità fosse da considerare una
malattia. Tuttavia, proprio la citazione utilizzata include l’espressione
“arresto dello sviluppo sessuale’ ” (cfr. Drescher, 2000, p. 72). Negli anni
successivi, l’omosessualità venne considerata una patologia o una devianza
dagli psicoanalisti, dagli studiosi delle varie scuole di psicoterapia e dagli
psichiatri.
Se
prima del 1973 (l’anno della derubricazione dell’omosessualità dall’elenco dei
disturbi mentali diagnosticati dall’American Psychiatric Association),
psichiatri, sessuologi e psicoterapeuti consideravano patologica
l’omosessualità, passarono anni prima che le loro nuove idee si consolidassero.
Negli anni ’70 e ’80 non solo i libri “storici” di Edmund Bergler sulla
patologia omosessuale restarono un punto di riferimento, ma furono pubblicate e
ristampate anche molte opere di Wilhelm Reich. La sua teoria, che da un lato era
libertaria e da un altro lato era biologistica e per molti aspetti approssimativa,
evidenziava gli aspetti fisici ed emozionali della genitalità. Reich si era
occupato poco dell’omosessualità, ma aveva concepito tale orientamento sessuale
come una delle tante conseguenze della repressione sessuale sociale e religiosa
(cfr. 1931, pp. 81-85) e, a sostegno delle sue considerazioni, aveva menzionato
prove extracliniche fornite dalle ricerche antropologiche di Bronislaw
Malinowski sulla cultura sessualmente libera delle isole Trobriand in cui
l’omosessualità era assente (1927, p. 127). Nonostante tale convinzione, Reich espressamente si oppose a qualsiasi
forma di svalutazione e di emarginazione delle persone omosessuali. L’idea
dell’omosessualità come difesa psicologica e (auto)repressione della genitalità
ha avuto conferme empiriche anche a livello educativo, e proprio un buon
conoscitore della concezione reichiana come Alexander Neill ha evidenziato che,
nel contesto educativo non moralistico, non autoritario e non svalutativo della
sua scuola, l’omosessualità non trovava radici (Neill, 1960, pp. 268-269).
Anche
se i libri di Reich ricevettero molte critiche, non furono in quegli anni
contestati per le sporadiche valutazioni cliniche relative all’omosessualità.
Il principale rappresentante della scuola reichiana negli Stati Uniti, pubblicò
nel 1969 un libro di grande successo (con grandi pregi, anche se nel quadro
limitato della “scolastica reichiana”) in cui compare questa affermazione:
“L’omosessualità è dovuta all’identificazione con il genitore di sesso opposto.
L’identificazione è basata sulla paura, e la causa fondamentale
dell’omosessualità è la paura dell’eterosessualità. Per curare questo disturbo
è necessaria generalmente una terapia prolungata” (Baker, 1969, p. 111). In
Italia questo libro fu pubblicato dalla Casa Editrice Astrolabio, proprio nel
1973 e fu ristampato per molti anni. Questi fatti dimostrano che il cambiamento nei rapporti fra comunità
omosessuale e società si è realizzato prima dei ripensamenti degli specialisti.
La
“svolta” dell’American Psychiatric Association costituì l’esito di accese
discussioni e “il gruppo degli psicoanalisti all’interno dell’Associazione fu
quello che in quell’occasione si batté più accanitamente affinché tale
derubricazione non avesse luogo. Ben più tribolato è lo sviluppo di questo
stesso processo nella American Psychoanalytic Association: si sarebbe infatti
dovuto attendere il 1989 perché il presidente di tale associazione proponesse
l’apertura del training alle persone che si dichiaravano omosessuali, ma questa
disposizione rimase bloccata per due anni, prima di essere promulgata, a causa
della strenua opposizione di un gruppo minoritario di analisti. Nel 1991,
infine, l’Associazione votò a larga maggioranza l’abrogazione del bando contro
gli omosessuali. Dal 1997 hanno cominciato a uscire dagli istituti
psicoanalitici nordamericani i primi analisti diplomati dichiaratamente
omosessuali” (Bassi, 2000, p. XIII). C’è di più. Se psichiatri e psicoanalisti
manifestarono molte resistenze iniziali nei confronti del nuovo orientamento,
solo nel 1990 l’OMS escluse l’omosessualità dall’elenco dei disturbi mentali.
La
storica decisione degli psichiatri americani è stata presa a maggioranza, con
5816 voti contro 3.817 (cfr. Cantelmi – Lambiase, 2010, p. 71) e una cosa del
genere non può che suscitare perplessità: se i fisici votassero la effettiva
“esistenza” di una nuova particella atomica l’indignazione per il declino della
scienza sarebbe unanime. Gli psichiatri, subendo però le pressioni di una
società in cui l’omosessualità risultava sempre più accettabile hanno “ceduto”
sul piano “teorico” come già in precedenza avevano ceduto a ben altre pressioni
inventando la patologia omosessuale. Da allora molti studiosi (utilizzando gli stessi quadri di riferimento
concettuali che nel passato erano stati utilizzati per spiegare e curare la
“patologia omosessuale”) hanno cercato di spiegare perché l’omosessualità non
dovesse essere “curata”.
Il bello della medicina
sta nel fatto che questa disciplina, nonostante tutti i suoi limiti, non si
aggrappa alla normalità. Se io avessi centoquarant’anni e andassi in bicicletta
dal medico, questi non mi farebbe ricoverare perché statisticamente anormale e
quindi “patologico”, ma mi visiterebbe con attenzione congratulandosi per la
mia anormale condizione fisica definendomi “eccezionalmente sano”. Purtroppo,
la psicoterapia è una disciplina “quasi medica” solo per decreto politico. Se
le discipline psicologiche si fossero focalizzate fin dal secolo scorso sull’analisi
e sulla denuncia dell’intolleranza, come atteggiamento generale di tipo
difensivo, sarebbero state sempre in
anticipo sui “tempi della storia”, dato che la storia umana è soprattutto
la storia dell’intolleranza.
Occorre
inoltre ricordare che tuttora, psicologi e psichiatri cattolici, come ad
esempio Joseph Nicolosi, continuano a considerare l’omosessualità come una
patologia da curare. Logica vorrebbe che la de-patologizzazione
dell’omosessualità portasse le discipline psicoterapeutiche a prendere posizione
nei confronti delle concezioni religiose che continuano a considerare
l’omosessualità come innaturale e inaccettabile. Purtroppo, però, la questione
è decisamente complicata, perché la psicoterapia tende ad essere “custode della
normalità” e nella cultura contemporanea sia
le persone omosessuali, sia le
persone cattoliche hanno un “riconoscimento sociale”. Tonino Cantelmi, proprio
appoggiandosi ai principi deontologici dell’Ordine degli psicologi, sottolinea
che “I diritti degli individui, inerenti esperienze religiose e spirituali,
meritano infatti lo stesso rispetto accordato all’orientamento sessuale, in
quanto le dimensioni spirituali e/o religiose possono costituire l’identità più
saliente di ogni persona” (Cantelmi, 2008, p. 51). Tali considerazioni non sono
altro che una logica conseguenza della confusione che caratterizza la
psicoterapia: tale disciplina, non disponendo di conoscenze condivise dalle
varie Scuole deve “riconoscere” qualsiasi ideologia socialmente influente pur
di mantenere il proprio
riconoscimento sociale. Deve quindi riconoscere sia la “diversa normalità”
delle persone omosessuali, sia il cattolicesimo.
Anche l’emancipazione femminile realizzatasi nella
cultura occidentale non è certamente stata anticipata o illuminata da idee
innovative degli psicologi e degli psicoterapeuti e ora che tale emancipazione
si è arenata nell’orizzonte concettuale ristretto del femminismo, gli psicoterapeuti
non contribuiscono certo ad un esame critico dell’ideologia femminista perché
essa è diventata culturalmente “intoccabile”. Gli psicoterapeuti sono passati
dalle teorizzazioni fantasiose relative alla “specificità” femminile (intesa
come senso di inferiorità, “invidia del pene”, ecc.) a teorizzazioni più
realistiche ed equilibrate, senza però mettere in discussione le nuove concezioni
sessuonegative del femminismo: gli psicoterapeuti non commentano l’uso di un
concetto confuso come quello di “maschilismo” e non lo fanno perché non
promuovono una cultura scientifica e realmente emancipativa sul piano sessuale.
Spesso
sono presenti componenti difensive nella scelta di una professione (compresa la
professione psicoterapeutica) o nella scelta di un/una partner non
soddisfacente o nella decisione di avviare o interrompere una gravidanza o
nell’adesione ad una ideologia o a una religione. Tali scelte meritano un
attento esame analitico: non una “cura”, ma un lavoro volto a chiarire con i clienti le ragioni dei loro
atteggiamenti e comportamenti. Io non pretendo di sapere ciò che, di fatto, non
si sa sull’orientamento omosessuale, ma non credo che l’orientamento sessuale
debba essere considerato “intoccabile”. Anche in questo caso va evidenziato
l’abisso che separa il lavoro analitico e quello psicoterapeutico: l’analisi
mira a chiarire le ragioni espressive o difensive delle scelte personali e tali
chiarimenti possono essere utilizzati dal
cliente per attuare dei cambiamenti o per confermare con più consapevolezza
le scelte già fatte. In psicoterapia, invece, prevale l’idea che il “paziente”
sia “affetto” da qualche disturbo e che il “terapeuta” debba decidere cosa fare
per raggiungere determinati risultati prefissati, ed è proprio l’atteggiamento
“terapeutico” che porta lo psicologo ad agire per provocare dei cambiamenti
“normalizzanti” o per “non toccare certe questioni” normalmente concepite come
“intoccabili”. Come è importante capire se una persona ha reali interessi di
tipo culturale o se studia solo per sentirsi “appartenente al mondo degli
intellettuali”, è importante capire se l’orientamento omosessuale (di una
persona interessata a comprendersi e non a “normalizzarsi”) riflette o non
riflette delle difese psicologiche sessualizzate. In entrambi i casi il lavoro
analitico comporta dolore e presuppone proprio quell’attenzione alle ragioni
per cui le persone agiscono che la concezione diagnostico-normativa della
psicoterapia non prevede.
Dopo
la “svolta” burocratico-politica”, più che teorica, con cui gli psichiatri e
gli psicoterapeuti hanno mantenuto la loro concezione diagnostica di base limitandosi
a derubricare l’omosessualità dalle patologie, si è verificato un nuovo
problema: l’indagine sulle possibili ragioni psicologiche dell’orientamento
omosessuale è, di fatto, stata scoraggiata o addirittura considerata
espressione di “omofobia”. In altre parole, la genuina intenzione di capire è
stata soffocata in passato dalla pregiudiziale ricerca delle “cause” di una
patologia omosessuale non dimostrata ed è ancora soffocata dall’offerta di
rassicurazioni ideologiche sulla “naturalità” e sulla “diversa normalità”
dell’orientamento omosessuale. Purtroppo sono davvero tanti i modi di non risolvere un problema. Comprendo il
disagio di tante persone che in passato sono state “curate” per una patologia
omosessuale immaginata dai loro “terapeuti” e che in tal modo non sono state
aiutate a rispettarsi per le loro preferenze sessuali o a superare le
sensazioni (difensive) di vergogna, ma sicuramente un caro amico che ho
frequentato per anni non avrebbe risolto il proprio problema se fosse stato
solo “rassicurato” da giovane sulla propria omosessualità. Probabilmente
avrebbe ridimensionato i sensi di colpa, ma non avrebbe compreso
molti aspetti di sé, non avrebbe corteggiato la sua compagna, non avrebbe visto
crescere i suoi figli e non avrebbe fatto tante esperienze per lui preziose.
Come è importante aiutare le persone ad accettare il fatto di essere ciò che
sono, è importante non stabilire pregiudizialmente
“dall’esterno” se sono o non sono affette da una patologia definita da un particolare clima culturale.
In
un volume che include contributi di vari specialisti, Giovanni Liotti e Lucia
Tombolini (2006) esaminano varie difficoltà che possono presentarsi in
psicoterapia con le persone omosessuali. La loro impostazione del problema è in
linea con le attuali concezioni non patologizzanti: “L’orientamento
omosessuale, in accordo con la nosologia psichiatrica corrente, non viene
considerato patologico, mentre si riconosce che il viverlo come egodistonico è
fonte di inutili sofferenze. La sessualità, tanto per il paziente omosessuale
quanto per quello eterosessuale, è posta al centro della riflessione congiunta
della coppia terapeutica soltanto se caratterizzata da convinzioni negative che
causano disagio e sofferenza emotiva. Compito del terapeuta sarà pertanto
aiutare il paziente a rintracciare le convinzioni o credenze che costituiscono
l’immagine negativa di sé in quanto omosessuale, di esplorarne insieme la
validità, di modificarle o di affiancarle con altre che rinforzino una identità
positiva” (p. 74). Tale premessa è, purtroppo, riduttiva. Con un cliente (o
“paziente”) convinto di non valer nulla perché è stato licenziato più volte da
varie aziende, è certamente opportuno chiarire che il rispetto dovuto alle
persone non dipende dalla loro collocazione lavorativa, ma è anche necessario
indagare sulle ragioni di tanti licenziamenti, dato che tale “serie negativa”
potrebbe essere dovuta a pura sfortuna, ma anche ad una non cosciente strategia
volta a non mantenere un’autonomia economica. Quindi, se tale “apertura” è
ragionevole per questioni di lavoro (o famigliari o di altro tipo), perché mai
non dovrebbe esserlo per questioni riguardanti l’orientamento sessuale? Dove
sta scritto che se una persona eterosessuale è attratta solo da persone molto
più anziane, presumibilmente ha un problema, mentre se un’altra persona è
attratta solo da persone del proprio sesso non può aver costruito
inconsapevolmente e in termini difensivi tale attrazione? In realtà, questa
obiezione, abbastanza scontata, riceve una risposta proprio dagli Autori del
libro appena citato, che riportano tre casi clinici: due sono centrati su
convinzioni negative relative alla condizione omosessuale, mentre il terzo caso
riguarda proprio una manifestazione difensiva dell’omosessualità: un ragazzo
scoprì che “non era mai stato un omosessuale egodistonico o omofobico; era
stato, piuttosto, un eterosessuale al quale la vita aveva proibito di ‘guardare
le donne’ e che, inoltre, aveva paura del legame affettivo con le donne a causa
dell’esperienza di attaccamento disorganizzato alla propria madre” (Liotti -
Tombolini, 2006, p. 88). Lasciando da parte la lettura di tipo causale
utilizzata dagli Autori per la sintesi del lavoro svolto, comprendiamo
facilmente da questo esempio che l’orientamento omosessuale in quanto tale può costituire anche l’esito di una strategia difensiva
e non una “cosa” che ad un certo punto le persone “scoprono”. Dal mio punto di
vista e, sicuramente, dal punto di vista degli Autori, ciò non suggerisce che
l’omosessualità debba necessariamente
rientrare in una strategia difensiva, ma che possa costituire un problema da
chiarire e anche un problema superabile. In altre parole, la questione
dell’accettazione o non accettazione del proprio orientamento sessuale (o del
proprio aspetto fisico o dell’abilità nei giochi con le carte) non va confusa
con la questione dell’orientamento sessuale in quanto tale. Qualsiasi senso di
colpa relativo a ciò che si è o si pensa di essere va analizzato come difesa,
mentre l’orientamento omosessuale può rientrare o non rientrare in una strategia
difensiva e ciò dovrebbe essere riconosciuto. Tale uso del buon senso manca sia
nelle concezioni espresse da chi afferma ancora la necessità di interventi
“terapeutici-riparativi” relativi alla “patologia omosessuale”, sia nelle
concezioni più “aggiornate” secondo cui le persone omosessuali soffrono solo a
causa della “omofobia” e devono semplicemente essere aiutate ad accettare la
loro “condizione”.
Credo
che l’analisi fin qui svolta del rapporto “complicato” fra psicoterapia e
omosessualità possa chiarire il rapporto, altrettanto “complicato” fra psicoterapia e sessualità in generale.
Gli
esseri umani vivono sul crinale che separa le loro radici biologiche e la loro
appartenenza ad una comunità. Su tale crinale fanno esperienze, provano
emozioni e decidono se esprimere tutte le loro potenzialità o se vivere “poco”
pur di non sentire troppo dolore. Se esprimono le loro potenzialità vivono
delle esperienze più intense di quelle descritte come “benessere psicologico” dai
manuali di psicoterapia e se vivono “poco” evitano un dolore “antico”,
soffocato fin dagli anni dell’infanzia, che non è trattato nei manuali di
psicoterapia. Infatti, la psicoterapia, trascurando la dimensione del dolore
non può concepire la gioia e la felicità che, assieme al dolore, si collocano
al di là del “normale benessere” e del “normale malessere”. Per questo vizio di
fondo della psicoterapia, anche le idee geniali di alcuni suoi esponenti non si
sono tradotte né in strategie di lavoro volte a facilitare cambiamenti
personali profondi, né in analisi soddisfacenti delle radici dell’irrazionalità
sociale. L’estraneità della psicoterapia alle vette della gioia ed agli abissi
del dolore ha determinato una lettura dei fenomeni psicologici basata sui
concetti di salute e malattia che sono indispensabili per capire le condizioni
degli organismi, ma che non chiariscono molto delle scelte, dei progetti e
delle azioni delle persone.
La
sessualità è l’ambito in cui gli esseri umani possono sottrarsi alla pressione e alla pena della semplice sopravvivenza.
Non è, per noi animali culturali, una semplice “molla” istintiva. Anche se la
fame, il freddo e la sete ci spingono a fare tante cose che sono decisamente
spiacevoli (come lavorare tutti i giorni), ma meno spiacevoli della fame, del
freddo e della sete e anche se la morte avrà comunque il potere di interrompere
i nostri sogni e i nostri sforzi, noi non siamo condannati ad una mera
sopravvivenza e nemmeno ad una passiva attesa della morte. Poiché siamo
consapevoli dei fastidiosi bisogni del nostro corpo e della nostra radicale
vulnerabilità e precarietà nell’universo, siamo anche capaci di utilizzare il
corpo come un ponte che ci permette di allontanarci dalla noia di sopravvivere
e di sperimentare l’avventura di esistere. Nel desiderio sessuale il corpo diventa lieve e consente di
realizzare una vicinanza con una persona che, pur restando “altra da noi” non
resta separata da noi. Nel piacere del contatto sessuale, dell’eccitazione che
cresce, della complicità incondizionata, il
corpo diventa libero di espandersi e poi anche di rinunciare al controllo.
Nella quiete che segue lo smarrimento dell’orgasmo il corpo sembra dissolversi nelle pure sensazioni di gratitudine,
di fiducia, di “sospensione” al di là del tempo e dello spazio.
Non
so cosa sia la sessualità per gli altri animali, ma per gli esseri umani
coscienti di essere coscienti, la sessualità è l’unico ambito in cui la
coscienza cessa di essere inquieta, perché nel desiderio e nel contatto ci si
può sbilanciare senza timore. Nella pace del “dopo” è già accaduto “tutto” e
tutto è “a posto”. Gli esseri umani hanno bisogno di fare, almeno nell’ambito
della sessualità, l’esperienza di scoprire che tutto può essere “a posto”,
perché in tutti gli altri ambiti la pressione della sopravvivenza costringe
alla fatica ed alla frustrazione di fare ciò che serve ad “altro”. Solo nella
sessualità non c’è “altro” da fare, perché basta “esserci” e lasciarsi andare
alle proprie sensazioni e alla persona desiderata e amata. La sessualità è
un’oasi di pace in una vita di guerra contro il tempo e contro tutti i nostri
limiti e quelli degli altri. La sessualità è possibile quando la felicità di
essere con se stessi (nella gioia e nel dolore) conduce alla ricerca di un
piacere condiviso, di un incontro con un’altra soggettività, di una “trascendenza”.
La sessualità libera gli adulti dalla prigione della loro soggettività e
consente l’avventura più eccitante: il tuffo nel sentire di un’altra persona,
il volo nei suoi sogni, nei suoi desideri e nelle sue emozioni, nel suo dolore
e nella sua felicità.
Purtroppo,
in una cultura che costringe i bambini a dissociarsi dal dolore, la sessualità
diventa l’ambito elettivo della “non avventura” e quindi della ricerca di
sicurezze impossibili, della ricerca di un potere inesistente, della
distrazione da un dolore “antico” mai superato. In questo modo la sessualità è
alimentata dall’ansia anziché dal desiderio, genera vergogna, orgoglio o
possessività e si fonde con la rabbia per ogni delusione di aspettative
irrealistiche. La sessualità “difensiva” viene quindi praticata per fini
“strani”, senza intimità, senza libertà, senza appagamento. Questa sessualità (e non la sessualità) genera mostri: genitori
che non sono più amanti, amanti che restano distanti, ex-amanti pieni di
rancore, individui che si definiscono per il loro ruolo sociale, per i loro
“valori”, per la loro “appartenenza” e non per la conoscenza consolidata e
sentita di esistere e di condividere ciò che sono con una persona intimamente
conosciuta, desiderata e amata. Chi ha accettato il dolore dell’infanzia e
conosce l’abbraccio “incondizionato” che precede, accompagna e segue
l’espressione della sessualità adulta, non ha alcun bisogno di dimostrare nulla
o di ottenere l’approvazione di nessuno. Può fare molte cose per estendere l’amore che sente a situazioni
nuove: può dedicarsi ai figli, agli amici, alla società, ma non ha bisogno di
far nulla per ricevere l’amore che
sta già donando, giorno per giorno a
sé, al/alla partner e alle altre persone. In questa chiave di lettura, la
dissociazione infantile dal dolore genera l’insoddisfazione sessuale adulta e
questa, a sua volta, genera competizione, invidia, rancore, fame di potere,
indifferenza e crudeltà.
La sessualità, se non è
disturbata dalle difese psicologiche, inizia alla fine di un’infanzia accettata
e superata e si traduce in un’avventura vissuta senza condizioni. Ha come base
il dialogo interno e come punto d’arrivo il silenzio di una felicità condivisa
in cui tutto è già stato detto e realizzato. Se tutto è stato detto e
realizzato, la morte vincerà solo
l’ultima battaglia di una guerra già vinta comunque dagli amanti. Tutto
qui. Tutto semplice e travolgente. Tutto estraneo alla sessuologia ed alla
psicoterapia.
La sessualità è centrale nell’esistenza umana anche quando non può
essere vissuta per la mancanza della persona “giusta” o per la perdita
della persona amata: in tal caso la
sessualità è fatta di lacrime. E’ rimpianto o desiderio dolorosamente non
soddisfatto, ma resta centrale. Questa idea non va minimizzata, perché rende
conto di un fatto in genere trascurato: è più “centrata” (ed anche carica di
erotismo) la vita di una persona che prova in ogni minuti di ogni giornata il
dolore per una sessualità non compiutamente espressa, di quella di una persona
sessualmente “attiva” ma indisponibile ad un reale coinvolgimento. Chi
considera la sessualità come uno dei tanti interessi adulti, che si affianca
all’interesse per il lavoro, la conoscenza, la cura dei figli, la politica,
l’arte, lo sport e la natura, non comprende che queste “passioni”, in genere si
riducono a modi complicati di cercare “accettazione” e quindi quella sicurezza
non sperimentata nell’infanzia. Non a caso, il lavoro, la cultura e la politica
sono ambiti in cui la competizione è fortissima. Anche la contemplazione
dell’arte o della natura, spesso non è altro che la contemplazione della
propria “speciale sensibilità”. Solo gli adulti che si sentono già al sicuro
con se stessi e cercano con reale passione il piacere e l’intimità con un/una
partner possono poi manifestare una sincera passione per la conoscenza e una
sincera disponibilità verso i figli,
gli amici, la natura, la società e la cultura.
I
contrasti insanabili fra le varie scuole di psicoterapia (non certo “sanati” da
alcuni apprezzabili tentativi di dialogo e di integrazione) dimostrano la
valenza ideologica più che scientifica delle concezioni psicoterapeutiche e
proprio tale valenza ideologica si traduce in un procedere della psicoterapia a
ruota di altre ideologie più radicate nel tessuto culturale e sociale. Da
adulti non agiamo né a causa del “capitale genetico”, né a causa delle coccole e delle frustrazioni ricevute nell'infanzia (che sono solo “storia antica”): agiamo per costruire a modo nostro la nostra
felicità o per frenare (difensivamente)
tale processo costruttivo ed espressivo. Per questi motivi nella sessualità
cerchiamo di esprimerci oppure cerchiamo di non sentire “troppo”. Se una teoria
psicologica prescinde da questi fatti, non può chiarire nulla della sessualità.
Si può notare la mancanza di comprensione della sessualità umana proprio negli
ambiti in cui molti credono di trovare conoscenze pratiche o teoriche
“specialistiche”. Nel DSM IV-TR (la penultima versione di una specie di
“bibbia” degli psichiatri che resta un punto di riferimento anche per gli
psicoterapeuti ed i sessuologi) mancano “piccoli dettagli” come la distinzione
fra acme e orgasmo; inoltre, l’analisi del rapporto sessuale non solo è priva
(comprensibilmente) di “poesia”, ma è carente proprio sul piano della
descrizione dei fatti. A questo proposito voglio riportare la definizione del
“ciclo di risposta sessuale” fornita dal DSM-IV-TR.
“1. Desiderio. Questa fase consiste in fantasie
sull’attività sessuale e nel desiderio di praticare attività sessuale.
2. Eccitazione. Questa fase consiste in una
sensazione soggettiva di piacere sessuale e nelle concomitanti modificazioni
fisiologiche. Le principali modificazioni nel maschio sono la tumescenza del
pene e l’erezione. Le principali modificazioni nella donna sono la vasocongestione
pelvica, la lubrificazione e la dilatazione della vagina, e la tumefazione dei
genitali esterni.
3. Orgasmo. Questa fase consiste in un picco di
piacere sessuale, con allentamento della tensione sessuale e contrazioni
ritmiche dei muscoli perineali e degli organi riproduttivi. Nel maschio vi è la
sensazione di inevitabilità dell’eiaculazione, seguita dall’emissione di
sperma. Nella femmina vi sono contrazioni (non sempre percepite soggettivamente
come tali) della parete del terzo esterno della vagina. Sia nel maschio che
nella femmina, lo sfintere anale si contrae ritmicamente.
4. Risoluzione. Questa fase consiste in una
sensazione di rilassamento muscolare e di benessere generale. Durante questa
fase, i maschi sono fisiologicamente refrattari ad ulteriori erezioni ed
orgasmi per un periodo variabile di tempo. Al contrario, le femmine possono
essere in grado di rispondere a nuove stimolazioni quasi immediatamente”
(American Psychiatric Association, 2000, p. 574).
Ho citato per esteso il testo per non far sospettare
mie omissioni di parti essenziali. Questa definizione, di fatto, non include la
reale esperienza del sesso: quell’insieme di scambi fisici ed emotivi che rende
possibile la crescita dell’eccitazione fino all’orgasmo. Presumo che tale aspetto
“centrale” dell’esperienza sessuale sia stata implicitamente collocato nella
seconda fase, quella dell’eccitazione. Tuttavia tale scelta riduce davvero al
“minimo sindacale” la descrizione dell’esperienza in questione. Infatti,
l’eccitazione non “sorge” per poi trasformarsi meccanicamente in orgasmo, ma si
sviluppa attivamente in modo complesso e tale da produrre un acme oppure un
orgasmo. Quindi, qualche parola in più sarebbe stata ben spesa. A difesa degli
estensori del DSM si potrebbe osservare che, se hanno sorvolato sul lato
giocoso e passionale del sesso, almeno si sono concentrati sulla conclusione,
ma purtroppo hanno detto ben poco anche sulla “conclusione”. Gli autori hanno
riempito un’intera riga su diciannove per ricordarci una pignoleria (cioè che
anche l’ano può avere delle contrazioni durante l'orgasmo), mentre hanno
trascurato le cose più interessanti. Tra queste, il fatto che l’orgasmo
comporta una temporanea perdita della coscienza e che le contrazioni scatenate
dal “picco di piacere sessuale” si estendono a tutto il corpo e che tutto ciò
non equivale ad un semplice rilassamento. La piccola scarica della tensione
localizzata nei genitali di cui gli autori parlano con cura è un acme, non un
orgasmo e una chiarificazione della questione sarebbe stata utile.
Nella
versione successiva (DSM 5) del manuale (A. P. A., 2013) la citata definizione
del ciclo di risposta sessuale non è stata corretta, ma semplicemente omessa.
Resta, con alcune correzioni, l’elenco delle disfunzioni sessuali, che quindi risultano
deviazioni da una funzionalità non delineata nemmeno per sommi capi e in modi
discutibili, come nel DSM IV TR. Permane in ogni caso una concezione statistica
dei comportamenti sessuali ed è assente una descrizione delle potenzialità
della sessualità umana. Permane la mancata distinzione fra acme e orgasmo e i
disturbi elencati sono sempre considerati tali in base ad una lettura riduttiva
(rigidamente medica) dei temi trattati. Ciò ovviamente crea problemi perché,
anche se gli psichiatri sono medici, non possono ragionevolmente prescindere
dal fatto che, soprattutto nel capitolo dedicato ai disturbi sessuali, trattano
questioni che nella maggior parte dei casi hanno radici emozionali complesse.
Occorre
inoltre sottolineare che gli autori, nei vari passaggi in cui evidenziano
“fattori culturali o religiosi” alla base di certi disturbi, non si limitano a
“fare i medici”, ma si schierano apertamente a favore di una interpretazione
riduttiva e semplicistica (sociologica) dei fenomeni trattati. Mi spiego meglio:
esaminando i “fattori ambientali” che possono essere collegati ai disturbi
dell’orgasmo femminile scrivono: “Anche i fattori socioculturali (per es. le
aspettative di genere riguardanti il ruolo della donna e i precetti religiosi)
hanno un’influenza notevole sull’esperienza di difficoltà orgasmiche” (A. P.
A., 2013, p. 503). In tale logica, fra i fattori rilevanti per lo sviluppo di
un disturbo si elencano i fattori religiosi e quelli culturali che definiscono
i ruoli sessuali, ma si trascura un dato molto importante: tali fattori
religiosi e culturali sono rilevanti solo
nella misura in cui rientrano in una struttura psicologica difensiva che
altera a monte la libera espressione
emotiva (e quindi le manifestazioni sessuali). Il catechismo sicuramente non
incoraggia la gioiosa ricerca del piacere sessuale, ma non tutte le bambine
sottoposte all’educazione religiosa diventano incapaci di provare un orgasmo.
Addirittura, donne superficialmente cattoliche possono essere più disinibite di
donne intellettualmente “emancipate”, ma bloccate in profondità a livello
emotivo. La cultura, così come la biologia, non causa mai nulla di
significativo nelle persone: offre stimoli ai quali le persone reagiscono in
base alla loro voglia di costruire la loro esistenza o in base alla loro paura
di sentire “troppo”.
Si
capisce che gli estensori del DSM abbiano voluto restare neutrali rispetto alle
tante concezioni psicologiche ed anche sessuologiche che attraversano il campo
della psichiatria e della psicoterapia, ma in realtà non sono rimasti neutrali.
Tutta la concezione delle “cause culturali” rientra in una concezione dominante
in psichiatria e psicoterapia secondo cui i sintomi sono fatti circoscritti e
hanno una o più cause, tra cui possono avere un certo peso anche quelle “culturali”. La “neutralità” del DSM non ha a che fare
con la “neutralità della scienza”, ma con la “resa alla normalità”. Secondo il
“normale” modo di pensare, ma anche secondo gli esperti che si dichiarano
“aperti” alle altre culture, se una donna prova vergogna per la propria
femminilità deve essere “affetta” da qualche “patologia psichica” lieve o grave
da “curare”, ma se milioni di donne vanno in giro “velate” manifestano
semplicemente la loro appartenenza ad una comunità religiosa. Se una persona
manifesta fobie sessuali va curata, ma se fa voto di castità deve essere
considerata portatrice di convinzioni religiose. Tutte le discipline
interessate a problemi psicologici, in ultima analisi, contribuiscono alla
conferma della realtà “data” nel senso di “statisticamente data”, perché non
prendono in considerazione le potenzialità espressive degli esseri umani.
Proprio il desiderio di conoscere le potenzialità, anche sessuali, degli esseri
umani esclude qualsiasi propensione a definire la sessualità utilizzando
interviste e statistiche.
Gli
esseri umani praticano poco la sessualità e quando fanno sesso provano poco
piacere, anche se non manifestano quei disturbi sessuali che gli specialisti
riconoscono come “patologici”. Il sesso è poco praticato anche in termini di
frequenza e la mancanza di una relazione sessuale è raramente sentita come
molto dolorosa, perché il desiderio sessuale è normalmente indebolito da
preoccupazioni, aspirazioni, stati d’animo difensivi che riducono
significativamente la percezione del desiderio sessuale. Una persona può
lavorare un’intera giornata nei campi o svolgere un’attività intellettualmente
molto impegnativa ed aver voglia di fare sesso a fine giornata. Se invece
lavora part-time in ufficio preoccupandosi del giudizio del direttore,
sentendosi vittima della scarsa collaborazione dei colleghi, covando rabbia per
chi determina qualche inconveniente, lamentandosi del lavoro che si accumula, a
fine giornata (anzi, dal pomeriggio in poi) è “sfinita” e refrattaria a
qualsiasi invito al gioco erotico. Tra l’altro, chi lavora con quei pensieri, a
casa fa pensieri ancor meno “eccitanti”.
La
sessualità umana non dipende dall’estro, dalle gerarchie del branco e nemmeno
dalla fisiologia (anche se la presuppone). Non si riduce nemmeno alla capacità
(che tutti hanno) di provare piacere sessuale perché dipende soprattutto dalla
libertà psicologica di accettare il
desiderio. Tale libertà, però presuppone l’accettazione di se stessi, della
realtà ed anche del dolore (che fa parte della realtà). Le difese dal dolore
limitano quindi anche l’accettazione del desiderio sessuale. Manifestare
autoritarismo o sottomissione nei confronti del/della partner è sessualmente
inibente e se nelle coppie caratterizzate da tale polarità il sesso è manifestato,
si riduce ad una sessualizzazione della paura e della rabbia. Manifestare
svalutazione o “adorazione appiccicosa” è egualmente inibente, come lo è
manifestare atteggiamenti distaccati, superficiali, competitivi, oppositivi. Il
rapporto sessuale fra persone non inizia “a letto”, ma in cucina, per strada o
al telefono perché molto prima di giungere ad un amplesso le persone danno
segnali inequivocabili di desiderio o di indifferenza o di repulsione. La capacità degli uomini e delle donne di
far “passare la voglia” alle persone con cui mantengono una relazione di coppia
è davvero notevole e non blocca del tutto l’attività sessuale semplicemente
perché chi subisce messaggi antierotici spesso non se ne accorge nemmeno, dato
che sta inviando i propri messaggi antierotici.
Se un esame etico-metafisico della sessualità è irrazionale e se lo è anche
un esame normativo-statistico, l’unica strada percorribile
per esaminare razionalmente la sessualità è quella che si basa
sull’osservazione delle potenzialità espresse in assenza di interferenze famigliari ed "educative" negative. Lo studio
antropologico delle poche culture non sessualmente repressive ha evidenziato
che la sessualità può esprimersi in modi molto più ampi e soddisfacenti di
quelli risultanti da forme inadeguate di accudimento dei bambini. Anche lo
studio di percorsi educativi basati sul sostegno incondizionato e sulla
libertà, mostra che il potenziale emotivo e quindi sessuale dei giovani può
essere espresso in modi più ampi e soddisfacenti di quelli a noi noti. Il
lavoro analitico che mette in discussione le difese psicologiche e non cerca di
“indurre” determinati comportamenti, evidenzia che ogni cliente, superando le
proprie difese psicologiche, scopre un modo unico di esprimere le proprie
potenzialità, ma anche che tali potenzialità includono sempre una maggior libertà
nell’espressione del desiderio sessuale ed una maggiore capacità di
appagamento.
Tutto
ciò porta a concludere che il nodo fondamentale di qualsiasi analisi rigorosa e
non ideologica della sessualità è costituito dall’opposizione fra espressione
delle potenzialità individuali e attivazione delle difese psicologiche
sviluppate nell’infanzia. Più le persone accettano il lato doloroso della loro
vita, più possono accettare tutte le loro emozioni. Più si sentono libere di
piangere, più sono libere di lasciarsi andare all’orgasmo. Stanno meglio da
sole perché il loro dialogo interno diventa una “compagnia” importante; sono
più aperte verso gli altri, ma indisponibili a rapporti non autentici o non
costruttivi. Piangono più spesso, sia per il dolore della loro infanzia che
continua a riaffiorare, sia perché diventano più sensibili a frustrazioni
attuali che prima nemmeno notavano. Gioiscono maggiormente e più liberamente.
Tollerano situazioni di ansia inevitabile e non si creano ansie inutili.
Evitano conflitti, ma si arrabbiano quando è necessario. Sentono di più anche
il desiderio sessuale. Sentono il bisogno di un appagamento sessuale solitario
se manca un/una partner, pur preferendo far sesso con un’altra persona. Si
sentono però più esigenti nella ricerca di un/una partner perché la sessualità
è anche un’esperienza emotiva. Con il superamento delle difese psicologiche la
qualità dell’esperienza sessuale cambia, perché cambia il dialogo interno e la
ricerca del contatto con le altre persone. Nessun corso di “disibinizione
sessuale” può quindi sostituire i risultati delle semplice rinuncia alle
inibizioni sessuali. A mio parere proprio la passione per il kamasutra o il
sesso tantrico o altre “invenzioni” costituisce una difesa psicologica, perché
le persone hanno bisogno di fare corsi per comprendere il funzionamento delle
macchine, ma non per comprendere ciò che desiderano: basta che non abbiano
paura di interrogarsi, di darsi le risposte e di esprimersi.
Voglio
riportare una seduta che ha ben poco a che fare con la sessualità, ma che
evidenzia la tendenza delle persone a non sentire ciò che sentono pur di non
sentire il dolore che (fin dall’infanzia) considerano intollerabile. La cliente
(che chiamerò Marina) aveva già lavorato sugli attacchi di panico per cui mi
aveva chiesto inizialmente di iniziare un lavoro analitico e stava meglio: ne
aveva pochi e li superava riconoscendo antichi vissuti dolorosi (sempre
negati). Stava cominciando a sentire un costante bisogno di
“riconoscimento” che disturbava tutti i suoi rapporti interpersonali. Nella
seduta a cui mi riferisco mi chiede per quale motivo, in un modo o nell’altro,
si senta sempre un po’ in ansia.
GF.
Non posso saperlo! Tu lo sai. Vuoi provare a fare chiarezza?
M.
OK
GF.
Ti sei accorta di avere le mani un po’ “agitate”?
M.
Sì.
GF.
Sei consapevole del messaggio che cerchi di trasmettere?
M.
No.
GF.
Allora proviamo a scoprirlo procedendo per tentativi: prova a colpire il divano
ripetendo con rabbia, ad ogni colpo, “Io voglio essere riconosciuta!”.
[Esita
un po’, ne parliamo, capisce che stiamo solo facendo un esperimento e quindi
“recita” la parte]
GF.
[Dopo] Come ti senti ora?
M.
Avevo un pochino d’ansia e ora è cresciuta.
GF.
Ora prova a recitare un’altra parte: ripeti la stessa frase e aggiungi le
parole “ma non succederà mai!”.
M.
Perché?
GF.
Perché stiamo provando tutte le possibilità. Dopo la rabbia proviamo la
disperazione!
M.
E perché dovrei pensare che non succederà mai?
GF.
Perché alla tua età non puoi essere “riconosciuta” come una bambina, ma solo
come una donna. Gli altri possono essere in accordo o in disaccordo con ciò che
pensi di te, ma non possono “farti sentire bene con te stessa” grazie alla loro
accettazione.
[Ripete
le parole un paio di volte e poi si ferma]
GF.
Cosa è successo?
M.
L’ansia è scomparsa.
GF.
Cosa senti?
M.
Un vuoto. Una tristezza. Ma non voglio piangere ora.
GF.
E’ una scelta tua. Però hai capito?
M.
Ho capito che l’ansia, la paura, il panico mi fanno stare male ma … così non
sono mai triste.
GF.
Bene. Io non potevo saperlo. Tu lo hai scoperto facendo delle prove.
La filosofia morale e le varie teorie delle varie scuole di psichiatria, sessuologia e psicoterapia confrontano da sempre la sessualità umana con una norma. Per i moralisti tale norma è costituita dalla natura (o almeno da una loro interpretazione arbitraria e speculativa della natura) oppure da un codice religioso e le deviazioni dalla norma sono semplicemente svalutate. Per i sostenitori delle varie teorie psicologiche tale norma è quella fornita dalle statistiche e dalle mode culturali. In alcuni casi le teorie psicologiche colgono nel segno, dato che alcuni comportamenti individuali irrazionali sono anche statisticamente devianti, ma negli altri casi, tali teorie non hanno gli strumenti concettuali adatti per un’analisi dei disturbi sessuali che rientrano in una normalità che non riflette le potenzialità delle persone.