A
differenza degli enunciati scientifici che rientrano in teorie coerenti ed
empiricamente controllabili, i discorsi etici e psicoterapeutici non accrescono
la conoscenza della realtà. Infatti, concezioni morali e psicoterapeutiche radicalmente
diverse coesistono e sono basate su presupposti inconciliabili.
L’etica
non solo non spiega la malvagità, ma giustifica interventi “educativi” che rafforzano
le difese psicologiche e quindi la malvagità. Il ruolo della psicoterapia è
simile: non solo non spiega i disturbi psicologici, ma attua delle terapie che
se non funzionano sono inutili e, se funzionano, non incidono sugli
atteggiamenti irrazionali che hanno prodotto i sintomi. L’etica e la
psicoterapia presentano concezioni dell’uomo molto diverse, ma accomunate da un
equivoco di fondo: tali concezioni sostituiscono
l’agire con l’essere. L’idea che le persone siano buone o cattive o sane o malate distrae dalle domande sulle
ragioni per cui le persone fanno ciò
che fanno. Tale operazione linguistica è quasi ipnotica: quando una persona
agisce in un certo modo (distruttivo o semplicemente poco ragionevole), per i
moralisti “è malvagia”, mentre per gli psicoterapeuti “è malata”. Nella “realtà
reale”, però, quella persona ha fatto qualcosa e, se vogliamo fare scienza,
dobbiamo capire per quale ragione ha agito in quel modo anziché in altri modi. La
medicina spiega che certi
comportamenti sono l’effetto dell’assunzione di una droga o di una disfunzione
neurologica e il lavoro analitico spiega
che una certa azione irrazionale è intenzionale, anche se inconscia, e interrompe la
consapevolezza di qualche vissuto doloroso. L’etica e la psicoterapia, invece,
distolgono l’attenzione dalle ragioni per cui una persona ha agito in un certo
modo: il moralista dichiara che quella persona dovrebbe pentirsi e sforzarsi di seguire la voce della sua
coscienza, mentre lo psicoterapeuta si chiede quale terapia egli possa
applicare per far tornare sano un paziente che era malato.
Anche
se nell’ambito della psicoterapia hanno preso forma alcune idee interessanti e
persino geniali, nel suo complesso, tale disciplina contribuisce, come varie
ideologie e concezioni metafisiche, a distogliere l’attenzione dal dolore (e dalle
difese dal dolore) e a consolidare la normale irrazionalità individuale e
sociale. In questo libro (ma anche nel mio dialogo interno, nelle mie relazioni
interpersonali e nelle sedute) utilizzo le mie conoscenze ed anche quelle che ho ricavato da alcuni
libri di psicoterapia e dalle esperienze fatte con psicoterapeuti (appartenenti
a scuole molto diverse). La gratitudine che provo per alcune di queste persone
è immensa e, per questo motivo, provo dispiacere a mettere in discussione la
psicoterapia nel suo complesso, ma credo che un’analisi critica di tale
disciplina sia necessaria in un’indagine sulle ragioni dell’irrazionalità. La
psicoterapia trascura il dolore degli esseri umani per occuparsi del “dolore
secondario” che accompagna i sintomi psicologici, che però, per quanto
disturbanti, sono difese dal dolore.
Questo è il nucleo essenziale della psicoterapia e tale nucleo rende la pratica
psicoterapeutica un sintomo ritualizzato e le teorie psicoterapeutiche dei
sintomi ideologizzati. Per questi motivi,
la psicoterapia non può spiegare l’irrazionalità, ma va collocata fra i
fenomeni irrazionali da spiegare. Di ciò sono convinto, così come sono
convinto del fatto che molte ideologie “progressiste” ostacolino
l’emancipazione dei soggetti che pretendono di tutelare, che l’etica generi
malvagità e che le religioni distolgano gli esseri umani dalle genuine domande
sull’immanenza e sulla possibilità di una trascendenza.
Capire
l’irrazionalità costa dolore e porta a fare tutto
ciò che è possibile (e solo ciò che è
possibile) per costruire un’esistenza personale pienamente vissuta. Ciò che mi
ha aiutato a sentirmi meglio con me stesso e con gli altri è stato proprio il
superamento della paura di rinunciare definitivamente a cose bellissime che
desideravo fin dall’infanzia, ma che non potevo ragionevolmente né meritare, né
conquistare, né pretendere. Senza le mie lacrime e senza la resa ai singhiozzi
del pianto non avrei capito nulla della mia storia personale e dei libri che
studiavo. Ora, non è un caso che nei libri di psicoterapia il tema del “lavoro
del lutto” sia esaminato solo intellettualmente e solo da alcuni autori, e che
il tema del pianto sia semplicemente ignorato. Chi vuole chiarire la differenza
fra il pianto che esprime il dolore di una mancanza accettata e i piagnistei di
chi manifesta rabbia per una mancanza non accettata, non trova lumi nei libri o
nei convegni di psicoterapia. Anche il lavoro sui modi di pensare e sulle
tensioni fisiche che bloccano il pianto non è trattato, perché gli argomenti trattati
restano i sintomi, le tecniche “terapeutiche” e il “benessere” psicologico.
Gli
esseri umani fanno continuamente esperienze mediate da ciò che pensano e
sentono. Questo scarto tra la soggettività e la realtà oggettiva non è
drammatico; determina semplicemente alcune diversità fra le persone ed è
un’occasione di confronto e di incontro. Fa parte della semplice avventura di
vivere da persone. Ciò che complica le cose è la parte della dimensione
soggettiva che è stata strutturata nell’infanzia a scopi difensivi e che,
quindi, ostacola l’apertura verso una conoscenza oggettiva, il rispetto per le particolarità
delle altre persone, l’accettazione delle situazioni che frustrano i desideri.
Senza questo “filtro” difensivo da noi creato e mantenuto, agiremmo in modi
comunque limitati, perché siamo esseri imperfetti, ma non agiremmo in modi irrazionali
e distruttivi. L’idea che una persona oggi sperimenti dei disturbi psicologici causati da esperienze spiacevoli
verificatesi nell’infanzia non è ragionevole perché i disturbi psicologici (e
quindi le manifestazioni individuali dell’irrazionalità) dipendono da ciò che le persone fanno oggi per
raggiungere i loro obiettivi (inconsci e difensivi) di oggi. Il nesso fra
passato e presente non può, quindi, dipendere da lesioni o alterazioni o
modificazioni (non dimostrabili) della “psiche”, causate da antiche vicende, ma
dal permanere nel presente di
atteggiamenti difensivi strutturati nel passato.
Il
lavoro sulle decisioni e sulle strategie difensive inconsce (e quindi
sull’intenzionalità difensiva) è, a mio parere, il nocciolo del lavoro
analitico, che può essere approfondito anche
con alcuni strumenti tecnici approntati da alcuni indirizzi
psicoterapeutici, ma tali strumenti, quando vengono utilizzati nel contesto delle
teorie in cui sono nati, difficilmente raggiungono l’obiettivo che caratterizza
il lavoro analitico. Ad esempio, una persona può chiarire in una seduta di
Analisi Transazionale che struttura abitualmente dei giochi di relazione in cui
finisce inevitabilmente per sentirsi vittima di qualche ingiustizia e può
comprendere che solo al di fuori di tali schemi relazionali ha la possibilità
di incontrare le altre persone su un piano adulto. Un lavoro di questo tipo,
condotto in modo impeccabile, può produrre molte riflessioni costruttive, ma
difficilmente faciliterà la comprensione delle ragioni per cui un adulto fa
tante sciocchezze per sentirsi un bambino ingiustamente maltrattato. Eric Berne
non ha mai chiarito che l’interruzione dei giochi è davvero utile solo se
conduce all’elaborazione del dolore. Tuttavia, anche le psicoterapie “di
orientamento corporeo”, ben attrezzate per il “lavoro sulle emozioni”, in
genere non riconoscono il ruolo dell’elaborazione del dolore. Ad esempio,
Jerome Liss, ha collegato l'idea reichiana dei “blocchi energetici”
nell'organismo alle ricerche neurofisiologiche di Henri Laborit, sul sistema di
inibizione dell'azione (SIA) approdando così ad una “terapia” volta a far
“affiorare” emozioni, nella quale però manca una comprensione del fatto che le
persone possono anche attivare emozioni difensive per dissociarsi da emozioni
più profonde e temute. Purtroppo, quindi, nella concezione di Liss, il
“paziente” non è pensato come una persona che agisce, ma come una persona
inibita, che può essere aiutata a disinibirsi e rilassarsi: "Che cosa
avviene durante il processo terapeutico? Il paziente entra in uno stato di
regressione per scoprire gli aspetti del suo mondo interiore che hanno origine
nella prima infanzia. (…) Dopo la rabbia e le lacrime, vediamo anche emergere
dalla tempesta emotiva il felice e amato adulto-bambino che offre calorosi
sorrisi e segni di tenerezza alle persone presenti" (Boadella-Liss, 1986,
p. 100). La manifestazione puramente “regressiva” di emozioni non comprese può
produrre la voglia di tanti abbracci in un gruppo, ma non può cambiare le
strategie difensive delle persone. Concezioni psicoterapeutiche di questo tipo
non presuppongono alcuna distinzione fra piangere e “frignare” rabbiosamente o
fra condividere sentimenti e cercare “nutrimento” negli abbracci “terapeutici”
ottenuti in un gruppo.
L’idea
che la psicoterapia sia una disciplina che studia le “patologie psichiche” come
la dermatologia studia le malattie della pelle non ha una giustificazione
razionale e il fatto che sia diventata “scientifica” per riconoscimento statale non la rende realmente scientifica: il
materialismo dialettico non è mai stato una scienza, anche se era
“riconosciuto” dallo Stato nell’Unione Sovietica e le discriminazioni sociali
in Sudafrica rendevano i neri delle persone discriminate, ma non delle persone
realmente “inferiori”. Le mie convinzioni possono essere del tutto errate, ma non possono essere errate solo perché non
conformi al punto di vista espresso da molti accademici, professionisti e
ministri. La verità, fortunatamente, non è “democratica” e Orwell (1949) ha
evidenziato in modo convincente i percorsi culturali, educativi e psicologici
attraverso cui alcune assurdità possono divenire “verità ufficiali” in un
sistema sociale irrazionale.
Il
lavoro analitico non è altro che un tentativo consapevole di chiarire le
ragioni per cui le persone agiscono ed interagiscono irrazionalmente. Ad un
ragazzo timido uno zio contadino può dire “mi sembra che tratti gli altri come
se non fossero tuoi pari” e in tal modo svolge un lavoro analitico “rudimentale” ma corretto, mentre uno psicoterapeuta può
dire “rilassati e immagina che i tuoi amici ti accettino” e, in tal modo, fa
qualcosa di non analitico per “indurre” stati emotivi di tipo “positivo”. Se riesce nell’intento ha impedito un possibile
cambiamento. L’analisi non dispensa gioia e felicità, e nemmeno “normalità”, ma
ha come scopo la comprensione delle ragioni per cui le persone creano la loro
infelicità e per questo rende possibili dei cambiamenti e non causa delle
guarigioni. Non ha come obiettivo il “benessere” immaginato dagli
psicoterapeuti, ma l’accettazione del dolore della vita. Proprio tale
accettazione rende possibile anche l’esperienza della gioia nei momenti
realmente gioiosi e la costante felicità di essere con se stessi, di amarsi e
di amare gli altri, nella gioia e nel
dolore.
Sulla
base di tali premesse, il lavoro analitico ha un obiettivo completamente
diverso da quello della psicoterapia: non il superamento dei “sintomi anormali”,
ma il superamento sia dei “sintomi
anormali”, sia dei “sintomi normali”.
La psicoterapia ha come obiettivo il raggiungimento della normalità statistica riconosciuta
come “sana”, mentre il lavoro analitico procede “in negativo” e ha come
obiettivo quello di rendere superflue le difese psicologiche e di consentire
alle persone l’espressione delle loro potenzialità.
Il lavoro analitico non ha modelli da realizzare, ma si propone solo di
consentire alle persone di esprimere ciò che sono (al di là delle loro difese e
di qualsiasi modello di “salute” inventato dagli altri).
Ciò che i
bambini “portano con sé” nell’età adulta non è né il dolore dell’infanzia (sfiorato
fugacemente e comunque “interrotto”), né
qualche immaginaria “ferita”, perché essi portano con sé solo le proprie
difese e la determinazione (inconscia) ad attivarle in continuazione, pur
disponendo ormai della capacità di elaborare il dolore. Portano con sé anche le sensazioni di bisogno della loro infanzia:
non avendo soddisfatto all’epoca quei bisogni e non avendo nemmeno elaborato il
dolore della frustrazione di tali bisogni, non hanno “trovato pace” e non hanno
superato tale passato, che si ripropone, quindi, come realtà (soggettiva)
attuale. Da adulti, a venti o cinquant’anni, non hanno più alcun bisogno di
ricevere un amore “nutriente” dai “grandi”, ma sentono ancora tale bisogno e
attivano le loro difese pur di non accettare il dolore attuale di non poter più essere amati/nutriti come bambini dai
“grandi” (che nel presente sono sempre e soltanto dei pari). Provano anche la sensazione di non poter
reggere la frustrazione dolorosa di tale “bisogno” (che però non è più un
bisogno) pur essendo in grado di elaborare il dolore. Per questi motivi continuano ad adottare le stesse difese costruite a
tre o a sette anni e ciò dimostra che il lavoro analitico non può “curare”
nulla, ma può chiarire questi fatti e far sperimentare la capacità, già acquisita con la crescita, di
elaborare il dolore. L’irrazionalità si spiega con il “permanere” nel presente
di un passato non compreso, non accettato e non superato. E’ sicuramente
irrazionale chiudere, aprire e ri-chiudere la porta di casa ogni volta che si
esce, ma non è nemmeno razionale che tante persone vadano a Roma per farsi
benedire dal Papa o vadano ad elemosinare autografi da una rockstar che ha
messo in musica delle banalità e veste come uno spaventapasseri. Non c’è alcun
motivo per considerare irrazionale un sintomo isolato se non si considera
irrazionale anche un sintomo condiviso da tanti. La sottomissione “adorante” di
una persona ad un/una partner insensibile e crudele non è più irrazionale della
sottomissione adorante delle masse a leader politici insensibili e crudeli o a
divinità che infliggono punizioni eterne. Solo per motivi del tutto
irrazionali, quindi, la psicoterapia diagnostica certi comportamenti
individuali come “patologici” e tratta le espressioni sociali
dell’irrazionalità come semplici “abitudini” e le concezioni della realtà più
assurde come “punti di vista”.
Se
la psicoanalisi ha ostacolato la comprensione delle strategie difensive
individuali ipotizzando l’esistenza di meccanismi
difensivi inconsci causalmente operanti, il cognitivismo ha invece permesso
di comprendere alcune chiusure mentali individuali, senza però giungere al
cuore della questione. Infatti, le “convinzioni patogene” non sono errori da
correggere, ma aspetti di una strategia esistenziale. La psicoterapia ad
orientamento cognitivo trascura, quindi, il fatto che normalmente le persone
mantengono delle convinzioni assurde solo per attivare emozioni difensive e
restare dissociate dal dolore. Gli altri orientamenti psicoterapeutici tendono,
come i due ora menzionati, ad incidere solo sulle conseguenze evidenti dei processi
profondi caratterizzati dall’intenzionalità difensiva. Lo scopo del lavoro
analitico consiste, invece, proprio nell’aiutare le persone a comprendere
perché vivono evitando il dolore inevitabile, anziché nuotare nella vita con la
gioia ed il dolore che essa comporta. Più le persone “maneggiano” il dolore,
più agiscono razionalmente e manifestano un’emotività comprensibile e intensa.
La
prima condizione di possibilità del lavoro analitico è costituita dalla
capacità dell’analista di confrontarsi con il
proprio dolore: di prevenire o eliminare quello non necessario e di
accettare quello inevitabile. L’analista, oltre a tollerare il proprio dolore
dovrebbe riuscire a capire come il cliente si protegge dal dolore attivando
sintomi superficialmente dolorosi (fobie, comportamenti distruttivi,
convinzioni spiacevoli, emozioni scomodissime, ecc.). Quando
il cliente “sta male” l’analista è utile se cerca il dolore evitato dal cliente
e non se si attiva per farlo star meglio. Sarà il cliente stesso a
godersi la gioia di vivere (quella realmente possibile) dopo aver affrontato i propri incubi. Se l’analista convive col
proprio dolore e comprende il dolore evitato da un cliente, deve intervenire in
qualche modo (in uno dei tanti possibili) per aiutare il cliente a comprendere cosa sta facendo e perché. La
valutazione degli interventi da fare nei singoli casi dipende dalle capacità e
dalle conoscenze dell’analista e tra le cose che meritano di essere conosciute,
vi sono anche alcune tecniche
elaborate da psicoterapeuti appartenenti a orientamenti teorici molto diversi.
Il lavoro analitico, quindi, pur non essendo un lavoro tecnico, comporta anche
l’uso di tecniche. Qualsiasi tecnica rispettosa delle persone e adatta a
favorire la comprensione di ciò che le persone fanno, può essere
ragionevolmente utilizzata.
I medici si
occupano degli organismi, non delle persone e gli psicoterapeuti svolgerebbero un lavoro utilissimo se si occupassero
proprio delle persone e in particolare di quei disturbi psicologici che le
persone costruiscono. Anche se non è
sempre chiaro il confine fra i disturbi psicologici causati da disfunzioni nei
processi neurologici e i disturbi psicologici non riducibili a fattori
organici, i medici hanno (o possono avere) le competenze per comprendere e
curare le “vere” patologie (comprese quelle che hanno ricadute sul piano
psicologico) e gli psicoterapeuti potrebbero avere (se rinunciassero a
ragionare in termini di patologie) la possibilità di intervenire sui disturbi
psicologici che rientrano nelle strategie difensive delle persone. Per fare
questo, però, non dovrebbero rivendicare di essere riconosciuti come “quasi
medici”, ma dovrebbero chiarire le ragioni per cui le persone pensano, sentono
ed agiscono irrazionalmente: quelle ragioni che sono irriducibili ai processi
causali noti ai medici. Una teoria volta a spiegare le ragioni per cui le
persone vivono in modi irrazionali può lasciare da parte sia concetti come la
“coscienza morale”, sia concetti come i “meccanismi di difesa”, il “Sé”, le
“cause” delle “patologie” psichiche e le “terapie” di tali patologie. Soprattutto
può lasciare da parte l’idea che ciò che è anormale sia patologico e vada
curato.
Ciò che guasta la vita quotidiana delle persone, sia
che si manifesti con atteggiamenti distaccati o appiccicosi o distruttivi, sia
che dia luogo anche a sintomi
circoscritti, non è l’esperienza del dolore, ma la negazione difensiva del
dolore. Tale negazione rende le persone prive di compassione per sé, incapaci
di empatia, focalizzate su banalità e intossicate di rabbia e ansia. Il fatto
che ciò avvenga normalmente non dimostra che sia ragionevole, così come
un’epidemia non dimostra che le piaghe purulente siano segno di salute. Proprio
la normale rinuncia a vivere con la coscienza del dolore e della bellezza
merita di essere oggetto di studio: non c’è bellezza quando una madre
rimprovera un bambino che piange, quando un padre sa tutto della propria
automobile e non sa nulla dei propri figli, quando una strada è piena di luci
perché “è Natale”, quando la gente esulta ascoltando le parole svalutanti di un
politico o di un leader religioso, o quando la gente è indifferente ai
bombardamenti che colpiscono popolazioni lontane. Il normale orrore non è una
patologia, ma non è nemmeno un’espressione delle potenzialità umane.
Credo che alcuni esempi di sedute possano chiarire
che le persone reali (irriducibili a “casi clinici”) hanno davvero bisogno di
rendersi conto dei tanti “trucchi” che utilizzano per “sentire poco” e che,
quando vengono sollecitate a riflettere sull’intreccio di convinzioni, desideri
ed emozioni incomprensibili, entrano in contatto con gli aspetti dolorosi della
loro vita. Diventano consapevoli di ciò che facevano e non risultano “guarite”.
Una
cliente, che chiamerò Antonella, inizia la seduta ricollegandosi a quella
precedente.
A.
Sto cercando di farmi compagnia per non complicare il mio rapporto con
Giovanni, però non ci sono riuscita moltissimo. Cerco spesso di chiarirmi cosa
sento e ritrovo spesso dei vecchi bisogni, ma quando affiora il pianto non
riesco a piangere. Anzi, a volte riesco, ma non fino in fondo, mentre altre
volte non trovo “la strada delle lacrime”. Questa settimana Giovanni era molto
preso dal lavoro e aveva anche invitato una sera degli amici, mentre avrei
preferito stare con lui a casa senza troppa gente. Gli ho chiesto se “si stava
dimenticando di me”, e subito mi sono accorta che la domanda non era stata
molto felice.
GF.
Suona più come una domanda fatta ad un genitore che come una domanda al
partner.
A.
Comunque mi sono presa una risposta da genitore poco disponibile, perché
Giovanni ha sottolineato che nella vita si fanno le cose che vanno fatte. Non
ho replicato e mi sono chiusa. Il giorno successivo abbiamo litigato per una
stupidaggine.
GF.
Credo che tu volessi essere arrabbiata e restare arrabbiata. Non ti chiedo di ignorare
quel tuo vissuto di bisogno, ma di accettare che non può più essere
soddisfatto: lo senti perché non lo hai mai soddisfatto e non hai nemmeno
elaborato il tuo dolore, ma da tempo sei troppo vecchia per soddisfarlo. Inoltre,
non ha senso che ti arrabbi con Giovanni perché l’affetto non si estorce mostrando
i muscoli. Magari vediamola qui, questa rabbia!
[Lavorando
sulla respirazione, Antonella avverte tensione alla bocca e il bisogno di
mordere. Morde, tira e torce con le mani un piccolo asciugamano (lasciando
uscire la voce) e sente salire il pianto. Piange un po’, ma mi sembra confusa e
mi conferma di non sapere bene per cosa piange. La invito ad usare di più gli
occhi, a tener presente che è qui, nella realtà di oggi, con me e la invito a
tener presente anche che sta provando
sensazioni ed emozioni che non riguardano né il suo presente con Giovanni, né
il suo presente con me.]
A.
Ho pensato a mia madre. La chiamavo e non veniva. E mi sentivo così disperata
da non poter stare in contatto con quella situazione.
GF.
Ora sei una persona adulta e rivivi cose dolorose che sono tue da sempre e che
erano insopportabili quando eri bambina. Stai tenendo presenti entrambi questi
aspetti?
A.
Sì.
GF.
Allora, comunica a tua madre l’emozione che hai sfiorato prima di
“confonderti”.
A.
[Riprende a mordere l’asciugamano e grida] Mamma, devi capire che … ho bisogno
di te!
GF.
Nella scena che vedi, tua madre capisce?
A.
… Non capisce.
GF.
Allora non c’è niente da fare e non c’è alcuna guerra da fare. Tu senti ancora quel
bisogno che tua madre nemmeno capiva. Quel bisogno resterà insoddisfatto, perché
non sei più una bambina, ma puoi lasciarlo esistere, dolorosamente, in te,
nella donna che sei diventata.
Mentre
concludiamo la seduta, Antonella è commossa. Non piange davvero, ma ha superato
il suo stato d’animo rabbioso e confuso.
GF.
Quando “lavori sulle tue cose”, a casa, evita sempre di regredire: se “torni là” non puoi fare niente di diverso da ciò che
hai già fatto da bambina (chiuderti, arrabbiarti e confonderti). Hai bisogno di
esplorare i tuoi vissuti sapendo sempre che stai cercando di riconoscerli e di
integrarli nella tua vita. Nella tua vita di oggi, nell’unica vita che hai.
La
seduta che ora voglio sinteticamente riportare ha consentito alla cliente, che
chiamerò Piera, un piccolo passo avanti nella direzione di una maggiore
accettazione di se stessa e della realtà. Piera era più incline al
"contatto sostitutivo" con le persone (ovvero all'espressione di
emozioni non autentiche) che alla chiusura. Inoltre, la cliente, all'epoca di
questa seduta aveva fatto analisi per più di due anni ed aveva già fatto dei
cambiamenti che le consentivano di vivere rapporti interpersonali più soddisfacenti.
I lavori erano ancora in corso, dato che tendeva (come capita a molti clienti
che cominciano a sentirsi abbastanza bene) ad usare il lavoro analitico per “sentirsi
migliore”, piuttosto che per stabilire un rapporto limpido con se stessa.
P.
Va meglio. Sto raccogliendo alcuni frutti del lavoro svolto. Era ora! Penso
però di avere ancora bisogno d'aiuto perché vorrei sentirmi di più ed avere un
contatto davvero profondo con gli altri.
[Ho
subito la sensazione che Piera stia covando una riedizione
"analitica" delle sue vecchie fantasie perfezionistiche che la
portavano ad essere intellettualmente seduttiva per poi pretendere l'amore come
premio dovuto. Per controllare la mia impressione cerco di portare Piera a
chiarire se vuole lavorare su un problema preciso o se vuole solo realizzare un
astratto "miglioramento".]
GF.
Cos'è, ora, che senti poco?
P.
Ora mi sento tranquilla e centrata.
GF.
Allora perché vuoi lavorare per un "di più"?
P.
Perché, anche se meno di una volta, stento a realizzare degli obiettivi
concreti davvero buoni per me. Certe cose sono andate a posto, però potrei
occuparmi più di me stessa, essere più attenta all'alimentazione evitando certi
"pranzi" al bar, così come potrei gestire in modo più ragionevole il
mio bilancio mensile. Credo che trattandomi con maggior cura avrei una vita più
piena. Mi sento spesso affaticata, come se arrancassi in salita, anche se non
faccio nulla di eccezionale. Insomma, per me è ancora difficile essere la donna
che dovrei essere alla mia età.
[Ora
è chiaro che, anche se Piera ha delle giustificazioni ragionevoli per alcuni
suoi obiettivi, di fatto si confronta con un'idea di sé, cioè con quella della
"donna che dovrebbe essere"]
GF.
Credo alla tua sensazione di affaticamento, ma non ho capito bene cosa tu
faccia per affaticarti. Inoltre, i temi su cui vorresti lavorare sono
abbastanza indefiniti.
[Non
so ancora quale direzione prendere. Temo che un confronto verbale sul suo
perfezionismo porterebbe ad un semplice ripasso di cose già chiarite, oppure ad
una polemica. Penso che forse da qualche osservazione accurata del suo
atteggiamento corporeo potrebbe uscire qualche indicazione abbastanza concreta.
Le propongo quindi di valutare se sul piano fisico vuole cercare qualche
elemento utile per una maggior comprensione della sua stanchezza. Lei accetta
il mio suggerimento e la invito quindi a stare semplicemente in piedi,
ascoltando la sua respirazione. Noto che appena trova la posizione in cui sente
di avere un buon equilibrio solleva lo sguardo, come per controllare qualcosa
in un punto del soffitto davanti a lei.]
GF.
Ripeti quello che hai fatto!
P.
Cosa?
GF.
Quel movimento con gli occhi.
[Torna
a guardare in alto e riabbassa immediatamente lo sguardo]
GF.
No; mantieni lo sguardo in quella direzione e verifica cosa senti stando così.
P.
Non mi va. Faccio una gran fatica così.
GF.
Fai fatica a … guardare in alto, a guardare "oltre". Forse fatichi
proprio a guardare quel che … dovresti essere.
P.
Ancora?!
GF.
Piera, non siamo a scuola. Non hai fatto un "errore". Stiamo parlando
di te, del tuo modo di stare con te; questa illusione di "riuscire"
ad essere amabile è la tua fuga più facile di fronte alla realtà. Abbiamo già analizzato
questo atteggiamento e sai che puoi farne a meno, ma puoi anche sempre
recuperarlo. La realtà è davvero bella, ma anche dolorosa. Non sto negando i
tuoi cambiamenti, ma voglio sottolineare una cosa: aprendoti ad un contatto più
profondo ti esponi anche a pene più profonde e la tua prima tendenza è quella
di scappare inventandoti una gara; al limite una gara in "conquiste
analitiche", con tanta "libertà" interiore e tanta
"centratura".
[Il
messaggio arriva a destinazione. Piera ora è un po' triste e più
"presente".]
P.
Capisco. Posso usare anche l'analisi per "meritarmi" la felicità.
GF.
Già. Quella felicità che non può essere ottenuta da Piera-bambina perché la
felicità non si merita e anche perché Piera-bambina non c'è più. Quella bambina
è un ricordo, una sensazione che, come donna, hai dentro di te e che non è
modificabile. E' sempre con l'ottimismo che ti freghi! Credo che la tua
stanchezza e la tua mancanza di attenzione derivino proprio dal compito
impossibile a cui ti dedichi facendo anche le cose più semplici.
P.
E' tutto chiaro.
Riporto
ora una seduta di supervisione fatta con un giovane psicologo (che chiamerò
Fabio) riguardante una sua cliente (che chiamerò Laura). Grazie alla sua
formazione Fabio era in grado di aiutare i clienti ad esplorare emozioni non
accettate, ma a volte incontrava qualche difficoltà nel cogliere
l'intenzionalità di specifiche manovre difensive.
F.
Questa cliente ha 34 anni e lavora con me da circa sei mesi. Mi aveva chiesto
di lavorare più che altro per una certa sua curiosità nei confronti della
psicoterapia e non avevo accettato questa come una buona ragione per cominciare
un lavoro.
GF.
Pienamente d'accordo.
F.
Nel colloquio iniziale mi aveva descritto anche un problema che meritava di essere
affrontato. Si era innamorata diverse volte, ma regolarmente dopo l'entusiasmo
iniziale aveva riscontrato un senso di insoddisfazione e di noia nella
relazione. Parlandone con me ha ammesso di essere fredda con i ragazzi e, più
in generale, di sentire poco le sue emozioni.
GF.
Sempre così. Una vaga curiosità, nessun sintomo, e poi va a finire che c'è un
muro!
F.
Già. Laura è figlia unica e la madre si è sempre lamentata dei sacrifici che
faceva per lei. La madre ha sempre scoraggiato la sua autonomia, svalutando
però le sue manifestazioni affettive, le sue capacità, la sua irrequietezza. Il
messaggio è quindi "sta qui e lasciati svalutare". Abbiamo lavorato
sul suo scarso coinvolgimento emotivo e qualcosa è cambiato. Ha riconosciuto
varie volte la sua ostilità celata dal distacco e in alcuni casi ha anche
provato della tristezza. Però non ho la sensazione di fare un percorso preciso
con lei.
GF.
E' probabile, dato che è troppo presto per parlare di vere espressioni di
tristezza. Considera la prudenza con cui si è avvicinata a te e trai le
conclusioni. Ha molta paura e teme una sofferenza molto intensa. Cerchiamo di
capire come frena il tuo lavoro e come tu "la proteggi" da esperienze
davvero profonde.
F.
Abbiamo chiarito gli atteggiamenti basilari dei genitori. Il padre è sempre
stato ai margini, faceva le sue cose e in famiglia era "di
passaggio". La madre legava a sé Laura per svalutarla, solo per sentirsi
viva. Il lavoro vero e proprio, pur riferito a questo sfondo, nelle sedute
inizia con delle sue richieste di chiarimenti riguardanti i rapporti con
ragazzi desiderati o già lasciati. Un paio di volte siamo arrivati a chiarire
che lei fa sentire i ragazzi dipendenti e svalutati come lei si sentiva con la
madre. In altre parole "cede" ad essi i propri "incubi". In
questi casi piange.
GF.
L'idea è probabilmente giusta, però questa comprensione di una sua
manipolazione mi sembra superficiale. Tutto è troppo facile. Come va il suo
rapporto con te?
F.
Inizialmente tendeva a lasciarmi spazio chiedendomi cosa pensassi di questo o
di quello, per poi intervenire con obiezioni e con vari "sì, ma”. Per
questo sono diventato inflessibile, chiedendo sempre anche esplicitamente su
cosa lei volesse lavorare. Anche se con una certa freddezza, finiva per
ammettere delle aspettative e fare delle richieste.
GF.
Credo sia molto astuta. Ha trovato il modo di controllarti proprio facendo quel
che tu hai imposto (per validissime ragioni). Vediamo un po': lei conosce un
tipo di relazione importante in cui c'è una madre che svaluta ed una figlia
piccola che “non ne azzecca mai una”. Con te ha subito cercato di fare la madre
e di lasciarti il ruolo del bambino svalutato. Tu sei diventato “inflessibile”
e allora lei ha scelto di fare la parte della bambina obbediente ma
"inadeguata". Quando piange discutendo i suoi pasticci con i ragazzi,
forse piange perché ha l'impressione di sbagliare tutto.
F.
Allora io parto dalla relazione coi ragazzi per riportarla al suo dolore di
bambina non accettata e lei invece va al suo ruolo ufficiale di bambina
"sbagliata".
GF.
Così continua a sentirsi vicina alla madre. La sua non è tristezza, ma
accondiscendenza nel manifestare sensi di colpa. Lei fa varie cose con la
madre, coi ragazzi e con te pur di sentirsi un genitore svalutante (stanco,
annoiato, insoddisfatto) oppure una bambina "sbagliata". L'obiettivo
del tuo lavoro è di farle toccare il vissuto profondo: quello di sentirsi
semplicemente rifiutata, sola e disperata (senza alcuna colpa e senza alcun
perché). Da lì può costruire cose nuove, perché quello è il suo punto di
partenza reale (e non ancora sentito).
F.
Ho capito. Devo evitare, a costo di diventare pignolo, qualsiasi possibile
lettura colpevolizzante dei suoi rapporti con i ragazzi, e forse devo chiarire
meglio con lei come si sente con me.
GF.
Se si sente piccola e sbagliata con te non potete collaborare realmente ed ogni
risultato possibile o non viene raggiunto o viene bruciato. Inoltre, chi
accetta un ruolo così scomodo cova rancore e probabilmente sta raccogliendo
prove per dimostrare che in realtà sei tu la persona "sbagliata". Lei
non fa nulla per caso. Costruisce rapporti per arrivare a situazioni emotive
centrate sul disprezzo e sull'inadeguatezza: quelle che associa ad un rapporto
orribile, ma "conosciuto". Fa tutto ciò per evitare di sentirsi
"non vista", cioè per evitare di sentirsi buona, brava, ma
irrimediabilmente sola. Lì c'è il dolore pulito, irrimediabile, ma caldo e
(oggi) tollerabile. Cerca quel dolore ed analizza ogni aspetto che ostacola
questa ricerca.
Una
donna trentacinquenne, che chiamerò Gianna, divorziata da molti anni, separata
da un compagno che l'aveva delusa e sola da tre anni, mi chiese un colloquio
perché dopo un intervento al seno era in chemioterapia e non riusciva a gestire
bene la sua situazione. Entro circa cinque mesi avrebbe saputo se con la
chemioterapia avrebbe ottenuto i risultati sperati o se sarebbe stata
praticamente alla fine della sua giovane vita. Ciò che però occupava i suoi
pensieri e impegnava i suoi sentimenti non era il fatto di doversi confrontare
con la possibilità di morire presto, ma la perdita dell'immagine di persona
"forte, sana e autonoma" che si era costruita. Era insofferente al
"gruppo di auto-aiuto" offerto dall'ospedale per le persone nella sua
condizione e mi disse: "Forse è presunzione, ma non mi va il Club delle
cancerose". Le dissi che se a lei non andava bene il "Club delle
cancerose" a me non andava bene nessun club, nemmeno quello delle donne
"forti e sane". Lavorando sulla sua identità fasulla (molto bene e
velocemente, anche perché la situazione "incalzante" la motivava a
spremere al massimo il lavoro delle sedute), chiarimmo che la sua
pseudo-autonomia (o pseudo-forza) era la sua risposta difensiva a vissuti di
abbandono e solitudine molto profondi e non elaborati.
Lavorando
sulle tensioni della sua bocca, Gianna provò delle sensazioni fisiche ed
emotive molto forti, difficilmente descrivibili e presumibilmente pre-verbali,
di completo smarrimento e di "inconsistenza", ma attraversò tali
incubi senza dimenticare di essere comunque una persona adulta che esplorava
dei vissuti interiori. Questo la aiutò ad accettare di essere una persona; non
una "persona malata" o una "persona forte". Una persona
reale, che era in pericolo di vita, con tutta la paura e tutto il dolore che ciò
comportava attualmente e con tutto il dolore relativo ad un'infanzia devastata
dalla solitudine. In seguito, la chemioterapia diede risultati buoni, una
terapia naturale svolta con un medico molto competente ridusse i danni della
chemioterapia e ora questa persona sta abbastanza bene. Piange con relativa
facilità per piccole cose che le ricordano il suo passato di bambina dipendente
e rifiutata, ma gioisce realmente per il fatto di essere la persona che è.
Gianna non ha lavorato con me su alcuna "patologia psichica": ha
capito cosa faceva ed ha sentito ed
espresso i suoi vissuti da sempre temuti ed evitati. Ciò le ha dato la
possibilità di cambiare la sua strategia di vita e di vivere per vivere anziché
per non soffrire. La sua ridecisione è stata positiva non tanto sul piano del
“benessere”, ma sul piano dell'essere con se stessa. Prima dell'analisi
soffriva difensivamente e nelle sedute ha scoperto di poter “soffrire
umanamente” e quindi di potersi fare compagnia in modi compassionevoli e
rispettosi.
Di
una cosa sono convinto: il lavoro analitico è, in linea di principio, più utile
di qualsiasi lavoro psicoterapeutico, ma ci sono psicoterapeuti con capacità
personali notevoli che ottengono risultati apprezzabili nonostante il loro orientamento teorico. Anche l’unico
psicoterapeuta che mi ha aiutato a chiarire le mie difese credeva di fare
psicoterapia come quelli con cui ho solo perso tempo. Le persone a volte fanno
più di ciò che credono di fare. L’equivoco o il vizio o l’errore di fondo che caratterizza
le concezioni psicoterapeutiche si riduce essenzialmente alla trascuratezza per
le ragioni delle azioni. Se
inconsciamente le persone organizzano la loro vita in modi irrazionali,
dimostrano solo di essere spaventate, come nella loro infanzia, all’idea di
gestire il dolore. L’analisi dell’irrazionalità conduce al dolore ed è quindi
dolorosa. Conduce al pianto, che non rende le persone “sane”, ma consapevoli di
poter affrontare gli aspetti dolorosi della loro vita. Il pianto non conduce
nemmeno ad un generico “benessere”, perché gli esseri umani non hanno l’opzione
di “stare bene o stare male”, ma solo quella di vivere intensamente (nella
gioia e nel dolore), oppure di vivere “poco”.