lunedì 16 luglio 2018

27. La psicoterapia come oggetto d'analisi







A differenza degli enunciati scientifici che rientrano in teorie coerenti ed empiricamente controllabili, i discorsi etici e psicoterapeutici non accrescono la conoscenza della realtà. Infatti, concezioni morali e psicoterapeutiche radicalmente diverse coesistono e sono basate su presupposti inconciliabili.
L’etica non solo non spiega la malvagità, ma giustifica interventi “educativi” che rafforzano le difese psicologiche e quindi la malvagità. Il ruolo della psicoterapia è simile: non solo non spiega i disturbi psicologici, ma attua delle terapie che se non funzionano sono inutili e, se funzionano, non incidono sugli atteggiamenti irrazionali che hanno prodotto i sintomi. L’etica e la psicoterapia presentano concezioni dell’uomo molto diverse, ma accomunate da un equivoco di fondo: tali concezioni sostituiscono l’agire con l’essere. L’idea che le persone siano buone o cattive o sane o malate distrae dalle domande sulle ragioni per cui le persone fanno ciò che fanno. Tale operazione linguistica è quasi ipnotica: quando una persona agisce in un certo modo (distruttivo o semplicemente poco ragionevole), per i moralisti “è malvagia”, mentre per gli psicoterapeuti “è malata”. Nella “realtà reale”, però, quella persona ha fatto qualcosa e, se vogliamo fare scienza, dobbiamo capire per quale ragione ha agito in quel modo anziché in altri modi. La medicina spiega che certi comportamenti sono l’effetto dell’assunzione di una droga o di una disfunzione neurologica e il lavoro analitico spiega che una certa azione irrazionale è intenzionale, anche se inconscia, e interrompe la consapevolezza di qualche vissuto doloroso. L’etica e la psicoterapia, invece, distolgono l’attenzione dalle ragioni per cui una persona ha agito in un certo modo: il moralista dichiara che quella persona dovrebbe pentirsi e sforzarsi di seguire la voce della sua coscienza, mentre lo psicoterapeuta si chiede quale terapia egli possa applicare per far tornare sano un paziente che era malato.
Anche se nell’ambito della psicoterapia hanno preso forma alcune idee interessanti e persino geniali, nel suo complesso, tale disciplina contribuisce, come varie ideologie e concezioni metafisiche, a distogliere l’attenzione dal dolore (e dalle difese dal dolore) e a consolidare la normale irrazionalità individuale e sociale. In questo libro (ma anche nel mio dialogo interno, nelle mie relazioni interpersonali e nelle sedute) utilizzo le mie conoscenze ed anche quelle che ho ricavato da alcuni libri di psicoterapia e dalle esperienze fatte con psicoterapeuti (appartenenti a scuole molto diverse). La gratitudine che provo per alcune di queste persone è immensa e, per questo motivo, provo dispiacere a mettere in discussione la psicoterapia nel suo complesso, ma credo che un’analisi critica di tale disciplina sia necessaria in un’indagine sulle ragioni dell’irrazionalità. La psicoterapia trascura il dolore degli esseri umani per occuparsi del “dolore secondario” che accompagna i sintomi psicologici, che però, per quanto disturbanti, sono difese dal dolore. Questo è il nucleo essenziale della psicoterapia e tale nucleo rende la pratica psicoterapeutica un sintomo ritualizzato e le teorie psicoterapeutiche dei sintomi ideologizzati. Per questi motivi, la psicoterapia non può spiegare l’irrazionalità, ma va collocata fra i fenomeni irrazionali da spiegare. Di ciò sono convinto, così come sono convinto del fatto che molte ideologie “progressiste” ostacolino l’emancipazione dei soggetti che pretendono di tutelare, che l’etica generi malvagità e che le religioni distolgano gli esseri umani dalle genuine domande sull’immanenza e sulla possibilità di una trascendenza.
Capire l’irrazionalità costa dolore e porta a fare tutto ciò che è possibile (e solo ciò che è possibile) per costruire un’esistenza personale pienamente vissuta. Ciò che mi ha aiutato a sentirmi meglio con me stesso e con gli altri è stato proprio il superamento della paura di rinunciare definitivamente a cose bellissime che desideravo fin dall’infanzia, ma che non potevo ragionevolmente né meritare, né conquistare, né pretendere. Senza le mie lacrime e senza la resa ai singhiozzi del pianto non avrei capito nulla della mia storia personale e dei libri che studiavo. Ora, non è un caso che nei libri di psicoterapia il tema del “lavoro del lutto” sia esaminato solo intellettualmente e solo da alcuni autori, e che il tema del pianto sia semplicemente ignorato. Chi vuole chiarire la differenza fra il pianto che esprime il dolore di una mancanza accettata e i piagnistei di chi manifesta rabbia per una mancanza non accettata, non trova lumi nei libri o nei convegni di psicoterapia. Anche il lavoro sui modi di pensare e sulle tensioni fisiche che bloccano il pianto non è trattato, perché gli argomenti trattati restano i sintomi, le tecniche “terapeutiche” e il “benessere” psicologico.
Gli esseri umani fanno continuamente esperienze mediate da ciò che pensano e sentono. Questo scarto tra la soggettività e la realtà oggettiva non è drammatico; determina semplicemente alcune diversità fra le persone ed è un’occasione di confronto e di incontro. Fa parte della semplice avventura di vivere da persone. Ciò che complica le cose è la parte della dimensione soggettiva che è stata strutturata nell’infanzia a scopi difensivi e che, quindi, ostacola l’apertura verso una conoscenza oggettiva, il rispetto per le particolarità delle altre persone, l’accettazione delle situazioni che frustrano i desideri. Senza questo “filtro” difensivo da noi creato e mantenuto, agiremmo in modi comunque limitati, perché siamo esseri imperfetti, ma non agiremmo in modi irrazionali e distruttivi. L’idea che una persona oggi sperimenti dei disturbi psicologici causati da esperienze spiacevoli verificatesi nell’infanzia non è ragionevole perché i disturbi psicologici (e quindi le manifestazioni individuali dell’irrazionalità) dipendono da ciò che le persone fanno oggi per raggiungere i loro obiettivi (inconsci e difensivi) di oggi. Il nesso fra passato e presente non può, quindi, dipendere da lesioni o alterazioni o modificazioni (non dimostrabili) della “psiche”, causate da antiche vicende, ma dal permanere nel presente di atteggiamenti difensivi strutturati nel passato.
Il lavoro sulle decisioni e sulle strategie difensive inconsce (e quindi sull’intenzionalità difensiva) è, a mio parere, il nocciolo del lavoro analitico, che può essere approfondito anche con alcuni strumenti tecnici approntati da alcuni indirizzi psicoterapeutici, ma tali strumenti, quando vengono utilizzati nel contesto delle teorie in cui sono nati, difficilmente raggiungono l’obiettivo che caratterizza il lavoro analitico. Ad esempio, una persona può chiarire in una seduta di Analisi Transazionale che struttura abitualmente dei giochi di relazione in cui finisce inevitabilmente per sentirsi vittima di qualche ingiustizia e può comprendere che solo al di fuori di tali schemi relazionali ha la possibilità di incontrare le altre persone su un piano adulto. Un lavoro di questo tipo, condotto in modo impeccabile, può produrre molte riflessioni costruttive, ma difficilmente faciliterà la comprensione delle ragioni per cui un adulto fa tante sciocchezze per sentirsi un bambino ingiustamente maltrattato. Eric Berne non ha mai chiarito che l’interruzione dei giochi è davvero utile solo se conduce all’elaborazione del dolore. Tuttavia, anche le psicoterapie “di orientamento corporeo”, ben attrezzate per il “lavoro sulle emozioni”, in genere non riconoscono il ruolo dell’elaborazione del dolore. Ad esempio, Jerome Liss, ha collegato l'idea reichiana dei “blocchi energetici” nell'organismo alle ricerche neurofisiologiche di Henri Laborit, sul sistema di inibizione dell'azione (SIA) approdando così ad una “terapia” volta a far “affiorare” emozioni, nella quale però manca una comprensione del fatto che le persone possono anche attivare emozioni difensive per dissociarsi da emozioni più profonde e temute. Purtroppo, quindi, nella concezione di Liss, il “paziente” non è pensato come una persona che agisce, ma come una persona inibita, che può essere aiutata a disinibirsi e rilassarsi: "Che cosa avviene durante il processo terapeutico? Il paziente entra in uno stato di regressione per scoprire gli aspetti del suo mondo interiore che hanno origine nella prima infanzia. (…) Dopo la rabbia e le lacrime, vediamo anche emergere dalla tempesta emotiva il felice e amato adulto-bambino che offre calorosi sorrisi e segni di tenerezza alle persone presenti" (Boadella-Liss, 1986, p. 100). La manifestazione puramente “regressiva” di emozioni non comprese può produrre la voglia di tanti abbracci in un gruppo, ma non può cambiare le strategie difensive delle persone. Concezioni psicoterapeutiche di questo tipo non presuppongono alcuna distinzione fra piangere e “frignare” rabbiosamente o fra condividere sentimenti e cercare “nutrimento” negli abbracci “terapeutici” ottenuti in un gruppo.
L’idea che la psicoterapia sia una disciplina che studia le “patologie psichiche” come la dermatologia studia le malattie della pelle non ha una giustificazione razionale e il fatto che sia diventata “scientifica” per riconoscimento statale non la rende realmente scientifica: il materialismo dialettico non è mai stato una scienza, anche se era “riconosciuto” dallo Stato nell’Unione Sovietica e le discriminazioni sociali in Sudafrica rendevano i neri delle persone discriminate, ma non delle persone realmente “inferiori”. Le mie convinzioni possono essere del tutto errate, ma non possono essere errate solo perché non conformi al punto di vista espresso da molti accademici, professionisti e ministri. La verità, fortunatamente, non è “democratica” e Orwell (1949) ha evidenziato in modo convincente i percorsi culturali, educativi e psicologici attraverso cui alcune assurdità possono divenire “verità ufficiali” in un sistema sociale irrazionale.
Il lavoro analitico non è altro che un tentativo consapevole di chiarire le ragioni per cui le persone agiscono ed interagiscono irrazionalmente. Ad un ragazzo timido uno zio contadino può dire “mi sembra che tratti gli altri come se non fossero tuoi pari” e in tal modo svolge un lavoro analitico “rudimentale” ma corretto, mentre uno psicoterapeuta può dire “rilassati e immagina che i tuoi amici ti accettino” e, in tal modo, fa qualcosa di non analitico per “indurre” stati emotivi di tipo “positivo”. Se riesce nell’intento ha impedito un possibile cambiamento. L’analisi non dispensa gioia e felicità, e nemmeno “normalità”, ma ha come scopo la comprensione delle ragioni per cui le persone creano la loro infelicità e per questo rende possibili dei cambiamenti e non causa delle guarigioni. Non ha come obiettivo il “benessere” immaginato dagli psicoterapeuti, ma l’accettazione del dolore della vita. Proprio tale accettazione rende possibile anche l’esperienza della gioia nei momenti realmente gioiosi e la costante felicità di essere con se stessi, di amarsi e di amare gli altri, nella gioia e nel dolore.
Sulla base di tali premesse, il lavoro analitico ha un obiettivo completamente diverso da quello della psicoterapia: non il superamento dei “sintomi anormali”, ma il superamento sia dei “sintomi anormali”, sia dei “sintomi normali”. La psicoterapia ha come obiettivo il raggiungimento della normalità statistica riconosciuta come “sana”, mentre il lavoro analitico procede “in negativo” e ha come obiettivo quello di rendere superflue le difese psicologiche e di consentire alle persone l’espressione delle loro potenzialità. Il lavoro analitico non ha modelli da realizzare, ma si propone solo di consentire alle persone di esprimere ciò che sono (al di là delle loro difese e di qualsiasi modello di “salute” inventato dagli altri).
Ciò che i bambini “portano con sé” nell’età adulta non è né il dolore dell’infanzia (sfiorato fugacemente e comunque “interrotto”), né qualche immaginaria “ferita”, perché essi portano con sé solo le proprie difese e la determinazione (inconscia) ad attivarle in continuazione, pur disponendo ormai della capacità di elaborare il dolore. Portano con sé anche le sensazioni di bisogno della loro infanzia: non avendo soddisfatto all’epoca quei bisogni e non avendo nemmeno elaborato il dolore della frustrazione di tali bisogni, non hanno “trovato pace” e non hanno superato tale passato, che si ripropone, quindi, come realtà (soggettiva) attuale. Da adulti, a venti o cinquant’anni, non hanno più alcun bisogno di ricevere un amore “nutriente” dai “grandi”, ma sentono ancora tale bisogno e attivano le loro difese pur di non accettare il dolore attuale di non poter più essere amati/nutriti come bambini dai “grandi” (che nel presente sono sempre e soltanto dei pari). Provano anche la sensazione di non poter reggere la frustrazione dolorosa di tale “bisogno” (che però non è più un bisogno) pur essendo in grado di elaborare il dolore. Per questi motivi continuano ad adottare le stesse difese costruite a tre o a sette anni e ciò dimostra che il lavoro analitico non può “curare” nulla, ma può chiarire questi fatti e far sperimentare la capacità, già acquisita con la crescita, di elaborare il dolore. L’irrazionalità si spiega con il “permanere” nel presente di un passato non compreso, non accettato e non superato. E’ sicuramente irrazionale chiudere, aprire e ri-chiudere la porta di casa ogni volta che si esce, ma non è nemmeno razionale che tante persone vadano a Roma per farsi benedire dal Papa o vadano ad elemosinare autografi da una rockstar che ha messo in musica delle banalità e veste come uno spaventapasseri. Non c’è alcun motivo per considerare irrazionale un sintomo isolato se non si considera irrazionale anche un sintomo condiviso da tanti. La sottomissione “adorante” di una persona ad un/una partner insensibile e crudele non è più irrazionale della sottomissione adorante delle masse a leader politici insensibili e crudeli o a divinità che infliggono punizioni eterne. Solo per motivi del tutto irrazionali, quindi, la psicoterapia diagnostica certi comportamenti individuali come “patologici” e tratta le espressioni sociali dell’irrazionalità come semplici “abitudini” e le concezioni della realtà più assurde come “punti di vista”.
Se la psicoanalisi ha ostacolato la comprensione delle strategie difensive individuali ipotizzando l’esistenza di meccanismi difensivi inconsci causalmente operanti, il cognitivismo ha invece permesso di comprendere alcune chiusure mentali individuali, senza però giungere al cuore della questione. Infatti, le “convinzioni patogene” non sono errori da correggere, ma aspetti di una strategia esistenziale. La psicoterapia ad orientamento cognitivo trascura, quindi, il fatto che normalmente le persone mantengono delle convinzioni assurde solo per attivare emozioni difensive e restare dissociate dal dolore. Gli altri orientamenti psicoterapeutici tendono, come i due ora menzionati, ad incidere solo sulle conseguenze evidenti dei processi profondi caratterizzati dall’intenzionalità difensiva. Lo scopo del lavoro analitico consiste, invece, proprio nell’aiutare le persone a comprendere perché vivono evitando il dolore inevitabile, anziché nuotare nella vita con la gioia ed il dolore che essa comporta. Più le persone “maneggiano” il dolore, più agiscono razionalmente e manifestano un’emotività comprensibile e intensa.
La prima condizione di possibilità del lavoro analitico è costituita dalla capacità dell’analista di confrontarsi con il proprio dolore: di prevenire o eliminare quello non necessario e di accettare quello inevitabile. L’analista, oltre a tollerare il proprio dolore dovrebbe riuscire a capire come il cliente si protegge dal dolore attivando sintomi superficialmente dolorosi (fobie, comportamenti distruttivi, convinzioni spiacevoli, emozioni scomodissime, ecc.). Quando il cliente “sta male” l’analista è utile se cerca il dolore evitato dal cliente e non se si attiva per farlo star meglio. Sarà il cliente stesso a godersi la gioia di vivere (quella realmente possibile) dopo aver affrontato i propri incubi. Se l’analista convive col proprio dolore e comprende il dolore evitato da un cliente, deve intervenire in qualche modo (in uno dei tanti possibili) per aiutare il cliente a comprendere cosa sta facendo e perché. La valutazione degli interventi da fare nei singoli casi dipende dalle capacità e dalle conoscenze dell’analista e tra le cose che meritano di essere conosciute, vi sono anche alcune tecniche elaborate da psicoterapeuti appartenenti a orientamenti teorici molto diversi. Il lavoro analitico, quindi, pur non essendo un lavoro tecnico, comporta anche l’uso di tecniche. Qualsiasi tecnica rispettosa delle persone e adatta a favorire la comprensione di ciò che le persone fanno, può essere ragionevolmente utilizzata.
I medici si occupano degli organismi, non delle persone e gli psicoterapeuti svolgerebbero un lavoro utilissimo se si occupassero proprio delle persone e in particolare di quei disturbi psicologici che le persone costruiscono. Anche se non è sempre chiaro il confine fra i disturbi psicologici causati da disfunzioni nei processi neurologici e i disturbi psicologici non riducibili a fattori organici, i medici hanno (o possono avere) le competenze per comprendere e curare le “vere” patologie (comprese quelle che hanno ricadute sul piano psicologico) e gli psicoterapeuti potrebbero avere (se rinunciassero a ragionare in termini di patologie) la possibilità di intervenire sui disturbi psicologici che rientrano nelle strategie difensive delle persone. Per fare questo, però, non dovrebbero rivendicare di essere riconosciuti come “quasi medici”, ma dovrebbero chiarire le ragioni per cui le persone pensano, sentono ed agiscono irrazionalmente: quelle ragioni che sono irriducibili ai processi causali noti ai medici. Una teoria volta a spiegare le ragioni per cui le persone vivono in modi irrazionali può lasciare da parte sia concetti come la “coscienza morale”, sia concetti come i “meccanismi di difesa”, il “Sé”, le “cause” delle “patologie” psichiche e le “terapie” di tali patologie. Soprattutto può lasciare da parte l’idea che ciò che è anormale sia patologico e vada curato.
Ciò che guasta la vita quotidiana delle persone, sia che si manifesti con atteggiamenti distaccati o appiccicosi o distruttivi, sia che dia luogo anche a sintomi circoscritti, non è l’esperienza del dolore, ma la negazione difensiva del dolore. Tale negazione rende le persone prive di compassione per sé, incapaci di empatia, focalizzate su banalità e intossicate di rabbia e ansia. Il fatto che ciò avvenga normalmente non dimostra che sia ragionevole, così come un’epidemia non dimostra che le piaghe purulente siano segno di salute. Proprio la normale rinuncia a vivere con la coscienza del dolore e della bellezza merita di essere oggetto di studio: non c’è bellezza quando una madre rimprovera un bambino che piange, quando un padre sa tutto della propria automobile e non sa nulla dei propri figli, quando una strada è piena di luci perché “è Natale”, quando la gente esulta ascoltando le parole svalutanti di un politico o di un leader religioso, o quando la gente è indifferente ai bombardamenti che colpiscono popolazioni lontane. Il normale orrore non è una patologia, ma non è nemmeno un’espressione delle potenzialità umane.
Credo che alcuni esempi di sedute possano chiarire che le persone reali (irriducibili a “casi clinici”) hanno davvero bisogno di rendersi conto dei tanti “trucchi” che utilizzano per “sentire poco” e che, quando vengono sollecitate a riflettere sull’intreccio di convinzioni, desideri ed emozioni incomprensibili, entrano in contatto con gli aspetti dolorosi della loro vita. Diventano consapevoli di ciò che facevano e non risultano “guarite”. Una cliente, che chiamerò Antonella, inizia la seduta ricollegandosi a quella precedente.
A. Sto cercando di farmi compagnia per non complicare il mio rapporto con Giovanni, però non ci sono riuscita moltissimo. Cerco spesso di chiarirmi cosa sento e ritrovo spesso dei vecchi bisogni, ma quando affiora il pianto non riesco a piangere. Anzi, a volte riesco, ma non fino in fondo, mentre altre volte non trovo “la strada delle lacrime”. Questa settimana Giovanni era molto preso dal lavoro e aveva anche invitato una sera degli amici, mentre avrei preferito stare con lui a casa senza troppa gente. Gli ho chiesto se “si stava dimenticando di me”, e subito mi sono accorta che la domanda non era stata molto felice.
GF. Suona più come una domanda fatta ad un genitore che come una domanda al partner.
A. Comunque mi sono presa una risposta da genitore poco disponibile, perché Giovanni ha sottolineato che nella vita si fanno le cose che vanno fatte. Non ho replicato e mi sono chiusa. Il giorno successivo abbiamo litigato per una stupidaggine.
GF. Credo che tu volessi essere arrabbiata e restare arrabbiata. Non ti chiedo di ignorare quel tuo vissuto di bisogno, ma di accettare che non può più essere soddisfatto: lo senti perché non lo hai mai soddisfatto e non hai nemmeno elaborato il tuo dolore, ma da tempo sei troppo vecchia per soddisfarlo. Inoltre, non ha senso che ti arrabbi con Giovanni perché l’affetto non si estorce mostrando i muscoli. Magari vediamola qui, questa rabbia!
[Lavorando sulla respirazione, Antonella avverte tensione alla bocca e il bisogno di mordere. Morde, tira e torce con le mani un piccolo asciugamano (lasciando uscire la voce) e sente salire il pianto. Piange un po’, ma mi sembra confusa e mi conferma di non sapere bene per cosa piange. La invito ad usare di più gli occhi, a tener presente che è qui, nella realtà di oggi, con me e la invito a tener presente anche che sta provando sensazioni ed emozioni che non riguardano né il suo presente con Giovanni, né il suo presente con me.]
A. Ho pensato a mia madre. La chiamavo e non veniva. E mi sentivo così disperata da non poter stare in contatto con quella situazione.
GF. Ora sei una persona adulta e rivivi cose dolorose che sono tue da sempre e che erano insopportabili quando eri bambina. Stai tenendo presenti entrambi questi aspetti?
A. Sì.
GF. Allora, comunica a tua madre l’emozione che hai sfiorato prima di “confonderti”.
A. [Riprende a mordere l’asciugamano e grida] Mamma, devi capire che … ho bisogno di te!
GF. Nella scena che vedi, tua madre capisce?
A. … Non capisce.
GF. Allora non c’è niente da fare e non c’è alcuna guerra da fare. Tu senti ancora quel bisogno che tua madre nemmeno capiva. Quel bisogno resterà insoddisfatto, perché non sei più una bambina, ma puoi lasciarlo esistere, dolorosamente, in te, nella donna che sei diventata.
Mentre concludiamo la seduta, Antonella è commossa. Non piange davvero, ma ha superato il suo stato d’animo rabbioso e confuso.
GF. Quando “lavori sulle tue cose”, a casa, evita sempre di regredire: se “torni là” non puoi fare niente di diverso da ciò che hai già fatto da bambina (chiuderti, arrabbiarti e confonderti). Hai bisogno di esplorare i tuoi vissuti sapendo sempre che stai cercando di riconoscerli e di integrarli nella tua vita. Nella tua vita di oggi, nell’unica vita che hai.
La seduta che ora voglio sinteticamente riportare ha consentito alla cliente, che chiamerò Piera, un piccolo passo avanti nella direzione di una maggiore accettazione di se stessa e della realtà. Piera era più incline al "contatto sostitutivo" con le persone (ovvero all'espressione di emozioni non autentiche) che alla chiusura. Inoltre, la cliente, all'epoca di questa seduta aveva fatto analisi per più di due anni ed aveva già fatto dei cambiamenti che le consentivano di vivere rapporti interpersonali più soddisfacenti. I lavori erano ancora in corso, dato che tendeva (come capita a molti clienti che cominciano a sentirsi abbastanza bene) ad usare il lavoro analitico per “sentirsi migliore”, piuttosto che per stabilire un rapporto limpido con se stessa.
P. Va meglio. Sto raccogliendo alcuni frutti del lavoro svolto. Era ora! Penso però di avere ancora bisogno d'aiuto perché vorrei sentirmi di più ed avere un contatto davvero profondo con gli altri.
[Ho subito la sensazione che Piera stia covando una riedizione "analitica" delle sue vecchie fantasie perfezionistiche che la portavano ad essere intellettualmente seduttiva per poi pretendere l'amore come premio dovuto. Per controllare la mia impressione cerco di portare Piera a chiarire se vuole lavorare su un problema preciso o se vuole solo realizzare un astratto "miglioramento".]
GF. Cos'è, ora, che senti poco?
P. Ora mi sento tranquilla e centrata.
GF. Allora perché vuoi lavorare per un "di più"?
P. Perché, anche se meno di una volta, stento a realizzare degli obiettivi concreti davvero buoni per me. Certe cose sono andate a posto, però potrei occuparmi più di me stessa, essere più attenta all'alimentazione evitando certi "pranzi" al bar, così come potrei gestire in modo più ragionevole il mio bilancio mensile. Credo che trattandomi con maggior cura avrei una vita più piena. Mi sento spesso affaticata, come se arrancassi in salita, anche se non faccio nulla di eccezionale. Insomma, per me è ancora difficile essere la donna che dovrei essere alla mia età.
[Ora è chiaro che, anche se Piera ha delle giustificazioni ragionevoli per alcuni suoi obiettivi, di fatto si confronta con un'idea di sé, cioè con quella della "donna che dovrebbe essere"]
GF. Credo alla tua sensazione di affaticamento, ma non ho capito bene cosa tu faccia per affaticarti. Inoltre, i temi su cui vorresti lavorare sono abbastanza indefiniti.
[Non so ancora quale direzione prendere. Temo che un confronto verbale sul suo perfezionismo porterebbe ad un semplice ripasso di cose già chiarite, oppure ad una polemica. Penso che forse da qualche osservazione accurata del suo atteggiamento corporeo potrebbe uscire qualche indicazione abbastanza concreta. Le propongo quindi di valutare se sul piano fisico vuole cercare qualche elemento utile per una maggior comprensione della sua stanchezza. Lei accetta il mio suggerimento e la invito quindi a stare semplicemente in piedi, ascoltando la sua respirazione. Noto che appena trova la posizione in cui sente di avere un buon equilibrio solleva lo sguardo, come per controllare qualcosa in un punto del soffitto davanti a lei.]
GF. Ripeti quello che hai fatto!
P. Cosa?
GF. Quel movimento con gli occhi.
[Torna a guardare in alto e riabbassa immediatamente lo sguardo]
GF. No; mantieni lo sguardo in quella direzione e verifica cosa senti stando così.
P. Non mi va. Faccio una gran fatica così.
GF. Fai fatica a … guardare in alto, a guardare "oltre". Forse fatichi proprio a guardare quel che … dovresti essere.
P. Ancora?!
GF. Piera, non siamo a scuola. Non hai fatto un "errore". Stiamo parlando di te, del tuo modo di stare con te; questa illusione di "riuscire" ad essere amabile è la tua fuga più facile di fronte alla realtà. Abbiamo già analizzato questo atteggiamento e sai che puoi farne a meno, ma puoi anche sempre recuperarlo. La realtà è davvero bella, ma anche dolorosa. Non sto negando i tuoi cambiamenti, ma voglio sottolineare una cosa: aprendoti ad un contatto più profondo ti esponi anche a pene più profonde e la tua prima tendenza è quella di scappare inventandoti una gara; al limite una gara in "conquiste analitiche", con tanta "libertà" interiore e tanta "centratura".
[Il messaggio arriva a destinazione. Piera ora è un po' triste e più "presente".]
P. Capisco. Posso usare anche l'analisi per "meritarmi" la felicità.
GF. Già. Quella felicità che non può essere ottenuta da Piera-bambina perché la felicità non si merita e anche perché Piera-bambina non c'è più. Quella bambina è un ricordo, una sensazione che, come donna, hai dentro di te e che non è modificabile. E' sempre con l'ottimismo che ti freghi! Credo che la tua stanchezza e la tua mancanza di attenzione derivino proprio dal compito impossibile a cui ti dedichi facendo anche le cose più semplici.
P. E' tutto chiaro.
Riporto ora una seduta di supervisione fatta con un giovane psicologo (che chiamerò Fabio) riguardante una sua cliente (che chiamerò Laura). Grazie alla sua formazione Fabio era in grado di aiutare i clienti ad esplorare emozioni non accettate, ma a volte incontrava qualche difficoltà nel cogliere l'intenzionalità di specifiche manovre difensive.
F. Questa cliente ha 34 anni e lavora con me da circa sei mesi. Mi aveva chiesto di lavorare più che altro per una certa sua curiosità nei confronti della psicoterapia e non avevo accettato questa come una buona ragione per cominciare un lavoro.
GF. Pienamente d'accordo.
F. Nel colloquio iniziale mi aveva descritto anche un problema che meritava di essere affrontato. Si era innamorata diverse volte, ma regolarmente dopo l'entusiasmo iniziale aveva riscontrato un senso di insoddisfazione e di noia nella relazione. Parlandone con me ha ammesso di essere fredda con i ragazzi e, più in generale, di sentire poco le sue emozioni.
GF. Sempre così. Una vaga curiosità, nessun sintomo, e poi va a finire che c'è un muro!
F. Già. Laura è figlia unica e la madre si è sempre lamentata dei sacrifici che faceva per lei. La madre ha sempre scoraggiato la sua autonomia, svalutando però le sue manifestazioni affettive, le sue capacità, la sua irrequietezza. Il messaggio è quindi "sta qui e lasciati svalutare". Abbiamo lavorato sul suo scarso coinvolgimento emotivo e qualcosa è cambiato. Ha riconosciuto varie volte la sua ostilità celata dal distacco e in alcuni casi ha anche provato della tristezza. Però non ho la sensazione di fare un percorso preciso con lei.
GF. E' probabile, dato che è troppo presto per parlare di vere espressioni di tristezza. Considera la prudenza con cui si è avvicinata a te e trai le conclusioni. Ha molta paura e teme una sofferenza molto intensa. Cerchiamo di capire come frena il tuo lavoro e come tu "la proteggi" da esperienze davvero profonde.
F. Abbiamo chiarito gli atteggiamenti basilari dei genitori. Il padre è sempre stato ai margini, faceva le sue cose e in famiglia era "di passaggio". La madre legava a sé Laura per svalutarla, solo per sentirsi viva. Il lavoro vero e proprio, pur riferito a questo sfondo, nelle sedute inizia con delle sue richieste di chiarimenti riguardanti i rapporti con ragazzi desiderati o già lasciati. Un paio di volte siamo arrivati a chiarire che lei fa sentire i ragazzi dipendenti e svalutati come lei si sentiva con la madre. In altre parole "cede" ad essi i propri "incubi". In questi casi piange.
GF. L'idea è probabilmente giusta, però questa comprensione di una sua manipolazione mi sembra superficiale. Tutto è troppo facile. Come va il suo rapporto con te?
F. Inizialmente tendeva a lasciarmi spazio chiedendomi cosa pensassi di questo o di quello, per poi intervenire con obiezioni e con vari "sì, ma”. Per questo sono diventato inflessibile, chiedendo sempre anche esplicitamente su cosa lei volesse lavorare. Anche se con una certa freddezza, finiva per ammettere delle aspettative e fare delle richieste.
GF. Credo sia molto astuta. Ha trovato il modo di controllarti proprio facendo quel che tu hai imposto (per validissime ragioni). Vediamo un po': lei conosce un tipo di relazione importante in cui c'è una madre che svaluta ed una figlia piccola che “non ne azzecca mai una”. Con te ha subito cercato di fare la madre e di lasciarti il ruolo del bambino svalutato. Tu sei diventato “inflessibile” e allora lei ha scelto di fare la parte della bambina obbediente ma "inadeguata". Quando piange discutendo i suoi pasticci con i ragazzi, forse piange perché ha l'impressione di sbagliare tutto.
F. Allora io parto dalla relazione coi ragazzi per riportarla al suo dolore di bambina non accettata e lei invece va al suo ruolo ufficiale di bambina "sbagliata".
GF. Così continua a sentirsi vicina alla madre. La sua non è tristezza, ma accondiscendenza nel manifestare sensi di colpa. Lei fa varie cose con la madre, coi ragazzi e con te pur di sentirsi un genitore svalutante (stanco, annoiato, insoddisfatto) oppure una bambina "sbagliata". L'obiettivo del tuo lavoro è di farle toccare il vissuto profondo: quello di sentirsi semplicemente rifiutata, sola e disperata (senza alcuna colpa e senza alcun perché). Da lì può costruire cose nuove, perché quello è il suo punto di partenza reale (e non ancora sentito).
F. Ho capito. Devo evitare, a costo di diventare pignolo, qualsiasi possibile lettura colpevolizzante dei suoi rapporti con i ragazzi, e forse devo chiarire meglio con lei come si sente con me.
GF. Se si sente piccola e sbagliata con te non potete collaborare realmente ed ogni risultato possibile o non viene raggiunto o viene bruciato. Inoltre, chi accetta un ruolo così scomodo cova rancore e probabilmente sta raccogliendo prove per dimostrare che in realtà sei tu la persona "sbagliata". Lei non fa nulla per caso. Costruisce rapporti per arrivare a situazioni emotive centrate sul disprezzo e sull'inadeguatezza: quelle che associa ad un rapporto orribile, ma "conosciuto". Fa tutto ciò per evitare di sentirsi "non vista", cioè per evitare di sentirsi buona, brava, ma irrimediabilmente sola. Lì c'è il dolore pulito, irrimediabile, ma caldo e (oggi) tollerabile. Cerca quel dolore ed analizza ogni aspetto che ostacola questa ricerca.
Una donna trentacinquenne, che chiamerò Gianna, divorziata da molti anni, separata da un compagno che l'aveva delusa e sola da tre anni, mi chiese un colloquio perché dopo un intervento al seno era in chemioterapia e non riusciva a gestire bene la sua situazione. Entro circa cinque mesi avrebbe saputo se con la chemioterapia avrebbe ottenuto i risultati sperati o se sarebbe stata praticamente alla fine della sua giovane vita. Ciò che però occupava i suoi pensieri e impegnava i suoi sentimenti non era il fatto di doversi confrontare con la possibilità di morire presto, ma la perdita dell'immagine di persona "forte, sana e autonoma" che si era costruita. Era insofferente al "gruppo di auto-aiuto" offerto dall'ospedale per le persone nella sua condizione e mi disse: "Forse è presunzione, ma non mi va il Club delle cancerose". Le dissi che se a lei non andava bene il "Club delle cancerose" a me non andava bene nessun club, nemmeno quello delle donne "forti e sane". Lavorando sulla sua identità fasulla (molto bene e velocemente, anche perché la situazione "incalzante" la motivava a spremere al massimo il lavoro delle sedute), chiarimmo che la sua pseudo-autonomia (o pseudo-forza) era la sua risposta difensiva a vissuti di abbandono e solitudine molto profondi e non elaborati.
Lavorando sulle tensioni della sua bocca, Gianna provò delle sensazioni fisiche ed emotive molto forti, difficilmente descrivibili e presumibilmente pre-verbali, di completo smarrimento e di "inconsistenza", ma attraversò tali incubi senza dimenticare di essere comunque una persona adulta che esplorava dei vissuti interiori. Questo la aiutò ad accettare di essere una persona; non una "persona malata" o una "persona forte". Una persona reale, che era in pericolo di vita, con tutta la paura e tutto il dolore che ciò comportava attualmente e con tutto il dolore relativo ad un'infanzia devastata dalla solitudine. In seguito, la chemioterapia diede risultati buoni, una terapia naturale svolta con un medico molto competente ridusse i danni della chemioterapia e ora questa persona sta abbastanza bene. Piange con relativa facilità per piccole cose che le ricordano il suo passato di bambina dipendente e rifiutata, ma gioisce realmente per il fatto di essere la persona che è. Gianna non ha lavorato con me su alcuna "patologia psichica": ha capito cosa faceva ed ha sentito ed espresso i suoi vissuti da sempre temuti ed evitati. Ciò le ha dato la possibilità di cambiare la sua strategia di vita e di vivere per vivere anziché per non soffrire. La sua ridecisione è stata positiva non tanto sul piano del “benessere”, ma sul piano dell'essere con se stessa. Prima dell'analisi soffriva difensivamente e nelle sedute ha scoperto di poter “soffrire umanamente” e quindi di potersi fare compagnia in modi compassionevoli e rispettosi.
Di una cosa sono convinto: il lavoro analitico è, in linea di principio, più utile di qualsiasi lavoro psicoterapeutico, ma ci sono psicoterapeuti con capacità personali notevoli che ottengono risultati apprezzabili nonostante il loro orientamento teorico. Anche l’unico psicoterapeuta che mi ha aiutato a chiarire le mie difese credeva di fare psicoterapia come quelli con cui ho solo perso tempo. Le persone a volte fanno più di ciò che credono di fare. L’equivoco o il vizio o l’errore di fondo che caratterizza le concezioni psicoterapeutiche si riduce essenzialmente alla trascuratezza per le ragioni delle azioni. Se inconsciamente le persone organizzano la loro vita in modi irrazionali, dimostrano solo di essere spaventate, come nella loro infanzia, all’idea di gestire il dolore. L’analisi dell’irrazionalità conduce al dolore ed è quindi dolorosa. Conduce al pianto, che non rende le persone “sane”, ma consapevoli di poter affrontare gli aspetti dolorosi della loro vita. Il pianto non conduce nemmeno ad un generico “benessere”, perché gli esseri umani non hanno l’opzione di “stare bene o stare male”, ma solo quella di vivere intensamente (nella gioia e nel dolore), oppure di vivere “poco”.