lunedì 16 luglio 2018

28. Persone, intenzioni e cause







Anche se in alcuni casi la psicoterapia si occupa delle intenzioni delle persone (cfr. Schafer 1976 e 1978; Scano–Mastroianni-Cadeddu, 1995; Scano, 2015), in genere tratta i disturbi psicologici come effetti di determinate cause (attuali o “antiche”, “intrapsichiche”, famigliari o sociali) e mira ad eliminare o ridimensionare tali disturbi attuando interventi intesi come terapeutici. Il lavoro analitico, invece, considera i disturbi psicologici come aspetti particolari di una più ampia intenzionalità difensiva. Ho già sottolineato nei primi capitoli che non intendo contrapporre una “intenzionalità dell’anima” ad una “causalità del cervello”, dato che i processi intenzionali possono anche essere ridotti, sul piano teorico, a complesse catene causali (cfr. E. Nagel, 1957) e dato che le convinzioni metafisiche (materialiste o spiritualiste) non sono rilevanti per la questione dell’intenzionalità delle difese psicologiche e delle azioni in generale. La mia opposizione agli approcci causali nello studio del comportamento umano è, quindi, di tipo metodologico e sicuramente non metafisico. In pratica, gli psicoterapeuti concepiscono i loro “pazienti” come “affetti da una patologia” a sua volta causata da qualche fattore determinante, per arrivare a chiedersi cosa possano fare (di “terapeutico”) per contrastare le cause della patologia e causare una “guarigione”. Nell’approccio analitico, invece, le persone sono concepite come soggetti che si propongono di esprimere le loro potenzialità oppure di evitare il contatto con il dolore.
Prima di approfondire il mio esame critico della psicoterapia, voglio aprire una parentesi per sottolineare due aspetti della psicoterapia che sarebbe ingiusto non apprezzare. Il primo aspetto è costituito dal fatto che alcuni psicoterapeuti fanno più di ciò che le loro teorie prevedono. Ad esempio, certe sedute di Irvin Yalom (cfr. Yalom,1989 e Yalom-Elkin 1974) o di Joseph Glenmullen (1993) o di Sheldon B. Kopp (1972) costituiscono degli esempi illuminanti di una corretta analisi di complesse difese psicologiche e di una sentita elaborazione di vissuti non integrati. Sono “più” di ciò che le concezioni psicoterapeutiche degli autori giustificano. Ciò significa che la mia critica della psicoterapia è rivolta alle concezioni delle varie Scuole di psicoterapia e non riguarda indiscriminatamente i professionisti del settore.
Il secondo aspetto della psicoterapia che merita un apprezzamento incondizionato è costituito dal ruolo che possono svolgere alcune “terapie brevi” in situazioni di emergenza. Infatti, pur essendo convinto della validità del lavoro analitico, riconosco che richiede tempo e il tempo a volte manca. Anche se il lavoro analitico può produrre miglioramenti in tempi brevi, tale lavoro non merita di essere interrotto dopo tali miglioramenti. Quando i clienti interrompono l’analisi appena “stanno meglio”, si precludono sia la possibilità di raggiungere obiettivi ulteriori, sia la possibilità di stabilizzare quelli già raggiunti. Dunque, in ogni caso, il lavoro analitico richiede tempo. Ora, sia nelle circostanze in cui le persone manifestano sintomi di una certa gravità, sia nelle circostanze in cui pochi psicoterapeuti devono “fare qualcosa” per un numero eccessivo di “utenti” del servizio pubblico e devono aiutare persone che si aspettano “poco e subito”, credo che i protocolli di lavoro fissati nel quadro concettuale di approcci come l’EMDR (cfr. Shapiro, 1995; Shapiro-Forrest, 1997; Greenwald, 1999), la PNL (cfr. Bandler-Grinder, 1975 e 1979; Lankton, 1980), le “terapie relazionali” (cfr. Watzlawick e AA.VV, 1967; Watzlawick-Weakland, 1976), possano costituire l’unica risposta praticabile. Una risposta che (se tradotta in interventi ben attuati) mira a risultati minimi, ma accettabili. Io stesso, nei (rari) casi in cui un cliente attiva difese molto forti e preoccupanti, non impiego la mezz’ora che mi resta per “impostare un lavoro approfondito”, ma penso prima di tutto a fare qualcosa che permetta a quella persona di uscire dallo studio senza restare confusa per una settimana. Tuttavia, nelle situazioni non d’emergenza, offrire “poco” costituisce lo spreco di un’occasione. In molti casi ho dato veramente poco ai miei clienti, ma per limiti miei, non per l’adesione ad una concezione che contemplava solo obiettivi limitati.
L’idea che le persone costruiscano, giorno dopo giorno, la loro esistenza “spinte” da pulsioni, complessi, meccanismi, blocchi e sintomi non va criticata sul piano speculativo, ma sul piano pratico in quanto distoglie dalle domande che possono produrre dei cambiamenti. In linea di principio, non vedo perché la particolare sintonia emotiva che proviamo con una certa persona non possa essere l’esito ultimo di processi che avvengono nel cervello, e non vedo nemmeno perché non possa essere l’esito di esperienze già fatte in un’eventuale vita precedente. Tuttavia, tali ipotesi (difficili da dimostrare) sono irrilevanti nel lavoro analitico come quelle (fantasiose) sui “complessi” o sui “meccanismi psichici”. Il futuro ci viene incontro divorando i nostri attimi e trasformandoli in ricordi di un passato già scomparso e in questa temporalità facciamo continuamente delle scelte, con o senza consapevolezza, che determinano la qualità del nostro futuro. In ogni istante costruiamo intimità o mettiamo delle distanze, creiamo gioia o frustrazione negli altri, compiamo azioni che saremo felici di aver compiuto o che ci sembreranno errori. L’idea “psicoterapeutica” che solo i comportamenti insoliti siano sintomi e che dipendano da cause particolari da contrastare con processi causali “terapeutici” è un’idea che, di fatto, consolida la tendenza a vivere “poco”.
In psicoterapia, il consumismo non è interessante, perché è normale, mentre lo shopping compulsivo è anormale e quindi deve essere causato da un trauma, da una pulsione orale o dallo stress. Questa spiegazione causale consente agli psicoterapeuti di definire dei protocolli di lavoro adatti a rimuovere le cause del sintomo e adatti, quindi, ad eliminare la sofferenza prodotta dal sintomo (sensi di colpa e ansia per il conto corrente sempre in rosso). Tale spiegazione è però errata, perché, anche nei casi in cui si traduce in interventi che ridimensionano il sintomo, blocca qualsiasi consapevolezza del fatto che chi passa il tempo libero a comprare cose inutili (o a guardare in TV programmi stupidi o a leggere un libro “che hanno letto tutti” o a ricattare affettivamente i figli), non ha la più pallida idea delle ragioni per cui compie certe azioni e non sa proprio perché sta costruendo una storia personale “povera”. Vedo ogni giorno uno scarto terrificante fra il modo in cui le persone vivono e il modo in cui le persone potrebbero vivere e questo mi porta a dare molta importanza alle ragioni per cui le persone sono così ostinate a nascondere la loro bellezza e a costruire esistenze orribili. Lavorando sulle mie difese psicologiche e su quelle dei miei clienti, ho visto, in tanti anni che solo la paura di “sentire troppo” (cioè di accettare il dolore dell’esistenza) affascina le persone più della possibilità di costruire una vita realmente vissuta.
Questa attenzione all’intenzionalità espressiva o difensiva delle persone, mi porta a spiegare le azioni individuali al livello d’analisi della persona intesa nella sua totalità e non ad altri livelli d’analisi (intrapsichico o interpersonale). Cercando cause di particolari azioni, la psicoterapia non prende in considerazione la persona-che-agisce-e-costruisce-il proprio-futuro, ma i meccanismi “interni” o i processi “esterni” che “causano” certi comportamenti. Da qui si originano tutte le speculazioni sul cosiddetto “apparato psichico” o sulle “strutture” relazionali. Gli interventi della psicoterapia sono concepiti come fattori “contro-causali” adatti a contrastare le cause (interne o esterne) di cui il “paziente” sarebbe vittima. Il lavoro analitico mira, invece, solo a chiarire le ragioni delle scelte personali e a favorire il contatto emotivo con le emozioni temute. L’intreccio fra livello d’analisi “impersonale”, logica causale e interventi “terapeutici” è strettissimo nella psicoterapia e conduce la psicoterapia ad una frantumazione in Scuole, perché le cause ipotizzabile per le azioni sono infinite e gli interventi terapeutici possono pure essere infiniti. Nel lavoro analitico, invece, tale frantumazione è impossibile, perché l’analisi riguarda ciò che le persone fanno e perché in analisi qualsiasi tecnica o intervento può essere utilizzato, se rispettoso dei clienti, per chiarire le strategie difensive (non per “far star meglio” le persone). Ciò esclude, quindi, qualsiasi polemica sulle “vere cause” e sulle “terapie più efficaci”.
Negli anni ho fatto molti colloqui con persone (anche psicoterapeuti) che avevano “scavato” a fondo sulla loro infanzia: sapevano tutto sui rifiuti subiti dai loro genitori, grazie alle sedute svolte in passato, ma non avevano la più pallida idea del motivo per cui fossero così inclini a svalutare gli altri o ad essere competitive o timide. Avevano “lavorato” inutilmente sui fatti della loro storia, ma avevano schivato il lavoro scomodo sul loro modo di reagire difensivamente agli eventi della loro storia. La ricerca delle cause delle azioni non è ingiustificata e dannosa solo in psicoterapia, ma anche nelle normali relazioni quotidiane. Dire che una ragazzo corteggia una ragazza a causa della “pulsione sessuale” trascura il fatto che quella ragazza piace a molti ragazzi pieni di ormoni, ma solo lui la corteggia con tanto impegno. Il causalismo basato su presunti “deficit è pure improponibile. Dire che una persona “ha poca empatia” non spiega come mai tale persona sia crudele con i suoi simili, ma sia anche molto disponibile nei confronti degli animali. Dire che una persona “ha poca pazienza” cozza con il fatto che quando sembra “difettare” di pazienza (o “è impaziente”) in realtà sta facendo molte cose: ad esempio, pensa e ripensa a quanto sia “inaccettabile” il comportamento di chi è in ritardo. Il causalismo basato “sul passato” è molto affascinante, ma è comunque improponibile: dire che X è un delinquente perché i genitori lo picchiavano equivale ad ignorare che Y è una persona molto disponibile verso gli altri anche se i genitori lo picchiavano. Lo stesso vale per il “causalismo educativo: dire che X è onesto perché è stato educato con principi religiosi equivale ad ignorare che Y è un delinquente pur essendo stato educato con principi religiosi. Anche il “causalismo sociologico non è sostenibile: dire che X è nervoso a causa dello “stress” trascura il fatto che si sentono molto “stressate” persone che svolgono dei lavori decisamente “comodi”, mentre altre persone impegnate in lavori di grande responsabilità alla fine della loro giornata si sentono stanche, ma non “stressate”. Il causalismo delle chiacchiere quotidiane è banale, ma è inquietante soprattutto quello intellettualizzato di tipo psicologico.
Le persone subiscono sicuramente influenze di tutti i tipi che non sono però determinanti, perché le azioni delle persone sono determinate proprio dalle persone, cioè dagli obiettivi che le persone vogliono raggiungere. Ogni persona ha un passato, ma agisce in base a ciò che ha fatto del proprio passato e quindi in base a ciò che si propone di realizzare. Le persone sperimentano in modo unico esperienze condivise con altri (nella stessa famiglia, nella stessa scuola, nella stessa società). In ogni momento sentono desideri, ottengono risposte a tali desideri, reagiscono a tali risposte e quindi costruiscono modi di pensare, sentire, agire. In questa complessa e unica fucina in cui si fondono desideri, esperienze, convinzioni ed emozioni, è assurdo isolare un singolo comportamento, considerarlo l’effetto di un particolare fattore causale e “curarlo” come un elettricista riannoda un filo che non faceva più contatto. Purtroppo, nelle riviste specializzate si esaminano molti sintomi psicologici come se fossero “qualcosa” da trattare “in un certo modo”: qualcosa che ha cause precise e che non emerge da un complessivo modo di vivere.
Una cliente mi ha raccontato, nel corso del colloquio iniziale, di “essere ipocondriaca” e di aver molto sofferto per l’indifferenza della madre nei confronti delle sue “malattie immaginarie”. Le ho risposto: “Lei è una ragazza con occhi e capelli di un certo colore, ma non può essere ipocondriaca, perché quando si sente ipocondriaca non si sta guardando allo specchio, ma sta facendo certe cose e non altre; sta pensando a possibili malattie anziché alla moda autunno o alla filosofia di Hegel”. Le ho poi fatto notare che non mi stava descrivendo l’indifferenza dei genitori nei suoi confronti come qualcosa di “dato”, ma come qualcosa di “ingiustificabile”. Mi ha confermato che non accettava quell’indifferenza, soprattutto da parte della madre. Allora le ho ricordato che quell’indifferenza, per quanto spiacevole era un fatto. Mi ha risposto con vari “sì, ma …” e allora le ho chiesto di ripetere la descrizione di tale fatto assodato e presumibilmente immodificabile, per vedere come si sarebbe sentita descrivendo la realtà senza attivare svalutazioni. Pronunciando le parole “non sono mai stata importante per mia madre” si è sciolta in un pianto dolce e profondo, almeno per un po’. Ho poi sottolineato che stava provando ad accettare una cosa mai accettata, ma reale e definitiva. Se avessi cercato di curare la sua “patologia ipocondriaca” mi sarei perso nel suo “mondo”. Altre persone combattono altri fatti in altri modi e solo con molta fantasia possono essere considerate “affette” da altre patologie. I pazienti dei medici possono guarire senza capire e senza decidere nulla se i medici applicano le terapie giuste, ma ciò non vale per le persone che attivano delle difese psicologiche. Queste persone non possono “guarire”, ma possono solo capire ciò che fanno, capire perché lo fanno ed eventualmente decidere di affrontare i loro incubi, cambiare e iniziare a fare altre cose e a vivere in un altro modo.
In realtà, le idee che sto esponendo non sono sorte nella mia mente dal nulla. Anche se sono estranee alle più note correnti della psicoterapia contemporanea, rientrano in alcuni filoni secondari della tradizione filosofica ed anche psicoterapeutica. Mary McClure Goulding e Robert L. Goulding, hanno approfondito l’Analisi Transazionale elaborando una “terapia ridecisionale” (1979) che, pur formulata in un quadro concettuale psico-“terapeutico”, sottolinea l’idea che io ribadisco, secondo cui alle persone serve un aiuto che permetta a loro stesse di modificare il loro progetto di vita. Anche la mia scelta di analizzare le difese psicologiche al livello d’analisi della persona e quindi non al livello d’analisi delle sue parti o meccanismi, o al livello d’analisi interpersonale, ricalca sia le teorizzazioni psicoterapeutiche di Roy Schafer (1976), sia le riflessioni filosofiche di Peter F. Strawson (1959). Condivido, infatti l’idea di Strawson che proprio al livello d’analisi dell’intera persona sia opportuno formulare spiegazioni relative alle convinzioni, ai sentimenti ed ai comportamenti. A tale proposito egli fa alcune considerazioni molto convincenti: "Noi parliamo dell'agire in modo depresso (o di comportamento depresso) ed anche del sentirsi depressi (o di sentimento della depressione). Si è inclini a concludere che quel sentimento può essere sperimentato ma non osservato e che quel comportamento può essere osservato ma non sperimentato (...). Ma forse è meglio dire: la depressione di X è qualcosa ed è la stessa cosa che è sperimentata ma non osservata da X e osservata ma non sperimentata dagli altri" (1959, p.108-109). In altre parole non consideriamo le emozioni né come dati collocabili su un piano “mentale”, né come aspetti riducibili al corpo o al comportamento, ma consideriamo le emozioni come aspetti (o azioni) della persona (collocabili quindi teoricamente al livello d’analisi dell’intera persona) che risultano osservabili e descrivibili sia introspettivamente, sia fisicamente, sia sul piano comportamentale, sia su quello relazionale.
I testi di psicologia includono molte pagine nelle quali compaiono concetti a mio parere del tutto inutili (“Io”, “Sé”, “identità”, “mente”, ecc.) che frantumano il concetto di persona in un insieme di strutture a cui non faccio mai riferimento. Sono infatti convinto della validità di alcune affermazioni di Roy Schafer: "Anche se è lecito usare come sinonimi Sé e persona, negli enunciati sistematici è consigliabile l'uso di un solo termine. Questo termine dovrebbe essere il più diretto e inequivoco, quello che nella sua normale accezione più si avvicina all'idea di azione. Questo termine è persona. Né Sé, né identità, né Io, ma persona. Il Sé e l'identità sono azioni rappresentative della persona; l'Io, spogliato delle sue bardature meccanicistiche è la classe delle azioni o delle modalità delle azioni o degli aspetti di queste, che la persona compie" (1978, pp. 63-64). In altre parole, "E` la persona quella che agisce in maniera conflittuale, non i processi mentali" (1978, p. 123). Anche secondo Muzafer Sherif, "L'unità di analisi in psicologia sociale, come in tutta la psicologia, è quindi l'individuo, solo o partecipante a relazioni interpersonali" (1967, p. 71). Credo quindi che per le considerazioni teoriche sul lavoro analitico, la persona costituisca l'unità di analisi più ragionevole, anche se in psicoterapia tale opzione è in genere scartata.
Se rinunciamo a pensare che le persone “abbiano” una “mente”, un “Io”, un “Sé”, un “inconscio” e se non torniamo a pensare che le persone “abbiano” uno “spirito” o “un’anima” o una “coscienza morale” possiamo esaminare senza pesanti fardelli concettuali il problema riguardante le vere ragioni per cui fanno ciò che fanno. Io uso normalmente solo il concetto di coscienza, ma senza riferirmi a una “cosa”, magari collocata “dentro di noi”. Con tale termine indico solo l’esperienza di agire sapendo di agire. Una lepre vede un cane e scappa. E’ cosciente del cane, ma non di essere cosciente di qualcosa. In pratica, scappa e basta. Noi sappiamo di vedere ciò che vediamo, sappiamo di reagire in un certo modo a ciò che abbiamo visto e sappiamo in qualche misura anche di avere qualche obiettivo se agiamo in quel modo. Le nostre azioni non sono “azioni e basta”, perché sono le nostre azioni e dipendono dalla nostra idea di essere noi stessi, di poter agire e di poter costruire la nostra storia. Quindi, compiamo delle azioni per delle ragioni che non vanno intese come il risultato meccanico di ciò che fa una “cosa” chiamata “coscienza”. Non uso nemmeno il concetto di “inconscio”. Qualifico con l’aggettivo “inconscio” o “conscio” un pensiero o un desiderio o uno stato d’animo, ma non ipotizzo mai una sorta di “scatola” contenente delle “cose”, inconsce o consce.
La psicoterapia, imitando il modello di spiegazione della medicina deve concepire le “patologie” psichiche come effetti di cause specifiche (di tutti i tipi e anche poste, a seconda delle varie Scuole, a vari livelli d’analisi) e deve concepire tali patologie come deviazioni dallo normalità osservabile o almeno dalla normalità culturalmente definita. Le varie Scuole di psicoterapia contemplano i casi in cui la rabbia è “eccessiva” o “troppo frequente”, ma non riconoscono in genere un fatto difficilmente contestabile: nei rapporti in cui si desidera affetto, la rabbia è sempre difensiva e irrazionale poiché l’affetto non è ottenibile con la forza, dato che è un”dono” di chi ama. La rabbia può essere razionale nei confronti degli estranei quando “le buone non bastano” e “solo con le cattive” si può ottenere qualcosa o rifiutare qualcosa (sul piano puramente pratico), ma non può essere razionale fra amici, fra amanti, fra genitori e figli. Purtroppo, quando la conflittualità esiste, la rabbia può essere evitata solo in due modi: con l’autocontrollo (difficilmente attuabile) oppure con l’accettazione di una solitudine dolorosa e di una crisi nella relazione (superabile o irrimediabile) comunque dolorosa. La psicoterapia non può prescrivere l’autocontrollo perché non è una dottrina morale e non può prescrivere l’accettazione del dolore, dato che gli psicoterapeuti non sono nemmeno “formati” in tal senso e potrebbero anche non saper fare a piangere. Tale empasse è superata dalla psicoterapia con l’invenzione delle cause: nelle coppie la conflittualità rabbiosa non è intesa come una difesa intenzionalmente costruita, ma come un effetto dello stress, di traumi infantili o recenti o di deficit comunicativi. Quindi, gli psicoterapeuti possono sentirsi utili favorendo il rilassamento o scovando ferite dovute alla mamma o al papà o facendo interventi” psicoeducativi”.
Se e nella misura in cui è presente una componente genetica nei più gravi disturbi psicologici, in tale misura c’è una reale patologia e in tali casi il lavoro analitico non può far molto, mentre una terapia medica (ad esempio farmacologica) può risultare utile. Di fatto è tutt’altro che chiaro in cosa consistano gli aspetti genetici dei disturbi psicologici, ed è altrettanto incerta l’efficacia dei farmaci (cfr. Migone, 2009). Tuttavia, la distinzione va fatta e conduce all’idea che i disturbi psicologici non costituiscono patologie e non possono, quindi, essere curati, ma analizzati e spiegati. Le persone non sanno (e soprattutto non vogliono sapere) perché agiscono quando agiscono irrazionalmente e anche se sono coscienti di ciò che fanno, spesso non sono coscienti delle ragioni per cui agiscono. Per chiarire ciò voglio riportare una seduta molto semplice, svolta con una persona che chiamerò Barbara. Da circa sei mesi stavamo cercando di lavorare su occasionali attacchi di panico, non paralizzanti ma disturbanti.
B. Dopo una discussione con mio marito sono uscita perché avevo un appuntamento di lavoro. Non ho sbattuto la porta, ma chiudendola ho sentito la voglia di sbatterla. In strada, però, non mi sono sentita “finalmente libera”, ma in preda a sensazioni sgradevoli di cui non avevo il controllo.
G. Non siamo sicuri di tale mancanza di controllo. Possiamo dire che hai provato sensazioni sgradevoli e che ti è sembrato di non poterle controllare.
B. Spacchi sempre il capello in quattro, ma va bene. A me sembrava di non avere il controllo. Mi sono seduta su una panchina e poi è passato tutto.
G. Su cosa avevi discusso con Antonio?
B. Sempre sulla questione della bambina. Lui è pratico, tecnico, operativo. Pensa che lei debba fare certe cose e non dialoga, come cerco di fare io.
G. Prova ad immaginare di essere qui con Antonio e immagina di dirgli “Devi dialogare con Lisa e devi smetterla di imporle dei compiti”.
B. (…) Fatto.
G. Cosa senti?
B. So di aver ragione, ma sento tensione, come quando ho pensato di sbattere la porta.
G. Ora immagina di dirgli “Io desidero un rapporto migliore fra te e Lisa, perché così saresti più vicino anche a me”.
B. Queste non sono parole mie!
G. Allora prova un copione nuovo! E’ solo un esperimento: non ti chiedo di essere convinta di ciò che dici.
B. … [Esita, poi mostra commozione. Trattiene le lacrime inizialmente e poi un po’ si lascia andare.]
G. Cosa è successo?
B. Pensavo a quelle parole. Non sono “mie”, ma mi fanno star male.
G. Forse ti fanno star male proprio perché sono tue. Tu parli abitualmente solo di ciò che non desideri o di ciò che è tuo diritto avere.
B. L’argomento non è nuovo. Da tempo mi fai notare che non chiedo, ma solo ora ho sentito quel dolore.
G. Ora sai perché non chiedi e perché ami tanto provare fastidio e hai voglia di sbattere le porte.
B. Forse c’entra con gli attacchi di panico?
G. Ci puoi giurare! Gli attacchi non “vengono”. Li attivi appena “esageri” nell’affermare insofferenza, “indipendenza”, rifiuto, per bloccare la consapevolezza di un bisogno insoddisfatto.
B. Ora capisco. Col panico faccio sabotaggio. Mi guasto la voglia di liberarmi.
G. Ti guasti la voglia di far finta di aver voglia di liberarti. Nel panico ti senti piccola e bisognosa. Ti senti come cerchi sempre di non sentirti. Lo fai con un sintomo perché non ti permetti di accettare il bisogno che senti.
B. Però nel bisogno c’è dolore.
G. A volte sì.
Le sedute non sono sempre così “lineari”. In realtà giravamo attorno all’argomento da tempo. Io raccoglievo dati e anche Barbara. In questa occasione Barbara era pronta a comprendere e sentire che ammettendo un desiderio rischia sempre di sentire dolore, mentre dichiarando un fastidio non sente nulla di particolare. Non solo: il panico la riporta al desiderio, ma l’operazione si svolge a livello sintomatico: “non ce la fa” a reggersi in piedi e quindi esprime un bisogno di sostegno, come i bambini, ma con la scusa di un disturbo clinicamente diagnosticabile. Produce il sintomo dopo aver esagerato nel dichiararsi indipendente e infastidita. Ora, Antonio è davvero spesso insopportabile, ma per Barbara non è un estraneo. Lei conosce anche i lati migliori di questa persona e desidera una buona intimità con lui e, quando lui si dissocia, lei soffre. Se consideriamo anche il fatto che Barbara fin da piccola ha cercato di non chiedere per non sentirsi svalutata come “capricciosa” (anche se non lo era), possiamo collegare storia personale, atteggiamenti caratteriali, comportamenti e sintomi in un ordine storico-psicologico anziché in un ordine causale. In altre parole, da bambina si è dissociata dai desideri focalizzandosi su ciò che non voleva dagli altri o su ciò che poteva gestire da sola o poteva pretendere. Nei momenti critici in cui con tale atteggiamento rischia di spezzare il legame con una persona significativa, lei attiva il panico per tornare “piccola e bisognosa” almeno su un piano pseudo-clinico. Non a caso, aveva anche sviluppato delle allergie che in seguito si sono attenuate.
L’allergia è un modo (“spostato” sul piano somatico) di “gridare il fastidio per qualcosa” allo scopo di nascondere sensazioni di bisogno. Le persone allergiche (soprattutto quelle anche asmatiche) evitano accuratamente di manifestare apertamente una dipendenza affettiva. Il sintomo fisico include anche micro-movimenti muscolari con i quali le persone “si protendono” e “si ritirano”, fino a irrigidirsi a livelli profondi e a compromettere la respirazione. Chi ha un attacco d’asma chiede “non statemi addosso, lasciatemi respirare!”, ma il modo più semplice di spezzare un attacco d’asma consiste proprio nell’abbracciare con molta forza la persona in difficoltà. Nel lavoro analitico preferisco, quando compare un attacco d’asma, chiedere al/alla cliente di fare varie prove: respingermi violentemente o abbracciarmi “violentemente”. Immancabilmente scoprono che l’asma persiste se mi respingono e cessa se mi abbracciano, cioè se chiedono un contatto. Poi, facilmente si lasciano andare al pianto. Faccio così perché il mio obiettivo non è far cessare un singolo attacco d'asma, ma far comprendere alla persona che riesce a produrre attacchi d'asma proprio per mantenersi dissociata da bisogni e desideri.
Non vedo la necessità di escludere fattori genetici (relativi al funzionamento del sistema nervoso) o ambientali (inquinamento, polveri sottili, ecc.), per i disturbi respiratori, ma sicuramente essi non sono causalmente rilevanti nei casi in cui il pianto sblocca la situazione. Lo stesso vale per i fattori “storici”: il rifiuto dei genitori non “causa” un sintomo specifico e in ogni caso è tanto lontano nel tempo da essere irrilevante. Il sintomo è comprensibile proprio come il risultato di ciò che una persona ha deciso di fare nel passato e continua a fare: nel presente. Barbara era costantemente impegnata a non chiedere e ad infastidirsi. Aveva in mente di non entrare in contatto con cose semplicissime, ma dolorose: sentiva il bisogno di una buona intimità adulta con Antonio e anche di una sua (impossibile) protezione/comprensione genitoriale. Il contatto adulto era ostacolato dal carattere rigido di Antonio e il contatto “rassicurante” era impossibile perché Barbara aveva quasi quarant’anni e non poteva più essere “protetta” come una bambina. Il suo desiderio, quindi, ad entrambi i livelli, era doloroso, come lo era stato nell’infanzia. L’unica buona notizia in questo disastro riguardava la possibilità, alla sua età, di accettare, elaborare ed anche superare in qualche misura il dolore antico e recente. Ora mi chiedo se sia ragionevole affermare che Barbara fosse “affetta” da una patologia che io “ho curato”. Per fare questa affermazione dovrei deresponsabilizzare Barbara e trasformarla in una povera bambina che è stata poco amata e si è debilitata psichicamente fino a diventare “soggetta” a sintomi disturbanti. E come posso averla “curata”? Forse fornendo “ascolto”, “accoglienza”, “holding” e aiutandola ad esprimersi fino a farla sentire al sicuro e poi più stabile e autonoma. L’ipotesi è insostenibile, poiché Barbara aveva mantenuto il suo “malessere” per mesi, nonostante la mia “accettazione” e si è sentita meglio solo quando ha toccato quel dolore, lo ha capito e lo ha espresso. A nessuno oggi racconterebbe di essere stata guarita dai miei “interventi” o dal mio “calore umano”, semplicemente perché sa benissimo di aver cambiato il proprio modo di gestire le emozioni e di interagire con le persone.
Gli psicoterapeuti più scrupolosi non si limitano a studiare le “cause” delle “patologie psichiche”, ma cercano anche di dimostrare l’efficacia di specifici processi terapeutici. Nel lavoro analitico la domanda sull’efficacia delle sedute non ha senso, dato che i clienti cambiano consapevolmente il loro modo di vivere perché hanno chiarito certe cose, hanno accettato dei vissuti dolorosi e hanno quindi percepito come “false” e superflue le consuete modalità di comunicazione e di espressione. Poiché in psicoterapia il terapeuta non cerca di chiarire le strategie difensive attuate dalla persona che ha chiesto aiuto, ma cerca di intervenire sui suoi disturbi concepiti come patologie, e poiché le varie scuole di psicoterapia dissentono sia nell’individuazione delle “cause”, sia nella scelta delle “terapie”, il problema della “efficacia” delle varie psicoterapie ha tormentato e tormenta ancora i professionisti del settore. All’inizio degli anni ’50 Hans J. Eysenck criticò la psicoanalisi e la psicoterapia in generale sostenendo che i “miglioramenti” ottenuti non erano dimostrabili e, se si verificavano, non erano altro che blande forme di “remissione spontanea” dovute al passare del tempo o ad una sorta di effetto placebo. Da una nota ricerca di Smith, Glass e Miller del 1980 sugli esiti di vari procedimenti psicoterapeutici risultò invece che la psicoterapia produceva effettivamente alcuni risultati, ma che tali risultati erano ottenuti da tutti gli approcci psicoterapeutici. In pratica, risultò che, per quanto inconciliabili teoricamente, i vari approcci psicoterapeutici producevano risultati simili (cfr. Migone, 1994). Tale esito fu paragonato al “verdetto del Dodo” (dal libro di Lewis Carroll Alice nel paese delle meraviglie, p. 87): “Tutti hanno vinto e tutti meritano un premio”.
Queste ricerche hanno generato un acceso dibattito relativo ai motivi per cui certi “fattori aspecifici” (come il rapporto paziente-terapeuta) potessero risultare più “terapeutici” dei fattori concepiti come “efficaci” dalle diverse teorie psicoterapeutiche. A mio parere i risultati di quelle ricerche confermano semplicemente lo scetticismo di Eysenk: i risultati delle varie psico-“terapie” sono modesti e nei casi migliori bloccano un sintomo e, proprio essendo così modesti, possono essere indotti da un po’ di attenzione (facilmente percepita come accudimento). In altre parole, poiché qualsiasi psicoterapia non può incidere su patologie inesistenti, qualsiasi psicoterapia, includendo attenzione, rispetto e disponibilità umana, può alleviare lievi stati di tensione, depressione, ansia, e così via. L’idea che certi fattori “aspecifici” come l’empatia, l’accettazione, l’invito a riesaminare la storia personale e cose del genere “funzionino come una cura” mi sembra davvero inconcepibile, sia perché anche amici, sacerdoti, parenti, insegnanti a volte offrono calore e comprensione alle persone in difficoltà, senza con ciò pretendere di curarle, sia perché i sintomi rientrano in strategie difensive che solo le persone stesse possono cambiare, a condizione di essere aiutate a capire cosa fanno per “star male”.
Se la psicoterapia non tenta nemmeno di favorire dei cambiamenti profondi, il lavoro analitico ha proprio tale obiettivo, ma, purtroppo, non lo realizza facilmente. Non so se esistano fattori “generali” che rendono il lavoro analitico “necessariamente incompiuto”, ma nel lavoro analitico svolto in tanti anni, ho riscontrato una tendenza dei miei clienti che ha sempre limitato i risultati del lavoro svolto. I miei limiti e i miei errori (sempre troppi) hanno purtroppo avuto un loro peso, ma nei clienti riscontro normalmente un atteggiamento di fondo che ostacola i cambiamenti anche quando io lavoro “al meglio”. Tale atteggiamento produce sia percorsi molto più lunghi del necessario, sia l’interruzione del lavoro quando qualche miglioramento è stato ottenuto. Tale atteggiamento mi sembra una sorta di attaccamento ostinato non a specifiche difese, ma all’intero “mondo soggettivo” che le include. Le persone vivono nel mondo reale, oggettivo, ma vivono anche in un “mondo soggettivo” che è quasi sempre una sorta di fotografia “comoda” della realtà oggettiva. Una fotografia comoda, ma poco realistica, fatta di micro-pregiudizi e abitudini. Aggrappate al loro “mondo soggettivo”, le persone fanno davvero fatica ad immaginare che la vita possa essere “molto più grande” di quella che hanno in mente. Con ciò non sto dicendo nulla di nuovo, perché questa “esitazione di fondo” ad attuare dei cambiamenti non è altro che il “collante” delle varie difese psicologiche e sto solo riformulando con altre parole ciò che ho già detto sul bisogno e sulla paura di cambiare. Tuttavia, la comprensione di questi fatti conduce ad un’ulteriore riflessione: la psicoterapia, proponendosi in partenza degli obiettivi limitati, rende ancora più difficili quei cambiamenti profondi che le persone temono, ma che hanno bisogno di realizzare.
Focalizzandosi su cause, diagnosi e interventi, la psicoterapia non mira a favorire nei clienti la comprensione dell’intenzionalità difensiva, l’elaborazione del dolore e l’esperienza della compassione per sé. Non a caso, il termine “compassione” compare raramente nei libri di psicoterapia. Per questo, con sorpresa e gioia ho notato in libreria un testo intitolato La terapia focalizzata sulla compassione. Nonostante l’orribile accostamento fra il concetto di “terapia” e quello di “compassione”, mi sono detto: “Forse qualcosa si muove”. E ho acquistato il libro. La mia gioia è stata però breve. Paul Gilbert è l’autore del testo in questione (2010) che ricapitola i concetti di un preciso indirizzo psicoterapeutico, collegato addirittura ad una Fondazione (la Compassionate Mind Foundation). Secondo Gilbert “Sviluppare la compassione per sé e per gli altri” è un modo per “incrementare il benessere” (p. 11). L’approccio “terapeutico” in questione è una derivazione della terapia cognitivo-comportamentale (TCC) e quindi di un indirizzo psicoterapeutico molto attento ai modi di pensare delle persone ed agli effetti delle convinzioni sul comportamento, ma anche poco attento alle strategie difensive. Gilbert sottolinea che gli esercizi di immaginazione compassionevole avevano effetti positivi su un indicatore del funzionamento immunitario mentre quelli centrati sulla rabbia producevano effetti negativi su tale indicatore. Queste osservazioni mostrano che tutta la teoria in questione si riduce alla “scoperta” del fatto che i pensieri hanno effetti sulla condizione fisica e che i pensieri compassionevoli hanno effetti preferibili a quelli dei pensieri rabbiosi. Nello stesso quadro concettuale, potremmo fare accurate ricerche “evidence based” e dimostrare che i maschi, dopo aver sfogliato Playboy hanno reazioni fisiologiche diverse da un gruppo a cui sono stati “somministrati” filmati sulla coltivazione dell’insalata. Fare certe scoperte non è davvero difficile, ma da tali “scoperte” si possono trarre delle conseguenze operative (anzi, “terapeutiche”) a mio parere preoccupanti. Tutta la TFC, in pratica, si riduce ad esercizi di simulazione. In vari modi, i terapeuti sollecitano i loro “pazienti” ad impegnarsi nello sviluppo di fantasie compassionevoli, nella produzione di immagini mentali compassionevoli e nell’attuazione di dialoghi immaginari compassionevoli. Poi notano che i clienti stanno un po’ meglio e concludono di averli curati. Tale ragionamento è simile a quello “popolare” secondo il quale dopo un grappino o due “ci si sente meglio”. Le persone che “si sentono giù” e accendono la radio o guardano in TV Stanlio e Olio, non pensano probabilmente di aver inventato una nuova “terapia”, ma fanno proprio ciò che io suggerisco ai miei clienti di non fare mai: suggerisco di non distrarsi, di non “pensare positivo” e, anzi, li invito a concentrarsi, appena “sfiorano un sintomo”, su ciò che vorrebbero e che non possono avere, in modo da “recuperare” il dolore da cui si dissociano. In tal modo non fanno alcuna “terapia”, ma si dicono la verità, provano tristezza, piangono e dopo si ritrovano “in contatto con se stessi” e non in un artificiale stato di “benessere”. La consapevolezza di sé genera compassione per gli altri, ma le simulazioni della compassione possono solo indurre modificazioni superficiali dello stato d’animo.
La tendenza a far “sentire bene” le persone è più radicata e diffusa di quanto comunemente si ammetta. Il genitore che cerca di consolare il figlio dicendogli “non è niente, non piangere” sta invitando (per evitare un proprio disagio e non certo per amore) il figlio a “mettere da parte” ciò che sente. Se il bambino piange, ciò che è accaduto è “qualcosa” e non può essere “niente”. La premura del genitore è quindi in realtà un’ingiunzione a dissociarsi e a provare un benessere che “non gli appartiene”. Per questo motivo la frase “mi dispiace, ti sono vicino” è di conforto, mentre la frase “non è niente, non piangere” costituisce semplicemente una violenza. In moltissime situazioni le persone, in piena incoscienza e con le migliori intenzioni, esercitano tale normale violenza. Le espressioni “non ti preoccupare”, “vedrai che tutto passa”, “la vita continua”, “c’è chi sta peggio”, “cerca di vedere il lato positivo”, sono un misto di banalità e brutalità. Le espressioni “devi essere forte”, “puoi farcela”, possono anche essere un ragionevole invito a prendere in considerazione delle risorse disponibili, ma, in genere, sono solo versioni meno rozze delle frasi precedenti. Se è razionale utilizzare un analgesico per attenuare un dolore fisico incurabile è del tutto irrazionale qualsiasi analgesico psicologico per stati d’animo spiacevoli costruiti difensivamente dalle persone per coprire reali sofferenze. Non vedo nulla di buono né nei ragazzi che “si sparano nelle orecchie” a tutto volume della musica-spazzatura per “tirarsi su”, né nelle persone che ascoltano delle musiche orientaleggianti annusando incensini per sentirsi “più spirituali”. L’unico merito di queste persone è che, pur facendo cose “strane”, non pretendono di aver inventato un nuovo approccio psicoterapeutico.
In psicoterapia, la logica causale distoglie l’attenzione dal fatto che le persone sono disposte a sentire tutto tranne il dolore. Le persone sono anche disposte a stare malissimo, a provare rabbia, paura, rancore, invidia, gelosia, depressione, competitività, distacco emotivo, confusione, sensi di colpa, pur di non accettare che desiderano qualcosa e che quella cosa non è possibile. Anche se il lavoro analitico sull’intenzionalità difensiva e sui vissuti non integrati è difficile e non raggiunge sempre risultati soddisfacenti, ha come obiettivo proprio quel cambiamento che la psicoterapia ostacola deresponsabilizzando le persone e colludendo con la loro aspirazione a “star meglio” continuando a vivere “poco”.