Nel
funzionamento degli organi del corpo le potenzialità coincidono con la normalità e quindi ha senso definire “sano” un
rene normale. Sul piano psicologico, però, lo
scarto fra potenzialità personali e normalità osservabile è notevole. Gli
esseri umani sono meravigliosi da bambini, prima di diventare bambini
insopportabili e sono meravigliosi anche da adulti, ma solo negli ambiti e nei
momenti in cui si sentono abbastanza al sicuro da non attivare forme
irrazionali di ansia e di rabbia oppure pretese o illusioni incomprensibili. Purtroppo,
normalmente gli esseri umani chiacchierano evitando di parlare, compiono azioni
prevedibili e non creative, si frequentano per “distrarsi” e si associano più
per distruggere che per costruire. Non c’è compassione, né amore, né genuina
curiosità, né passione, né bellezza nei genitori che tormentano i figli
affinché si dimostrino “buoni”, nei manager che incitano i venditori a vendere
più prodotti inutili, negli allenatori che svalutano i ragazzi che non sono
abbastanza competitivi, nel pubblico che assiste ad un incontro di pugilato o
ad una sfilata di alta moda, nelle masse che vanno in pellegrinaggio in una
“città santa” (come se dio avesse manie turistiche). Non c’è alcuna espressione
delle potenzialità umane nella logica del capitalismo, nelle guerre fra Stati e
nei capitoli più odiosi delle più ragionevoli rivoluzioni sociali, non a caso,
sempre fallite.
La
normale indifferenza, il normale conformismo, le normali svalutazioni, i
normali sensi di colpa, i normali ricatti affettivi, i normali entusiasmi per
la “appartenenza” all’ultimo club ideologizzato, i normali vittimismi,
dovrebbero costituire il principale cruccio di chi si dedica ai disturbi
psicologici. Purtroppo, gli specialisti del settore si occupano di sintomi
circoscritti, ma trascurano i sintomi diffusi, divenuti pilastri della
convivenza civile. Il peso schiacciante della normale irrazionalità individuale
e sociale sollecita interrogativi tragicamente appassionanti e costringe a risposte
complesse e non rassicuranti, mentre la preoccupazione per isolate anomalie
comportamentali consente di inventare cause specifiche e addirittura cause
bizzarre (il complesso edipico o “lo stress”) e di predisporre “terapie”
altrettanto specifiche (“rilassanti”, “psicoeducative”, “riparative” o
“correttive”). Le concezioni psicoterapeutiche, oltre a trascurare le ragioni
per cui le persone costruiscono i
loro sintomi individuali, sono teoricamente troppo deboli per spiegare fenomeni
psicologici radicati nella normalità sociale come la competizione, l’avidità,
il conformismo, il senso di solitudine sperimentato da tanti adulti e il
bisogno endemico di contrapporre l’idea di “noi” a qualche idea di “loro”. Tale
debolezza ha reso la psicoterapia, nella sua breve storia, una concezione
inadatta a formulare riflessioni critiche sulla normale convivenza sociale. Su
questo piano, più culturale che “clinico”, la psicoterapia ha fatto anche delle
svolte, ma sempre “a rimorchio” dei progressi già consolidati nella società.
Nel
dopoguerra furono pubblicate interessanti ricerche sulla personalità
autoritaria e su schemi di pensiero di tipo autoritario (cfr. T. W. Adorno,
1950), ma il fascismo era già stato sconfitto dai soldati e dai partigiani.
Wilhelm Reich aveva da tempo (nel 1933) pubblicato Psicologia di massa del
fascismo, ma egli era uno psicoanalista abbastanza isolato e soprattutto
era comunista. Se alcune apprezzabili eccezioni ci furono, sicuramente la
psicologia e la psicoterapia non si posero all’avanguardia nella contestazione
“in tempo reale” dell’ideologia nazifascista, sebbene tale ideologia fosse un
esempio evidente di “follia di massa”. Anche negli Stati Uniti la popolazione
di colore ha conquistato il riconoscimento dei basilari diritti civili più per
le sollecitazioni di M. L. King e altri religiosi, militanti e intellettuali,
che per il contributo degli psicologi e degli psicoterapeuti. A cosa serve una disciplina
“scientifica” che comprende i fenomeni già compresi da tutti?
Le
donne hanno iniziato le loro battaglie ben prima dello sviluppo della
“psicologia scientifica” e della psicoterapia, ma queste discipline non hanno
certo dato un grande contributo “alla causa”. Anzi, la psicoanalisi, nel quadro
della sua fantasiosa concezione dello sviluppo psicosessuale ha attribuito alle
femmine una posizione subalterna caratterizzata dalla “invidia del pene”. Tutta
la costruzione freudiana è in senso lato speculativa più che specificamente
“maschilista”, ma il femminismo non ha certo fatto fatica a dimostrare (cfr.
Mitchell, 1974) che la psicoanalisi aveva confermato i pregiudizi sulla
femminilità anziché demistificarli. Da tempo sarebbe necessaria anche una riflessione psicologica
approfondita sui limiti e sugli errori
del femminismo, ma scarseggiano i contributi psicologici sul tema, dato che
oggi il femminismo è divenuto a sua volta un’ideologia consolidata. Allo stesso modo, oggi sono
praticamente assenti delle ricerche psicologiche sull’ostracismo crescente che
colpisce i fumatori, i consumatori di alcolici (che non sono necessariamente
alcolizzati), gli automobilisti e i proprietari di animali, ma prima che la
“cultura del controllo” si affermasse, gli psicoterapeuti non attaccavano il
“tabagismo” che oggi trattano con preoccupazione.
Il
conformismo ideologico della psicoterapia ha conseguenze devastanti soprattutto
sulla socializzazione infantile. Poiché nessun gruppo ideologizzato contesta i
ricatti affettivi che i bambini subiscono in famiglia, l’indottrinamento
religioso dei bambini, il moralismo che permea la loro educazione e la
competizione che caratterizza la loro formazione scolastica, la psicoterapia
“non vede” questo dramma, come non ha “visto” la follia nazifascista, il
razzismo, l’emarginazione delle donne e delle persone omosessuali. Se
esprimesse delle valutazioni critiche dovrebbe scontrarsi con il potere
religioso e le ideologie socialmente più influenti. Eppure l’indottrinamento
religioso dei bambini negli anni in cui le loro capacità critiche non sono
ancora sviluppate costituisce un grave maltrattamento e i ricatti affettivi
costringono i bambini di tutto il mondo ad attivare gravi difese psicologiche. Se
si realizzasse una (inimmaginabile) “rivoluzione culturale” favorevole ai “diritti
dei bambini” gli psicoterapeuti si desterebbero dal loro sonno profondo e
mostrerebbero di aver tante cose da dire: proprio quelle che ora non dicono.
L’idea
che l’esistenza umana comporti dolore e possa essere vissuta con gioia e
felicità solo se il dolore ineliminabile viene elaborato, non risulta
abbastanza “scientifica” per gli specialisti del settore, come pure l’idea che
l’irrazionalità individuale e sociale costituisca una diffusa barriera nei
confronti della consapevolezza del dolore. Psicologi, psichiatri e
psicoterapeuti, ovviamente non negano l’esistenza di eventi oggettivamente
dolorosi (come la morte di persone care), ma in questi casi, pensano che il
dolore non debba essere “eccessivo”. Anche a questo proposito, non sto affatto
delineando una caricatura della psicoterapia a fini polemici. Infatti, l’ultima
edizione (la quinta) del DSM costituisce la prova tangibile (o almeno
“leggibile”) del fatto che psichiatri e psicoterapeuti non hanno nemmeno una
vaga idea condivisa di quanto la vita umana sia intensa e sofferta (e di quanto
possa anche essere appassionante e appagante). Non hanno quindi nemmeno una
vaga idea del ruolo del lavoro del lutto nell’esistenza umana.
Si deve tener presente che le varie riedizioni del DSM sono state il frutto della collaborazione e del confronto fra i più illustri psichiatri del mondo e sono diventate un punto di riferimento obbligato per tutti gli psicoterapeuti. In quattro pagine scarse del DSM5 (2013) dedicate al “Disturbo da lutto persistente complicato” l’American Psychiatric Association riesce non solo ad inventare una diagnosi bizzarra, ma a specificarla in modi ancor più bizzarri. Ovviamente è possibile che le persone affrontino in modi irrazionali e distruttivi delle situazioni dolorose, ma non è ragionevole che un lutto che si protrae nel tempo vada considerato un sintomo depressivo. Voglio citare una frase: “Il disturbo da lutto persistente complicato, il disturbo depressivo maggiore e il disturbo depressivo persistente (distimia) condividono tristezza, crisi di pianto e pensieri suicidari” (p. 917). Ora, se una persona evita un lutto attivando delle difese psicologiche, può facilmente pensare/sentire/agire in modalità depressive (o in altre modalità difensive), ma sicuramente non esprime tristezza. Manifesta sintomi che costituiscono delle difese psicologiche dalla reale tristezza e che bloccano il lavoro del lutto. D’altra parte, il fatto che gli autori parlino di “crisi di pianto” senza nemmeno spiegare come esse si distinguano dal pianto, lascia pensare che l’argomento in questione risulti ad essi del tutto ignoto.
Si deve tener presente che le varie riedizioni del DSM sono state il frutto della collaborazione e del confronto fra i più illustri psichiatri del mondo e sono diventate un punto di riferimento obbligato per tutti gli psicoterapeuti. In quattro pagine scarse del DSM5 (2013) dedicate al “Disturbo da lutto persistente complicato” l’American Psychiatric Association riesce non solo ad inventare una diagnosi bizzarra, ma a specificarla in modi ancor più bizzarri. Ovviamente è possibile che le persone affrontino in modi irrazionali e distruttivi delle situazioni dolorose, ma non è ragionevole che un lutto che si protrae nel tempo vada considerato un sintomo depressivo. Voglio citare una frase: “Il disturbo da lutto persistente complicato, il disturbo depressivo maggiore e il disturbo depressivo persistente (distimia) condividono tristezza, crisi di pianto e pensieri suicidari” (p. 917). Ora, se una persona evita un lutto attivando delle difese psicologiche, può facilmente pensare/sentire/agire in modalità depressive (o in altre modalità difensive), ma sicuramente non esprime tristezza. Manifesta sintomi che costituiscono delle difese psicologiche dalla reale tristezza e che bloccano il lavoro del lutto. D’altra parte, il fatto che gli autori parlino di “crisi di pianto” senza nemmeno spiegare come esse si distinguano dal pianto, lascia pensare che l’argomento in questione risulti ad essi del tutto ignoto.
Al
di là delle loro opinioni su temi delicati come la tristezza e il lavoro del
lutto, gli specialisti del DSM5 fanno delle considerazioni che sembrerebbero
assurde anche a persone prive di cultura. Accostano comportamenti e
atteggiamenti “semplicemente umani” e del tutto razionali a comportamenti
irrazionali che sono senza alcun dubbio classificabili come sintomi: al punto C
del testo si specifica che per formulare la diagnosi si devono riscontrare
almeno sei dei dodici “sintomi” elencati, ma fra essi compaiono anche la “sensazione di essere soli o
distaccati dagli altri”, la sensazione “che la vita sia vuota o priva di senso
senza il deceduto” o la “difficoltà o riluttanza nel perseguire i propri
interessi o nel fare piani per il futuro” ed anche, genericamente, la
“difficoltà ad accettare la morte”. In pratica, secondo questi studiosi, dopo
la scomparsa di una persona cara, le persone “sane” accettano con facilità la
perdita, non si sentono sole, godono come prima della compagnia degli amici e magari
fanno la vacanza che avevano programmato con la persona che è venuta a mancare.
Leggendo
il DSM5 ho ripensato ad un mio cliente che aveva assunto antidepressivi per
alcuni anni su indicazione del medico, il quale aveva stabilito che dopo la
morte del fratello egli “piangesse troppo”. Era una persona che manifestava
varie difese psicologiche, ma non era in alcun modo depresso. Aveva pianto
“troppo” secondo i vaghi criteri di normalità e di salute di un medico, ma lavorando
con me ha ripreso confidenza col pianto e ha smesso di assumere antidepressivi.
Gli esperti del DSM5 hanno anche proposto delle valutazioni quantitative: secondo tali valutazioni,
sentirsi in lutto per più di dodici mesi costituisce un elemento che giustifica
la diagnosi. Tuttavia, non riesco proprio ad immaginare che al tredicesimo mese
sia ragionevole festeggiare e ballare con gli amici se si è perso un figlio o
il compagno o la compagna della propria vita. Nel corso della mia analisi ho
pianto sicuramente per più di un anno, spesso, con lacrime e singhiozzi, per la
mia infanzia, che era “finita male” già da tempo. Non solo: a volte piango
ancora per quella vecchia perdita, dato che mi commuovono più i film in cui non
c’è comprensione/intimità che quelli in cui si viene uccisi in guerra. I miei
genitori, infatti, non accettavano che io fossi la persona che ero, ma non mi
sparavano mai e quindi, vedendo certi film, piango ancora, dopo vari decenni,
per la mia infanzia, pur avendo fatto pace con essa da molto tempo e pur
riconoscendo che la guerra è molto dolorosa. A questo punto si può anche
pensare che io sia davvero “affetto” da quella patologia “complicata”e che non
dovrei criticare gli esperti, ma, resto della mia idea, dato che gli “esperti”
mettono in un unico mazzo (quello dei dodici sintomi rilevanti per la diagnosi)
sia la comprensibile e ragionevole
difficoltà nell’accettazione completa della morte, sia l’irrazionale “valutazione negativa di sé in relazione al deceduto”.
In pratica, mettono in un unico mazzo la reale difficoltà umana ad accettare la
morte e il sintomo dell’autosvalutazione.
L’irrazionalità
della psicoterapia è più preoccupante dell’irrazionalità manifestata in altri
ambiti della cultura, perché gli psicoterapeuti sono professionisti a cui si
rivolgono proprio le persone maggiormente in difficoltà e sono anche gli
studiosi che, più di altri, incidono con i loro interventi pubblici e privati
su ciò che “la gente” pensa quando mette a fuoco dei problemi emotivi o
interpersonali. I moralisti sono sicuramente più distruttivi degli
psicoterapeuti, ma esprimono un loro punto di vista individuale o trasmettono i
valori di uno dei tanti sistemi filosofici o teologici, mentre gli
psicoterapeuti sono identificati dalla società ed anche dallo Stato come i
depositari delle conoscenze scientifiche relative a tutta la dimensione
soggettiva e interpersonale. A questo punto è necessario approfondire la
questione del riconoscimento sociale della psicoterapia.
Le
scuole di psicoterapia hanno sempre avuto la pretesa di basarsi su conoscenze
simili a quelle della fisica o della biologia e quindi adatte a rimpiazzare le
concezioni filosofiche relative alla “psiche”. Tuttavia, a differenza degli
scienziati, gli psicologi e gli psicoterapeuti non condividono alcun patrimonio
conoscitivo. In base a ciò, si può dire che la non scientificità della
psicoterapia è dimostrata proprio dagli
psicoterapeuti, o meglio, dalla loro incapacità di produrre e di condividere
delle conoscenze. In ogni caso, la mancanza di realismo degli psicoterapeuti
non si è manifestata solo nella pretesa di disporre di vere teorie, ma nella
pretesa delle loro varie Scuole di rappresentare una categoria di specialisti
socialmente riconosciuti come depositari di un sapere paragonabile a quello dei
medici. Ovviamente, tale pretesa era difficile da giustificare, dato che per
quasi un secolo scienziati e medici avevano snobbato psicologi e psicoterapeuti
considerandoli come apprendisti stregoni. Poi, gli psicologi hanno trovato i
loro spazi nelle università rendendo sempre più rigorose le loro ricerche
focalizzate su temi sempre più circoscritti e si sono quindi dimostrati
capaci di fare scienza proprio evitando di impantanarsi nei “grandi temi” della
psicologia. Purtroppo, gli psicoterapeuti non potevano scegliere questa strada,
perché erano costretti ad occuparsi proprio di questi grandi temi, dato che
prendevano in esame l’intreccio fra convinzioni, emozioni, desideri, intenzioni
e scelte. Sono però riusciti a diventare una categoria professionale
socialmente riconosciuta facendosi riconoscere tutti assieme (nonostante le contrapposizioni fra le varie Scuole) dalla politica e quindi dallo Stato.
Ovviamente, la validazione politica della conoscenza scientifica suona male e
fa venire in mente il rapporto fra scienziati e istituzioni pubbliche
nell’Unione Sovietica e negli Stati teocratici, ma questo strano “colpo di
stato ideologico” è comunque riuscito ed è stato siglato da leggi accettate da
tutti. Ciò ha determinato gravi conseguenze.
I
filosofi positivisti considerano i filosofi metafisici come musicisti senza
talento musicale e i filosofi metafisici considerano i filosofi positivisti
come superficiali e riduzionisti. Tuttavia, i filosofi non pretendono di aver
ragione grazie ad una legge. Essendo divisi in tante scuole di pensiero,
accettano che lo Stato fissi dei criteri per la selezione delle persone in
grado di insegnare la storia della
filosofia nei licei e nelle università, ma non pretendono un riconoscimento statale
di qualche “verità filosofica”. Gli psicoterapeuti, invece, non vogliono solo
che lo Stato selezioni chi può insegnare materie psicologiche, ma hanno
ottenuto che lo Stato a) riconoscesse il valore delle loro conoscenze
(contraddittorie), b) collocasse i loro interventi nell’ambito sanitario e c) autorizzasse
gli psicoterapeuti a discriminare fra interventi psicoterapeutici legittimi e
illegittimi.
Si
può obiettare che forse sto esagerando nel delineare le contrapposizioni fra le
scuole di psicoterapia, ma posso far presente che sono proprio gli
psicoterapeuti più autorevoli a formulare giudizi stroncanti nei confronti dei
loro colleghi. Sigmund Freud, Melanie
Klein e altri psicoanalisti hanno ipotizzato un conflitto basilare fra Eros e
Thanatos che è stato radicalmente contestato da Wilhelm Reich (1945), Otto
Fenichel (1945) e altri. Anche l’idea del complesso edipico è sempre stata
ritenuta improponibile dai rappresentanti di molti indirizzi psicoterapeutici.
Jay Haley, un illustre esponente di quel variegato orientamento
psicoterapeutico definito relazionale, strategico o famigliare, ha definito la
terapia come un processo volto a “liberare l’individuo dalle restrizioni e
dalle limitazioni di una situazione sociale difficile” (1973, p. 35) e quindi ha
ritenuto trascurabili le variabili “intrapsichiche” ritenute rilevanti dalle
psicoterapie “psicodinamiche”. D’altra parte, Roberto Assagioli, il fondatore
di una Scuola di psicoterapia meno nota, ma tuttora operante e legalmente
“riconosciuta”, ha scritto: “La psicosintesi, inoltre può venir considerata
come l’espressione individuale di un più vasto principio, di una legge generale
di sintesi interindividuale e cosmica. Infatti, l’individuo isolato non esiste;
esso –ne sia consapevole o no- ha intimi rapporti di interdipendenza e
subordinazione con gli altri individui, con la società, con la vita cosmica e
con la Realtà Spirituale transpersonale, super-individuale” (1965, p. 36).
Potrei con un po’ di pazienza fare un elenco molto esteso e comunque incompleto
di teorie psicoterapeutiche basate su altri “complessi”, su fattori
“energetici”, su “traumi” e su vari tipi di fattori sociali, pulsionali o
spirituali. E di tecniche “terapeutiche” altrettanto diverse. E di
contestazioni di tali teorie e tecniche.
La
compresenza di concezioni tanto diverse ed egualmente “riconosciute” è davvero
difficile da capire, ma grazie al riconoscimento pubblico, gli psicoterapeuti
ricoprono ruoli ben precisi nel sistema sanitario nazionale e possono
denunciare non solo chi si dichiara
“psicoterapeuta” senza aver fatto un certo percorso formativo, ma qualsiasi
persona impegnata in un’attività ritenuta
dagli psicoterapeuti di tipo
psicoterapeutico. Quindi, gli psicoterapeuti possono stabilire che il Dr. X,
laureato in matematica, che dichiara di svolgere un’attività di analisi logica
delle convinzioni morali delle persone, sta in realtà facendo psicoterapia
senza avere i requisiti richiesti e possono denunciarlo per esercizio abusivo
della professione. L’Ordine degli Psicologi (che include gli psicoterapeuti) ha
avviato delle cause nei confronti di vari counselor per esercizio abusivo della
psicoterapia, ma mai nei confronti di sacerdoti, suore, femministe, insegnanti,
allenatori sportivi, nonostante il fatto (noto a tutti) che tali persone
normalmente cercano di aiutare altre persone in difficoltà sul piano
psicologico, interpretando i loro problemi, offrendo sostegno, suggerendo linee
d’azione, cercando di “sanare ferite”, favorendo il loro benessere e, quindi,
di fatto, svolgendo un lavoro simile a quello degli psicoterapeuti e dei
counselor e soprattutto fondato su presupposti conoscitivi fragili come quelli
degli psicoterapeuti. Il fatto che gli psicoterapeuti non abbiano denunciato i sacerdoti
per il modo in cui gestiscono i sensi di colpa dei fedeli o le militanti
femministe per il sostegno psicologico che offrono a donne maltrattate e
abbiano avviato una piccola guerra nei confronti dei counselor è indicativo di
quanto questa comunità professionale eviti di contrapporsi ai gruppi che hanno
visibilità e seguito. I counselor sono persone isolate con alle spalle una
piccola comunità professionale che non ha potere e non ottiene consensi
politici. Questa strana contrapposizione fra psicoterapeuti e counselor ha
anche un risvolto a dir poco inquietante: proprio le Scuole di psicoterapia
hanno per anni organizzato corsi di counseling.
L’aspirazione
ad una “legalizzazione” della professione è sempre stata giustificata in base
alla necessità di contrastare le attività svolte da ciarlatani che si
dichiaravano “psicoterapeuti” dopo aver letto qualche libro sugli oroscopi.
Tale aspirazione è comprensibile, ma purtroppo
non realizzabile, dato che l’attività psicoterapeutica non è in quanto tale facilmente definibile. I medici sanno dire
perché un certo intervento è di tipo medico e perché una pacca sulla spalla non
lo è, mentre gli psicoterapeuti non sanno delimitare l’ambito della loro
professione. La linea di confine fra conoscenze psicoterapeutiche,
quasi-conoscenze ideologiche e pseudo-conoscenze popolari non esiste, come non
esiste fra interventi psicoterapeutici e interpretazioni o suggerimenti nei
normali rapporti interpersonali. La psicoterapia non è definita in modo univoco dagli psicoterapeuti e non può quindi fornire criteri in base a cui valutare le inadeguatezze delle altre
forme di aiuto psicologico. Gli psicoterapeuti sono semplicemente persone che si propongono di offrire un aiuto psicologico.
Per legge fanno molto di più, ma non hanno spiegato in cosa consista questo “di
più”, perché su tale “di più” non trovano un accordo.
In questa situazione
generale risulta davvero inquietante la contrapposizione fra psicoterapeuti
(tutti uniti) e counselor. Il nodo della questione sta nel fatto che i
counselor si occupano di molte cose (orientamento professionale, orientamento
scolastico ed anche aiuto alle
persone con difficoltà psicologiche), ma quando intervengono nell’ambito dei
problemi personali rischiano sempre di essere denunciati per esercizio abusivo
della professione psicoterapeutica. Gli sforzi di molti studiosi, finalizzati a
stabilire precisi confini fra l’attività psicoterapeutica e quella di
counseling (ad esempio lavoro “in profondità” o sui problemi “attuali”,
interventi sulle cause delle patologie o valorizzazione delle risorse
personali, ecc.) sono stati ovviamente poco persuasivi, dato che una
definizione di psicoterapia condivisa da tutti gli psicoterapeuti deve ancora
essere offerta. Cito da un articolo del Giornale dell’Ordine Nazionale degli
Psicologi: “La psicoterapia privilegia nel focus della diagnosi e
dell’intervento soprattutto il livello intrapsichico dell’individuo; il
counselling privilegia invece la dimensione interpersonale dell’individuo colto
nella sua dimensione relazionale” (Giardina, 2004, p.62). Ora questa
affermazione è indiscutibilmente falsa,
dato che illustri psicoterapeuti di orientamento relazionale affermano
di non voler prendere in considerazione il “livello intrapsichico”. Inoltre,
qualsiasi intervento sui disturbi psicologici si rivolge a tutta la persona e
non ad un suo “segmento” perché ogni disturbo psicologico si colloca in un
equilibrio psicologico generale. Questa idea è espressa da uno dei più noti
fondatori del counseling: “Consideriamo ora lo stadio finale del processo del counseling,
la realizzazione dello scopo dell’intero processo: la trasformazione della
personalità del cliente” (May, 1989, p. 93). Tale obiettivo (la trasformazione
della personalità del cliente) non è un obiettivo da poco. E’ l’obiettivo
che molti psicoterapeuti si sforzano di realizzare e che certamente non sempre
riescono a realizzare. In pratica, l’impossibilità di definire in modo univoco
la psicoterapia rende incomprensibile non solo il riconoscimento sociale della
psicoterapia e la sua collocazione nel sistema sanitario, ma anche la
contrapposizione fra il (variegato) “mondo psicoterapeutico” e quello
(altrettanto variegato) del counseling. A mio parere, i vari tipi di counseling
sono concezioni della persona e del cambiamento personale poco convincenti,
come quelle di tipo psicoterapeutico, ma ciò che ora voglio mettere in
discussione non è questa o quella “scuola” di psicoterapia o di counseling, ma
l’illusione di poter fare ordine sul piano legale in un ambito che non ha
trovato un proprio “ordine”.
La
consulenza filosofica ha tutti i limiti che caratterizzano il counseling
in generale. La consulenza
filosofica ha però anche dei pregi e dei limiti specifici. Secondo Lou Marinoff
“L’idea che ogni problema personale sia una malattia è in pratica essa stessa
una malattia mentale, causata primariamente da sconsideratezza, e curabile in
primo luogo mediante la riflessione. Ed è qui che interviene la filosofia”
(Marinoff, 1999). Tale affermazione mi pare sensata, ma, purtroppo, gli errori
non vengono mai corretti da errori di segno contrario. Una buona seduta di
counseling filosofico può dare (come una buona seduta di psicoterapia
cognitiva) dei benefici nella misura in cui una persona riesce a
“ristrutturare” un problema personale che inquadrava confusamente sulla base di
premesse inconsistenti, di pregiudizi e di pretese ingiustificate. Tuttavia,
l’esame di una “mappa mentale” costituisce solo una condizione di possibilità
per un cambiamento che può verificarsi solo a livello emotivo. Il counseling
filosofico, quindi, pur inquadrando correttamente
i disturbi psicologici fra le difficoltà “psicologico-esistenziali” non può
incidere significativamente sui nodi irrisolti delle persone, perché
tali nodi sono un intreccio di processi cognitivi ed emozionali. Di fatto,
l’idea che le persone vivano irrazionalmente perché temono di accettare il loro
dolore non appassiona né gli psicoterapeuti, né i counselor.
Le
basilari incompatibilità teoriche e metodologiche fra le varie Scuole di
psicoterapia rendono impossibile
anche un percorso formativo di base considerato
valido da tutti gli psicoterapeuti. Ogni Scuola forma i propri allievi in
modi diversi da quelli ritenuti validi dalle altre Scuole. Poiché è abbastanza
scontato che chi si rivolge ad uno psicoterapeuta si aspetti aiuto da una persona non solo sufficientemente preparata
intellettualmente, ma anche psicologicamente equilibrata e capace di empatia,
si può presumere che nella formazione di uno psicoterapeuta qualsiasi scuola
metta al primo posto un lavoro personale finalizzato all’acquisizione di una
sufficiente capacità di contatto emotivo. Purtroppo le scuole non condividono
nemmeno tale esigenza formativa e anche se concordassero non saprebbero come
metterla in pratica. Molte Scuole di psicoterapia “riconosciute” non prevedono affatto un lavoro personale
dei loro allievi e quelle che lo prevedono includono nel percorso formativo
delle sedute di psicoterapia individuale che però riflettono un approccio non condiviso da altre
Scuole. Posto, quindi, che nessuno consiglierebbe ad una persona depressa di
farsi “curare” da un professionista che ha studiato molto, ma ha fatto due
tentativi di suicidio, va riconosciuto, purtroppo, che chi si rivolge ad uno
psicoterapeuta può incontrare anche una persona che non ha mai lavorato su di
sé, oppure che lo ha fatto in modi non ritenuti soddisfacenti dai suoi
colleghi.
Quando
il “riconoscimento sociale” degli psicoterapeuti non era stabilito da una
legge, chi cercava aiuto psicologico si
prendeva la responsabilità della propria ricerca: sapeva di rivolgersi a
chi riteneva degno di fiducia (un
sacerdote, un esperto di oroscopi, un medico che “credeva” nella psicoanalisi,
un membro di una delle tante associazioni non
riconosciute di psicoterapeuti e così via). Le persone, quindi, cercavano
aiuto e valutavano il loro interlocutore. Oggi, alle persone che cercano aiuto
psicologico, il sistema sanitario ( e quindi, in pratica lo Stato) comunica
quali siano i professionisti affidabili e quelli inaffidabili. Di fatto, anche
oggi le persone decidono se farsi aiutare da un sensitivo o da uno
psicoterapeuta riconosciuto o da un counselor, e sanno di prendere una
decisione personale, ma resta il fatto che solo gli psicoterapeuti hanno
ottenuto dallo Stato il diritto di dichiararsi professionisti autorizzati a
lavorare sul piano psicologico con le persone.
Le incongruenze della formazione psicoterapeutica
legalmente prevista non sono solo quelle dovute alle Scuole di psicoterapia, ma
sono presenti anche prima che i processi formativi vengano avviati: lo Stato stabilisce
che possono accedere ad una Scuola di psicoterapia solo i laureati in medicina
o in psicologia. Tuttavia, se le conoscenze dei medici o degli psicologi
fossero davvero indispensabili per gli psicoterapeuti, gli psicologi dovrebbero
sostenere esami di medicina e i medici dovrebbero sostenere esami di psicologia
prima di iscriversi ad una Scuola di psicoterapia. Ciò però non avviene e, quindi,
la restrizione fissata non si giustifica. La norma che consente l’accesso alle
Scuole di psicoterapia solo a medici o a psicologi ha un valore ideologico:
serve a ribadire che la psicoterapia è una disciplina “quasi-sanitaria”.
Sorge
ovviamente la domanda: come possono le Scuole di psicoterapia aver chiesto ed
ottenuto dallo Stato di essere riconosciute tutte
assieme per il valore delle loro (inconciliabili) “conoscenze” e delle
applicazioni (pure inconciliabili) di tali “conoscenze”? In pratica, hanno
ottenuto il riconoscimento delle loro conoscenze “diversamente scientifiche”.
Tuttavia, i disabili sono rimasti tali dopo essere stati definiti “diversamente
abili” e gli psicoterapeuti sono rimasti aggrappati a convinzioni non condivise
dopo loro formale “unificazione”. Con il “riconoscimento pubblico” sono
diventati “diversamente terapeuti”: gli psicoanalisti continuano a parlare dei
complessi inconsci, gli psicoterapeuti relazionali continuano a dire che il
lavoro sui conflitti intrapsichici non serve, i cognitivisti continuano a
“correggere” le convinzioni errate dei loro pazienti, mentre gli psicoterapeuti
corporei continuano a favorire gli “sblocchi emozionali”. In altre parole, il
rapporto fra psicoterapia e società è dato dall’accettazione della psicoterapia
“così come è” da parte dello Stato e dall’accettazione della società “così come
è” da parte degli psicoterapeuti.