Il
lavoro analitico che ho descritto nei primi capitoli è un’attività, un metodo, un esercizio della razionalità e non è una
“concezione della realtà” (o una “ideologia”). Ha anche dei presupposti
relativi a ciò che è espressivo e difensivo, ma essi sono teorici, non
speculativi. Ciò che sto delineando in questo lavoro, quindi, non è un insieme di pensieri a me graditi e tradotti in “ideali" o "doveri". Ho assemblato conoscenze relative alle ragioni per cui le
persone vivono in certi modi (espressivi o difensivi) e relative a cosa è
possibile fare per disattivare le difese psicologiche. Non cerco di indurre i clienti a vivere "a modo mio", ma quando le persone manifestano convinzioni o stati d'animo irrazionali cerco di chiarire le ragioni per cui rinunciano al contatto con gli altri e con la realtà.
Qualsiasi “concezione della realtà” è irrazionale perché gli esseri umani hanno bisogno di conoscere la realtà e non di “concepirla” in un modo “comodo”, nel senso di “corrispondente ad imperativi o valori o modelli”. La conoscenza della realtà è sempre imperfetta, ma è per definizione “aperta” ad approfondimenti, correzioni ed anche a “rovesciamenti”. Le “concezioni della realtà”, o ideologie, invece, sono interpretazioni della realtà arbitrarie spacciate per descrizioni della realtà e mantenute a dispetto dei fatti che le contraddicono. Inoltre, la conoscenza (necessariamente limitata) della realtà oggettiva lascia sempre aperta la questione ulteriore riguardante gli obiettivi per cui si sceglie una certa linea di condotta, mentre le ideologie manifestano delle (s)valutazioni che implicano “automaticamente” cosa debba e non debba essere fatto. A volte le ideologie si basano anche su alcune reali conoscenze, ma associano ad esse delle (s)valutazioni e quindi utilizzano strumentalmente tali conoscenze per far sembrare “fondate” delle idee che tali non sono.
Qualsiasi “concezione della realtà” è irrazionale perché gli esseri umani hanno bisogno di conoscere la realtà e non di “concepirla” in un modo “comodo”, nel senso di “corrispondente ad imperativi o valori o modelli”. La conoscenza della realtà è sempre imperfetta, ma è per definizione “aperta” ad approfondimenti, correzioni ed anche a “rovesciamenti”. Le “concezioni della realtà”, o ideologie, invece, sono interpretazioni della realtà arbitrarie spacciate per descrizioni della realtà e mantenute a dispetto dei fatti che le contraddicono. Inoltre, la conoscenza (necessariamente limitata) della realtà oggettiva lascia sempre aperta la questione ulteriore riguardante gli obiettivi per cui si sceglie una certa linea di condotta, mentre le ideologie manifestano delle (s)valutazioni che implicano “automaticamente” cosa debba e non debba essere fatto. A volte le ideologie si basano anche su alcune reali conoscenze, ma associano ad esse delle (s)valutazioni e quindi utilizzano strumentalmente tali conoscenze per far sembrare “fondate” delle idee che tali non sono.
La
distribuzione diseguale delle risorse fra gli esseri umani è un fatto e le spiegazioni dei modi in cui gli esseri umani sono giunti ad organizzare la
loro convivenza su basi competitive anziché collaborative possono essere
rigorose, razionali, falsificabili e verificate, oppure possono essere errate e
suscettibili di correzioni. Le concezioni secondo cui la diseguaglianza “è
oggettivamente inaccettabile perché immorale” o “deve essere accettata perché
costituisce l’inevitabile conseguenza delle diversità fra le persone” riflettono,
invece, dei pregiudizi soggettivi. Io trovo inaccettabile la diseguaglianza
economica, ma faccio una distinzione fra ciò che conosco e ciò che vorrei veder
realizzato. In realtà penso pure che le mie aspirazioni siano razionali, ma per
giustificare tale ulteriore affermazione devo basarmi su altre conoscenze, di tipo psicologico. Nei capitoli dedicati alla
benevolenza, all’espressione delle potenzialità ed alle difese psicologiche ho,
infatti, cercato di evidenziare l’irrazionalità difensiva che sta alla base
dell’avidità, della competizione e della violenza e non ho cercato di far
apparire “giusto per tutti” ciò che mi piace: ho cercato di chiarire che le
potenzialità espressive degli esseri umani non coincidono con i normali modi vivere.
Le
ideologie calamitano l’emotività di persone già dissociate dal dolore e
affamate di svalutazioni e di illusioni. I contenuti delle varie ideologie
possono avere determinanti storiche, sociali ed anche economiche, ma le
ideologie non coinvolgerebbero le masse se le persone che formano le masse non
fossero attratte sul piano emotivo da particolari risvolti dei contenuti
ideologici in questione. Le ideologie pescano nei fondali dei ricatti affettivi
e di tutte le svalutazioni che portano i bambini a diventare
nemici di loro stessi.
Le ideologie trasformano il bisogno di contatto in un bisogno di conflitto e
trasformano la curiosità nella dedizione all’occultamento delle verità scomode.
Il
lavoro analitico riguarda l’irrazionalità e non può trascurare né
l’irrazionalità di una fobia né quella di una ideologia, né quella manifestata
dagli psicoterapeuti che interpretano le fobie come patologie da curare mentre
trattano le religioni (imposte ai
bambini) come normali manifestazioni della “libertà
di pensiero”. Ho già messo in evidenza che questa ambiguità (o falsa
“neutralità”) della psicoterapia conduce a conseguenze paradossali, come quella
secondo cui sarebbero “psichicamente sane” sia le persone omosessuali, sia
quelle religiose che considerano l’omosessualità come una depravazione. Ciò che
voglio però esaminare ora è una difficoltà che può presentarsi nel lavoro
analitico e che riguarda il rapporto con il cliente e con le sue convinzioni
ideologiche. Nel lavoro
analitico ciò che è realmente patologico è lasciato ai medici e “il resto” va
chiarito, non “diagnosticato” o “curato”. Tuttavia, una difficoltà sorge anche
nel lavoro analitico nel momento in cui i clienti considerano ovvie delle concezioni
della realtà irrazionali. Anche dando per scontato che l’analista non consideri irrazionale semplicemente ciò che non
gradisce, questi da un lato ha il compito di lavorare sulle convinzioni
irrazionali del cliente, ma da un altro lato ha anche il compito di non
“contrapporsi” al cliente, come nei dibattiti di tipo politico o culturale.
Tale situazione può essere gestita in modo rispettoso e costruttivo solo se
l’analista ha solide convinzioni ma non ha alcun “attaccamento” alle proprie
convinzioni e se non desidera
né “assecondare” né “guidare” i clienti.
In
pratica, se su una questione irrilevante per il lavoro analitico esiste una
diversità di vedute, l’analista evita di fare approfondimenti e se la diversità
di vedute riguarda una questione rilevante per il lavoro in corso, l’analista aiuta
il cliente ad acquisire con i propri tempi gli elementi di riflessione che poi
avrà bisogno di utilizzare. Ad esempio, se con un cliente lavoro sulla gelosia
della compagna e questi mi chiede se sono femminista, rispondo che sono interessato all’emancipazione di tutti e anche delle donne, e
chiudo il discorso. Se invece un cliente mi dice di “sentirsi egoista e
maschilista” quando la compagna lo accusa di pensare solo al sesso, non posso
trascurare il fatto che in quella coppia i rifiuti vengono ideologizzati. Metto in evidenza dei
nessi tra i fatti o delle contraddizioni nei discorsi e non faccio affermazioni
sull’ideologia femminista in generale come nei saggi in cui esamino questioni
generali. Il cliente che “si sente maschilista” (cioè si sente in colpa) ha
bisogno di lavorare sulla propria accondiscendenza nei confronti della compagna
e non sul femminismo: ha bisogno di capire perché si sente colpevole se viene
insultato. Farei lo stesso lavoro se subisse passivamente altre svalutazioni.
Tra
l’altro, anche nei miei scritti, quando analizzo un’ideologia irrazionale non
mi sento “indignato” e non provo alcun desiderio di “sfogarmi”, o di
“infiammare gli animi” dei lettori, ma riconosco che, purtroppo, certe
precisazioni vanno fatte, così come, purtroppo, ogni tanto occorre pulire il
bagno o stampare delle fatture. La “collera dei giusti” può sedurre molte
persone, ma non aiuta a spiegare i fatti. Non a caso ho lavorato senza problemi
con persone islamiche, cattoliche, marxiste, con psicoterapeuti, con persone politicamente
reazionarie o “progressiste” o “antipolitiche” e anche con donne femministe.
Non ho mai evitato di esprimere il mio punto di vista, ma, come non faccio
discussioni al bar, non ho alcun interesse a fare discussioni nelle sedute.
L’irrazionalità delle ideologie a volte tocca corde profonde delle persone in
analisi e, in questi casi, proprio il mio disinteresse
per le crociate ideologiche mi aiuta a mettere in evidenza solo gli aspetti
“profondi” delle ideologie che imprigionano i sentimenti delle persone con cui
lavoro. In queste pagine ed in altre sedi affronto anche questioni generali, ma
credo davvero che le discussioni sulle ideologie siano come le medicine:
possono essere necessarie, ma non possono essere “appassionanti”. Appassionano
solo le persone che si aggrappano ad
un’ideologia e vogliono fare del male a chi si aggrappa ad altre ideologie.
Un
cliente mi ha detto che in fondo anche io suggerisco una concezione della
realtà, o un’ideologia personale, dato che metto in discussione le ideologie
“storiche” ma non le conoscenze scientifiche, l’etica ma non l’altruismo
spontaneo, la repressione della sessualità ma non la repressione della
criminalità, le norme contro il consumo di tabacco ma non quelle volte a
contrastare i paradisi fiscali. Gli ho fatto notare che il rispetto per la
conoscenza e il rifiuto delle svalutazioni non equivale ad una “concezione”
della realtà, ma alla semplice accettazione del fatto che la scienza è indispensabile e che la sofferenza delle
persone è terribile. Nelle sedute (ma anche nei miei scritti e nella mia vita
privata) tengo ben distinte le mie valutazioni sulla razionalità di una
convinzione, di un atteggiamento, di un desiderio, di un’emozione, di un
comportamento e le mie preferenze personali. Questa distinzione è
importantissima perché preferenze
personali diverse possono essere egualmente razionali e preferenze personali simili possono
risultare da atteggiamenti razionali o irrazionali. Ad esempio, è
irrazionale sia “votare perché lo fanno tutti”, sia non votare “perché la
politica non è interessante” e quindi la razionalità di un comportamento, salvo
casi particolari o estremi, ha a che fare più con le ragioni per cui si agisce
che con ciò che si fa. Lavorando con un cliente, quindi, non mi pongo il
problema relativo a cosa farei io nei suoi panni, ma il problema relativo a ciò che si
propone attuando una certa linea di condotta.
Le
persone si dissociano dal dolore sperimentato nell'infanzia in modi particolari
che danno luogo a particolari modi di essere (e quindi di pensare e di
pensarsi, di sentire e di agire). Tali "modi di essere" risultano
inevitabilmente più o meno compatibili con contenuti ideologici specifici
riguardanti la sfera degli ideali, delle relazioni interpersonali,
dell'organizzazione sociale. Non esiste però un collegamento meccanico fra
atteggiamenti difensivi e convinzioni intellettuali o aspirazioni politiche,
perché un atteggiamento autoritario può accompagnare convinzioni reazionarie,
ma anche convinzioni “progressiste”.
La
questione del rapporto fra il rispetto per i “pazienti” e il rispetto per le
loro convinzioni è stata affrontata anche nell’ambito della psicoterapia, ma in
una prospettiva deontologica. Il Codice
deontologico degli psicologi italiani fissa nell’Articolo 4 alcune regole
che non mi sembrano molto chiare: “Nell’esercizio della professione, lo
psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza,
all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue
prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo
sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia,
nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza,
orientamento sessuale, disabilità”. Queste parole sembrano scritte soprattutto per
tutelare l’immagine degli psicologi:
esprimono tolleranza in generale, ma trascurano proprio i problemi più spinosi. L’Articolo
in questione parla di valori in termini assolutamente generici, cioè in una
prospettiva condivisibile da giornalisti, sacerdoti e politici. L’idea che
proprio i valori siano un problema di interesse psicologico non è nemmeno presa
in considerazione. Inoltre, l’ambiguità del principio affermato è evidente nel
momento in cui esso non prescrive semplicemente il rispetto per le persone, ma
il rispetto per le opinioni e le credenze dei “pazienti”. Che si deve fare con
pazienti che manifestano opinioni autoritarie sull’educazione dei figli, o
credenze razziste, sessiste, moraliste, integraliste, svalutative? Per il
rispetto dovuto alla persona, una
convinzione razzista non può essere semplicemente contestata, ma non può non
essere collocata fra le cose da esaminare nelle sedute. La questione, però, è
ancora più complessa, perché gli psicoterapeuti non dispongono di criteri
condivisi in base a cui distinguere le convinzioni razionali da quelle
irrazionali.
La
frantumazione culturale interna alla comunità psicoterapeutica non può altro
che tradursi in una generica affermazione del pluralismo ideologico che, in
pratica, porta a diagnosticare soltanto l’irrazionalità “insolita” e
individuale: se credo che gli errori di Giulio Cesare abbiano causato quelli
del governo in carica, sono pazzo e da curare, ma se un cliente pensa, assieme
a milioni di persone di avere sulle spalle il "peccato originale” di
Adamo ed Eva, esprime, in base al codice deontologico, solo un “punto di vista”
da rispettare. Purtroppo, un cartello di Scuole di psicoterapia unite solo da
un’idea astratta di psicoterapia non può trattare in alcun modo
l’irrazionalità. Resta il fatto che le persone in analisi hanno bisogno di lavorare proprio sulle convinzioni auto-svalutative
o svalutative nei confronti degli altri. Ciò che conta nel lavoro analitico (e
che dovrebbe valere anche in psicoterapia) è solo il rispetto per la persona, ma
tale rispetto mi sta a cuore in quanto atteggiamento
psicologico, non in quanto
comportamento codificato. Ciò che conta davvero nel lavoro analitico non è esibire un’imparzialità “tecnica”, ma è
piuttosto a) trasmettere (non solo affermare) che i clienti sono rispettati
come persone anche se hanno
convinzioni radicalmente diverse da quelle dell’analista, e b) lavorare (con
tatto ma senza tatticismi) sulle convinzioni personali irrazionali se (e solo
se) esse sono rilevanti per i problemi dei clienti.
L’irrazionalità
non è mai tale da offuscare completamente l’esistenza delle persone. Tutti
facciamo in qualche misura scelte irrazionali e distruttive, ma in qualche
misura riusciamo anche ad esprimere e a donare il meglio di noi stessi. Tutte
le persone sono un po’ presenti e un po’ assenti, un po’ aperte e un po’
chiuse. Lo sono in proporzioni diverse, ma credo che la capacità di contatto
non sia mai del tutto annullata. L’opposizione fra modi difensivi e razionali
di sentire e pensare non è riducibile all’opposizione fra un’ideologia “buona”
e una “cattiva” perché attraversa ogni ideologia e complica il modo di vivere
di ogni persona. Nel lavoro analitico è importante proprio aver presente la
specifica mescolanza di razionalità e irrazionalità, capacità di contatto e
mancanza di contatto che i clienti manifestano. Tale insieme contraddittorio di
emozioni, convinzioni e atteggiamenti crea l’unicità del problema su cui si lavora. Tra l’altro, un atteggiamento difensivo può essere presente anche se un
cliente agisce costruttivamente: ciò si verifica, ad esempio, nei casi in cui
le persone cercano di aiutare gli altri o di migliorare la propria vita, ma si
impegnano in tal senso spinti da sensi di colpa o da fantasie di
“autorealizzazione”.
Dobbiamo
onestamente chiederci perché un analista dovrebbe sentirsi libero di
confrontarsi con un cliente sull'idea (difensiva) secondo cui "la vita non
merita di essere vissuta" e non su idee altrettanto infondate come quella
secondo cui "Dio esiste perché lo sento" o secondo cui "Dio non
esiste perché i preti non fanno niente di utile". Consideriamo ad esempio
due clienti politicamente reazionari, convinti assertori della pena di morte
per i delinquenti ed anche dei colpi di stato nelle circostanze in cui vacilla
l’ordine costituito. Il primo è una persona che si affligge con pesanti sensi
di colpa, sta con una donna che non lo ama solo per non rovinare la “stabilità”
della famiglia, è severo con i figli, lavora in modo ossessivo. Il secondo non
si interessa alla vita politica, ha in testa le idee della propria famiglia
d’origine, ha molta paura della solitudine e cerca di essere accondiscendente
con tutti. Con il primo cliente è necessario lavorare sulla rabbia difensiva
con cui si accanisce a svalutare e sopprimere ogni profonda espressione emozionale.
Si può prendere spunto dalla vitalità che detesta nei figli, dalla paura di
essere considerato un mostro se critica la moglie e anche dall’insofferenza per qualsiasi espressione collettiva di
dissenso rispetto al potere costituito. Non c’è una regola, ma in un modo o
nell’altro egli ha bisogno di capire e sentire che si protegge dal dolore con
la sua mentalità autoritaria. Non ha bisogno di prediche sulla democrazia, ma
di essere aiutato a superare la paura di ciò che sente. Con il secondo cliente,
invece, non ha proprio senso un confronto su convinzioni politiche che in
realtà non ha. Sarebbe anche dannoso toccare l’argomento perché quel cliente
solo per accondiscendenza accetterebbe le idee dell’analista, oppure
cercherebbe di affermare qualche principio a metà fra le idee del padre e
quelle dell’analista. In tal modo l’analista non aiuterebbe quella persona a rispettarsi.
Può lavorare sull’accondiscendenza del cliente in vari modi, ma certamente non
partendo dalle sue “convinzioni” ideologiche.
Posto
quindi che l'interesse dell'analista per i vari aspetti della vita di un
cliente (anche quelli "ideologici") è professionale e non personale e
che l'obiettivo dell'analisi è costituito dal bene del cliente, occorre valutare alcuni
criteri di priorità e di opportunità. Raramente i nodi "ideologici"
degli atteggiamenti dei clienti sono problemi urgenti o veramente importanti ai
fini di un cambiamento profondo. Inoltre, le convinzioni irrazionali dei
clienti sulla vita e sulla società in genere cambiano senza che vengano prese
in considerazione. Mi capita spesso, in fasi avanzate dell’analisi, di sentir
dire da clienti con un elevato livello culturale che "non sopportano più
gli intellettuali" o da clienti da sempre "appassionati" a
vacanze-sport-svaghi che cominciano ad annoiarsi con persone che hanno la
"frenesia di divertirsi". Allo stesso modo, le persone "molto
politicizzate" (di sinistra) tendono, con il procedere del lavoro
analitico, ad aprirsi a questioni personali che prima superficialmente
inquadravano in termini sociologici.
Tra
le questioni di opportunità va considerata non solo l'irrilevanza di certi
interventi focalizzati sulle convinzioni ideologiche, ma anche il potenziale
pericolo che comportano. L'ambito ideologico è in genere considerato estraneo
ai disturbi sui quali il cliente è motivato a lavorare. Quando l’analisi di
particolari convinzioni ideologiche non è realmente giustificata i clienti
possono facilmente pensare che l'analista voglia "fare propaganda"
anziché occuparsi di loro. Discutere questioni religiose o politiche può quindi
essere in molti casi meno opportuno che discutere altre questioni egualmente
caratterizzate in senso ideologico e cariche di valori impliciti, come il ruolo
educativo assunto con i figli, l'ambizione sul piano professionale, il
moralismo sessuale, il conformismo sociale, il ribellismo giovanile, ecc.
Lavorando su queste "mini-ideologie" raramente si suscitano profonde
diffidenze e soprattutto non si genera nei clienti il timore di essere
sottoposti a pressioni. Si tratta ora di capire in cosa può consistere un
lavoro analitico sulle convinzioni ideologiche dei clienti, nei casi e nei momenti in cui è opportuno.
Il
lavoro sulle convinzioni ideologiche deve cogliere il tema specifico sul quale
un particolare problema del cliente "interseca" un particolare
aspetto dell'ideologia in questione. A volte è inevitabile che l'analista
lavori su convinzioni ragionevoli e che magari egli stesso condivide, ma che
sono accettate dal cliente per ragioni non comprensibili. Supponiamo, ad esempio,
che l'analista sia un ecologista convinto e che lavori con un cliente che
condivide tale concezione "forte" del rapporto fra persone e
ambiente. Tale cliente è interessato alla salvezza del pianeta, preoccupato per
le conseguenze degli scempi ecologici sulla salute delle persone, è molto ostile nei confronti della vivisezione e
della caccia e l'analista trova condivisibili tali idee. Tuttavia su questi
argomenti il cliente manifesta una partecipazione emotiva molto marcata, mentre
sul tema della "energia pulita" ha convinzioni altrettanto precise, ma
meno “cariche” sul piano emotivo. Il cliente in questione ha una grossa
difficoltà a manifestare la sua ostilità: a trent'anni vive ancora con i
genitori e accetta le loro intromissioni nella sua vita privata come un
ragazzino. E' chiaro che l'ecologismo di questa persona viaggia su un binario
razionale per certi aspetti, ma per altri è “carico di emotività difensiva”. Se
l'analista si limita a considerare l'aspetto intellettuale delle convinzioni (condivisibili)
del cliente rischia di trascurare il fatto che questi usa impropriamente
l’ecologia per "spostare" su un piano astratto la rabbia disconosciuta
nei confronti dei genitori che lo "cacciano" e lo
"vivisezionano". Con questo spostamento egli soffoca il dolore per un attuale e antico rifiuto.
Possiamo
immaginare anche un cliente con solide convinzioni socialiste che è molto
sensibile al tema delle "ingiustizie" e vive tale aspetto
dell'ideologia politica di riferimento con molta rabbia. Ogni mattina sorseggia
il caffè imprecando contro le ingiustizie riportate dal giornale. L'analista,
anche se condivide la sensibilità del cliente per le questioni sociali, deve
comunque capire che quella dose di rabbia non favorisce la loro causa comune.
Stupirsi per le ingiustizie e covare rabbia a colazione non aiuta a cambiare il
mondo e serve più che altro a non sentire che, anche se alcune situazioni
possono essere affrontate e superate, hanno comunque già prodotto delle
conseguenze dolorose da accettare. Se l'analista comprende l'irrazionalità
dell’irritazione manifestata, può notare, ad esempio, che tale cliente è sempre
di cattivo umore e vive come “ingiustizia” anche le frustrazioni sperimentate
sul piano personale (l'abbandono della fidanzata, l'incomprensione di un amico
e così via). Il lavoro sulle convinzioni ideologiche, in altre parole, deve individuare
il punto in cui le difese del cliente si agganciano ad una particolare
concezione della realtà. La contrapposizione di un sistema di idee ad un altro non
è un obiettivo analitico.
Occorre
anche fare una distinzione fra il lavoro "in negativo" e quello
"in positivo". Il lavoro analitico “in negativo” è decisamente
preferibile, perché mira a indebolire le convinzioni irrazionali e non a
sottolineare la maggior ragionevolezza delle convinzioni alternative (che
possono anche essere numerose). Quando l’analista capisce che un cliente collega un atteggiamento difensivo a certi contenuti
ideologici, può evidenziare le contraddizioni nel pensiero del cliente con
domande di questo tipo: "Dato che non vai a messa da vent'anni e
hai fatto sesso con tante persone senza sentirti colpevole, perché ora pensi di
sposarti in chiesa?" oppure "Mi parli da tempo della tua infanzia
scandita da disciplina e oppressione, ma sei propenso ad appoggiare la
repressione di ogni forma di dissenso sociale. Come spieghi questa
contraddizione?". L’analista può lavorare in modi ancor più indiretti chiedendo a tali clienti di immaginare certe situazioni. Ad esempio,
può chiedere al primo come si sentirebbe se comunicasse ai genitori di voler convivere con la sua compagna senza sposarsi o può
chiedere alla seconda persona come si sentirebbe se fosse un extracomunitario
che viene trattato con diffidenza per via del colore della sua pelle. In questo
modo, senza confrontare un sistema di idee con
un altro, l’analista potrebbe far affiorare emozioni che venivano escluse
dalla consapevolezza anche con
l’adesione a certi modi di pensare.
Le
convinzioni ideologiche "problematiche" più importanti e più urgenti
da trattare, riguardano comunque la sfera della sessualità e della famiglia. Le
più ricorrenti riguardano la presunta "necessità" di avere dei figli
("mi sentirei non realizzata se non potessi avere figli"), la
trascuratezza nei confronti dei figli ("ovviamente dopo qualche mese di allattamento riprenderò il mio
lavoro e mia madre si occuperà del bambino"), la svalutazione del sesso
("mi sono sentita umiliata perché ero desiderata per il mio corpo"),
l’uso “improprio” della sessualità (“sono sempre preoccupato nel corso del
primo incontro sessuale”). Quando queste convinzioni irrazionali sono presenti,
la provocazione può costituire il modo migliore per sollecitare una
riflessione. A volte chiedo se sarebbe opportuna qualche sanzione per quelle
"mezze persone" che non riescono ad avere figli, o chiedo se un
neonato può desiderare lo svezzamento al sesto mese per contribuire alla carriera
della madre.
Mentre
il lavoro “in negativo” sulle convinzioni irrazionali mira a indebolirle
evidenziando contraddizioni, conseguenze inaccettabili, presupposti
inconsistenti, il lavoro "in positivo" volto a presentare dei quadri
concettuali alternativi è in genere inutile e, in ogni caso, va svolto con molta
cautela. Può però essere necessario. Una cliente che stava cominciando a
riconoscere un bisogno molto antico di essere accudita e protetta dalla madre
(che l’aveva sempre ignorata e svalutata) iniziò la seduta raccontandomi di
aver fatto un'esperienza molto importante. Si trattava di una seduta di channelling, svolta con una sua collega
che nel tempo libero andava in trance e metteva in contatto le persone con i
loro angeli custodi. Le chiesi cosa avesse ascoltato dal suo angelo custode e
mi rispose che le aveva spiegato che la sua vita difficile aveva uno scopo, che
lei non aveva sofferto invano, che era comunque accompagnata, benvoluta e
protetta. A quel punto le chiesi come si era sentita e, con le lacrime agli
occhi, mi disse che si era sentita "viva". Precisai che l'idea di una
dimensione spirituale non è autocontraddittoria e che non aveva caratterizzato
solo le religioni tradizionali, ma caratterizzava uno dei due filoni della
parapsicologia contemporanea. Ero anche disponibile a darle suggerimenti
bibliografici relativi a testi che davano interpretazioni diverse e anche
opposte degli stessi fenomeni. Le dissi però che se io fossi stato il suo
angelo custode le avrei detto qualcosa di più preciso e soprattutto avrei fatto
il possibile per dimostrarle che ero davvero il suo angelo custode. Ad esempio,
le avrei detto di essere a conoscenza di un particolare della sua vita che lei
stessa non conosceva e che avrebbe potuto verificare. Soprattutto non avrei
detto delle cose vaghe e consolatorie che chiunque avrebbe potuto dirle. A
quale persona un angelo avrebbe potuto dire "Hai sofferto poco e comunque
le tue banali sofferenze non hanno alcun senso"?! Riconobbe che aveva dato
per scontata l'autenticità dell'esperienza perché aveva ascoltato esattamente
ciò che voleva sentirsi dire. Lavorammo, quindi, sul suo antico bisogno di
accettazione e sul fatto che le questioni relative alla trascendenza, se
davvero interessano, vanno affrontate per conoscere la (o “le”) realtà e non
per trovare ciò che si vuol trovare. Evidentemente morivo dalla voglia di
favorire un interesse autentico per la parapsicologia che considero una materia
molto importante, ma ciò era irrilevante e in ogni caso la cliente non mi
chiese alcun riferimento bibliografico. Era invece urgente intervenire (anche
“in positivo”) per non lasciare che quella persona si incastrasse in un tunnel
di rassicurazioni che stavano interrompendo il lavoro del lutto.
A
volte sono i clienti a voler conoscere il mio punto di vista su certe questioni
di carattere generale. Prima di tutto chiedo il motivo di questa curiosità e se
dalla risposta emergono cose da chiarire riguardanti il nostro rapporto, mi
occupo di queste. In ogni caso, pur dando la priorità ad eventuali problemi
implicati da tale richiesta, penso che ad una domanda diretta e personale vada
data una risposta diretta e personale. Non vedo perché dovrei negare una
risposta, se non per dare alla relazione analitica un tono di
"neutralità" che in fondo sarebbe svalutativo nei confronti del
cliente. Non trovo motivi sensati per "proteggere" i clienti dalle
mie idee, se sono interessati a conoscerle. Se invitato, rispondo quindi in
modo sincero. Il modo migliore per non rispondere in modo dogmatico è non essere dogmatici. In genere se
consiglio delle letture includo testi per me significativi che esprimono punti
di vista diversi e anche opposti. Sono davvero convinto, infatti, che sia importante
soprattutto aiutare le persone a pensare con la loro testa. Il lavoro analitico è un percorso di
affrancamento da convinzioni e atteggiamenti che limitano l'espressione delle
potenzialità personali, ma non è un percorso “formativo”, come quelli favoriti
da chi si concepisce come una sorta di “guida spirituale”. Il lavoro analitico, quindi, non implica alcuna “concezione
della realtà”, proprio perché la conoscenza della realtà cessa di essere
conoscenza appena diventa una “concezione”.