lunedì 16 luglio 2018

31. Il sacro e la trascendenza







Fino ad ora ho esaminato i vari risvolti delle strategie difensive che costruiamo nell’infanzia quando il nostro bisogno di contatto non viene soddisfatto. Nei prossimi capitoli cercherò di mettere a fuoco una particolare estensione delle strategie difensive che ci porta a non provare il dolore di esistere in una realtà immensa nella quale non riusciamo ad orientarci e in una dimensione temporale sulla quale non abbiamo alcun controllo.
Possiamo svegliarci in una spiaggia isolata dal resto del mondo. Da soli. O anche con la persona che amiamo. Anche se possiamo interpretare il nostro risveglio in modo “puramente pratico” o “romantico” o “avventuroso-ecologico”, da qualche parte, non possiamo non percepire di essere un granello di sabbia appena un po’ più grande di quelli sui quali abbiamo riposato e inventato i nostri sogni. Sempre “da qualche parte”, dobbiamo accettare non solo l’idea di poter abbracciare con la nostra consapevolezza tutto il mare e tutto il cielo, ma anche l’idea di essere inclusi nella totale incoscienza di quel mare e di quel cielo. Essere inclusi non è come essere abbracciati e la natura, tanto cara ai poeti, non è né madre né matrigna, ma, semplicemente “sta lì”. Possiamo sentirci molto eccitati dal contatto fisico con la brezza del mattino e dal ricordo del cielo stellato sotto il quale ci siamo addormentati, ma non possiamo non sapere che le onde e le nuvole assistono senza alcuna emozione allo spettacolo del nostro risveglio. Non verserebbero una lacrima se morissimo in quell’istante e non trasalirebbero empaticamente se abbracciassimo la persona che è con noi. Continuerebbero a costituire quella massa di immensità eterna, compatta, in cui ci ritroviamo e in cui siamo smarriti, anche se siamo consapevoli delle coordinate geografiche del luogo in cui stiamo giocando con i nostri pensieri. Ci troviamo lì con i nostri piedi freddi, di fronte alle braci ancora calde e con la tazza del caffè in mano. Ci troviamo lì con la persona amata o da soli, faccia a faccia con l’immensità che continua ad includerci, ma non ci accoglie. E sentiamo di poterci muovere nello spazio della spiaggia, lasciando scorrere il tempo della nostra piccola vita, ma siamo consapevoli di non poter rispondere alla domanda che si agita nella nostra mente come un uccello che è entrato per errore in una stanza e che sbatte contro le pareti: la nostra sensazione di esistere è solo un fatto che accade fra gli altri? Oppure esistiamo collocati nella trama di un racconto che accoglie e “riconosce” la nostra meraviglia e la nostra pena? Restiamo lì, con le nostre domande confuse, senza ricevere risposte da un cielo che sembra troppo grande e troppo distante per notare la nostra presenza.
La consapevolezza di essere “superflui” in un mondo che ci sembra indispensabile è dovuta a due fatti: il nostro far parte di una realtà oggettiva, semplicemente “data”, più o meno nota, più o meno ignota, ma sicuramente “altra da noi” ed anche la nostra incorreggibile ostinazione a sentirci soggetti, ad identificarci in “noi stessi” e non in qualsiasi “altra cosa”. Siamo certi di essere proprio noi e di essere qualcosa, ma di essere “inclusi” in una “cosa” immensa che non è “noi” e che non sembra nemmeno interessata a noi. Che ci lascia stare lì, per un po’ e che continuerà ad esserci quando noi non ci saremo più. Nella nostra limpida confusione siamo costretti a riconoscere che siamo troppo consapevoli di esserci per trovarci a nostro agio in una realtà che è o ci appare del tutto inconsapevole. Il nostro smarrimento deriva dalla mancanza di una relazione con una realtà oggettiva che non è solo esterna a noi o “altra” da noi, ma è anche inconsapevole di noi, di sé e del rapporto con noi. I bagliori della nostra coscienza in una totalità che si limita a esserci, ci fa sentire “piccoli”. Troppo piccoli in un mondo troppo grande.
Lo smarrimento dei bambini in un mondo davvero piccolo, che inizia e finisce con i genitori, con la fame e la sazietà, è uno smarrimento che cessa appena compare dal grande nulla una semplice carezza. E’ uno smarrimento generato dall’incompiutezza della coscienza dei bambini, che, proprio per tale incompiutezza, può essere facilmente annullato dall’accoglienza rassicurante. Se tale accoglienza manca, lo smarrimento viene “interrotto” da un blocco del respiro, da un irrigidimento dello sguardo, da una piccola bugia creata da un “quasi-pensiero”. Di fatto, quello smarrimento non viene sempre sanato, ma può essere sanato da una carezza. Ben diverso è lo smarrimento degli adulti nell’universo in cui esistono: è uno smarrimento generato proprio dalla compiutezza della coscienza e quindi dalla lucida constatazione di un’assenza. Noi continuiamo ad interagire con noi stessi proprio reiterando la consapevolezza di questa non interazione con il resto dell’universo. Il nostro smarrimento “nel mondo” non viene mai “sanato”. Se una persona cara ci abbraccia, non ci rassicura, ma condivide la nostra fame di certezze e la nostra mancanza di certezze.
Di fatto, i due tipi di smarrimento si intrecciano: se nell’infanzia ci siamo dissociati da sensazioni spiacevoli ingestibili, nella vita adulta continuiamo inconsciamente a “non-pensare-non-sentire”, sia quando il dolore “antico” riaffiora nei rapporti interpersonali, sia quando ci colpisce un dolore attuale, sia quando il dolore ci sfiora come consapevolezza della nostra precarietà esistenziale nel grande mondo. Se abbiamo la fortuna di crescere senza difese psicologiche ingombranti (o di analizzarle in seguito e di farne a meno), possiamo godere dell’opportunità di vivere la nostra vita con tutti i colori della gioia, del dolore e della felicità. La felicità consentita a noi umani non è però quella dei bambini: include la contemplazione della bellezza che è in noi, negli altri e nel mondo, ma include anche il dolore irrimediabile di trascorrere tutti i nostri attimi in una grande, bellissima spiaggia che non ci racconta nulla e che forse non ci ascolta o che ci ascolta senza darci la certezza di essere ascoltati. Questo smarrimento è quindi parte “essenziale” dell’esistenza umana e ogni sua negazione riduce lo “spessore” dell’esperienza di esistere. Ogni sua negazione ci condanna a vivere “poco”.
L’involuzione di cui ho parlato e che ha portato la specie umana ad intossicarsi di dissociazioni e di difese psicologiche, ha inevitabilmente portato la specie umana anche ad alterare la percezione della precarietà, aleatorietà ed incertezza dell’esistenza. Anche se l’analisi delle difese psicologiche costruite nell’infanzia è, in fondo, più che sufficiente per la comprensione dell’irrazionalità individuale e sociale, richiede qualche approfondimento, perché le difese psicologiche ostacolano anche l’accettazione della “radicale limitazione” dell’esistenza umana.
In un testo divenuto una pietra miliare negli studi sul tema, Rudolf Otto (1917) ha mostrato che la categoria del sacro attraversa la storia dell’umanità. Purtroppo, il concetto di sacro che risulta dalle sue ricerche sembra riconducibile ad un insieme di processi cognitivi ed emozionali difensivi. Poiché di fronte all’immensità in cui siamo “gettati”, ci sentiamo in fondo “piccoli”, come se fossimo bambini e proviamo, come nell’infanzia, un bisogno assoluto di protezione e sicurezza, facilmente “sistemiamo le cose” secondo modalità difensive (rassicuranti), ricorrendo all’idea di un “Altro” essere che ci può salvare e a cui dobbiamo aggrapparci con assoluta fiducia, ma anche temendo di non meritare la salvezza. Il sacro, ricondotto da Otto alla categoria del “numinoso”, è certamente un concetto culturalmente fondamentale, ma tale concetto riflette tutte le contraddizioni dello sviluppo psicologico infantile che, fin dagli inizi della storia umana, è stato limitato dalle difese psicologiche.
La nostra piccolezza nel grande universo in cui viviamo è un fatto indiscutibile e in tale immensità è inevitabile che proviamo una sensazione di smarrimento simile a quella di quando eravamo piccoli nel mondo dei grandi, ma non è in alcun modo scontato che dobbiamo reagire come se fossimo ancora dei bambini. Se ciò accade, è presumibile che riattiviamo delle difese irrazionali costruite nel rapporto con i genitori molto prima di poter considerare il nostro rapporto con l’intero universo. Non è quindi scontato che alla precarietà del nostro esistere dobbiamo reagire negando il dolore, perché possiamo anche accettare di convivere con questo doloroso senso di smarrimento. Infatti, anche se la mescolanza di fiducia e terrore caratterizza, secondo Rudolph Otto, l’esperienza soggettiva del sacro inteso come “numinoso”, nella storia dell’umanità si sono manifestati anche atteggiamenti più razionali nei confronti della “intera realtà” e della morte. Già nel Vecchio Testamento, troviamo capitoli, come l’Ecclesiaste o il Cantico dei Cantici nei quali il rapporto fra l’uomo, la sua vita e la sua morte è concepito in modi ben più delicati di quelli che caratterizzano altri capitoli dell’opera.
Non sono certo in grado di riesaminare le concezioni “numinose” e quelle più razionali del sacro nella storia della cultura occidentale e orientale, ma so che da sempre le difese psicologiche si affiancano alla razionalità e che da sempre l’umanità colleziona anche un altro concetto di “sacro” inteso semplicemente come sinonimo di “prezioso”. Questa seconda concezione della sacralità riflette una calda e lucida accettazione della gioia, del dolore, della conoscenza, del dubbio, dell’intimità e della solitudine. Riflette una dolce e appassionata accettazione dell’esistenza umana così come è. George Orwell ha scritto: "Il problema reale è come ristabilire un atteggiamento religioso unito all'accettazione della morte come meta finale" (1944, p. 281). Trovo apprezzabile e sostanzialmente condivisibile questo tentativo di riconoscere la costitutiva precarietà dell'esistenza umana e di accettarla con compassione, senza fuggire in una confusa "angoscia" e senza trovare consolazione in certezze indimostrabili. Preferisco però non utilizzare a questo proposito il concetto di "religiosità" utilizzato da Orwell, perché esso è strettamente collegato alle religioni storiche. Preferisco utilizzare il concetto di sacralità (in senso laico) piuttosto che il concetto di religiosità (in senso laico) perché nell’uso quotidiano il concetto non religioso di sacralità è abbastanza frequente (come nell’espressione “la parola data è sacra”), mentre il concetto “laico” di religiosità è davvero raro. L’uso “puramente umano” del concetto di sacralità, distinto da quello che comporta fede e terrore, rinvia alla consapevolezza del limite, del dubbio e del dolore, ma anche alla contemplazione della bellezza.
L’esperienza semplicemente umana del sacro dipende dalla capacità di cogliere ed apprezzare la reale bellezza di qualcuno o di qualcosa. Non riflette il bisogno di ottenere un impossibile appagamento infantile, ma esprime la consapevolezza di un fatto esaltante: “là fuori” è presente la stessa bellezza che si manifesta in noi.
Per fare l’esperienza della sacralità degli altri e della vita abbiamo bisogno di esplorare la nostra dimensione interiore. Se non proviamo compassione per noi stessi riduciamo inevitabilmente qualsiasi relazione interpersonale al piano della mera sopravvivenza o dell’illusione. Purtroppo, nelle relazioni interpersonali la dimensione del sacro è normalmente assente. Spesso facciamo ciò che serve per “indurre qualcuno a fare qualcosa”, o per “ottenere qualcosa”, o per sentirci superiori o vittime (e quindi “moralmente superiori”), o per sembrare “tanto buoni”, o per meritare ammirazione, o per “sfogare rabbia” anche quando la rabbia non migliora la realtà. Non sappiamo proprio perché ci comportiamo in certi modi, ma raramente compiamo delle azioni che migliorano davvero la qualità della nostra giornata e raramente ci attiviamo per donare un sorriso ad un’altra persona. Questa trascuratezza a mio parere non costituisce una “colpa”, ma uno "spreco": ingannando, umiliando, sfruttando gli altri sprechiamo la nostra capacità di sperimentare una gioia condivisa e una possibile “sacra” armonia.
Fortunatamente nelle relazioni interpersonali non si manifestano solo conflitti insensati, prevaricazioni o complicità distruttive. Da sempre nelle relazioni fra persone, fra persone e animali, fra individui e società, o nel dialogo interno delle singole persone si manifesta anche un “riconoscimento” della bellezza di qualcuno o di qualcosa.
Un mio cliente (Silvio), dopo un faticoso avvicinamento ai propri sentimenti, aveva iniziato a trattarsi con più attenzione e con più cura. Un giorno arrivò all’appuntamento con più di mezz’ora di ritardo e senza avvisarmi. Per una persona tanto puntuale la cosa era insolita, ma nei pochi minuti della seduta rimasti mi disse che si era “perso” guardando suo figlio nel “box”. Si aggrappava, si tirava su e poi cadeva sui cuscini. Era pieno di entusiasmo e di frustrazione e cercava sempre lo sguardo del papà. Nella contemplazione di quelle emozioni semplici Silvio aveva “sospeso il tempo” per essere “con-presente”. Aveva ormai imparato a piangere e a gioire e poteva ben capire quanto fossero delicate quelle “piccole” avventure di un bambino che stava crescendo e quanto potesse “togliere il fiato” la contemplazione di quella piccola e immensa avventura. Concludemmo dopo poche settimane il nostro lavoro e spero tanto che egli continui a lasciarsi stupire dalla vita.
Una mia cliente, abbastanza in pace con sé, nonostante le difficoltà della sua relazione sentimentale, mi disse “Non voglio più continuare una relazione a senso unico. Non voglio più pensare da sola ad un rapporto che non è tale per entrambi. Non ho però dimenticato la bellezza di Renzo. Lui mi è caro quando è determinato e capace di sfidare le difficoltà. Mi è caro quando è chiuso e spaventato. Capisco più di lui quanto abbia sofferto. Mi spiace che non abbia voluto accompagnarmi nella vita e che non voglia sentire la solitudine che lo spaventa da sempre. Mi dispiace pure che si senta libero di farmi del male, anche se non ne è consapevole. Tengo però sempre presenti le sue antiche sofferenze, di cui mi ha parlato in modo sbrigativo, minimizzando i sentimenti di cui solo io ho compreso l’intensità. Una volta sua madre gli disse che aveva tradito la fiducia dei suoi fratelli, mentre aveva solo agito da bambino. Lui si sentì morire e smise di essere un bambino. Cerca ancora di essere “qualcosa” perché non gli basta essere ciò che è. Non gli basta mai. E non gli basta nemmeno stare con me. Mi fa tenerezza quando lo sveglio. Non si sveglia mai sereno. Al risveglio viene sempre “da molto lontano”, viene scosso violentemente dalla percezione di essere nel letto e dal suono della mia voce. Non passa mai da un sonno quieto ad un risveglio quieto, con me. Non so dove vada nei sogni, ma credo vada sempre in qualche incubo e che al risveglio tema qualcosa di ancor peggiore. Gli vorrò sempre bene. Non posso non volergli bene. Capisci?”. Compresi che, nonostante l’esigenza di allontanarsi, continuava a considerare sacra la vita del suo compagno. Comunicandole la mia impressione mi rispose che il riferimento al sacro era davvero appropriato.
La sacralità, se collocata su un piano razionale, ha a che fare con la libertà, la bellezza e la felicità. E’ tale nei momenti migliori ed in quelli peggiori, perché presuppone la capacità di godere le gioie della vita e di elaborare i lutti. Non è molto frequente che le persone considerino davvero sacro qualche essere umano o vivente, perché normalmente sentono poco. Però capita pure che si concedano di sentirsi sacre e di considerare quindi sacre le altre persone. Capita persino che gli animali meno complessi di noi sentano intensamente che la vita è preziosa: gli elefanti celebrano in qualche modo la perdita dei loro cari (cfr. Masson, 1995). Quelli che pensano che siano “solo animali” probabilmente sentono “solo qualcosa” nel loro dialogo interno.
Se non comprendiamo la delicatezza di ciò che sentiamo e non riconosciamo la nostra capacità di affrontare le gioie e i dolori della nostra esistenza, non possiamo davvero immaginare che gli altri abbiano una dimensione interiore tanto “grande”. E’ proprio la pura contemplazione di ciò che gli altri hanno in comune con noi a farci percepire la sacralità delle altre persone e della realtà in cui siamo immersi.
Il “sacro” inteso come ambito del terrore e della speranza è inconcepibile su un piano razionale. Tutta la sacralità “ufficiale” affermata dalle autorità religiose, ma, in altri modi anche da quelle militari e politiche, consiste proprio in una negazione della “vera” sacralità che ha le sue origini nella compassione e nella benevolenza. La devozione alla divinità è paura del potere che ci sovrasta. Una paura accettata in cambio di un’illusione di protezione. La dedizione alla propria “patria” equivale alla svalutazione di altre persone nate in altri luoghi. La rigida affermazione dell’appartenenza ad una particolare società prescinde dall’esame critico del modo in cui tale società rispetta ma anche calpesta le persone. Il timore di essere “dannati” o “traditori” o “esclusi” caratterizza tutta la concezione “normale” del sacro. Infatti i normali dogmi religiosi, patriottici o ideologici garantiscono una sicurezza e minacciano un’esclusione. Prospettano la realizzazione degli incubi peggiori dei bambini e proprio con tale minaccia offrono la “sicurezza” di un’adesione incondizionata a qualcosa di più “grande” che può anche accogliere e rassicurare. Noi siamo effettivamente smarriti in una realtà immensa e sospesi in una temporalità incontrollabile. Con intensi sforzi riusciamo a comprendere solo alcuni dettagli del mondo in cui siamo immersi. Inoltre, possiamo formulare un obiettivo in un attimo e magari riusciamo a realizzarlo solo in molti anni. Possiamo trovar pace in noi stessi, in una relazione interpersonale o in una situazione sociale, ma sappiamo di dover prima o poi toccare il limite di tale pace e di doverci confrontare con la morte o con qualche sua più limitata anticipazione. Per questo, credo che sia opportuno ricondurre l'inconoscibile, come pure il "non realizzabile", alla realtà indiscutibile del dolore che, assieme alla gioia ed alla felicità, caratterizza l'esistenza umana. Ogni concezione "terrificante" del sacro va collocata fra le costruzioni difensive che esaltano la paura proprio per offrire rassicurazioni e che, di fatto, ostacolano la dolorosa accettazione di un limite che è "dato".
La consapevolezza della precarietà dell'esperienza umana, spesso accantonata, ma comunque ineludibile, sollecita ragionevoli interrogativi sulla possibilità che tutti i limiti e le sofferenze della vita non siano semplicemente dei "fatti", ma degli aspetti di un insieme più ampio. O di un “piano” che ci include. Questa curiosità non ha nulla a che fare con la fame di rassicurazioni, ma, di fatto, il bisogno di rassicurazioni ha sempre prevalso sull'esame razionale delle ipotesi.
L'autentica curiosità giustifica l'esame dei fenomeni che inducono alcuni studiosi ad ipotizzare un'altra dimensione da cui sembrano "tornare" le persone ritenute clinicamente morte (Moody jr., 1975). Anche le testimonianze che portano alcuni studiosi ad ipotizzare stati di "bilocazione" in cui la consapevolezza è sperimentata al di fuori del corpo (Green, 1968, Tart, 1968) sono di grande interesse, come pure le controversie che vertono sulle spiegazioni di tali fenomeni suggerite da autori diversi. Paradossalmente questi temi non appassionano molte persone, mentre miliardi di esseri umani accettano le “spiegazioni” religiose della condizione umana basate su semplici tradizioni. L'idea che una divinità possa dare sicurezza agli esseri umani (come i migliori genitori), ma anche punirli (come i peggiori genitori) è semplicemente irrazionale, perché riduce la trascendenza ad una "immanenza esagerata". Il fatto che normalmente le persone (anche colte) siano poco interessate a conoscere e molto interessate a "credere" dimostra che davvero la precarietà dell'esistenza umana è inquietante e che normalmente gli esseri umani rifiutano di accettare la loro condizione.
Se non blocchiamo la nostra curiosità, non possiamo non chiederci cosa ci sia oltre lo spazio a noi noto e al di là del “nostro” tempo. Non è facile per noi accettare davvero l’idea di una storia dell’umanità trascorsa in nostra assenza, ma, sforzandoci, possiamo anche accettare l’idea di aver avuto un inizio dopo la preistoria, dopo l’Impero romano e dopo il fascismo. Facciamo più fatica ad accettare che l’umanità continuerà ad esistere senza di noi e senza che ne possiamo sapere nulla. Semplificando le cose, possiamo dire che con la morte noi usciamo di scena e “non andiamo da nessuna parte”, ma se riflettiamo più da vicino, l’idea di “noi stessi” cozza con l’idea di non-esistenza: l’idea che noi da un certo momento non esisteremo ha qualcosa di paradossale, perché affermando che noi non esisteremo più stiamo, di fatto, pensando a noi stessi (e quindi a “noi esistenti”). L’idea di una nostra scomparsa non è realmente contraddittoria o irrazionale, ma è semplicemente difficile da concepire.
L’idea di “non esserci e basta” è psicologicamente disturbante. Ciò, ovviamente non dimostra che vivremo in altri modi o in altre dimensioni dopo la morte, ma dovrebbe ragionevolmente intensificare la nostra curiosità per la possibilità o l’impossibilità di una vita (o di qualche “tipo” di vita) dopo la morte. Un altro elemento che dovrebbe ragionevolmente accrescere la nostra curiosità per eventuali “altri” modi di esistere al di là della morte fisica, è costituito dalla consapevolezza del dolore di dover comunque prima o poi interrompere la nostra partecipazione ad una danza che stavamo eseguendo con altre persone e soprattutto con persone care. Per questi motivi, la difficoltà psicologica ed emotiva a concettualizzare e ad accettare l’idea che “la vita oggettiva continui senza la nostra partecipazione soggettiva” rende praticamente inevitabile un forte interesse per la nostra esistenza “in blocco”. Solo l’ingombrante presenza delle difese psicologiche giustifica le tendenze a “non pensarci” o a minimizzare il problema o ad accettare concezioni consolatorie assorbite nell’infanzia. Qui sorge un grosso problema, perché dalle risposte certamente difficili e non scontate a tali domande dipende l’interpretazione della nostra temporanea esperienza di esistere come persone. E’ un fatto che le convinzioni relative ad una possibile o impossibile trascendenza non sono solide come la convinzione relativa al fatto che l’acqua è bagnata. Quindi, se la labilità, precarietà, aleatorietà dell’esistenza umana è certa, le spiegazioni relative ad un eventuale “dopo” sono in qualche modo deboli.
Questa precarietà esistenziale e questa debolezza conoscitiva rendono la vita degli adulti simile a quella dei bambini. I bambini sentono tutto ma non capiscono nulla del loro piccolo mondo, mentre gli adulti, pur essendo guide esperte nel loro mondo “oggettivo”, si trovano smarriti di fronte all’idea di esistere … solo per un po’ di tempo. Tuttavia, nonostante tali difficoltà, gli adulti possono accettare la precarietà dell’esistenza e possono lasciare da parte l’idea del sacro-numinoso, che costituisce una trasposizione sul terreno cosmologico di vissuti infantili non elaborati e di difese psicologiche non superate. Se davvero esistessero altri piani di realtà e se altre “entità” esistessero su tali piani, esse sarebbero “altre da noi”, e quindi, in quanto “altre”, non potrebbero ragionevolmente essere una versione “ingigantita” o “purificata” delle persone con cui interagiamo nella realtà attuale. Qualsiasi antropomorfizzazione o psicologizzazione di ipotetiche entità esistenti su un piano “trascendente” non è razionalmente giustificabile e rientra in una strategia difensiva. Queste considerazioni ci conducono ad un punto molto delicato del discorso sviluppato nei capitoli precedenti: se l’esistenza umana viene “liberata” dalle difese psicologiche, comporta sia il dolore dovuto ai limiti, alle perdite e ai rifiuti sperimentati, sia il dolore generato dalla “incomprensibile” precarietà esistenziale. Dobbiamo convivere o con l’idea di un “non essere” dopo la morte o con l’idea di un “essere altro” dopo la morte. Dobbiamo convivere con l’impensabile, con il dubbio, con la certezza dell’incertezza.
Il dolore della solitudine e della mancanza di una sicurezza affettiva porta i bambini a crescere con difese psicologiche che limitano l’espressione delle potenzialità personali nel dialogo interno, nella sessualità, nelle relazioni interpersonali e nei rapporti sociali. Tali difese psicologiche limitano anche la capacità di affrontare la vita e la morte con lucidità e compassione. Tali difese sono sostanzialmente di due tipi, come le altre già esaminate: il distacco e l’ottimismo.
Il distacco non intellettualizzato si manifesta nel semplice non pensare al “ruolo” della morte nella nostra vita o nel minimizzare il problema affermando che in fondo a noi basta la vita così come è. Sia questa superficialità “rozza”, sia il “dotto” nichilismo che comunque minimizza il senso di “precarietà” esistenziale, raggiungono lo stesso scopo: interrompono il contatto con il dolore costituito dal fatto che il nostro tempo è “scarso”, dal fatto che non sappiamo quanto tempo ci resta e dal fatto che non sappiamo nulla di preciso sulla morte. All’estremo opposto troviamo le difese ottimistiche rozze o dotte, ma comunque irrazionali: quelle delle persone a cui basta “credere” che la vita continuerà e quelle delle persone che hanno “convinzioni” teologiche intellettualmente più sofisticate, ma non dimostrabili e comunque corrispondenti a quelle assorbite nell’infanzia. L’umanità è letteralmente sepolta dalle difese psicologiche. Di fatto, normalmente le persone vivono “poco” sia negando il dolore “antico” e “attuale” della solitudine, sia negando il dolore che dipende dall’incertezza relativa all’esistenza umana “in blocco”.
Dopo queste riflessioni “ordinate” voglio riproporre l’intera questione in un modo “disordinato”.
Il primo colloquio con un cliente che chiamerò D, fin dall’inizio prese una strana piega.
D. Forse è il caso che le spieghi la mia presenza qui.
GF. Parli liberamente.
D. Mi rendo conto di poterle creare imbarazzo, ma tutto ciò che lei sta osservando e che ascolterà da me, purtroppo, non le risulterà chiaro. Dovremo approssimarci gradualmente alla realtà dei fatti per comprenderne almeno i confini.
GF. Non credo di aver capito.
D. Lei mi sta prestando attenzione, ma non può capirmi davvero. Non solo perché “in fondo” la comprensione degli altri è sempre imprecisa, ma perché io sono realmente “presente” in un modo diverso da quello che lei può osservare.
[Queste parole mi fecero pensare che D cercasse di descriversi come un “tipo speciale”, ma i suoi modi semplici contraddicevano la mia ipotesi e quindi aspettai il resto del discorso per cercare di orientarmi]
GF. Può provare a dirmi qualcosa di lei in termini più precisi?
D. Purtroppo non posso presentarmi in termini “precisi”. In termini più generici posso usare un’espressione comune, che non le piace e che non piace nemmeno a me, ma, tanto per rompere il ghiaccio, posso dirle che, da un punto di vista molto comune, sono dio.
[Cercai di non far trapelare la mia reazione, ma pensai “Nooooo! Ho già un mucchio di clienti complicati e mi manca solo un tale che pensa di essere dio! E adesso che faccio? Come sistemeremo le cose quando scoprirà che non credo in dio?” Passai al setaccio tutte le vie d’uscita, ma, prima che potessi escogitare qualcosa, D rispose al mio pensiero.]
D. Stia tranquillo. Con me non è in pericolo. Anzi, ci conosciamo da molto tempo. Lei sicuramente non troverà facile comprendere questa strana situazione, ma, se resta coerente con la sua avversione per i pregiudizi, può comprendere almeno qualcosa.
GF. Vale a dire?
D. Lei sta pensando che una cosa insolita sia impossibile e quindi riporta le mie parole ad una manifestazione psicotica. Tuttavia lei è da sempre propenso a confrontare con i fatti tutte le idee ed a respingere quelle che sono idee preconcette. Io sono qui per fare un incontro a cui tengo e che può servire anche a lei. Vede, io sono davvero dio, anche se lei non può capire il significato di questa parola. Anzi, ad essere esatti, questa parola rientra nel lessico umano e proprio per questo ha dei significati inevitabilmente riduttivi. Voi umani arrivate al limite della vostra razionalità con il concetto di trascendenza, perché immaginate che possa esservi un piano di realtà “altro” rispetto al vostro, che in qualche modo si colloca “oltre” la vostra vita e le vostre idee sulla vita. Però, finite sempre per dare dei contenuti indiscutibilmente umani proprio a ciò che immaginate come “altro” e “oltre”. Così, inevitabilmente, attribuite cose “vostre” a ciò che si colloca davvero “oltre” ogni umana fantasia. So che su questo fatto elementare siamo già d’accordo. So bene che lei non esclude la trascendenza, una realtà spirituale, ma si astiene dal tentativo di comprendere l’incomprensibile. So bene che è irritato dai pensatori metafisici e religiosi che, sulla base delle loro idee (immanenti) o delle loro emozioni (immanenti) o delle loro esperienze “mistiche” (immanenti), pretendono di conoscere contenuti trascendenti: dio che crea, che aiuta, che condanna, che perdona, che accoglie, e che quindi compie “in grande” le tipiche azioni umane. Non si può versare un'intera bottiglia di vino in un bicchiere e apprezzo molto che lei si occupi solo del suo bicchiere e che non cerchi di sputare sentenze su una bottiglia di cui può solo pensare che o non esiste affatto o “è trascendente” e quindi non è riconducibile alle categorie adatte al bicchiere “umano”.
[La mia preoccupazione aumentò e pensai: “E’ pazzo furioso ed ha anche letto e compreso alla perfezione i miei scritti. Pazzo e lucidissimo. Può essere che abbia da tempo in mente qualcosa che ora vuole mettere in atto, ma cosa?”]
GF. Mi scusi, ma credo proprio di non essere la persona più adatta per aiutarla: non ho esperienza di problemi divini e per qualche motivo che mi sfugge sono molto turbato e in questo stato d’animo non potrei lavorare con lei, anche se fossi preparato e capace.
D. Ora lei ha paura, e ha buone ragioni per sentirsi così, poiché a volte è pericoloso contraddire i pazzi.
[La mia paura divenne panico e pensai: “è pazzo, lucido, ha letto i miei scritti ed è anche dotato di una strana capacità di immaginare ciò che penso”]
D. Lei è proprio terrorizzato, e mi dispiace molto. Mi conceda però il beneficio del dubbio e sia coerente con quanto scrive sui pregiudizi. Se non le piacciono i pregiudizi, si permetta e mi permetta di stabilire alcuni fatti. Mi chieda qualcosa che non sa e che posso sapere solo io, se davvero esisto al di là della sua “immanenza”.
[Pensai: “Ecco, ora sono proprio fregato. Se mi sottraggo alla sfida può sentirsi svalutato e se accetto la sfida si troverà in difficoltà e io sarò nei guai".]
D. Lei legge, ma non impara i libri a memoria ovviamente. Però potrebbe ricordare inconsciamente anche ogni parola di ogni libro che ha letto. Prenda un libro e mi dica il numero di una pagina che non ha ancora letto.
[Non avevo scelta. Mansueto come un agnellino presi un libro che avevo sul tavolo e di cui avevo letto solo l'Introduzione. Lo aprii a pagina 230 e mentre stavo per posare gli occhi sulle prime righe, D mi disse di non leggere nulla prima di averlo ascoltato.]
D. Se le riporto ciò che sta scritto mentre lei controlla, può sospettare che io non sia dio, ma una persona con capacità telepatiche. Non siamo qui per cose parapsicologiche e quindi, prima mi ascolti e poi controlli.
GF. Già.
[Restai lì con il dito fra pagina 230 e pagina 231. D mi “recitò" alcune righe e a quel punto aprii il libro e mi accorsi che aveva effettivamente letto le prime tre righe della pagina. Presi un altro libro ed ebbi la sorpresa di verificare che questo “cliente” conosceva a memoria tutte le pagine non ancora lette dei miei libri. Ero spiazzato e D lo sapeva. Cominciò a darmi del tu dicendo che mi conosceva bene e che ora egli poteva uscire dallo schema del colloquio analitico, dato che in qualche modo, con la mia (incerta) “apertura mentale” gli lasciavo tale possibilità. Non mi sentii però affatto tranquillo. Anzi, pensai che se in linea di principio era possibile che qualche realtà trascendente fosse piovuta nell’immanenza del mio studio, era più probabile che io stessi diventando pazzo.]
D. No, non sei pazzo. Hai un bel caratterino “di merda”, se posso usare la tua abituale definizione, ma ci hai lavorato molto e non vivi completamente smarrito in quelle che chiami “difese psicologiche”. In qualche misura accetti la realtà e quando le tue difese affiorano sei abituato a “lavorarci”, a ritrovare qualche dispiacere evitato e quindi a ritrovarti. E poi non potresti diventare psicotico, perché per tua fortuna sei sempre stato pazzo solo nei limiti di un decente contatto con la realtà. Se sei davvero onesto intellettualmente ed emotivamente non attaccato ad alcun pregiudizio, possiamo “incontrarci”, almeno nei limiti in cui ciò è possibile.
[Continuavo ad avere delle riserve. Mi chiedevo anche se fossi sveglio o se stessi sognando, ma in ogni caso ero disponibile ad andare avanti: avevo cercato di falsificare l’ipotesi meno probabile e tale ipotesi era risultata invece verificata. Nessuno sulla terra conosce a memoria i libri. Punto. Se ero quindi di fronte a dio diventava inevitabile controllare in altri modi la sensatezza e la coerenza dell’esperienza che stavo facendo.]
GF. Se sei dio, come posso interagire con te, qui, ora? Voglio raccontarti una favola per sapere cosa ne pensi.
I pesci del mare vivevano in un mondo sempre e comunque bagnato o almeno umido. Anche quando con un guizzo si sollevavano sopra le acque non riuscivano a stare sospesi nell’aria abbastanza da sentirsi asciutti, perché prima di fare quell’esperienza ripiombavano nell’acqua. Eppure sapevano che potevano esistere cose asciutte: avevano visto delle barche e la loro parte superiore non era bagnata dalle acque, ma, anzi, era accarezzata dal vento. I pesci volevano conoscere il significato della vita all’asciutto, vissuta senza i limiti dovuti ad una sottile pellicola di acqua. Assediarono una barca ed attesero che qualcosa di asciutto giungesse a loro. Tuttavia ogni volta che una persona dell’equipaggio buttava in acqua un oggetto qualsiasi, come un mozzicone di sigaretta, i pesci riuscivano solo ad appropriarsi di un oggetto già bagnato. Conclusero che le cose asciutte o esistevano solo nella loro immaginazione oppure esistevano solo al di là della loro possibilità di “toccarle”. In questo modo si formarono l’idea di trascendenza.
D. E’ una bella storia. E’ anche “realistica”.
GF. A me sembra che le idee sulla trascendenza degli esseri umani siano molto “bagnate”. Dio assomiglia terribilmente ai genitori e spesso ai peggiori genitori, pieni di pretese ed anche svalutanti.
D. E’ vero. Le idee umane sulla trascendenza sono decisamente “immanenti”.
GF. E allora che rapporto ho ora, qui, con te?
D. Hai un rapporto strano. Io sono la sigaretta asciutta che ti arriva bagnata. Tu sei costretto a percepire una “umidità” che non mi appartiene, ma che appartiene alla realtà in cui sei immerso.
GF. Mi sembra una condanna.
D. Lo è, ma solo dal tuo punto di vista. Lo è dal lato "bagnato" della realtà.
GF. Ed esiste una spiegazione ragionevole di questa “condanna che non è una condanna"?
D. Esiste, ma è una spiegazione trascendente. Appena voi umani passate dall’idea di trascendenza a qualche spiegazione, trasformate una “apertura” mentale in uno schema chiuso: la dimensione “altra”, irriducibile all’immanenza viene incasellata in schemi radicalmente immanenti, come quello del “dio che perdona o condanna” dei cattolici o quello della “ruota delle reincarnazioni” dei buddhisti. Poi addobbate questi schemi con le vostre concezioni morali, sociali e vi inventate i peccati, le caste e tante cose che comunque hanno a che fare con la vostra capacità o incapacità di essere autentici come esseri umani. Nella trascendenza proiettate il meglio ed il peggio della vostra vita e quindi la perfezione immaginata da voi e l’orrore creato da voi.
GF. Se le cose stanno in questo modo, ora io non sono in contatto con te …
D. No, purtroppo. Io sono in contatto con te, ma tu mi vedi con i tuoi occhi e mi pensi con i tuoi pensieri, con i tuoi sogni, con la tua storia personale.
GF. Se le cose stanno così, perché stanno così? Perché passiamo decenni a cercare di orientarci e a smarrirci in una realtà tanto dolorosa, che però non è nemmeno “reale”?
D. Una spiegazione c’è, ma non la puoi comprendere.
GF. Però è un incubo il non poter capire e il voler capire.
D. C’è una ragione anche per questo fatto, così come per il dolore in generale. Ma tale ragione è “oltre”. Nella tua realtà è possibile solo affrontare il dolore e soffrire in modo “sensato” o soffocarlo e star male in modi “insensati”. E’ questo il succo del tuo lavoro sulle difese psicologiche. Altri usano altri quadri di riferimento, egualmente ragionevoli, ma quasi tutti preferiscono teorie rassicuranti, molto “spirituali” e piene di chiacchiere sulla trascendenza, sulla divinità, sulle realtà “transpersonali”, sulla reincarnazione, sul nirvana e così via. La realtà reale e “totalmente altra” è scomoda da accettare, perché costringe a stare nella realtà umana con lucidità, passione ed anche con il dolore, senza alcuna pretesa di afferrare la trascendenza.
GF. E cosa ci sto a fare qui con te?
D. Bella domanda! Avevo voglia di fare una seduta.
GF. Stai scherzando?
D. Se scherzassi, starei facendo comunque uno scherzo trascendente che non capiresti. Ma sono molto serio, anche se in un modo che non puoi capire.
GF. Quindi, vuoi fare una seduta con lo scemo del villaggio? Mi sento già abbastanza limitato rispetto alle legittime aspettative dei miei clienti abituali e non mi entusiasma l’idea di fare una super-seduta da super-scemo.
D. Hai ragione. In realtà, dicendoti che ho voglia di fare una seduta io penso una cosa “asciutta” e tu capisci quella cosa già “bagnata”. Non possiamo prescindere da questo fatto. Poiché sei immerso nella tua dimensione umana questo scarto fra noi non può essere superato. Però possiamo almeno rendere tale scarto o “salto” il meno arbitrario possibile. Tu puoi capire che io non posso soffrire come te (o come le divinità immaginate dai tuoi simili) e che quindi non ho bisogno di una seduta e tanto meno di una seduta con te. Puoi anche pensare che io sia qui con te perché ho qualche ragione “asciutta” per essere qui, ma ho comunque delle ragioni non paragonabili a quelle che voi umani immaginate. Ad esempio, ritenete che esista un particolare legame fra un essere umano ed un angelo custode o fra una famiglia e una delle divinità domestiche descritte dalle religioni più semplici, ma in questi modi concepite a modo vostro le cose che stanno in un altro modo.
GF. Quindi tu sei qui perché vuoi fare (o farmi fare) una seduta. Ma faremo una seduta che io non capirò. Inoltre sei venuto proprio da me perché vegli su di me come un angelo custode, ma non sei davvero il mio angelo custode.
D. Proprio così.
GF. Benissimo. A questo punto, cosa possiamo fare?
D. Volevo dirti che mi dispiace molto che tu non riesca a capire ciò che vorresti capire. So cosa possa significare, dal tuo punto di vista, inventare ogni nuova giornata senza certezze, senza punti di riferimento. Navigare a vista conoscendo solo le cose poco importanti, ignorando quelle importanti e provando anche emozioni bellissime e terribili. Mi spiace proprio e mi spiace non poterti consolare.
[Alcune lacrime rigarono il mio viso e mi sciolsi in un pianto lieve e profondo. Non capivo il senso di tale conversazione, ma questa manifestazione di compassione per me mi riportò ai tanti giorni della mia infanzia in cui nessuno immaginava che stessi sentendo “troppe cose” e in cui avrei tanto voluto appoggiarmi a qualcuno dispiaciuto per me, ben disposto verso di me e capace di darmi sicurezza. Mi sentii anche come in uno dei tanti giorni della mia vita di adulto in cui ero riuscito a darmi quel sostegno che da bambino non ero mai riuscito a darmi, ma in cui provavo molto dolore per me, per le persone che amavo e per l’intero mondo che continuava a scivolare in un baratro di banalità, violenza e irrazionalità.]
GF. Mi basterebbe sapere che mi vuoi bene.
D. Nel tuo modo di pensare ti voglio bene. Nel mio, il nostro rapporto trascende anche il voler bene. Anche se il tuo concetto di benevolenza è riduttivo, almeno ha un po’ a che fare con la vera realtà di tutte le cose. E’ più sensato dell’idea che io ti possa “perdonare” o della convinzione che ti darò un premio se sarai buono. Il bene è più grande di quello che voi immaginate eppure la vostra idea del bene è quella che più vi avvicina alla trascendenza. Non so spiegartelo meglio di così. Anche la mia compassione per te e per tanti altri è un’espressione inesatta, tipicamente “umana”. Però si avvicina alla realtà vera più della “indifferenza” degli dei greci o dell’idea di un dio che soffre per lavare i peccati degli uomini. Voi umani, per motivi che non riuscite a spiegarvi, siete più bravi ad inventare sciocchezze che a stare in contatto con la realtà. Però con le vostre categorie di “benevolenza”, “compassione” ed anche con la categoria di “bellezza” o di “totalità” riuscite in qualche misura a sfiorare la trascendenza. Come i pesci che sono ancora bagnati, ma per un attimo guizzano sopra le onde. Purtroppo, sfiorate il voler bene e poi ripiombate nelle fantasie di simbiosi e di amore “nutriente” o nell’idea di avere diritto ad essere amati. Non riuscite proprio a volare perché avete le pinne e non le ali. Però quei guizzi sono bellissimi. Per un attimo, con la compassione vi sentite tristi ma leggeri e poi ripiombate nei doveri verso gli altri o nell’esibizione di una compassione che non sentite più. Sfiorate anche la “totalità di ciò che è” e poi vi mettete a disegnare la mappa di una realtà metafisica da voi immaginata come una semplice estensione del vostro piccolo mondo.
GF. Ma c’è una ragione di tutto ciò?
D. Certo, ma non è una “vostra” ragione. Potete vivere degnamente proprio se accettate la condizione in cui siete. Per i pesci non è dannosa l’idea del vento e delle cose asciutte accarezzate dalla brezza, ma è dannoso l’accanimento a voler ottenere ciò che, per quanto ne sanno, o è solo una fantasia oppure è “altro” rispetto all’acqua in cui vivono.
GF. Non mi stai consolando.
D. Non sono venuto qui per consolare me e nemmeno per consolare te. Io non ho davvero bisogno di consolazione e tu non puoi essere consolato come i bambini. Io sto solo vivendo la mia avventura e tu stai vivendo la tua. Io ti conoscevo già, ma è stato bello vederti felice di pensare per un attimo che “in qualche modo” sono con te.
GF. [Nuovamente il pianto mi attraversò e mi riportò alla quiete] Grazie. Se le cose stanno così, posso quindi continuare a pensare che la preghiera sia inutile: se c’è un vera trascendenza non serve che io chieda degli “sconti” e se non c’è nulla non serve che io chieda alcunché.
D. Già. Cerca però di non dimenticare il bene e la bellezza quando il dolore ti sembra “troppo”.
GF. E’ quello che dico a tutti i miei clienti. Ma … sei venuto a fare una seduta con me o mi hai fatto fare una seduta con te?
D. Sei sicuro che questa seduta si stia svolgendo davvero?
Oltre a non essere abituato a riportare sedute inventate, non ho nemmeno il vezzo di esporre idee in modi indiretti. Tendo ad essere essenziale ed esplicito. In questo caso ho fatto un'eccezione, perché mi è parsa buona l'idea di “ricapitolare” in un dialogo immaginario le riflessioni fatte sulla tendenza molto diffusa a parlare di un’ipotetica trascendenza utilizzando categorie umane e quindi "immanenti".
Nel momento in cui sfioriamo l’idea di essere davvero “di passaggio” e di non poter contare nemmeno sulla permanenza della nostra coscienza, che è l’appiglio grazie al quale sappiamo di “esserci” e di “essere noi stessi”, cominciamo a pensare ad un “dopo” che è solo la versione ingigantita del nostro futuro. Vorremmo un appiglio, ma solo rinunciando a concezioni rassicuranti possiamo salvare il rapporto con noi stessi, il nostro dialogo interno e la possibilità di cercare, finché c’è tempo, il piacere, la gioia e la felicità. Ci salviamo proprio accettando che troveremo sempre gioia e dolore e che non sapremo collocare tale gioia e tale dolore in un “grande piano” fatto di comode certezze.
Questo è il nostro modo di essere con noi, con gli altri e di attraversare il tempo muovendoci in uno spazio minimo collocato in un universo immenso. Questo modo di essere e, quindi, di sentire, è purtroppo molto scomodo per chi, fin dall’infanzia, ha deciso di non confrontarsi con il dolore. Per questo motivo, è così diffusa la tendenza a sostituire i dubbi con le certezze e il dolore con le rassicurazioni. Le certezze e le rassicurazioni vacillano se vengono sottoposte all’esame “spietato” della ragione. Allora ci ribelliamo e svalutiamo la ragione per aggrapparci ad una fede. In realtà, nella vita reale ci fidiamo di una persona o del funzionamento di una macchina sulla base di qualche valutazione razionale e quindi non ci fidiamo mai “senza ragioni”. Nella fede che “spiega la trascendenza”, invece, accantoniamo la ragione per accantonare delle sensazioni “scomode”. Con questo salto mortale (il)logico, facciamo tornare tutto “a posto”. Le religioni funzionano in questo modo e, placando quel disagio che rende umani gli esseri umani, riescono ad estendere il vivere “poco” dal consueto piano dei rapporti interpersonali al piano del nostro rapporto con il “tutto” che ci include.
Le difese psicologiche intellettualizzate come ideologie religiose risultano, quindi, collegate alle difese psicologiche che attiviamo nei rapporti interpersonali. Pur essendo “condannati” ad una razionalità che appartiene al “nostro” piano di realtà, possiamo interrogarci sulla possibilità di “altri” piani di realtà esaminando con cura e senza pregiudizi quei fatti che sembrano irriducibili alle spiegazioni offerte dalle scienze empiriche. Su questa linea di pensiero si muovono i ricercatori che sono interessati a conoscere, non a “credere” e che sono decisi a raccogliere dati, delineare spiegazioni “ordinarie” e anche a prendere in considerazione spiegazioni “non ordinarie”. Su questa linea di confine fra il normale ed il “paranormale” non dovrebbe “pesare” né la voglia di credere, né lo scetticismo pregiudiziale. Solo il rigore metodologico consente l’eliminazione delle spiegazioni “facili” e consente di convivere con i dubbi e di salvare la disponibilità di fondo a considerare qualsiasi possibilità non contraddittoria e non smentita dai fatti. Per non cadere nei pregiudizi possiamo solo tener presente che le nostre domande sull’immanenza e sulla trascendenza devono essere “limpide” e non devono essere semplici trucchi per mantenere l’ottimismo o il distacco con cui stronchiamo abitualmente la consapevolezza del dolore. Quali che siano, infatti, le risposte alle “grandi domande”, abbiamo bisogno di accettare la gioia e il dolore che accompagnano ogni attimo della nostra vita.