Fino
ad ora ho esaminato i vari risvolti delle strategie difensive che costruiamo nell’infanzia
quando il nostro bisogno di contatto non viene soddisfatto. Nei prossimi
capitoli cercherò di mettere a fuoco una particolare estensione delle strategie
difensive che ci porta a non provare il dolore di esistere in una realtà immensa
nella quale non riusciamo ad orientarci e in una dimensione temporale sulla
quale non abbiamo alcun controllo.
Possiamo
svegliarci in una spiaggia isolata dal resto del mondo. Da soli. O anche con la
persona che amiamo. Anche se possiamo interpretare il nostro risveglio in modo
“puramente pratico” o “romantico” o “avventuroso-ecologico”, da qualche parte,
non possiamo non percepire di essere un granello di sabbia appena un po’ più
grande di quelli sui quali abbiamo riposato e inventato i nostri sogni. Sempre
“da qualche parte”, dobbiamo accettare non solo l’idea di poter abbracciare con la nostra consapevolezza
tutto il mare e tutto il cielo, ma anche l’idea di essere inclusi nella totale incoscienza di quel mare e di quel
cielo. Essere inclusi non è come essere abbracciati e la natura, tanto cara ai
poeti, non è né madre né matrigna, ma, semplicemente “sta lì”. Possiamo
sentirci molto eccitati dal contatto fisico con la brezza del mattino e dal
ricordo del cielo stellato sotto il quale ci siamo addormentati, ma non
possiamo non sapere che le onde e le nuvole assistono senza alcuna emozione
allo spettacolo del nostro risveglio. Non verserebbero una lacrima se morissimo
in quell’istante e non trasalirebbero empaticamente se abbracciassimo la
persona che è con noi. Continuerebbero a costituire quella massa di immensità eterna,
compatta, in cui ci ritroviamo e in cui siamo smarriti, anche se siamo
consapevoli delle coordinate geografiche del luogo in cui stiamo giocando con i
nostri pensieri. Ci troviamo lì con i nostri piedi freddi, di fronte alle braci
ancora calde e con la tazza del caffè in mano. Ci troviamo lì con la persona
amata o da soli, faccia a faccia con l’immensità che continua ad includerci, ma
non ci accoglie. E sentiamo di poterci muovere nello spazio della spiaggia,
lasciando scorrere il tempo della nostra piccola vita, ma siamo consapevoli di
non poter rispondere alla domanda che si agita nella nostra mente come un
uccello che è entrato per errore in una stanza e che sbatte contro le pareti: la
nostra sensazione di esistere è solo un fatto che accade fra gli altri? Oppure
esistiamo collocati nella trama di un racconto che accoglie e “riconosce” la
nostra meraviglia e la nostra pena? Restiamo lì, con le nostre domande confuse,
senza ricevere risposte da un cielo che sembra troppo grande e troppo distante
per notare la nostra presenza.
La
consapevolezza di essere “superflui” in un mondo che ci sembra indispensabile è
dovuta a due fatti: il nostro far parte
di una realtà oggettiva, semplicemente “data”, più o meno nota, più o meno
ignota, ma sicuramente “altra da noi” ed anche la nostra incorreggibile
ostinazione a sentirci soggetti, ad
identificarci in “noi stessi” e non in qualsiasi “altra cosa”. Siamo certi di
essere proprio noi e di essere qualcosa, ma di essere “inclusi” in una “cosa”
immensa che non è “noi” e che non sembra nemmeno interessata a noi. Che ci
lascia stare lì, per un po’ e che continuerà ad esserci quando noi non ci
saremo più. Nella nostra limpida confusione siamo costretti a riconoscere che
siamo troppo consapevoli di esserci per trovarci a nostro agio in una realtà
che è o ci appare del tutto inconsapevole. Il nostro smarrimento deriva dalla
mancanza di una relazione con una realtà oggettiva che non è solo esterna a noi
o “altra” da noi, ma è anche inconsapevole di noi, di sé e del rapporto con
noi. I bagliori della nostra coscienza in una totalità che si limita a esserci,
ci fa sentire “piccoli”. Troppo piccoli in un mondo troppo grande.
Lo
smarrimento dei bambini in un mondo davvero piccolo, che inizia e finisce con i
genitori, con la fame e la sazietà, è uno smarrimento che cessa appena compare dal
grande nulla una semplice carezza. E’ uno smarrimento generato dall’incompiutezza della coscienza dei
bambini, che, proprio per tale incompiutezza, può essere facilmente annullato
dall’accoglienza rassicurante. Se tale accoglienza manca, lo smarrimento viene
“interrotto” da un blocco del respiro, da un irrigidimento dello sguardo, da
una piccola bugia creata da un “quasi-pensiero”. Di fatto, quello smarrimento
non viene sempre sanato, ma può essere
sanato da una carezza. Ben diverso è lo smarrimento degli adulti
nell’universo in cui esistono: è uno smarrimento generato proprio dalla compiutezza della coscienza e quindi dalla lucida
constatazione di un’assenza. Noi continuiamo ad interagire con noi stessi proprio
reiterando la consapevolezza di questa non interazione con il resto
dell’universo. Il nostro smarrimento “nel mondo” non viene mai “sanato”. Se una
persona cara ci abbraccia, non ci rassicura, ma condivide la nostra fame di
certezze e la nostra mancanza di certezze.
Di
fatto, i due tipi di smarrimento si intrecciano: se nell’infanzia ci siamo
dissociati da sensazioni spiacevoli ingestibili, nella vita adulta continuiamo
inconsciamente a “non-pensare-non-sentire”, sia quando il dolore “antico”
riaffiora nei rapporti interpersonali, sia quando ci colpisce un dolore attuale, sia quando il dolore ci sfiora come
consapevolezza della nostra precarietà esistenziale nel grande mondo. Se
abbiamo la fortuna di crescere senza difese psicologiche ingombranti (o di
analizzarle in seguito e di farne a meno), possiamo godere dell’opportunità di
vivere la nostra vita con tutti i colori della gioia, del dolore e della
felicità. La felicità consentita a noi umani non è però quella dei bambini:
include la contemplazione della bellezza che è in noi, negli altri e nel mondo,
ma include anche il dolore
irrimediabile di trascorrere tutti i nostri attimi in una grande, bellissima
spiaggia che non ci racconta nulla e che forse non ci ascolta o che ci ascolta
senza darci la certezza di essere ascoltati. Questo smarrimento è quindi parte
“essenziale” dell’esistenza umana e ogni sua negazione riduce lo “spessore”
dell’esperienza di esistere. Ogni sua negazione ci condanna a vivere “poco”.
L’involuzione
di cui ho parlato e che ha portato la specie umana ad intossicarsi di
dissociazioni e di difese psicologiche, ha inevitabilmente portato la specie
umana anche ad alterare la percezione della precarietà, aleatorietà ed
incertezza dell’esistenza. Anche se l’analisi delle difese psicologiche
costruite nell’infanzia è, in fondo, più che sufficiente per la comprensione
dell’irrazionalità individuale e sociale, richiede qualche approfondimento,
perché le difese psicologiche ostacolano anche
l’accettazione della “radicale limitazione” dell’esistenza umana.
In
un testo divenuto una pietra miliare negli studi sul tema, Rudolf Otto (1917)
ha mostrato che la categoria del sacro attraversa la storia dell’umanità.
Purtroppo, il concetto di sacro che risulta dalle sue ricerche sembra
riconducibile ad un insieme di processi cognitivi ed emozionali difensivi.
Poiché di fronte all’immensità in cui siamo “gettati”, ci sentiamo in fondo
“piccoli”, come se fossimo bambini e
proviamo, come nell’infanzia, un bisogno assoluto di protezione e sicurezza,
facilmente “sistemiamo le cose” secondo modalità difensive (rassicuranti),
ricorrendo all’idea di un “Altro” essere che ci può salvare e a cui dobbiamo
aggrapparci con assoluta fiducia, ma anche temendo di non meritare la salvezza.
Il sacro, ricondotto da Otto alla categoria del “numinoso”, è certamente un
concetto culturalmente fondamentale, ma tale concetto riflette tutte le
contraddizioni dello sviluppo psicologico infantile che, fin dagli inizi della
storia umana, è stato limitato dalle difese psicologiche.
La
nostra piccolezza nel grande universo in cui viviamo è un fatto indiscutibile e in tale immensità è inevitabile che proviamo una sensazione di smarrimento simile a quella
di quando eravamo piccoli nel mondo dei grandi, ma non è in alcun modo scontato
che dobbiamo reagire come se fossimo ancora dei bambini. Se ciò accade, è
presumibile che riattiviamo delle difese irrazionali costruite nel rapporto con
i genitori molto prima di poter considerare il nostro rapporto con l’intero
universo. Non è quindi scontato che alla precarietà del nostro esistere
dobbiamo reagire negando il dolore, perché possiamo anche accettare di
convivere con questo doloroso senso di smarrimento. Infatti, anche se la
mescolanza di fiducia e terrore caratterizza, secondo Rudolph Otto, l’esperienza soggettiva del sacro inteso
come “numinoso”, nella storia dell’umanità
si sono manifestati anche
atteggiamenti più razionali nei confronti della “intera realtà” e della morte.
Già nel Vecchio Testamento, troviamo capitoli, come l’Ecclesiaste o il Cantico dei
Cantici nei quali il rapporto fra l’uomo, la sua vita e la sua morte è
concepito in modi ben più delicati di quelli che caratterizzano altri capitoli
dell’opera.
Non
sono certo in grado di riesaminare le concezioni “numinose” e quelle più
razionali del sacro nella storia della cultura occidentale e orientale, ma so
che da sempre le difese psicologiche si affiancano alla razionalità e che da
sempre l’umanità colleziona anche un
altro concetto di “sacro” inteso semplicemente come sinonimo di “prezioso”.
Questa seconda concezione della sacralità
riflette una calda e lucida accettazione della gioia, del dolore, della
conoscenza, del dubbio, dell’intimità e della solitudine. Riflette una dolce e
appassionata accettazione dell’esistenza umana così come è. George Orwell ha
scritto: "Il problema reale è come ristabilire un atteggiamento religioso
unito all'accettazione della morte come meta finale" (1944, p. 281). Trovo
apprezzabile e sostanzialmente condivisibile questo tentativo di riconoscere la
costitutiva precarietà dell'esistenza umana e di accettarla con compassione,
senza fuggire in una confusa "angoscia" e senza trovare consolazione
in certezze indimostrabili. Preferisco
però non utilizzare a questo proposito il concetto di "religiosità"
utilizzato da Orwell, perché esso è strettamente collegato alle religioni
storiche. Preferisco utilizzare il concetto di sacralità (in senso laico)
piuttosto che il concetto di religiosità (in senso laico) perché nell’uso
quotidiano il concetto non religioso di sacralità è abbastanza frequente (come
nell’espressione “la parola data è sacra”), mentre il concetto “laico” di
religiosità è davvero raro. L’uso “puramente umano” del concetto di sacralità,
distinto da quello che comporta fede e terrore, rinvia alla consapevolezza del limite, del dubbio e del dolore, ma
anche alla contemplazione della bellezza.
L’esperienza
semplicemente umana del sacro dipende dalla capacità di cogliere ed apprezzare
la reale bellezza di qualcuno o di qualcosa. Non riflette il bisogno di
ottenere un impossibile appagamento infantile, ma esprime la consapevolezza di
un fatto esaltante: “là fuori” è presente la stessa bellezza che si manifesta
in noi.
Per fare l’esperienza
della sacralità degli altri e della vita abbiamo bisogno di esplorare la nostra
dimensione interiore.
Se non proviamo compassione per noi stessi riduciamo inevitabilmente qualsiasi
relazione interpersonale al piano della mera sopravvivenza o dell’illusione.
Purtroppo, nelle relazioni interpersonali la dimensione del sacro è normalmente
assente. Spesso facciamo ciò che serve per “indurre qualcuno a fare qualcosa”,
o per “ottenere qualcosa”, o per sentirci superiori o vittime (e quindi
“moralmente superiori”), o per sembrare “tanto buoni”, o per meritare
ammirazione, o per “sfogare rabbia” anche quando la rabbia non migliora la
realtà. Non sappiamo proprio perché ci comportiamo in certi modi, ma raramente
compiamo delle azioni che migliorano davvero la qualità della nostra giornata e
raramente ci attiviamo per donare un sorriso ad un’altra persona. Questa
trascuratezza a mio parere non costituisce una “colpa”, ma uno "spreco":
ingannando, umiliando, sfruttando gli altri sprechiamo la nostra capacità di
sperimentare una gioia condivisa e una possibile “sacra” armonia.
Fortunatamente
nelle relazioni interpersonali non si manifestano solo conflitti insensati,
prevaricazioni o complicità distruttive. Da sempre nelle relazioni fra persone, fra persone e animali, fra individui e società, o nel dialogo
interno delle singole persone si manifesta anche un “riconoscimento” della
bellezza di qualcuno o di qualcosa.
Un
mio cliente (Silvio), dopo un faticoso avvicinamento ai propri sentimenti,
aveva iniziato a trattarsi con più attenzione e con più cura. Un giorno arrivò
all’appuntamento con più di mezz’ora di ritardo e senza avvisarmi. Per una
persona tanto puntuale la cosa era insolita, ma nei pochi minuti della seduta
rimasti mi disse che si era “perso” guardando suo figlio nel “box”. Si
aggrappava, si tirava su e poi cadeva sui cuscini. Era pieno di entusiasmo e di
frustrazione e cercava sempre lo sguardo del papà. Nella contemplazione di
quelle emozioni semplici Silvio aveva “sospeso il tempo” per essere
“con-presente”. Aveva ormai imparato a piangere e a gioire e poteva ben capire
quanto fossero delicate quelle “piccole” avventure di un bambino che stava
crescendo e quanto potesse “togliere il fiato” la contemplazione di quella
piccola e immensa avventura. Concludemmo dopo poche settimane il nostro lavoro
e spero tanto che egli continui a lasciarsi stupire dalla vita.
Una
mia cliente, abbastanza in pace con sé, nonostante le difficoltà della sua
relazione sentimentale, mi disse “Non voglio più continuare una relazione a
senso unico. Non voglio più pensare da sola ad un rapporto che non è tale per
entrambi. Non ho però dimenticato la bellezza di Renzo. Lui mi è caro quando è
determinato e capace di sfidare le difficoltà. Mi è caro quando è chiuso e
spaventato. Capisco più di lui quanto abbia sofferto. Mi spiace che non abbia
voluto accompagnarmi nella vita e che non voglia sentire la solitudine che lo
spaventa da sempre. Mi dispiace pure che si senta libero di farmi del male,
anche se non ne è consapevole. Tengo però sempre presenti le sue antiche
sofferenze, di cui mi ha parlato in modo sbrigativo, minimizzando i sentimenti
di cui solo io ho compreso l’intensità. Una volta sua madre gli disse che aveva
tradito la fiducia dei suoi fratelli, mentre aveva solo agito da bambino. Lui
si sentì morire e smise di essere un bambino. Cerca ancora di essere “qualcosa”
perché non gli basta essere ciò che è. Non gli basta mai. E non gli basta
nemmeno stare con me. Mi fa tenerezza quando lo sveglio. Non si sveglia mai
sereno. Al risveglio viene sempre “da molto lontano”, viene scosso
violentemente dalla percezione di essere nel letto e dal suono della mia voce.
Non passa mai da un sonno quieto ad un risveglio quieto, con me. Non so dove
vada nei sogni, ma credo vada sempre in qualche incubo e che al risveglio tema
qualcosa di ancor peggiore. Gli vorrò sempre bene. Non posso non volergli bene.
Capisci?”. Compresi che, nonostante l’esigenza di allontanarsi, continuava a
considerare sacra la vita del suo compagno. Comunicandole la mia impressione mi
rispose che il riferimento al sacro era davvero appropriato.
La
sacralità, se collocata su un piano razionale, ha a che fare con la libertà, la
bellezza e la felicità. E’ tale nei momenti migliori ed in quelli peggiori,
perché presuppone la capacità di godere le gioie della vita e di elaborare i
lutti. Non è molto frequente che le persone considerino davvero sacro qualche
essere umano o vivente, perché normalmente sentono poco. Però
capita pure che si concedano di sentirsi sacre e di considerare quindi sacre le
altre persone. Capita persino che gli animali meno complessi di noi sentano
intensamente che la vita è preziosa: gli elefanti celebrano in qualche modo la
perdita dei loro cari (cfr. Masson, 1995). Quelli che pensano che siano “solo
animali” probabilmente sentono “solo qualcosa” nel loro dialogo interno.
Se
non comprendiamo la delicatezza di ciò che sentiamo e non riconosciamo la
nostra capacità di affrontare le gioie e i dolori della nostra esistenza, non
possiamo davvero immaginare che gli altri abbiano una dimensione interiore
tanto “grande”. E’ proprio la pura
contemplazione di ciò che gli altri hanno in comune con noi a farci percepire
la sacralità delle altre persone e della realtà in cui siamo immersi.
Il
“sacro” inteso come ambito del terrore e della speranza è inconcepibile su un
piano razionale. Tutta la sacralità “ufficiale” affermata dalle autorità
religiose, ma, in altri modi anche da quelle militari e politiche, consiste proprio in una negazione della
“vera” sacralità che ha le sue origini nella compassione e nella benevolenza.
La devozione alla divinità è paura del potere che ci sovrasta. Una paura
accettata in cambio di un’illusione di protezione. La dedizione alla propria
“patria” equivale alla svalutazione di altre persone nate in altri luoghi. La
rigida affermazione dell’appartenenza ad una particolare società prescinde
dall’esame critico del modo in cui tale società rispetta ma anche calpesta le persone. Il timore di essere “dannati” o
“traditori” o “esclusi” caratterizza tutta la concezione “normale” del sacro.
Infatti i normali dogmi religiosi, patriottici o ideologici garantiscono una
sicurezza e minacciano un’esclusione. Prospettano la realizzazione degli incubi
peggiori dei bambini e proprio con tale minaccia offrono la “sicurezza” di
un’adesione incondizionata a qualcosa di più “grande” che può anche accogliere
e rassicurare. Noi siamo effettivamente smarriti in una realtà immensa e
sospesi in una temporalità incontrollabile. Con intensi sforzi riusciamo a
comprendere solo alcuni dettagli del mondo in cui siamo immersi. Inoltre,
possiamo formulare un obiettivo in un attimo e magari riusciamo a realizzarlo
solo in molti anni. Possiamo trovar pace in noi stessi, in una relazione
interpersonale o in una situazione sociale, ma sappiamo di dover prima o poi
toccare il limite di tale pace e di doverci confrontare con la morte o con
qualche sua più limitata anticipazione. Per questo, credo che sia opportuno
ricondurre l'inconoscibile, come pure il "non realizzabile", alla
realtà indiscutibile del dolore che, assieme alla gioia ed alla felicità,
caratterizza l'esistenza umana. Ogni concezione "terrificante" del
sacro va collocata fra le costruzioni difensive che esaltano la paura proprio per offrire rassicurazioni e che, di fatto, ostacolano
la dolorosa accettazione di un limite che è "dato".
La
consapevolezza della precarietà dell'esperienza umana, spesso accantonata, ma
comunque ineludibile, sollecita ragionevoli interrogativi sulla possibilità che
tutti i limiti e le sofferenze della vita non siano semplicemente dei
"fatti", ma degli aspetti di un insieme più ampio. O di un “piano”
che ci include. Questa curiosità non ha nulla a che fare con la fame di
rassicurazioni, ma, di fatto, il bisogno di rassicurazioni ha sempre prevalso
sull'esame razionale delle ipotesi.
L'autentica
curiosità giustifica l'esame dei fenomeni che inducono alcuni studiosi ad
ipotizzare un'altra dimensione da cui sembrano "tornare" le persone
ritenute clinicamente morte (Moody jr., 1975). Anche le testimonianze che
portano alcuni studiosi ad ipotizzare stati di "bilocazione" in cui
la consapevolezza è sperimentata al di fuori del corpo (Green, 1968, Tart,
1968) sono di grande interesse, come pure le controversie che vertono sulle
spiegazioni di tali fenomeni suggerite da autori diversi. Paradossalmente questi temi non
appassionano molte persone, mentre miliardi di esseri umani accettano le “spiegazioni”
religiose della condizione umana basate su semplici tradizioni. L'idea che una
divinità possa dare sicurezza agli esseri umani (come i migliori genitori), ma
anche punirli (come i peggiori genitori) è semplicemente irrazionale, perché
riduce la trascendenza ad una "immanenza esagerata". Il fatto che
normalmente le persone (anche colte) siano poco
interessate a conoscere e molto interessate a "credere" dimostra
che davvero la precarietà dell'esistenza umana è inquietante e che normalmente
gli esseri umani rifiutano di accettare la loro condizione.
Se
non blocchiamo la nostra curiosità, non possiamo non chiederci cosa ci sia
oltre lo spazio a noi noto e al di là del “nostro” tempo. Non è facile per noi
accettare davvero l’idea di una storia dell’umanità trascorsa in nostra
assenza, ma, sforzandoci, possiamo anche accettare l’idea di aver avuto un
inizio dopo la preistoria, dopo l’Impero romano e dopo il fascismo. Facciamo
più fatica ad accettare che l’umanità continuerà ad esistere senza di noi e senza
che ne possiamo sapere nulla. Semplificando le cose, possiamo dire che con la
morte noi usciamo di scena e “non andiamo da nessuna parte”, ma se riflettiamo
più da vicino, l’idea di “noi stessi” cozza con l’idea di non-esistenza: l’idea
che noi da un certo momento non
esisteremo ha qualcosa di paradossale, perché affermando che noi non esisteremo più stiamo, di fatto,
pensando a noi stessi (e quindi a “noi esistenti”). L’idea di una nostra
scomparsa non è realmente contraddittoria o irrazionale, ma è semplicemente
difficile da concepire.
L’idea
di “non esserci e basta” è psicologicamente
disturbante. Ciò, ovviamente non dimostra che vivremo in altri modi o in
altre dimensioni dopo la morte, ma dovrebbe ragionevolmente intensificare la
nostra curiosità per la possibilità o l’impossibilità di una vita (o di qualche
“tipo” di vita) dopo la morte. Un altro elemento che dovrebbe ragionevolmente
accrescere la nostra curiosità per eventuali “altri” modi di esistere al di là
della morte fisica, è costituito dalla consapevolezza del dolore di dover
comunque prima o poi interrompere la nostra partecipazione ad una danza che
stavamo eseguendo con altre persone e soprattutto con persone care. Per questi
motivi, la difficoltà psicologica ed emotiva a concettualizzare e ad accettare
l’idea che “la vita oggettiva continui senza la nostra partecipazione
soggettiva” rende praticamente inevitabile un forte interesse per la nostra
esistenza “in blocco”. Solo l’ingombrante presenza delle difese psicologiche
giustifica le tendenze a “non pensarci” o a minimizzare il problema o ad
accettare concezioni consolatorie assorbite nell’infanzia. Qui sorge un grosso
problema, perché dalle risposte certamente difficili e non scontate a tali
domande dipende l’interpretazione della nostra temporanea esperienza di
esistere come persone. E’ un fatto che le convinzioni relative ad una possibile
o impossibile trascendenza non sono solide come la convinzione relativa al
fatto che l’acqua è bagnata. Quindi, se la labilità, precarietà, aleatorietà
dell’esistenza umana è certa, le spiegazioni relative ad un eventuale “dopo”
sono in qualche modo deboli.
Questa
precarietà esistenziale e questa debolezza conoscitiva rendono la vita degli
adulti simile a quella dei bambini. I bambini sentono tutto ma non capiscono
nulla del loro piccolo mondo, mentre gli adulti, pur essendo guide esperte nel
loro mondo “oggettivo”, si trovano smarriti di fronte all’idea di esistere … solo
per un po’ di tempo. Tuttavia, nonostante tali difficoltà, gli adulti possono accettare la precarietà dell’esistenza e
possono lasciare da parte l’idea del sacro-numinoso, che costituisce una
trasposizione sul terreno cosmologico di vissuti infantili non elaborati e di
difese psicologiche non superate. Se davvero esistessero altri piani di realtà
e se altre “entità” esistessero su tali piani, esse sarebbero “altre da noi”, e
quindi, in quanto “altre”, non potrebbero ragionevolmente essere una versione
“ingigantita” o “purificata” delle persone con cui interagiamo nella realtà attuale.
Qualsiasi antropomorfizzazione o psicologizzazione di ipotetiche entità esistenti su un piano “trascendente” non è razionalmente giustificabile e
rientra in una strategia difensiva. Queste considerazioni ci conducono ad un
punto molto delicato del discorso sviluppato nei capitoli precedenti: se
l’esistenza umana viene “liberata” dalle difese psicologiche, comporta sia il dolore dovuto ai limiti, alle
perdite e ai rifiuti sperimentati, sia il
dolore generato dalla “incomprensibile” precarietà esistenziale. Dobbiamo
convivere o con l’idea di un “non essere” dopo la morte o con l’idea di un
“essere altro” dopo la morte. Dobbiamo convivere con l’impensabile, con il
dubbio, con la certezza dell’incertezza.
Il
dolore della solitudine e della mancanza di una sicurezza affettiva porta i
bambini a crescere con difese psicologiche che limitano l’espressione delle
potenzialità personali nel dialogo interno, nella sessualità, nelle relazioni
interpersonali e nei rapporti sociali. Tali difese psicologiche limitano anche la capacità di affrontare la vita e la morte
con lucidità e compassione. Tali difese sono sostanzialmente di due tipi, come le altre già
esaminate: il distacco e l’ottimismo.
Il
distacco non intellettualizzato si manifesta nel semplice non pensare al
“ruolo” della morte nella nostra vita o nel minimizzare il problema affermando
che in fondo a noi basta la vita così come è. Sia questa superficialità
“rozza”, sia il “dotto” nichilismo che comunque minimizza il senso di
“precarietà” esistenziale, raggiungono lo stesso scopo: interrompono il
contatto con il dolore costituito dal fatto che il nostro tempo è “scarso”, dal
fatto che non sappiamo quanto tempo ci resta e dal fatto che non sappiamo nulla
di preciso sulla morte. All’estremo opposto troviamo le difese ottimistiche
rozze o dotte, ma comunque irrazionali: quelle delle persone a cui basta
“credere” che la vita continuerà e quelle delle persone che hanno “convinzioni”
teologiche intellettualmente più sofisticate, ma non dimostrabili e comunque
corrispondenti a quelle assorbite nell’infanzia. L’umanità è letteralmente
sepolta dalle difese psicologiche. Di fatto, normalmente le persone vivono
“poco” sia negando il dolore “antico” e “attuale” della solitudine, sia negando
il dolore che dipende dall’incertezza relativa all’esistenza umana “in blocco”.
Dopo
queste riflessioni “ordinate” voglio riproporre l’intera questione in un modo “disordinato”.
Il
primo colloquio con un cliente che chiamerò D, fin dall’inizio prese una strana
piega.
D.
Forse è il caso che le spieghi la mia presenza qui.
GF.
Parli liberamente.
D.
Mi rendo conto di poterle creare imbarazzo, ma tutto ciò che lei sta osservando
e che ascolterà da me, purtroppo, non le risulterà chiaro. Dovremo
approssimarci gradualmente alla realtà dei fatti per comprenderne almeno i
confini.
GF.
Non credo di aver capito.
D.
Lei mi sta prestando attenzione, ma non può capirmi davvero. Non solo perché
“in fondo” la comprensione degli altri è sempre imprecisa, ma perché io sono
realmente “presente” in un modo diverso da quello che lei può osservare.
[Queste
parole mi fecero pensare che D cercasse di descriversi come un “tipo speciale”,
ma i suoi modi semplici contraddicevano la mia ipotesi e quindi aspettai il
resto del discorso per cercare di orientarmi]
GF.
Può provare a dirmi qualcosa di lei in termini più precisi?
D.
Purtroppo non posso presentarmi in termini “precisi”. In termini più generici
posso usare un’espressione comune, che non le piace e che non piace nemmeno a
me, ma, tanto per rompere il ghiaccio, posso dirle che, da un punto di vista
molto comune, sono dio.
[Cercai
di non far trapelare la mia reazione, ma pensai “Nooooo! Ho già un mucchio di
clienti complicati e mi manca solo un tale che pensa di essere dio! E adesso
che faccio? Come sistemeremo le cose quando scoprirà che non credo in dio?”
Passai al setaccio tutte le vie d’uscita, ma, prima che potessi escogitare
qualcosa, D rispose al mio pensiero.]
D.
Stia tranquillo. Con me non è in pericolo. Anzi, ci conosciamo da molto tempo.
Lei sicuramente non troverà facile comprendere questa strana situazione, ma, se
resta coerente con la sua avversione per i pregiudizi, può comprendere almeno
qualcosa.
GF. Vale a dire?
D.
Lei sta pensando che una cosa insolita sia impossibile e quindi riporta le mie
parole ad una manifestazione psicotica. Tuttavia lei è da sempre propenso a
confrontare con i fatti tutte le idee ed a respingere quelle che sono idee
preconcette. Io sono qui per fare un incontro a cui tengo e che può servire
anche a lei. Vede, io sono davvero dio, anche se lei non può capire il
significato di questa parola. Anzi, ad essere esatti, questa parola rientra nel
lessico umano e proprio per questo ha dei significati inevitabilmente
riduttivi. Voi umani arrivate al limite della vostra razionalità con il
concetto di trascendenza, perché immaginate che possa esservi un piano di
realtà “altro” rispetto al vostro, che in qualche modo si colloca “oltre” la
vostra vita e le vostre idee sulla vita. Però, finite sempre per dare dei
contenuti indiscutibilmente umani proprio a ciò che immaginate come “altro” e
“oltre”. Così, inevitabilmente, attribuite cose “vostre” a ciò che si colloca
davvero “oltre” ogni umana fantasia. So che su questo fatto elementare siamo
già d’accordo. So bene che lei non esclude la trascendenza, una realtà
spirituale, ma si astiene dal tentativo di comprendere l’incomprensibile. So
bene che è irritato dai pensatori metafisici e religiosi che, sulla base delle
loro idee (immanenti) o delle loro emozioni (immanenti) o delle loro esperienze
“mistiche” (immanenti), pretendono di conoscere contenuti trascendenti: dio che
crea, che aiuta, che condanna, che perdona, che accoglie, e che quindi compie
“in grande” le tipiche azioni umane. Non si può versare un'intera bottiglia di
vino in un bicchiere e apprezzo molto che lei si occupi solo del suo bicchiere
e che non cerchi di sputare sentenze su una bottiglia di cui può solo pensare
che o non esiste affatto o “è trascendente” e quindi non è riconducibile alle
categorie adatte al bicchiere “umano”.
[La
mia preoccupazione aumentò e pensai: “E’ pazzo furioso ed ha anche letto e
compreso alla perfezione i miei scritti. Pazzo e lucidissimo. Può essere che
abbia da tempo in mente qualcosa che ora vuole mettere in atto, ma cosa?”]
GF.
Mi scusi, ma credo proprio di non essere la persona più adatta per aiutarla:
non ho esperienza di problemi divini e per qualche motivo che mi sfugge sono molto
turbato e in questo stato d’animo non potrei lavorare con lei, anche se fossi
preparato e capace.
D.
Ora lei ha paura, e ha buone ragioni per sentirsi così, poiché a volte è
pericoloso contraddire i pazzi.
[La
mia paura divenne panico e pensai: “è pazzo, lucido, ha letto i miei scritti ed
è anche dotato di una strana capacità di immaginare ciò che penso”]
D.
Lei è proprio terrorizzato, e mi dispiace molto. Mi conceda però il beneficio
del dubbio e sia coerente con quanto scrive sui pregiudizi. Se non le piacciono
i pregiudizi, si permetta e mi permetta di stabilire alcuni fatti. Mi chieda
qualcosa che non sa e che posso sapere solo io, se davvero esisto al di là
della sua “immanenza”.
[Pensai:
“Ecco, ora sono proprio fregato. Se mi sottraggo alla sfida può sentirsi
svalutato e se accetto la sfida si troverà in difficoltà e io sarò nei guai".]
D.
Lei legge, ma non impara i libri a memoria ovviamente. Però potrebbe ricordare
inconsciamente anche ogni parola di ogni libro che ha letto. Prenda un libro e
mi dica il numero di una pagina che non ha ancora letto.
[Non
avevo scelta. Mansueto come un agnellino presi un libro che avevo sul tavolo e
di cui avevo letto solo l'Introduzione. Lo aprii a pagina 230 e mentre stavo
per posare gli occhi sulle prime righe, D mi disse di non leggere nulla prima
di averlo ascoltato.]
D.
Se le riporto ciò che sta scritto mentre lei controlla, può sospettare che io
non sia dio, ma una persona con capacità telepatiche. Non siamo qui per cose
parapsicologiche e quindi, prima mi ascolti e poi controlli.
GF.
Già.
[Restai
lì con il dito fra pagina 230 e pagina 231. D mi “recitò" alcune righe e a
quel punto aprii il libro e mi accorsi che aveva effettivamente letto le prime
tre righe della pagina. Presi un altro libro ed ebbi la sorpresa di verificare
che questo “cliente” conosceva a memoria tutte le pagine non ancora lette dei
miei libri. Ero spiazzato e D lo sapeva. Cominciò a darmi del tu dicendo che mi
conosceva bene e che ora egli poteva uscire dallo schema del colloquio
analitico, dato che in qualche modo, con la mia (incerta) “apertura mentale”
gli lasciavo tale possibilità. Non mi sentii però affatto tranquillo. Anzi,
pensai che se in linea di principio era possibile che qualche realtà
trascendente fosse piovuta nell’immanenza del mio studio, era più probabile che io stessi diventando pazzo.]
D.
No, non sei pazzo. Hai un bel caratterino “di merda”, se posso usare la tua
abituale definizione, ma ci hai lavorato molto e non vivi completamente
smarrito in quelle che chiami “difese psicologiche”. In qualche misura accetti
la realtà e quando le tue difese affiorano sei abituato a “lavorarci”, a
ritrovare qualche dispiacere evitato e quindi a ritrovarti. E poi non potresti
diventare psicotico, perché per tua fortuna sei sempre stato pazzo solo nei
limiti di un decente contatto con la realtà. Se sei davvero onesto
intellettualmente ed emotivamente non attaccato ad alcun pregiudizio, possiamo
“incontrarci”, almeno nei limiti in cui ciò è possibile.
[Continuavo
ad avere delle riserve. Mi chiedevo anche se fossi sveglio o se stessi
sognando, ma in ogni caso ero disponibile ad andare avanti: avevo cercato di
falsificare l’ipotesi meno probabile e tale ipotesi era risultata invece
verificata. Nessuno sulla terra conosce a memoria i libri. Punto. Se ero quindi
di fronte a dio diventava inevitabile controllare in altri modi la sensatezza e
la coerenza dell’esperienza che stavo facendo.]
GF.
Se sei dio, come posso interagire con te, qui, ora? Voglio raccontarti una
favola per sapere cosa ne pensi.
I
pesci del mare vivevano in un mondo sempre e comunque bagnato o almeno umido.
Anche quando con un guizzo si sollevavano sopra le acque non riuscivano a stare
sospesi nell’aria abbastanza da sentirsi asciutti, perché prima di fare
quell’esperienza ripiombavano nell’acqua. Eppure sapevano che potevano esistere
cose asciutte: avevano visto delle barche e la loro parte superiore non era
bagnata dalle acque, ma, anzi, era accarezzata dal vento. I pesci volevano
conoscere il significato della vita all’asciutto, vissuta senza i limiti dovuti ad una
sottile pellicola di acqua. Assediarono una barca ed attesero che qualcosa di
asciutto giungesse a loro. Tuttavia ogni volta che una persona dell’equipaggio
buttava in acqua un oggetto qualsiasi, come un mozzicone di sigaretta, i pesci
riuscivano solo ad appropriarsi di un oggetto già bagnato. Conclusero che le
cose asciutte o esistevano solo nella loro immaginazione oppure esistevano solo
al di là della loro possibilità di “toccarle”. In questo modo si formarono
l’idea di trascendenza.
D.
E’ una bella storia. E’ anche “realistica”.
GF.
A me sembra che le idee sulla trascendenza degli esseri umani siano molto
“bagnate”. Dio assomiglia terribilmente ai genitori e spesso ai peggiori
genitori, pieni di pretese ed anche svalutanti.
D.
E’ vero. Le idee umane sulla trascendenza sono decisamente “immanenti”.
GF.
E allora che rapporto ho ora, qui, con te?
D.
Hai un rapporto strano. Io sono la sigaretta asciutta che ti arriva bagnata. Tu
sei costretto a percepire una “umidità” che non mi appartiene, ma che
appartiene alla realtà in cui sei immerso.
GF.
Mi sembra una condanna.
D.
Lo è, ma solo dal tuo punto di vista. Lo è dal lato "bagnato" della
realtà.
GF.
Ed esiste una spiegazione ragionevole di questa “condanna che non è una
condanna"?
D.
Esiste, ma è una spiegazione trascendente. Appena voi umani passate dall’idea
di trascendenza a qualche spiegazione, trasformate una “apertura” mentale in
uno schema chiuso: la dimensione “altra”, irriducibile all’immanenza viene
incasellata in schemi radicalmente immanenti, come quello del “dio che perdona
o condanna” dei cattolici o quello della “ruota delle reincarnazioni” dei
buddhisti. Poi addobbate questi schemi con le vostre concezioni morali, sociali
e vi inventate i peccati, le caste e tante cose che comunque hanno a che fare
con la vostra capacità o incapacità di essere autentici come esseri umani.
Nella trascendenza proiettate il meglio ed il peggio della vostra vita e quindi
la perfezione immaginata da voi e l’orrore creato da voi.
GF.
Se le cose stanno in questo modo, ora io non sono in contatto con te …
D.
No, purtroppo. Io sono in contatto con te, ma tu mi vedi con i tuoi occhi e mi
pensi con i tuoi pensieri, con i tuoi sogni, con la tua storia personale.
GF.
Se le cose stanno così, perché stanno così? Perché passiamo decenni a cercare
di orientarci e a smarrirci in una realtà tanto dolorosa, che però non è
nemmeno “reale”?
D.
Una spiegazione c’è, ma non la puoi comprendere.
GF.
Però è un incubo il non poter capire e il voler capire.
D.
C’è una ragione anche per questo fatto, così come per il dolore in generale. Ma
tale ragione è “oltre”. Nella tua realtà è possibile solo affrontare il dolore
e soffrire in modo “sensato” o soffocarlo e star male in modi “insensati”. E’
questo il succo del tuo lavoro sulle difese psicologiche. Altri usano altri
quadri di riferimento, egualmente ragionevoli, ma quasi tutti preferiscono
teorie rassicuranti, molto “spirituali” e piene di chiacchiere sulla
trascendenza, sulla divinità, sulle realtà “transpersonali”, sulla
reincarnazione, sul nirvana e così via. La realtà reale e “totalmente altra” è
scomoda da accettare, perché costringe a stare nella realtà umana con lucidità,
passione ed anche con il dolore, senza alcuna pretesa di afferrare la
trascendenza.
GF.
E cosa ci sto a fare qui con te?
D.
Bella domanda! Avevo voglia di fare una seduta.
GF.
Stai scherzando?
D.
Se scherzassi, starei facendo comunque uno scherzo trascendente che non
capiresti. Ma sono molto serio, anche se in un modo che non puoi capire.
GF.
Quindi, vuoi fare una seduta con lo scemo del villaggio? Mi sento già
abbastanza limitato rispetto alle legittime aspettative dei miei clienti
abituali e non mi entusiasma l’idea di fare una super-seduta da super-scemo.
D.
Hai ragione. In realtà, dicendoti che ho voglia di fare una seduta io penso una
cosa “asciutta” e tu capisci quella cosa già “bagnata”. Non possiamo
prescindere da questo fatto. Poiché sei immerso nella tua dimensione umana
questo scarto fra noi non può essere superato. Però possiamo almeno rendere
tale scarto o “salto” il meno arbitrario possibile. Tu puoi capire che io non
posso soffrire come te (o come le divinità immaginate dai tuoi simili) e che
quindi non ho bisogno di una seduta e tanto meno di una seduta con te. Puoi
anche pensare che io sia qui con te perché ho qualche ragione “asciutta” per
essere qui, ma ho comunque delle ragioni non paragonabili a quelle che voi
umani immaginate. Ad esempio, ritenete che esista un particolare legame fra un
essere umano ed un angelo custode o fra una famiglia e una delle divinità
domestiche descritte dalle religioni più semplici, ma in questi modi concepite
a modo vostro le cose che stanno in un altro modo.
GF.
Quindi tu sei qui perché vuoi fare (o farmi fare) una seduta. Ma faremo una
seduta che io non capirò. Inoltre sei venuto proprio da me perché vegli su di
me come un angelo custode, ma non sei davvero il mio angelo custode.
D.
Proprio così.
GF.
Benissimo. A questo punto, cosa possiamo fare?
D.
Volevo dirti che mi dispiace molto che tu non riesca a capire ciò che vorresti
capire. So cosa possa significare, dal tuo punto di vista, inventare ogni nuova
giornata senza certezze, senza punti di riferimento. Navigare a vista
conoscendo solo le cose poco importanti, ignorando quelle importanti e provando
anche emozioni bellissime e terribili. Mi spiace proprio e mi spiace non
poterti consolare.
[Alcune
lacrime rigarono il mio viso e mi sciolsi in un pianto lieve e profondo. Non
capivo il senso di tale conversazione, ma questa manifestazione di compassione
per me mi riportò ai tanti giorni della mia infanzia in cui nessuno immaginava
che stessi sentendo “troppe cose” e in cui avrei tanto voluto appoggiarmi a
qualcuno dispiaciuto per me, ben disposto verso di me e capace di darmi
sicurezza. Mi sentii anche come in uno dei tanti giorni della mia vita di
adulto in cui ero riuscito a darmi quel sostegno che da bambino non ero mai
riuscito a darmi, ma in cui provavo molto dolore per me, per le persone che
amavo e per l’intero mondo che continuava a scivolare in un baratro di
banalità, violenza e irrazionalità.]
GF.
Mi basterebbe sapere che mi vuoi bene.
D.
Nel tuo modo di pensare ti voglio bene. Nel mio, il nostro rapporto trascende
anche il voler bene. Anche se il tuo concetto di benevolenza è riduttivo,
almeno ha un po’ a che fare con la vera realtà di tutte le cose. E’ più sensato
dell’idea che io ti possa “perdonare” o della convinzione che ti darò un premio
se sarai buono. Il bene è più grande di quello che voi immaginate eppure la
vostra idea del bene è quella che più vi avvicina alla trascendenza. Non so
spiegartelo meglio di così. Anche la mia compassione per te e per tanti altri è
un’espressione inesatta, tipicamente “umana”. Però si avvicina alla realtà vera
più della “indifferenza” degli dei greci o dell’idea di un dio che soffre per
lavare i peccati degli uomini. Voi umani, per motivi che non riuscite a
spiegarvi, siete più bravi ad inventare sciocchezze che a stare in contatto con
la realtà. Però con le vostre categorie di “benevolenza”, “compassione” ed anche
con la categoria di “bellezza” o di “totalità” riuscite in qualche misura a sfiorare la trascendenza. Come i pesci
che sono ancora bagnati, ma per un attimo guizzano sopra le onde. Purtroppo,
sfiorate il voler bene e poi ripiombate nelle fantasie di simbiosi e di amore
“nutriente” o nell’idea di avere diritto ad essere amati. Non riuscite proprio
a volare perché avete le pinne e non le ali. Però quei guizzi sono bellissimi.
Per un attimo, con la compassione vi sentite tristi ma leggeri e poi ripiombate
nei doveri verso gli altri o nell’esibizione di una compassione che non sentite
più. Sfiorate anche la “totalità di ciò che è” e poi vi mettete a disegnare la
mappa di una realtà metafisica da voi immaginata come una semplice estensione
del vostro piccolo mondo.
GF.
Ma c’è una ragione di tutto ciò?
D.
Certo, ma non è una “vostra” ragione. Potete vivere degnamente proprio se
accettate la condizione in cui siete. Per i pesci non è dannosa l’idea del
vento e delle cose asciutte accarezzate dalla brezza, ma è dannoso
l’accanimento a voler ottenere ciò che, per quanto ne sanno, o è solo una
fantasia oppure è “altro” rispetto all’acqua in cui vivono.
GF.
Non mi stai consolando.
D.
Non sono venuto qui per consolare me e nemmeno per consolare te. Io non ho
davvero bisogno di consolazione e tu non puoi essere consolato come i bambini.
Io sto solo vivendo la mia avventura e tu stai vivendo la tua. Io ti conoscevo
già, ma è stato bello vederti felice di pensare per un attimo che “in qualche
modo” sono con te.
GF.
[Nuovamente il pianto mi attraversò e mi riportò alla quiete] Grazie. Se le
cose stanno così, posso quindi continuare a pensare che la preghiera sia
inutile: se c’è un vera trascendenza non serve che io chieda degli “sconti” e
se non c’è nulla non serve che io chieda alcunché.
D.
Già. Cerca però di non dimenticare il bene e la
bellezza quando il dolore ti sembra “troppo”.
GF.
E’ quello che dico a tutti i miei clienti. Ma … sei venuto a fare una seduta
con me o mi hai fatto fare una seduta con te?
D.
Sei sicuro che questa seduta si stia svolgendo davvero?
Oltre
a non essere abituato a riportare sedute inventate, non ho nemmeno il vezzo di
esporre idee in modi indiretti. Tendo ad essere essenziale ed esplicito. In
questo caso ho fatto un'eccezione, perché mi è parsa buona l'idea di
“ricapitolare” in un dialogo immaginario le riflessioni fatte sulla tendenza
molto diffusa a parlare di un’ipotetica trascendenza utilizzando categorie
umane e quindi "immanenti".
Nel
momento in cui sfioriamo l’idea di
essere davvero “di passaggio” e di non poter contare nemmeno sulla permanenza
della nostra coscienza, che è l’appiglio grazie al quale sappiamo di “esserci”
e di “essere noi stessi”, cominciamo a pensare ad un “dopo” che è solo la
versione ingigantita del nostro
futuro. Vorremmo un appiglio, ma solo rinunciando a concezioni rassicuranti possiamo
salvare il rapporto con noi stessi, il nostro dialogo interno e la possibilità
di cercare, finché c’è tempo, il piacere, la gioia e la felicità. Ci salviamo
proprio accettando che troveremo sempre gioia e dolore e che non sapremo
collocare tale gioia e tale dolore in un “grande piano” fatto di comode
certezze.
Questo
è il nostro modo di essere con noi, con gli altri e di attraversare il tempo
muovendoci in uno spazio minimo collocato in un universo immenso. Questo modo
di essere e, quindi, di sentire, è purtroppo molto scomodo per chi, fin
dall’infanzia, ha deciso di non confrontarsi con il dolore. Per questo motivo,
è così diffusa la tendenza a sostituire i dubbi con le certezze e il dolore con
le rassicurazioni. Le certezze e le rassicurazioni vacillano se vengono
sottoposte all’esame “spietato” della ragione. Allora ci ribelliamo e
svalutiamo la ragione per aggrapparci ad una fede. In realtà, nella vita reale
ci fidiamo di una persona o del funzionamento di una macchina sulla base di qualche
valutazione razionale e quindi non ci fidiamo mai “senza ragioni”. Nella fede
che “spiega la trascendenza”, invece, accantoniamo la ragione per accantonare
delle sensazioni “scomode”. Con questo salto mortale (il)logico, facciamo
tornare tutto “a posto”. Le religioni funzionano in questo modo e, placando
quel disagio che rende umani gli esseri umani, riescono ad estendere il vivere “poco” dal consueto piano dei rapporti
interpersonali al piano del nostro rapporto con il “tutto” che ci include.
Le
difese psicologiche intellettualizzate come ideologie religiose risultano,
quindi, collegate alle difese psicologiche che attiviamo nei rapporti
interpersonali. Pur essendo “condannati” ad una razionalità che appartiene al
“nostro” piano di realtà, possiamo interrogarci sulla possibilità di “altri” piani di realtà esaminando con cura e
senza pregiudizi quei fatti che sembrano irriducibili alle spiegazioni offerte
dalle scienze empiriche. Su questa linea di pensiero si muovono i ricercatori che
sono interessati a conoscere, non a “credere” e che sono decisi a raccogliere
dati, delineare spiegazioni “ordinarie” e anche a prendere in considerazione
spiegazioni “non ordinarie”. Su questa linea di confine fra il normale ed il
“paranormale” non dovrebbe “pesare” né la voglia di credere, né lo scetticismo
pregiudiziale. Solo il rigore metodologico consente l’eliminazione delle
spiegazioni “facili” e consente di convivere con i dubbi e di salvare la
disponibilità di fondo a considerare qualsiasi possibilità non contraddittoria
e non smentita dai fatti. Per non cadere nei pregiudizi possiamo solo tener
presente che le nostre domande sull’immanenza e sulla trascendenza devono
essere “limpide” e non devono essere semplici trucchi per mantenere l’ottimismo
o il distacco con cui stronchiamo abitualmente la consapevolezza del dolore.
Quali che siano, infatti, le risposte alle “grandi domande”, abbiamo bisogno di
accettare la gioia e il dolore che accompagnano ogni attimo della nostra vita.