lunedì 16 luglio 2018

32. Sulla religiosità







La superficialità con cui normalmente le persone aderiscono ad una particolare religione non dimostra la non fondatezza di tale religione, dato che anche sulla struttura dell’atomo o sulla prima guerra mondiale poche persone si documentano davvero. La superficialità delle “convinzioni” religiose è però inquietante, perché le persone sono poco interessate alle domande a cui le religioni offrono risposte, ma si aggrappano a tali risposte. Infatti, le “risposte” religiose non spiegano nulla in modo convincente, ma risultano emotivamente significative: rassicurano sul dolore, sulla solitudine, sulla precarietà dell’esistenza umana, sulla presenza del male. Tutta l’impalcatura concettuale delle religioni è irrazionale, non solo perché presuppone una radicale confusione fra conoscenza e “fede”, ma anche perché conduce a “descrizioni” di una possibile realtà trascendente in termini immanenti. Questi due aspetti rendono inconsistente qualsiasi discorso religioso e giustificano una ricerca riguardante non tanto i contenuti (metafisici) delle varie teologie, ma le ragioni (psicologiche) dell’adesione di tante persone alle concezioni religiose della realtà. L’esame di tali ragioni porta, come vedremo, a comprendere le religioni come difese psicologiche intellettualizzate e socialmente strutturate.
Le religioni offrono proprio le certezze di cui le persone sentono la mancanza: a) affermano che la vita individuale nell’universo “silenzioso” è solo apparenza e che nella “vera” realtà (trascendente) è “data” una oggettiva armonia fra ognuno e la “totalità” dell’essere, regolata dal potere divino, b) affermano che il male ha un “significato” e che gli esseri umani possono conquistare una vita eterna se controllano le proprie “tendenze egoistiche”, c) affermano che il senso di solitudine può essere superato grazie all’adesione ai principi di una comunità spirituale che accoglie come una famiglia chi ha fede, si comporta bene e pratica certi rituali. Le tre risposte religiose alle tre basilari sensazioni di disagio “esistenziale” sono collocabili sul piano del potere e non dell’accettazione di sé e degli altri e della compassione per sé e per gli altri. Tali risposte si riducono all’idea che gli esseri umani, così limitati di fronte al “tutto”, al “male” e alla “distanza” dagli altri, abbiano il potere di fare qualcosa di “risolutivo”: grazie alla fede religiosa possono sottomettersi al potere divino e quindi ottenere la sicurezza, il benessere e l’accoglienza.
Tutte le difese psicologiche sono affermazioni di un potere (inesistente) che libera (apparentemente) gli esseri umani dal dolore. Noi siamo impotenti rispetto ai limiti insuperabili, rispetto al passato, rispetto alla libertà degli altri e rispetto alla morte. Possiamo ridurre (con l’impegno) i nostri limiti e quelli degli altri, ma sempre fino ad un certo punto; possiamo modificare alcune conseguenze attuali di ciò che è avvenuto, ma non possiamo incidere sul passato; possiamo farci conoscere, ma non possiamo farci amare; possiamo essere prudenti, ma comunque moriremo. Le difese psicologiche sono illusioni di potere perché non ci proteggono dal dolore, ma dalla consapevolezza del dolore, e le religioni ci aiutano a compiere le operazioni difensive “su larga scala”. Anziché girare tre volte la manopola del gas per essere certi che la casa non esploderà, possiamo pregare e convincere dio a proteggerci da tutto; anziché dissociarci dal fatto che non possiamo far tornare in vita chi è morto, possiamo contare sul fatto che, se vivremo in un certo modo, nella “vera vita” ritroveremo i nostri cari; anziché inseguire il successo per diventare importanti per qualcuno, possiamo compiere dei rituali e farci accettare addirittura da dio.
Ovviamente, la lettura delle religioni come difese intellettualizzate presuppone la convinzione che le religioni non costituiscano una reale conoscenza della realtà. Se ci sentiamo liberi di non prendere troppo sul serio altri “pilastri” della cultura (tra cui dobbiamo annoverare anche delle assurdità come il classismo, il sessismo, l’etica, il razzismo e il patriottismo) possiamo riconoscere anche l’inconsistenza delle concezioni religiose: è semplicemente irrazionale la pretesa di descrivere la trascendenza con categorie mentali umane e quindi immanenti ed è irrazionale l’idea di una trascendenza somigliante al “paradiso” sognato dai bambini. Se davvero esiste un altro piano di realtà non può essere quello immaginato in questo piano di realtà e soprattutto non può essere regolato da un’entità che manifesta i tratti più rassicuranti e più inquietanti dei genitori degli esseri umani. Tutte le “profonde” riflessioni sulle religioni non colgono, quindi, il fatto che le religioni sono semplicemente delle illusioni.
Il fatto di sperimentare solo la realtà condivisa con i nostri simili non esclude che siano possibili altre esperienze “al di là” di quella a noi accessibile (e quindi trascendenti), così come il fatto di conoscere solo esseri terrestri non esclude che esistano degli esseri extraterrestri. Tuttavia, come non abbiamo validi motivi per immaginare marziani magri, verdi e con le antenne, non abbiamo alcun valido motivo per immaginare entità trascendenti o “spirituali” simili a noi, ma con “poteri” maggiori. Il concetto di persona trascendente è un ossimoro come quello di quadrato circolare. Tali entità trascendenti potrebbero anche essere irriducibili alla nostra categoria di “persona”. Ma soprattutto ben difficilmente assomiglierebbero ai nostri genitori al punto da manifestare gli stessi pregi e difetti “esasperati”: un amore infinitamente consolante e la propensione ad infliggere punizioni “eterne”.

Certi dati insoliti consentono ad alcuni ricercatori di ipotizzare esseri extraterrestri (ma immanenti) e ad altri di restare scettici. Altri dati collocabili ai limiti delle esperienze ordinarie consentono ad alcuni ricercatori di ipotizzare una realtà trascendente e ad altri di restare scettici. Qualsiasi ipotetico fatto collocabile al limite della realtà conosciuta, rinvia ad “altro”, ma in negativo. Gli extraterrestri, se ci sono, ci risultano al momento “non identificati”. Lo stesso vale per la realtà trascendente: se esiste, per noi può essere concepita solo come “altra” o magari “Altra”. Tutto qui. Qualsiasi ipotizzabile “canale” con la trascendenza sarebbe in ogni caso sperimentato solo dal “lato” della (nostra) immanenza e quindi inevitabilmente distorcerebbe la comprensione dell’altra (o “Altra”) realtà (trascendente). Su questa base, una “visione” della divinità è impossibile per motivi logici: anche se tale esperienza si verificasse, si ridurrebbe all’esperienza della percezione/deformazione immanente della trascendenza.
Noi tendiamo a considerare qualsiasi stupidaggine ripetuta più volte come un “punto di vista”: siamo così propensi ad accettare qualsiasi idea proclamata dalle autorità della nostra comunità umana (o del nostro “gruppo di riferimento”) che troviamo “ovvie” le guerre, le iniquità economiche e le discriminazioni sociali. Solo per l’antica e non superata paura della solitudine accettiamo acriticamente le ideologie più assurde e semmai contestiamo solo gli aspetti della società che molti altri contestano. Il fatto che certe idee religiose siano considerate ovvie da tanti non le rende ragionevoli. Anzi, il fatto che le religioni siano interpretazioni umane (per molti aspetti anche banali) di una eventuale realtà trascendente conduce non tanto a domande sulle “ragioni” (filosofiche) delle religioni, ma a domande relative alle ragioni (psicologiche) dell’accettazione delle religioni. A dire il vero, anche le persone che si dichiarano atee o agnostiche o spiritualiste ma non religiose, spesso affermano le loro idee senza essersi mai davvero interessate alle questioni “fondamentali” dell’esistenza umana. Tuttavia, sono soprattutto le persone e le comunità religiose quelle che impongono le loro “convinzioni” ai soggetti più deboli (i bambini).
Vediamo ora più da vicino le tre rassicurazioni basilari (relative alla “precarietà esistenziale”, al male e alla solitudine) che le religioni offrono e a cui gli esseri umani vogliono aggrapparsi pur di non convivere con il dolore che la loro esistenza comporta. Da sempre gli esseri umani provano disagio notando la sproporzione fra la loro fragilità e la potenza della natura o fra la loro piccolezza e l’immensità dell’universo. Tale disagio provoca domande sulla “totalità” di cui fanno parte e provoca soprattutto il desiderio di risposte rassicuranti. Le concezioni animiste, politeiste e monoteiste sono rassicuranti perché postulano l’esistenza di entità più potenti di noi sulle quali abbiamo dei margini di controllo: possiamo ottenere la loro benevolenza comportandoci in certi modi. In questo senso le religioni sono illusioni di potere. Sono illusioni perché nessuna entità trascendente sarebbe tale se potesse essere “corrotta” o “controllata” e sono illusioni di potere perché affermano il potere di conquistare “a certe condizioni” l’amore divino. Di fatto, anche le concezioni nichilistiche contrapposte alle religioni, in fondo sono rassicuranti: come certi bambini si dissociano dal bisogno (doloroso) di essere amati rimuginando sul loro “bisogno” di andare via di casa e di “sentirsi indipendenti”, alcuni pensatori “si ribellano” alla natura “matrigna” e si sentono “forti” nella loro “indipendenza” o nel loro vittimismo o nel loro “distacco emotivo”.

Per quanto riguarda il problema del male, va detto che è davvero difficile distinguere le concezioni religiose dai sistemi morali. Ogni religione afferma dei principi etici ricondotti alla volontà divina o alla “natura umana” intesa come “coscienza” creata dalla divinità. Sebbene ogni religione esprima con molta forza dei principi morali, le religioni non affermano un’etica condivisa. Ogni concezione etica è un’illusione generata da bambini bisognosi di adattarsi a genitori rifiutanti, sistematizzata da vari filosofi e accettata come ovvia da adulti che fin dall’infanzia si sono dissociati dalla realtà e dal dolore. Le concezioni etiche di tipo religiose attribuiscono ad una divinità trascendente le difese psicologiche (indignazione, pretesa, svalutazione, vendetta) che gli esseri umani manifestano quando ribadiscono le loro “convinzioni” morali. Anche l’idea dell’amore attraversa varie concezioni religiose, ma, purtroppo, l’amore viene prescritto come un compito o un dovere e non viene compreso come una capacità umana, un sentimento che qualsiasi bambino amato e protetto sviluppa spontaneamente (cfr. Neill, 1960, Tomasello, 2009 e Warneken–Tomasello, 2006). Nelle religioni, così come nelle più rozze filosofie laiche, l’amore è concepito irrazionalmente come “altruismo” nel senso di “sacrificio doveroso” e non come un ragionevole desiderio di aver cura di qualcuno o di qualcosa.
Nella religiosità cristiana è molto marcata la contraddizione fra l’amore come capacità umana e come dovere. Ciò consente di supporre che Gesù sia stato un po’ saggio ma anche un po’ confuso, oppure che sia stato davvero portatore di una grande saggezza, ma sia stato frainteso dai discepoli. Due esempi sono illuminanti: egli afferma nella sua predicazione “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12, 29-31) e sulla croce esclama “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34). La prima frase racchiude una consapevolezza profonda del fatto che l’amore per gli altri è strettamente collegato alla capacità di amare se stessi, ma imprigiona tale illuminazione in una forma imperativa. Ovviamente chi non è in grado di amarsi, per quanto si sforzi, non può amare gli altri ed al massimo li tratterà con correttezza per paura (per non subire ritorsioni o per non sentirsi colpevole). Tale frase include, quindi, sia una grande verità sul significato dell’amore, sia un’imposizione connessa ad una minaccia. La seconda frase è pure illuminante su una questione molto delicata: non ha senso svalutare chi agisce male, perché la malvagità è espressione di una mancanza di contatto e di consapevolezza. Per questo motivo Gesù non odia i suoi persecutori. Tuttavia questa limpida comprensione dei fatti è offuscata dal concetto di “perdono”: di cosa deve essere perdonato chi non sa perché agisce in modi distruttivi? Può essere capito e sopportato o contrastato, ma non può essere ragionevolmente odiato e nemmeno perdonato, perché non è “colpevole”, ma inconsapevole. Data la profondità di certi passi dei Vangeli, credo che il moralismo che avvolge il messaggio cristiano sia dovuto agli evangelisti e non sia parte integrante della predicazione di Gesù.
Anche se l’idea di una divinità simile ai peggiori genitori e molto più potente è essenzialmente blasfema, di fatto attecchisce nelle menti dei bambini già disposti a lacerarsi interiormente pur di sperare in un possibile “perdono”. Tale idea irrazionale, però, non è messa in discussione alle radici nemmeno dagli adulti non credenti, perché essi a volte contestano la censura religiosa di particolari comportamenti, ma in genere non arrivano a mettere in discussione l’idea della colpa in quanto tale. Non a caso, il macigno dei “sensi di colpa” non è stato frantumato nemmeno dalle principali concezioni psicoterapeutiche.
Per quanto riguarda il rapporto fra religioni e bisogno (difensivo) di “appartenenza”, va notato che molte persone religiose non sperimentano alcuna inquietudine relativa al loro “smarrimento” nell’universo, ma manifestano soprattutto l’esigenza di “appartenere” ad una comunità e di partecipare ai suoi rituali. Non a caso, le religioni hanno uno sviluppo più “geografico” che logico. Gli scienziati procedono partendo dalle conoscenze già acquisite e non capita che nella Tanzania o in California gli scienziati non accettino le leggi del moto. I filosofi sono meno compatti degli scienziati nello sviluppo delle loro concezioni (dato che spesso non fanno affermazioni empiricamente fondate), ma anche i filosofi lavorano tenendo conto della storia del pensiero orientale ed occidentale e non si limitano ad approfondire le tesi più comuni nelle regioni in cui sono cresciuti: vari filosofi americani sono influenzati dalle filosofie orientali più che dal positivismo e vari filosofi orientali sono influenzati dal positivismo più che dalle filosofie tradizionali dell’Oriente. Al contrario, non ci sono (o, se ci sono, costituiscono delle vere rarità) teologi cristiani cresciuti in paesi marcatamente influenzati dalla religione islamica e nemmeno teologi islamici cresciuti in paesi marcatamente influenzati dalle religioni cristiane. Nei paesi in cui il cristianesimo è stato predicato o imposto con la forza vivono atei e cristiani e alcuni cristiani sono teologi cattolici (mai teologi islamici, a parte quelli emigrati sul posto da adulti). Nei paesi in cui l’Islam è stato predicato o imposto con la forza vivono musulmani e ben pochi atei, e alcuni musulmani hanno anche notevoli conoscenze teologiche basate sul Corano, ma nessuno di essi accetta la teologia cristiana (a parte quelli emigrati sul posto da adulti). Ovviamente in Italia scarseggiano induisti, shintoisti e anglicani, anche se vi sono studiosi che conoscono bene tali orientamenti religiosi.
La situazione descritta è paradossale: gli scienziati ammettono di avere convinzioni provvisorie e i filosofi ammettono di formulare teorie discutibili, ma espandono in tutto il mondo le loro ipotesi o le loro provvisorie certezze. I teologi invece pretendono di avere delle conoscenze “assolute”, perché radicate nella “natura” dell’uomo o rivelate proprio dalla divinità, ma non riescono a produrre una conoscenza condivisa o dei dissensi intellettualmente giustificati: esprimono le loro certezze “evidenti”, assolute e quindi valide per tutti, ma riescono a diffonderle solo geograficamente, cioè solo nei luoghi in cui i bambini vengono educati dalle famiglie e dai religiosi secondo i canoni di una particolare fede. Oltre a ciò si deve considerare il fatto che moltissime persone religiose non hanno alcun interesse per le “verità ultime” della loro teologia di riferimento. Anche se probabilmente sono soprattutto i cristiani (che in genere vivono in società secolarizzate) ad affermare spesso candidamente di essere cristiani o cattolici “a modo loro”, dubito che i musulmani o gli induisti abbiano convinzioni teologiche più solide di quelle dei cattolici. Tutto ciò (il disinteresse per la trascendenza unito all’attaccamento nei confronti di una particolare interpretazione religiosa della trascendenza) porta a ritenere che le religioni siano soprattutto ambiti di “con-divisione”, ovvero ambiti in cui viene sperimentata l’appartenenza ad un gruppo.
Le convinzioni e i sentimenti che caratterizzano la religiosità si manifestano sempre e comunque in uno solo dei tanti quadri di riferimento offerti (o imposti) dalle particolari religioni. Cattolici e musulmani sono fermamente convinti delle loro “verità” religiose e sono anche fermamente convinti che le “altre” verità siano “false verità”. I cattolici sono molto coinvolti emotivamente nei loro rituali religiosi, mentre considerano abbastanza bizzarri certi rituali musulmani ed anche i musulmani ricambiano tali impressioni. Le religioni sono un po’ come i vestiti: una volta che si decide di indossare qualcosa, ci si veste casual o con eleganza, ma nessuno indossa la cravatta sopra una felpa. Nessuno quindi va a messa e poi fa anche il ramadan, o magari svolge anche la pratica induista della puja, pensando che comunque “sempre di cose religiose si tratta”. Le diverse religioni, infatti, pur incoraggiando atteggiamenti molto simili, sono dottrine definite ed esclusive. Le varie religioni formulano delle enunciazioni specifiche relative ad aspetti ben precisi della realtà. Gesù Cristo è risorto oppure non è risorto. Era davvero una manifestazione della divinità o un profeta o un saggio. L’inferno esiste oppure non esiste. Certe forme di sessualità sono un “peccato” oppure non lo sono. Le “conoscenze” affermate dalle particolari religioni sono indimostrabili, ma soprattutto sono inconciliabili con quelle delle altre religioni. Per i valdesi l’eutanasia è una manifestazione del rispetto per la dignità delle persone affette da gravi malattie, mentre per i cattolici è la somma di un suicidio e di un omicidio. Un rabbino non è d’accordo con un vescovo o con un imam su un mucchio di questioni, pur essendo convinto (come gli altri) di affermare delle verità assolute e non delle semplici opinioni. Ora, la cosa che va sottolineata è proprio questa: la religiosità viene sempre e comunque espressa nell’ambito di un’unica religione. Una religione, in altre parole, non si riduce alla religiosità: incoraggia o impone, come ogni altra religione degli atteggiamenti religiosi, ma si definisce come un preciso patrimonio di idee sulla natura della realtà.
La tutela ufficiale delle convinzioni religiose è rigida ed esclusiva, ma per certi aspetti, anche stranamente permissiva: finché le “devianze” sul piano dottrinale o comportamentale non vengono percepite come pericolose dalle autorità, vengono trascurate o minimizzate. Se ad esempio consideriamo la religione più diffusa nel nostro paese, dobbiamo tener presente che, secondo la dottrina cattolica, non solo dio esiste, ma è conoscibile razionalmente sulla base dei dati empirici disponibili a tutti (“per ea quae facta sunt”). Lo ha stabilito il Concilio Vaticano I nel 1870 (Constitutio dogmatica Dei Filius) e tale dogma non è in discussione. Chi non lo condivide non può far parte della chiesa cattolica (“anathema sit”!). Tuttavia, conosco moltissimi cattolici, anche colti e sinceramente devoti, i quali non credono affatto che l’esistenza di dio sia dimostrabile e mi sembra, quindi, curioso il fatto che i sacerdoti evitino accuratamente di precisare che chi non accetta la dimostrazione razionale della divinità non può far parte della chiesa. Come mai? Se questo “dettaglio” non è importante, perché è affermato come dogma? E se è importante, perché non viene ribadito con la stessa enfasi con cui si ribadisce che l’aborto è un “omicidio” e che l’omosessualità è un “grave peccato”? Come mai la religione, che è un insieme di affermazioni precise sulla realtà, è considerata tanto importante, ma è anche trattata in certi casi dai suoi stessi principali esponenti con tanta leggerezza? Come mai certi dogmi sono minimizzati dai fedeli ed anche dai sacerdoti?
Milioni di persone affermano “sono cattolico, ma a modo mio”. Cosa significa? Un soldato “a modo suo” che diserta sulla linea del fuoco viene fucilato per diserzione. Un matematico convinto che due più due faccia cinque viene cacciato dall’università. L’adesione “approssimativa” ad una religione rigorosamente definita è davvero inquietante proprio perché non turba né chi “crede a modo proprio”, né chi è custode riconosciuto di una religione. Ciò mostra che la religiosità non ha molto a che fare con le convinzioni proclamate, ma piuttosto con il bisogno di assumere certi atteggiamenti e di far parte di una comunità. In pratica, i fedeli cercano un gruppo più che una religione e i religiosi cercano di avere dei fedeli devoti più che dei fedeli convinti. Le religioni, pur affermando contenuti intellettuali specifici ed esclusivi, sono quindi sostenute proprio dalla religiosità delle persone. Una religione che non offrisse salvezza, appartenenza, rituali adatti a realizzare un “collegamento” con la divinità e che affermasse in modo limpido solo la trascendenza, conterebbe nel mondo intero pochissimi seguaci.
In altre parole, la religiosità è vero il “motore” delle religioni sia perché viene imposta ai bambini, sia perché consolida negli adulti la sensazione di appartenere ad una comunità. Le religioni adottano pratiche “educative” terribilmente autoritarie: nessuno si sogna di spiegare ai bambini la Costituzione, l’anarchia, il liberalismo o le equazioni, ma tutti danno per scontato che si possano insegnare ai bambini concetti teologici intellettualmente complessi ed emotivamente devastanti perché svalutativi. La trasmissione dei concetti di “peccato” e di “colpa” costituisce un crimine sociale contro l’infanzia che, purtroppo, i partiti laici e le stesse scuole di psicoterapia non contrastano in alcun modo. Solo per interessi di vario tipo (personali e di gruppo) i cosiddetti intellettuali laici e i cultori delle scienze psicologiche o i politici evitano di denunciare l’indottrinamento religioso dei bambini. Tuttavia, penso che l’indottrinamento religioso sia così efficace proprio perché ha radici a livello psicologico nelle esperienze emotivamente disturbanti che i bambini fanno in famiglia. L’educazione religiosa trova un terreno fertile proprio nei bambini che già conoscono la solitudine, la non accettazione, i ricatti affettivi e le colpevolizzazioni. Nella misura in cui l’educazione religiosa “incontra” la paura del “vuoto” e il bisogno di una “salvezza” che possa liberare dalle “colpe” (già costruite nei rapporti con i genitori), fornisce un quadro concettuale attraente perché inquietante ma anche rassicurante. In questo senso gli incubi famigliari favoriscono l’accettazione delle idee religiose e le religioni consolidano e intellettualizzano in termini metafisici le difese psicologiche costruite dai bambini in famiglia.
Provo sempre un certo disagio ad esaminare criticamente fatti complessi come le tante realtà sociali, culturali o ideologiche che, per quanto irrazionali, si agganciano ai sentimenti e alle speranze delle persone. Cerco sempre di non dimenticare che persino le idee o le emozioni o le azioni più assurde e distruttive attraversano vite vissute e cerco quindi di evitare schematismi riduttivi, ma non rinuncio a denunciare il fatto che certe idee fanno più danni delle armi. Il rispetto per le persone non ha nulla a che fare con il rispetto per i loro vizi mentali o emozionali. Per questo motivo penso che le religioni debbano essere smascherate e denunciate. Ho conosciuto alcune persone profondamente religiose che ricordo ancora con affetto e gratitudine e ciò può chiarire che la mia analisi delle religioni, per quanto radicale, non riflette un fastidio epidermico o un’ostilità nei confronti dei credenti. Pur non condividendo il rigido sfondo etico-teologico delle idee di Don Lorenzo Milani, (Scuola di Barbiana, 1967), riscontro in esse una sincera e sentita passione per la bellezza delle persone, dei bambini e dell’incontro fra gli esseri umani. Una passione lontana anni luce da quella dei tanti “indignati” odierni, incapaci di vivere per qualcosa. Tuttavia, le idee irrazionali restano tali anche se trasmesse da persone per molti aspetti sensibili e attente agli altri. Vanno quindi analizzate e dissolte. Per questo motivo, il fatto che un alone di “intoccabilità” circondi le religioni e spinga normalmente i non credenti a discutere le ideologie religiose con una cautela esasperata, mi sembra un fatto non ovvio ed anzi da spiegare.
Le varie dottrine materialistiche, positivistiche, rivoluzionarie o libertarie hanno sempre evidenziato solo su un piano concettuale le debolezze o le contraddizioni delle religioni, ma non hanno quasi mai colto in profondità gli aspetti distruttivi sul piano psicologico della religiosità. Persino gli anticlericali più accesi tendono a condannare le manifestazioni più “esterne” delle religioni (come le collusioni con il potere politico ed economico) o quelle più “culturalmente significative (dogmatismo, autoritarismo, moralismo), ma trattano con estrema prudenza il “sentimento religioso”. Il sarcasmo può colpire l’avarizia, le tante “manie” delle persone, il conformismo sociale, ma non la religiosità. Come mai è così diffuso il timore di “ferire la sensibilità religiosa” e non quello di ferire la “sensibilità” libertaria o quella scientifica?
Come mai la religiosità delle persone sollecita atteggiamenti fortemente protettivi da parte dei non credenti? Ad esempio, in passato i militanti comunisti condividevano valori intensamente sentiti e si dimostravano molto uniti nell’impegno comune, ma nessuno avrebbe pronunciato l’espressione “non si possono ferire i sentimenti dei comunisti”. Come mai sembra che solo le persone religiose siano così vulnerabili e da proteggere? E come mai sono da rispettare con tanta attenzione mentre proprio loro non rispettano in alcun modo i sentimenti delle persone non religiose e svalutano come indecenti e peccaminosi molti modi di vivere non religiosi? Di fatto, i sentimenti religiosi trasudano potenza e fragilità in dosi non paragonabili ai sentimenti canalizzati socialmente in altre direzioni. Quando si osservano gli sguardi dei fedeli in Piazza San Pietro o dei fedeli che si tolgono le scarpe entrando in una moschea, si sente di dover usare cautela, tatto, delicatezza. Non è facile far notare che l’omelia sulla povertà di un papa che rappresenta una delle maggiori potenze finanziarie suona come un paradosso e un insulto. Non è facile dire ad una donna con il velo sul viso che crede in una divinità davvero strana. Per quale motivo l’analisi critica, la contestazione e soprattutto l’ironia non sono “applicabili” quando è presente il “sentimento religioso”?
Il nodo della questione non sta nei “valori” (affermati anche da comunisti, femministe, patrioti e vegetariani) e nemmeno nel bisogno di appartenenza (che è sentito persino dai tifosi di una squadra di calcio). Non sta nemmeno nella concezione della trascendenza, dato che gli spiritualisti non religiosi non “intimoriscono” come le “persone di fede”. Io credo che questo (pseudo)rispetto, cioè questo misto di correttezza e protettività che porta i non credenti a “muoversi in punta di piedi” con i credenti dipenda dal fatto che le persone religiose non esprimono convinzioni e sentimenti, ma “si aggrappano” a (deboli) convinzioni legate ad intensi sentimenti. Nelle manifestazioni di qualsiasi fede religiosa le persone sono davvero “sbilanciate” e “sostenute” solo dalla fede a cui si aggrappano. Chi si aggrappa all’attività lavorativa sprofonda facilmente nella depressione quando va in pensione ed è intuibile che se un raggio cosmico annullasse improvvisamente le convinzioni religiose, buona parte dell’umanità “crollerebbe” sul piano psicologico. Le persone religiose hanno sentimenti intensi come quelli delle persone impegnate nella politica, nell’ecologia, nelle battaglie culturali, ma non si limitano ad esprimere la loro emotività: vivono appese al filo della speranza alimentata dalla loro religione. Se quel filo si spezzasse non proverebbero la delusione sperimentata dai comunisti quando i crimini staliniani divennero di dominio pubblico. Proverebbero la sensazione di chi si trova su un aereo che sta precipitando. Infatti, le religioni sono assorbite nell’infanzia da bambini già rifiutati dai genitori e confermano la minaccia di un rifiuto totale prospettando però l’idea di una salvezza. Il crollo improvviso delle convinzioni religiose riporterebbe le persone più fragili all’incubo non risolto, ma solo “tamponato” della loro infanzia.
Non si può, se non per odio o sadismo togliere la sedia a chi è sbilanciato mentre sta per sedersi e per questo motivo credo che la “cautela” con cui i non credenti trattano quasi sempre le persone religiose dipenda (a parte i casi di semplice opportunismo politico) proprio da una vaga consapevolezza della profonda “fragilità” delle persone religiose. Le religioni e le autorità religiose sono trattate come “intoccabili” perché le persone veramente religiose sono davvero vulnerabili. Tuttavia, paradossalmente, proprio per questa vulnerabilità riescono anche ad essere spietatamente distruttive: la ferocia delle guerre sante e del “maltrattamento teologico” dei bambini non toglie nulla a questa profonda fragilità, ma anzi la conferma.
Se questo è vero, si capisce quanto sia importante mantenere un coerente rispetto nei confronti delle persone religiose, ma anche esprimere una inflessibile critica nei confronti di ciò che pensano e del male che compiono. Qualsiasi maestro che insegnasse alle elementari i testi anarchici sarebbe espulso dalla scuola, mentre tutti i bambini festeggiano il Natale. Perché? Perché nessuno si permette di spiegare la gioia del sesso ai figli degli altri mentre tutti i sacerdoti si permettono di spiegare ai figli degli altri gli “atti impuri” contando sul fatto che la loro “predicazione” sarà comunque “rispettata”? Occorre spezzare quel legame perverso che unisce il genuino sentimento di compassione per la fragilità delle persone religiose e il perverso rispetto nei confronti delle idee e delle azioni compiute dalle persone religiose. I non credenti sono non solo ragionevolmente rispettosi, ma anche pregiudizialmente complici delle religioni (e della distruttività delle religioni) perché non osano affrontare il vero problema (il dolore) in termini razionali ed emotivamente autentici. Schivando il dolore, i non credenti non possono smascherare coloro che apparentemente lo affrontano e lo mitigano aggrappandosi ad una concezione metafisica della salvezza.
Ricorderò sempre il primo pianto di un mio cliente. Egli non arrivò in fondo, ma si mostrò sorpreso, quasi stordito, e mi disse: “Ma allora il dolore di cui parliamo è questa roba qui?”. Ricordo anche il primo pianto di una cliente che per mesi aveva iniziato le sedute dicendomi che aveva molte perplessità sul proseguimento del nostro lavoro e ribadendo che non si sentiva aiutata. Un giorno lavorammo meglio del solito su un particolare aspetto del suo rapporto con la madre e lei, spiazzata dal fatto di stare piangendo, mi disse che stava sentendo “troppo”. Parlo di due persone come tante, non pescate “fra i drogati” o dimesse da “strutture protette”. Persone come i nostri vicini di casa, il medico di base, il vigili urbani, gli psicoterapeuti (che per legge possono fare “terapie” senza essersi mai guardati dentro in un percorso analitico), i preti e le suore, gli insegnanti, i presidi, i deputati votati da tanti elettori. Persone normali che conoscono tutto ciò che il dizionario riporta sul dolore, ma non riescono nemmeno ad immaginarlo. Il dolore, tanto presente nella vita di tutti, è normalmente così lontano dalla coscienza che le persone non riescono a percepire la violenza e l’inconsistenza delle normali manifestazioni dell’indifferenza, delle manipolazioni e delle svalutazioni con cui tanta gente si dissocia continuamente dal dolore. Nella cultura occidentale ed orientale il dolore è negato e resta, quindi, terreno di caccia per le religioni. Le religioni affrontano esplicitamente, ma strumentalmente il tema del dolore, della morte, della finitezza umana. Toccano le corde profonde della sensibilità delle persone per poi offrire la risposta costituita da una nuova famiglia in cui la fratellanza è riconosciuta da una divinità ed in cui la divinità è una figura genitoriale onnipotente. In realtà, è una figura genitoriale “eccessiva”: capace di accogliere come i genitori migliori e capace di rifiutare come i genitori peggiori.
La religiosità, in ogni caso, riduce il contatto con il dolore definendo l’intera esistenza personale come un acconto dell’eternità e quindi come un percorso che può essere considerato con un certo distacco. Alcuni esercizi delle psicoterapie focalizzate sui sintomi tentano proprio di favorire il distacco dal dolore: certi psicoterapeuti invitano i “pazienti” ad immaginare le situazioni ansiogene da una certa distanza, cioè con un “binocolo psicologico oggettivante” e poi invitano le persone a ridurre gradualmente tale distanza. Tali tecniche (quando funzionano) attenuano l’ansia dei “pazienti” e fanno sentire gli psicoterapeuti “efficaci”, ma non producono alcuna consapevolezza dei motivi per cui le persone limitano il contatto emotivo. Le religioni sono ovviamente realtà socioculturali molto complesse e utilizzano strumenti più incisivi dei trucchi psicoterapeutici. Esse garantiscono (con il “peso” di tradizioni consolidate) che la vita non è così importante come sembra. Spingono le persone a guardare la loro intera esistenza con un telescopio teologico e non solo con un binocolo psicoterapeutico. Per i cattolici e gli islamici la vita è una specie di esame da superare, per i buddhisti è una sorta di palestra che garantisce l’uscita dalla disgrazia delle successive incarnazioni e per altre religioni è comunque una sorta di apparenza. Quindi, se si può morire in una guerra santa per dio o per Allah, si può ben minimizzare anche qualsiasi malattia o ingiustizia. L’idea marxiana della religione come oppio dei popoli è molto semplicistica, perché con essa Marx riduceva le religioni ad una semplice appendice delle ideologie classiste, trascurando il loro radicamento emozionale. Egli, però, coglieva nel segno almeno sottolineando che le religioni favoriscono il distacco psicologico dalla realtà, come una droga. Nella religiosità, l’aspetto che incide negativamente sul contatto emotivo non è l’idea di trascendenza (che in sé non è né irrazionale né emotivamente paralizzante), ma l’idea che la trascendenza giustifichi una minimizzazione di ciò che le persone sentono. Non c’è alcun nesso razionale fra il dolore di questa vita e altri ipotizzabili piani di realtà, perché ora la vita sperimentata è “questa”, sia che altri percorsi soggettivi siano possibili, sia che essi non siano possibili.
Le religioni però non si limitano a favorire un distacco emotivo, quasi ipnotico, dal dolore che permea la condizione umana, perché a volte giungono a creare una sorta di culto del dolore che altera la comprensione della realtà. In questo, la religione cattolica ha una sorta di primato. E’ ben strano che di tutta la vita di Gesù, imperniata sulla predicazione di concetti elevati venga messo in primo piano proprio l’aspetto più sfortunato e meno utile all’umanità: la crocifissione. Noi apprezziamo Gandhi per i suoi ideali non violenti e non certo perché un fanatico gli ha sparato. Di Martin Luther King, di Orwell o di Camus e di tante altre persone meravigliose evidenziamo le idee e le azioni, ma non le circostanze violente o naturali del loro decesso. Nel cristianesimo invece “il mistero della croce” è al centro della catechesi e tale scelta “interpretativa” esprime proprio il rifiuto di un confronto con il dolore. Tale rifiuto si basa sulla “valorizzazione” della sofferenza e sull’idea della sua possibile utilizzazione per il raggiungimento della salvezza. Il dolore è prospettato come un biglietto che si deve pagare per ottenere l’approvazione della divinità. Soffrire è nobile e garantisce la possibilità di “sentirsi a casa”, almeno in un’altra vita. La pratica della “rinuncia” e quindi della sofferenza autoinflitta, che si declina in vari modi nei comportamenti dei bambini e degli adulti è fondamentalmente blasfema, perché presenta la divinità come un’entità che premia proprio le persone che rinunciano al piacere di vivere. I bambini non crederebbero ad una divinità che accetta come “dono” il loro dolore se in famiglia fossero accolti nei momenti gioiosi e sostenuti in quelli dolorosi.
Ora, la “trasformazione del dolore in una moneta” che consente di ottenere la sensazione di essere “nel giusto” e la certezza di essere al sicuro per l’eternità è un aspetto del cristianesimo che intossica tutte le società occidentali. Se la testimonianza dell’amore è opera di Gesù, l’esaltazione del dolore è sicuramente opera dei suoi discepoli. Si trovano idee “troppo belle” nel messaggio cristiano e tale bellezza non può essere associata all’esaltazione del dolore. Tale associazione deve essere stata attuata da discepoli che capivano solo ciò che potevano capire e che colmavano i vuoti della loro comprensione con le loro piccole idee. La religiosità raccoglie il meglio ed il peggio della cultura in ogni epoca e paese. Essa include la fratellanza e i roghi, sia quelli della “nostra” Inquisizione, sia quelli delle vedove nelle tradizioni induiste (cfr. Franci, 2005, p. 33). In ogni caso, anche la cultura non religiosa soffoca la razionalità e la ricerca della felicità. Se la cultura estranea alla religiosità fosse una cultura davvero “umanistica” avrebbe protetto i bambini e favorito il pieno sviluppo delle loro capacità emozionali.
Gli esseri umani si sentono smarriti in quella “totalità” che la scienza non spiega. Se accettassero ciò che sentono senza aggrapparsi a illusioni rassicuranti, riconoscerebbero di poter vivere da fratelli nell’incertezza, nella precarietà, anche sperando, ma non certo “credendo”. Potrebbero condividere le loro piccole e immense vite in un universo terribilmente silenzioso.