La
superficialità con cui normalmente le persone aderiscono ad una particolare
religione non dimostra la non fondatezza di tale religione, dato che anche
sulla struttura dell’atomo o sulla prima guerra mondiale poche persone si
documentano davvero. La superficialità delle “convinzioni” religiose è però inquietante,
perché le persone sono poco interessate alle domande a cui le religioni offrono
risposte, ma si aggrappano a tali risposte. Infatti, le “risposte”
religiose non spiegano nulla in modo convincente, ma risultano emotivamente
significative: rassicurano sul dolore, sulla solitudine, sulla precarietà
dell’esistenza umana, sulla presenza del male. Tutta l’impalcatura concettuale
delle religioni è irrazionale, non solo perché presuppone una radicale confusione
fra conoscenza e “fede”, ma anche perché conduce a “descrizioni” di una possibile realtà trascendente in termini immanenti. Questi
due aspetti rendono inconsistente qualsiasi discorso religioso e giustificano
una ricerca riguardante non tanto i contenuti (metafisici) delle varie
teologie, ma le ragioni (psicologiche) dell’adesione di tante persone alle
concezioni religiose della realtà. L’esame di tali ragioni porta, come vedremo,
a comprendere le religioni come difese psicologiche intellettualizzate e
socialmente strutturate.
Le religioni offrono
proprio le certezze di cui le persone sentono la mancanza: a) affermano che la
vita individuale nell’universo “silenzioso” è
solo apparenza e che nella “vera” realtà (trascendente) è “data” una
oggettiva armonia fra ognuno e la “totalità” dell’essere, regolata dal potere
divino, b) affermano che il male ha un “significato” e che gli esseri umani
possono conquistare una vita eterna se controllano le proprie “tendenze
egoistiche”, c) affermano che il senso di solitudine può essere superato grazie
all’adesione ai principi di una comunità spirituale che accoglie come una
famiglia chi ha fede, si comporta bene e pratica certi rituali. Le tre risposte
religiose alle tre basilari sensazioni di disagio “esistenziale” sono
collocabili sul piano del potere e
non dell’accettazione di sé e degli altri e della compassione per sé e per gli
altri. Tali risposte si riducono all’idea che gli esseri umani, così limitati
di fronte al “tutto”, al “male” e alla “distanza” dagli altri, abbiano il potere di fare qualcosa di
“risolutivo”: grazie alla fede religiosa possono
sottomettersi al potere divino e quindi ottenere
la sicurezza, il benessere e l’accoglienza.
Tutte le difese
psicologiche sono affermazioni di un potere (inesistente) che libera
(apparentemente) gli esseri umani dal dolore. Noi siamo impotenti rispetto ai
limiti insuperabili, rispetto al passato, rispetto alla libertà degli altri e
rispetto alla morte. Possiamo ridurre (con l’impegno) i nostri limiti e quelli
degli altri, ma sempre fino ad un certo punto; possiamo modificare alcune
conseguenze attuali di ciò che è avvenuto, ma non possiamo incidere sul
passato; possiamo farci conoscere, ma non possiamo farci amare; possiamo essere
prudenti, ma comunque moriremo. Le difese psicologiche sono illusioni di potere
perché non ci proteggono dal dolore, ma dalla consapevolezza del dolore, e le
religioni ci aiutano a compiere le operazioni difensive “su larga scala”.
Anziché girare tre volte la manopola del gas per essere certi che la casa non
esploderà, possiamo pregare e convincere dio a proteggerci da tutto; anziché
dissociarci dal fatto che non possiamo far tornare in vita chi è morto,
possiamo contare sul fatto che, se vivremo in un certo modo, nella “vera vita”
ritroveremo i nostri cari; anziché inseguire il successo per diventare
importanti per qualcuno, possiamo compiere dei rituali e farci accettare
addirittura da dio.
Ovviamente, la lettura
delle religioni come difese intellettualizzate presuppone la convinzione che le
religioni non costituiscano una reale conoscenza della realtà. Se ci sentiamo
liberi di non prendere troppo sul serio altri “pilastri” della cultura (tra cui
dobbiamo annoverare anche delle assurdità come il classismo, il sessismo,
l’etica, il razzismo e il patriottismo) possiamo riconoscere anche l’inconsistenza
delle concezioni religiose: è semplicemente irrazionale la pretesa di
descrivere la trascendenza con categorie mentali umane e quindi immanenti ed è
irrazionale l’idea di una trascendenza somigliante al “paradiso” sognato dai
bambini. Se davvero esiste un altro piano di realtà non può essere quello
immaginato in questo piano di realtà e soprattutto non può essere regolato da
un’entità che manifesta i tratti più rassicuranti e più inquietanti dei
genitori degli esseri umani. Tutte le “profonde” riflessioni sulle religioni non
colgono, quindi, il fatto che le religioni sono semplicemente delle illusioni.
Il
fatto di sperimentare solo la realtà condivisa con i nostri simili non esclude
che siano possibili altre esperienze “al di là” di quella a noi accessibile (e
quindi trascendenti), così come il fatto di conoscere solo esseri terrestri non
esclude che esistano degli esseri extraterrestri. Tuttavia, come non abbiamo
validi motivi per immaginare marziani magri, verdi e con le antenne, non
abbiamo alcun valido motivo per immaginare entità trascendenti o “spirituali”
simili a noi, ma con “poteri” maggiori. Il concetto di persona trascendente è
un ossimoro come quello di quadrato circolare. Tali entità trascendenti
potrebbero anche essere irriducibili alla nostra categoria di “persona”. Ma
soprattutto ben difficilmente assomiglierebbero ai nostri genitori al punto da
manifestare gli stessi pregi e difetti “esasperati”: un amore infinitamente
consolante e la propensione ad infliggere punizioni “eterne”.
Certi dati insoliti
consentono ad alcuni ricercatori di ipotizzare esseri extraterrestri (ma
immanenti) e ad altri di restare scettici. Altri dati collocabili ai limiti
delle esperienze ordinarie consentono ad alcuni ricercatori di ipotizzare una
realtà trascendente e ad altri di restare scettici. Qualsiasi ipotetico fatto
collocabile al limite della realtà conosciuta, rinvia ad “altro”, ma in
negativo. Gli extraterrestri, se ci sono, ci risultano al momento “non
identificati”. Lo stesso vale per la realtà trascendente: se esiste, per noi
può essere concepita solo come “altra” o magari “Altra”. Tutto qui. Qualsiasi
ipotizzabile “canale” con la trascendenza sarebbe in ogni caso sperimentato
solo dal “lato” della (nostra) immanenza e quindi inevitabilmente distorcerebbe
la comprensione dell’altra (o “Altra”) realtà (trascendente). Su questa base,
una “visione” della divinità è impossibile per motivi logici: anche se tale
esperienza si verificasse, si ridurrebbe all’esperienza della
percezione/deformazione immanente della trascendenza.
Noi tendiamo a
considerare qualsiasi stupidaggine ripetuta più volte come un “punto di vista”:
siamo così propensi ad accettare qualsiasi idea proclamata dalle autorità della
nostra comunità umana (o del nostro “gruppo di riferimento”) che troviamo
“ovvie” le guerre, le iniquità economiche e le discriminazioni sociali. Solo
per l’antica e non superata paura della solitudine accettiamo acriticamente le
ideologie più assurde e semmai contestiamo solo gli aspetti della società che
molti altri contestano. Il fatto che certe idee religiose siano considerate
ovvie da tanti non le rende ragionevoli. Anzi, il fatto che le religioni siano
interpretazioni umane (per molti aspetti anche banali) di una eventuale realtà
trascendente conduce non tanto a domande sulle “ragioni” (filosofiche) delle
religioni, ma a domande relative alle
ragioni (psicologiche) dell’accettazione delle religioni. A dire il vero, anche le persone che si dichiarano
atee o agnostiche o spiritualiste ma non religiose, spesso affermano le loro
idee senza essersi mai davvero interessate alle questioni “fondamentali”
dell’esistenza umana. Tuttavia, sono soprattutto le persone e le comunità
religiose quelle che impongono le loro “convinzioni” ai soggetti più deboli (i
bambini).
Vediamo
ora più da vicino le tre rassicurazioni basilari (relative alla “precarietà
esistenziale”, al male e alla solitudine) che le religioni offrono e a cui gli
esseri umani vogliono aggrapparsi pur di non convivere con il dolore che la
loro esistenza comporta. Da sempre gli esseri
umani provano disagio notando la sproporzione fra la loro fragilità e la
potenza della natura o fra la loro piccolezza e l’immensità dell’universo. Tale
disagio provoca domande sulla “totalità” di cui fanno parte e provoca
soprattutto il desiderio di risposte rassicuranti. Le concezioni animiste,
politeiste e monoteiste sono rassicuranti perché postulano l’esistenza di
entità più potenti di noi sulle quali abbiamo dei margini di controllo:
possiamo ottenere la loro benevolenza comportandoci in certi modi. In questo
senso le religioni sono illusioni di potere. Sono illusioni perché nessuna entità trascendente sarebbe tale se
potesse essere “corrotta” o “controllata” e sono illusioni di potere perché affermano il potere di conquistare “a certe
condizioni” l’amore divino. Di fatto, anche le concezioni nichilistiche
contrapposte alle religioni, in fondo sono rassicuranti: come certi bambini si
dissociano dal bisogno (doloroso) di essere amati rimuginando sul loro
“bisogno” di andare via di casa e di “sentirsi indipendenti”, alcuni pensatori
“si ribellano” alla natura “matrigna” e si sentono “forti” nella loro “indipendenza”
o nel loro vittimismo o nel loro “distacco emotivo”.
Per quanto riguarda il
problema del male, va detto che è davvero difficile distinguere le concezioni
religiose dai sistemi morali. Ogni religione afferma dei principi etici
ricondotti alla volontà divina o alla “natura umana” intesa come “coscienza”
creata dalla divinità. Sebbene ogni religione esprima con molta forza dei
principi morali, le religioni non affermano un’etica condivisa. Ogni concezione
etica è un’illusione generata da bambini bisognosi di adattarsi a
genitori rifiutanti, sistematizzata da vari filosofi e accettata come ovvia
da adulti che fin dall’infanzia si sono dissociati dalla realtà e dal dolore. Le
concezioni etiche di tipo religiose attribuiscono ad una divinità trascendente
le difese psicologiche (indignazione, pretesa, svalutazione, vendetta) che gli
esseri umani manifestano quando ribadiscono le loro “convinzioni” morali. Anche
l’idea dell’amore attraversa varie concezioni religiose, ma, purtroppo, l’amore
viene prescritto come un compito o un dovere e non viene compreso come una
capacità umana, un sentimento che qualsiasi bambino amato e protetto sviluppa
spontaneamente (cfr. Neill, 1960, Tomasello, 2009 e Warneken–Tomasello, 2006).
Nelle religioni, così come nelle più rozze filosofie laiche, l’amore è
concepito irrazionalmente come “altruismo” nel senso di “sacrificio doveroso” e
non come un ragionevole desiderio di aver cura di qualcuno o di qualcosa.
Nella religiosità
cristiana è molto marcata la contraddizione fra l’amore come capacità umana e
come dovere. Ciò consente di supporre che Gesù sia stato un po’ saggio ma anche
un po’ confuso, oppure che sia stato davvero portatore di una grande saggezza,
ma sia stato frainteso dai discepoli. Due esempi sono illuminanti: egli afferma
nella sua predicazione “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12, 29-31) e
sulla croce esclama “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”
(Lc 23, 34). La prima frase racchiude una consapevolezza profonda del fatto che
l’amore per gli altri è strettamente collegato alla capacità di amare se
stessi, ma imprigiona tale illuminazione in una forma imperativa. Ovviamente
chi non è in grado di amarsi, per quanto si sforzi, non può amare gli altri ed
al massimo li tratterà con correttezza per paura (per non subire ritorsioni o
per non sentirsi colpevole). Tale frase include, quindi, sia una grande verità
sul significato dell’amore, sia un’imposizione connessa ad una minaccia. La
seconda frase è pure illuminante su una questione molto delicata: non ha senso
svalutare chi agisce male, perché la malvagità è espressione di una mancanza di
contatto e di consapevolezza. Per questo motivo Gesù non odia i suoi
persecutori. Tuttavia questa limpida comprensione dei fatti è offuscata dal
concetto di “perdono”: di cosa deve essere perdonato chi non sa perché agisce
in modi distruttivi? Può essere capito e sopportato o contrastato, ma non può
essere ragionevolmente odiato e nemmeno perdonato, perché non è “colpevole”, ma
inconsapevole. Data la profondità di
certi passi dei Vangeli, credo che il moralismo che avvolge il messaggio
cristiano sia dovuto agli evangelisti e non sia parte integrante della
predicazione di Gesù.
Anche se l’idea di una
divinità simile ai peggiori genitori e molto più potente è essenzialmente
blasfema, di fatto attecchisce nelle menti dei bambini già
disposti a lacerarsi interiormente pur di sperare in un
possibile “perdono”. Tale idea irrazionale, però, non è messa in discussione
alle radici nemmeno dagli adulti non credenti, perché essi a volte contestano
la censura religiosa di particolari comportamenti, ma in genere non arrivano a
mettere in discussione l’idea della colpa in quanto tale. Non a caso, il
macigno dei “sensi di colpa” non è stato frantumato nemmeno dalle principali
concezioni psicoterapeutiche.
Per quanto riguarda il
rapporto fra religioni e bisogno (difensivo) di “appartenenza”, va notato che molte
persone religiose non sperimentano alcuna inquietudine relativa al loro
“smarrimento” nell’universo, ma manifestano soprattutto l’esigenza di
“appartenere” ad una comunità e di partecipare ai suoi rituali. Non a caso, le
religioni hanno uno sviluppo più “geografico” che logico. Gli scienziati
procedono partendo dalle conoscenze già acquisite e non capita che nella
Tanzania o in California gli scienziati non accettino le leggi del moto. I
filosofi sono meno compatti degli scienziati nello sviluppo delle loro
concezioni (dato che spesso non fanno affermazioni empiricamente fondate), ma
anche i filosofi lavorano tenendo conto della storia del pensiero orientale ed
occidentale e non si limitano ad approfondire le tesi più comuni nelle regioni
in cui sono cresciuti: vari filosofi americani sono influenzati dalle filosofie
orientali più che dal positivismo e vari filosofi orientali sono influenzati
dal positivismo più che dalle filosofie tradizionali dell’Oriente. Al
contrario, non ci sono (o, se ci sono, costituiscono delle vere rarità) teologi
cristiani cresciuti in paesi marcatamente influenzati dalla religione islamica
e nemmeno teologi islamici cresciuti in paesi marcatamente influenzati dalle
religioni cristiane. Nei paesi in cui il cristianesimo è stato predicato o
imposto con la forza vivono atei e cristiani e alcuni cristiani sono teologi
cattolici (mai teologi islamici, a parte quelli emigrati sul posto da adulti).
Nei paesi in cui l’Islam è stato predicato o imposto con la forza vivono
musulmani e ben pochi atei, e alcuni musulmani hanno anche notevoli conoscenze
teologiche basate sul Corano, ma nessuno di essi accetta la teologia cristiana
(a parte quelli emigrati sul posto da adulti). Ovviamente in Italia
scarseggiano induisti, shintoisti e anglicani, anche se vi sono studiosi
che conoscono bene tali orientamenti religiosi.
La situazione descritta
è paradossale: gli scienziati ammettono di avere convinzioni provvisorie e i
filosofi ammettono di formulare teorie discutibili, ma espandono in tutto il
mondo le loro ipotesi o le loro provvisorie certezze. I teologi invece
pretendono di avere delle conoscenze “assolute”, perché radicate nella “natura”
dell’uomo o rivelate proprio dalla divinità, ma non riescono a produrre una
conoscenza condivisa o dei dissensi intellettualmente giustificati: esprimono
le loro certezze “evidenti”, assolute e quindi valide per tutti, ma riescono a
diffonderle solo geograficamente,
cioè solo nei luoghi in cui i bambini vengono educati dalle famiglie e dai
religiosi secondo i canoni di una particolare fede. Oltre a ciò si deve
considerare il fatto che moltissime persone religiose non hanno alcun interesse
per le “verità ultime” della loro teologia di riferimento. Anche se
probabilmente sono soprattutto i cristiani (che in genere vivono in società
secolarizzate) ad affermare spesso candidamente di essere cristiani o cattolici
“a modo loro”, dubito che i musulmani o gli induisti abbiano convinzioni
teologiche più solide di quelle dei cattolici. Tutto ciò (il disinteresse per la trascendenza unito all’attaccamento nei confronti di una
particolare interpretazione religiosa della trascendenza) porta a ritenere
che le religioni siano soprattutto ambiti di “con-divisione”, ovvero ambiti in
cui viene sperimentata l’appartenenza ad un gruppo.
Le convinzioni e i
sentimenti che caratterizzano la
religiosità si manifestano sempre e comunque in
uno solo dei tanti quadri di
riferimento offerti (o imposti) dalle particolari religioni. Cattolici e
musulmani sono fermamente convinti delle loro “verità” religiose e sono anche
fermamente convinti che le “altre” verità siano “false verità”. I cattolici
sono molto coinvolti emotivamente nei loro rituali religiosi, mentre
considerano abbastanza bizzarri certi rituali musulmani ed anche i musulmani
ricambiano tali impressioni. Le religioni sono un po’ come i vestiti: una volta
che si decide di indossare qualcosa, ci si veste casual o con eleganza, ma
nessuno indossa la cravatta sopra una felpa. Nessuno quindi va a messa e poi fa
anche il ramadan, o magari svolge anche la pratica induista della puja,
pensando che comunque “sempre di cose religiose si tratta”. Le diverse
religioni, infatti, pur incoraggiando atteggiamenti molto simili, sono dottrine
definite ed esclusive. Le varie religioni formulano
delle enunciazioni specifiche relative ad aspetti ben precisi della realtà.
Gesù Cristo è risorto oppure non è risorto. Era davvero una manifestazione
della divinità o un profeta o un saggio. L’inferno esiste oppure non esiste.
Certe forme di sessualità sono un “peccato” oppure non lo sono. Le “conoscenze”
affermate dalle particolari religioni sono indimostrabili, ma soprattutto sono
inconciliabili con quelle delle altre religioni. Per i valdesi l’eutanasia è
una manifestazione del rispetto per la dignità delle persone affette da gravi
malattie, mentre per i cattolici è la somma di un suicidio e di un omicidio. Un
rabbino non è d’accordo con un vescovo o con un imam su un mucchio di
questioni, pur essendo convinto (come gli altri) di affermare delle verità
assolute e non delle semplici opinioni. Ora, la cosa che va sottolineata è
proprio questa: la religiosità viene
sempre e comunque espressa nell’ambito di un’unica
religione. Una religione, in altre parole, non si riduce alla
religiosità: incoraggia o impone, come ogni altra religione degli atteggiamenti
religiosi, ma si definisce come un preciso patrimonio di idee sulla natura
della realtà.
La tutela ufficiale delle
convinzioni religiose è rigida ed esclusiva, ma per certi aspetti, anche
stranamente permissiva: finché le “devianze” sul piano dottrinale o
comportamentale non vengono percepite come pericolose dalle autorità, vengono
trascurate o minimizzate. Se ad esempio consideriamo la religione più diffusa
nel nostro paese, dobbiamo tener presente che, secondo la dottrina cattolica,
non solo dio esiste, ma è conoscibile razionalmente sulla base dei dati
empirici disponibili a tutti (“per ea quae facta sunt”). Lo ha stabilito il
Concilio Vaticano I nel 1870 (Constitutio dogmatica Dei
Filius) e tale dogma non è in discussione. Chi non lo condivide non può far
parte della chiesa cattolica (“anathema sit”!). Tuttavia, conosco moltissimi
cattolici, anche colti e sinceramente devoti, i quali non credono affatto che
l’esistenza di dio sia dimostrabile e mi sembra, quindi, curioso il fatto che i
sacerdoti evitino accuratamente di precisare che chi non accetta la
dimostrazione razionale della divinità non può far parte della chiesa. Come
mai? Se questo “dettaglio” non è importante, perché è affermato come dogma? E
se è importante, perché non viene ribadito con la stessa enfasi con cui si
ribadisce che l’aborto è un “omicidio” e che l’omosessualità è un “grave
peccato”? Come mai la religione, che è un insieme di affermazioni precise sulla
realtà, è considerata tanto importante, ma è anche trattata in certi casi dai suoi stessi principali esponenti con
tanta leggerezza? Come mai certi dogmi sono minimizzati dai fedeli ed anche dai sacerdoti?
Milioni di persone
affermano “sono cattolico, ma a modo mio”. Cosa significa? Un soldato “a modo
suo” che diserta sulla linea del fuoco viene fucilato per diserzione. Un
matematico convinto che due più due faccia cinque viene cacciato
dall’università. L’adesione “approssimativa” ad una religione
rigorosamente definita è davvero inquietante proprio perché non turba né
chi “crede a modo proprio”, né chi è custode riconosciuto di una religione. Ciò
mostra che la religiosità non ha molto a che fare con le convinzioni
proclamate, ma piuttosto con il bisogno di assumere certi atteggiamenti e di far
parte di una comunità. In pratica, i fedeli cercano un gruppo più che una
religione e i religiosi cercano di avere dei fedeli devoti più che dei fedeli
convinti. Le religioni, pur affermando contenuti intellettuali specifici ed
esclusivi, sono quindi sostenute proprio dalla religiosità
delle persone. Una religione che non offrisse salvezza, appartenenza,
rituali adatti a realizzare un “collegamento” con la divinità e che affermasse
in modo limpido solo la trascendenza, conterebbe nel mondo intero pochissimi
seguaci.
In altre parole, la
religiosità è vero il “motore” delle religioni sia perché viene imposta ai bambini, sia
perché consolida negli adulti la sensazione di appartenere ad una comunità. Le
religioni adottano pratiche “educative” terribilmente autoritarie: nessuno si
sogna di spiegare ai bambini la Costituzione, l’anarchia, il liberalismo o le
equazioni, ma tutti danno per scontato che si possano insegnare ai bambini
concetti teologici intellettualmente complessi ed emotivamente devastanti
perché svalutativi. La trasmissione dei concetti di “peccato” e di “colpa”
costituisce un crimine sociale contro l’infanzia che,
purtroppo, i partiti laici e le stesse scuole di psicoterapia non contrastano
in alcun modo. Solo per interessi di vario tipo (personali e di gruppo) i
cosiddetti intellettuali laici e i cultori delle scienze psicologiche o i
politici evitano di denunciare l’indottrinamento religioso dei bambini. Tuttavia, penso che l’indottrinamento religioso sia così efficace proprio perché ha
radici a livello psicologico nelle esperienze emotivamente disturbanti che i
bambini fanno in famiglia. L’educazione religiosa trova un terreno fertile proprio nei bambini che già
conoscono la solitudine, la non accettazione, i ricatti affettivi e le
colpevolizzazioni. Nella misura in cui l’educazione religiosa “incontra”
la paura del “vuoto” e il bisogno di una “salvezza” che possa liberare dalle
“colpe” (già costruite nei rapporti con i genitori), fornisce un quadro
concettuale attraente perché inquietante
ma anche rassicurante. In questo senso gli incubi famigliari favoriscono
l’accettazione delle idee religiose e le religioni consolidano e
intellettualizzano in termini metafisici le difese psicologiche costruite dai
bambini in famiglia.
Provo sempre un certo
disagio ad esaminare criticamente fatti complessi come le tante realtà sociali,
culturali o ideologiche che, per quanto irrazionali, si agganciano ai
sentimenti e alle speranze delle persone. Cerco sempre di non dimenticare che
persino le idee o le emozioni o le azioni più assurde e distruttive
attraversano vite vissute e cerco quindi di evitare schematismi riduttivi, ma
non rinuncio a denunciare il fatto che certe idee fanno più danni delle armi.
Il rispetto per le persone non ha nulla a che fare con il rispetto per i loro
vizi mentali o emozionali. Per questo motivo penso che le religioni debbano
essere smascherate e denunciate. Ho conosciuto alcune persone profondamente
religiose che ricordo ancora con affetto e gratitudine e ciò può chiarire che
la mia analisi delle religioni, per quanto radicale, non riflette un fastidio
epidermico o un’ostilità nei confronti dei credenti. Pur non condividendo il
rigido sfondo etico-teologico delle idee di Don Lorenzo Milani, (Scuola di
Barbiana, 1967), riscontro in esse una sincera e sentita passione per la
bellezza delle persone, dei bambini e dell’incontro fra gli esseri umani. Una
passione lontana anni luce da quella dei tanti “indignati” odierni, incapaci di
vivere per qualcosa. Tuttavia, le idee irrazionali restano tali
anche se trasmesse da persone per molti aspetti sensibili e attente agli altri.
Vanno quindi analizzate e dissolte. Per questo motivo, il fatto che un alone di
“intoccabilità” circondi le religioni e spinga normalmente i
non credenti a discutere le ideologie religiose con una cautela esasperata, mi sembra un fatto non ovvio
ed anzi da spiegare.
Le varie dottrine
materialistiche, positivistiche, rivoluzionarie o libertarie hanno sempre
evidenziato solo su un piano concettuale le
debolezze o le contraddizioni delle religioni, ma non hanno quasi mai colto in profondità
gli aspetti distruttivi sul piano
psicologico della religiosità. Persino gli anticlericali più
accesi tendono a condannare le manifestazioni più “esterne” delle religioni
(come le collusioni con il potere politico ed economico) o quelle più “culturalmente
significative (dogmatismo, autoritarismo, moralismo), ma trattano con estrema
prudenza il “sentimento religioso”. Il sarcasmo può colpire l’avarizia, le
tante “manie” delle persone, il conformismo sociale, ma non la religiosità.
Come mai è così diffuso il timore di “ferire la sensibilità religiosa” e non
quello di ferire la “sensibilità” libertaria o quella scientifica?
Come mai la religiosità
delle persone sollecita atteggiamenti
fortemente protettivi da parte dei non credenti? Ad esempio, in passato i
militanti comunisti condividevano valori intensamente sentiti e si dimostravano
molto uniti nell’impegno comune, ma nessuno avrebbe pronunciato l’espressione
“non si possono ferire i sentimenti dei comunisti”. Come mai sembra che solo le
persone religiose siano così vulnerabili
e da proteggere? E come mai sono da rispettare con tanta attenzione
mentre proprio loro non rispettano in alcun modo i sentimenti delle persone non
religiose e svalutano come indecenti e peccaminosi molti modi di vivere non
religiosi? Di fatto, i sentimenti religiosi trasudano potenza e fragilità in
dosi non paragonabili ai sentimenti canalizzati socialmente in altre direzioni.
Quando si osservano gli sguardi dei fedeli in Piazza San Pietro o dei fedeli
che si tolgono le scarpe entrando in una moschea, si sente di dover usare
cautela, tatto, delicatezza. Non è facile far notare che l’omelia sulla povertà
di un papa che rappresenta una delle maggiori potenze finanziarie suona come un
paradosso e un insulto. Non è facile dire ad una donna con il velo sul viso che
crede in una divinità davvero strana. Per quale motivo l’analisi critica, la
contestazione e soprattutto l’ironia non sono “applicabili” quando è presente
il “sentimento religioso”?
Il nodo della questione
non sta nei “valori” (affermati anche da comunisti, femministe, patrioti e
vegetariani) e nemmeno nel bisogno di appartenenza (che è sentito persino dai
tifosi di una squadra di calcio). Non sta nemmeno nella concezione della
trascendenza, dato che gli spiritualisti non religiosi non “intimoriscono” come
le “persone di fede”. Io credo che questo (pseudo)rispetto, cioè questo misto
di correttezza e protettività che porta i non credenti a “muoversi in punta di
piedi” con i credenti dipenda dal fatto che le persone religiose non esprimono convinzioni
e sentimenti, ma “si aggrappano” a (deboli)
convinzioni legate ad intensi sentimenti. Nelle manifestazioni di qualsiasi fede
religiosa le persone sono davvero “sbilanciate” e “sostenute” solo dalla fede a
cui si aggrappano. Chi si aggrappa all’attività lavorativa sprofonda
facilmente nella depressione quando va in pensione ed è intuibile che se un
raggio cosmico annullasse improvvisamente le convinzioni religiose, buona parte
dell’umanità “crollerebbe” sul piano psicologico. Le persone religiose hanno
sentimenti intensi come quelli delle persone impegnate nella politica,
nell’ecologia, nelle battaglie culturali, ma non si limitano ad esprimere
la loro emotività: vivono appese al filo della
speranza alimentata dalla loro religione. Se quel filo si spezzasse non
proverebbero la delusione sperimentata dai comunisti quando i crimini
staliniani divennero di dominio pubblico. Proverebbero la sensazione di chi si
trova su un aereo che sta precipitando. Infatti, le religioni sono assorbite
nell’infanzia da bambini già rifiutati dai genitori e confermano la minaccia di
un rifiuto totale prospettando però l’idea di una salvezza. Il crollo
improvviso delle convinzioni religiose riporterebbe le persone più fragili
all’incubo non risolto, ma solo “tamponato” della loro infanzia.
Non si può, se non per
odio o sadismo togliere la sedia a chi è sbilanciato mentre sta per sedersi e per
questo motivo credo che la “cautela” con cui i non credenti trattano quasi
sempre le persone religiose dipenda (a parte i casi di semplice opportunismo
politico) proprio da una vaga consapevolezza della profonda “fragilità” delle
persone religiose. Le religioni e le autorità religiose sono trattate come
“intoccabili” perché le persone veramente religiose sono davvero vulnerabili. Tuttavia,
paradossalmente, proprio per questa vulnerabilità riescono anche ad essere
spietatamente distruttive: la ferocia delle guerre sante e del “maltrattamento
teologico” dei bambini non toglie nulla a questa profonda fragilità, ma anzi la
conferma.
Se questo è vero, si
capisce quanto sia importante mantenere un coerente rispetto nei confronti
delle persone religiose, ma anche esprimere una inflessibile critica nei
confronti di ciò che pensano e del male che compiono. Qualsiasi maestro che
insegnasse alle elementari i testi anarchici sarebbe espulso dalla scuola,
mentre tutti i bambini festeggiano il Natale. Perché? Perché nessuno si
permette di spiegare la gioia del sesso ai figli degli altri mentre tutti i
sacerdoti si permettono di spiegare ai figli degli altri gli “atti impuri”
contando sul fatto che la loro “predicazione” sarà comunque “rispettata”? Occorre
spezzare quel legame perverso che unisce il genuino sentimento di compassione
per la fragilità delle persone religiose e il perverso rispetto nei confronti
delle idee e delle azioni compiute dalle persone religiose. I non credenti sono
non solo ragionevolmente rispettosi, ma anche pregiudizialmente complici delle
religioni (e della distruttività delle religioni) perché non osano affrontare
il vero problema (il dolore) in termini razionali ed emotivamente autentici.
Schivando il dolore, i non credenti non possono smascherare coloro che
apparentemente lo affrontano e lo mitigano aggrappandosi ad una concezione
metafisica della salvezza.
Ricorderò sempre il
primo pianto di un mio cliente. Egli non arrivò in fondo, ma si mostrò
sorpreso, quasi stordito, e mi disse: “Ma allora il dolore di cui parliamo è
questa roba qui?”. Ricordo anche il primo pianto di una cliente che per mesi
aveva iniziato le sedute dicendomi che aveva molte perplessità sul
proseguimento del nostro lavoro e ribadendo che non si sentiva aiutata. Un
giorno lavorammo meglio del solito su un particolare aspetto del suo rapporto
con la madre e lei, spiazzata dal fatto di stare piangendo, mi disse che stava
sentendo “troppo”. Parlo di due persone come tante, non pescate “fra i drogati”
o dimesse da “strutture protette”. Persone come i nostri vicini di casa, il
medico di base, il vigili urbani, gli psicoterapeuti (che per legge possono
fare “terapie” senza essersi mai guardati dentro in un percorso analitico), i
preti e le suore, gli insegnanti, i presidi, i deputati votati da tanti
elettori. Persone normali che conoscono tutto ciò che il dizionario riporta sul
dolore, ma non riescono nemmeno ad immaginarlo. Il dolore, tanto presente nella
vita di tutti, è normalmente così lontano dalla coscienza che le persone non
riescono a percepire la violenza e l’inconsistenza delle normali manifestazioni
dell’indifferenza, delle manipolazioni e delle svalutazioni con cui tanta gente
si dissocia continuamente dal dolore. Nella cultura occidentale ed orientale il
dolore è negato e resta, quindi, terreno di caccia per le religioni. Le
religioni affrontano esplicitamente, ma strumentalmente il tema del dolore, della morte, della finitezza
umana. Toccano le corde profonde della sensibilità delle persone per poi
offrire la risposta costituita da una nuova famiglia in cui la fratellanza è
riconosciuta da una divinità ed in cui la divinità è una figura genitoriale
onnipotente. In realtà, è una figura genitoriale “eccessiva”: capace di
accogliere come i genitori migliori e capace di rifiutare come i genitori
peggiori.
La religiosità, in ogni
caso, riduce il contatto con il dolore definendo l’intera esistenza personale
come un acconto dell’eternità e quindi come un percorso che può essere
considerato con un certo distacco. Alcuni esercizi delle psicoterapie
focalizzate sui sintomi tentano proprio di favorire il distacco dal dolore:
certi psicoterapeuti invitano i “pazienti” ad immaginare le situazioni
ansiogene da una certa distanza, cioè con un “binocolo psicologico
oggettivante” e poi invitano le persone a ridurre gradualmente tale distanza.
Tali tecniche (quando funzionano) attenuano l’ansia dei “pazienti” e fanno
sentire gli psicoterapeuti “efficaci”, ma non producono alcuna consapevolezza
dei motivi per cui le persone limitano il contatto emotivo. Le religioni sono
ovviamente realtà socioculturali molto complesse e utilizzano strumenti più
incisivi dei trucchi psicoterapeutici. Esse garantiscono (con il “peso” di
tradizioni consolidate) che la vita non è così importante come sembra. Spingono
le persone a guardare la loro intera esistenza con un telescopio teologico e
non solo con un binocolo psicoterapeutico. Per i cattolici e gli islamici la
vita è una specie di esame da superare, per i buddhisti è una sorta di palestra
che garantisce l’uscita dalla disgrazia delle successive incarnazioni e per
altre religioni è comunque una sorta di apparenza. Quindi, se si può morire in
una guerra santa per dio o per Allah, si può ben minimizzare anche qualsiasi
malattia o ingiustizia. L’idea marxiana della religione come oppio dei popoli è
molto semplicistica, perché con essa Marx riduceva le religioni ad una semplice
appendice delle ideologie classiste, trascurando il loro radicamento
emozionale. Egli, però, coglieva nel segno almeno sottolineando che le
religioni favoriscono il distacco psicologico dalla realtà, come una droga.
Nella religiosità, l’aspetto che incide negativamente sul contatto emotivo non
è l’idea di trascendenza (che in sé non è né irrazionale né emotivamente
paralizzante), ma l’idea che la trascendenza giustifichi una minimizzazione di
ciò che le persone sentono. Non c’è alcun nesso razionale fra il dolore di
questa vita e altri ipotizzabili piani di realtà, perché ora la vita
sperimentata è “questa”, sia che altri percorsi soggettivi siano possibili, sia
che essi non siano possibili.
Le religioni però non
si limitano a favorire un distacco emotivo, quasi ipnotico, dal dolore che
permea la condizione umana, perché a volte giungono a creare una sorta di culto
del dolore che altera la comprensione della realtà. In questo, la religione cattolica ha una sorta di primato. E’ ben
strano che di tutta la vita di Gesù, imperniata sulla predicazione di concetti
elevati venga messo in primo piano proprio l’aspetto più sfortunato e meno
utile all’umanità: la crocifissione. Noi apprezziamo Gandhi per i suoi ideali
non violenti e non certo perché un fanatico gli ha sparato. Di Martin Luther
King, di Orwell o di Camus e di tante altre persone meravigliose evidenziamo le
idee e le azioni, ma non le circostanze violente o naturali del loro decesso.
Nel cristianesimo invece “il mistero della croce” è al centro della catechesi e
tale scelta “interpretativa” esprime proprio il rifiuto di un confronto con il
dolore. Tale rifiuto si basa sulla “valorizzazione” della sofferenza e sull’idea
della sua possibile utilizzazione per il raggiungimento della salvezza. Il
dolore è prospettato come un biglietto che si deve pagare per ottenere
l’approvazione della divinità. Soffrire è nobile e garantisce la possibilità di
“sentirsi a casa”, almeno in un’altra vita. La pratica della “rinuncia” e
quindi della sofferenza autoinflitta, che si declina in vari modi nei
comportamenti dei bambini e degli adulti è fondamentalmente blasfema, perché
presenta la divinità come un’entità che premia proprio le persone che
rinunciano al piacere di vivere. I bambini non crederebbero ad una divinità che
accetta come “dono” il loro dolore se in famiglia fossero accolti nei momenti
gioiosi e sostenuti in quelli dolorosi.
Ora, la “trasformazione
del dolore in una moneta” che consente di ottenere la sensazione di essere “nel
giusto” e la certezza di essere al sicuro per l’eternità è un aspetto del
cristianesimo che intossica tutte le società occidentali. Se la testimonianza
dell’amore è opera di Gesù, l’esaltazione del dolore è sicuramente opera dei
suoi discepoli. Si trovano idee “troppo belle” nel messaggio cristiano e tale
bellezza non può essere associata all’esaltazione del dolore. Tale associazione
deve essere stata attuata da discepoli che capivano solo ciò che potevano
capire e che colmavano i vuoti della loro comprensione con le loro piccole
idee. La religiosità raccoglie il meglio ed il peggio della cultura in ogni
epoca e paese. Essa include la fratellanza e i roghi, sia quelli della “nostra”
Inquisizione, sia quelli delle vedove nelle tradizioni induiste (cfr. Franci,
2005, p. 33). In ogni caso, anche la cultura non religiosa soffoca la
razionalità e la ricerca della felicità. Se la cultura estranea alla
religiosità fosse una cultura davvero “umanistica” avrebbe protetto i bambini e
favorito il pieno sviluppo delle loro capacità emozionali.
Gli
esseri umani si sentono smarriti in quella “totalità” che la scienza non
spiega. Se accettassero ciò che sentono senza aggrapparsi a illusioni
rassicuranti, riconoscerebbero di poter vivere da fratelli nell’incertezza, nella
precarietà, anche sperando, ma non certo “credendo”. Potrebbero
condividere le loro piccole e immense vite in un universo terribilmente
silenzioso.