Con
l’espressione generica “percorsi interiori” mi riferisco ad un variegato
insieme di concezioni dell’uomo e
della realtà, di tecniche volte a
modificare gli stati di coscienza e di aspirazioni
al raggiungimento di qualche tipo “benessere interiore”. Tali percorsi,
direttamente o indirettamente legati a tradizioni religiose o relativamente
indipendenti da esse, hanno radici
soprattutto nella cultura orientale, anche se certi aspetti di tali
percorsi sono rintracciabili in alcuni indirizzi mistici della tradizione
cristiana e in alcuni approcci della più recente tradizione psicoterapeutica
(come le tecniche di rilassamento e di distacco dai “pensieri negativi”).
Nel
XX secolo le filosofie, le tecniche e le terapie orientali sono state studiate
e praticate nell’Occidente e hanno influenzato sensibilmente sia molti
studiosi, sia persone “inquiete”. Anche noti psicoterapeuti con una mentalità
più speculativa che scientifica, come Abraham H. Maslow (1962), Roberto
Assagioli (1965), Carl Gustav Jung e altri, hanno assorbito e rielaborato molte
idee e tecniche di matrice orientale rendendo ancora più confuse le loro
“teorie”. Di fatto, l’idea orientale della persona “illuminata” ha alcuni
elementi in comune con quella occidentale (psicoterapeutica) della persona
“psichicamente sana” e Alan W. Watts ha sottolineato che il buddhismo, il
Vedanta, lo Yoga e il Taoismo tendono, come le psicoterapie occidentali, anche
se in altri modi, a “provocare dei cambiamenti di coscienza” (1961, p. 10).
Proprio per questo motivo tali approcci orientali e occidentali si collocano
agli antipodi del lavoro analitico: mirano ad indurre stati di coscienza, stati emotivi e sensazioni di tipo
“positivo” e non a chiarire cosa fanno le
persone per evitare il contatto con
la realtà (e con il dolore e la gioia che fanno parte della realtà).
Analizzare
e quindi allentare o disattivare le difese non “induce” stati d’animo
“preferibili” o “ideali”, ma consente alle persone di sperimentare il dolore,
la gioia e la felicità corrispondenti al loro rapporto con gli altri e con la
realtà in generale. Gli sforzi di “liberare la mente” con la meditazione o
altre tecniche seguono in fondo la logica dei tentativi psicoterapeutici di
“eliminare le patologie psichiche”: l’idea comune è quella di favorire un
benessere interiore e non di consentire alle persone di capire come e perché creano il loro malessere. Alan W. Watts ha
affermato che “molte forme di psicoterapia, pur con ampie divergenze teoriche,
usano lo stesso schema strategico che esiste tra il guru e l’allievo. Sembra però che, in molti casi, l’uso di questa
strategia nella psicoterapia avvenga a un livello differente, forse meno
radicale, e spesso con l’obiettivo di fortificare l’io anziché dissolverlo”
(1961, p. 116). Ciò che però Watts non ha messo a fuoco è il fatto che nei
percorsi spirituali volti a smantellare il “senso dell’Io” e in quelli
psicoterapeutici volti a “rafforzare l’Io” si cerca in modi diversi di favorire
un distacco emotivo dal dolore che però genera un distacco emotivo
complessivo. Se i turbamenti psicologici normali o sintomatici si associano ad
un’emotività difensiva (costruita), il distacco lascia intatto tale processo e
ne attenua semplicemente gli effetti, ostacolando la libera espressione del
desiderio, della passione, dell’empatia, del gioco e dell’impegno.
Per
questi motivi, in questo breve esame dei “percorsi interiori” di matrice
orientale, metterò in discussione soprattutto il rifiuto di comprendere le
ragioni per cui le persone agiscono e, in particolare, le ragioni per cui le
persone creano dolore inutile pur di dissociarsi dal dolore inevitabile. Tale
rifiuto genera sforzi anche notevoli volti a controllare i risultati finali
delle strategie difensive anziché ad analizzare e rendere superflue tali
strategie. Io non so se sia più inquietante il distacco di chi passa giornate e
anni a “svuotare la mente” o il distacco di chi cerca di “curare” i meccanismi
inconsci o di “sbloccarsi” o di giungere ad un “rilassamento psicofisico”. So
però che le persone fanno moltissime cose per sentire poco e so che non è certo
utile indurle a fare altre cose per sentirsi meglio continuando a sentire poco.
Voglio
solo accennare al fatto che le (varie) concezioni cosmologiche, teologiche e
antropologiche orientali sono speculative come quelle delle grandi tradizioni
monoteiste e che anche le assunzioni etiche orientali sono irrazionali e
distruttive come quelle laiche o religiose dell’Occidente. Non voglio, quindi,
approfondire tali aspetti per non ripetere cose già dette. Anche le concezioni
della reincarnazione offrono in fondo, come quelle del paradiso e dell’inferno,
delle risposte consolatorie di tipo metafisico alle angosce umane. Offrono,
quindi, come le teologie occidentali, delle definizioni della trascendenza basate
su categorie immanenti. In pratica, se l’idea cristiana dell’inferno
rappresenta in modi esasperati il rifiuto genitoriale (o la bocciatura a
scuola), l’idea della reincarnazione rappresenta in modi esasperati
l’insistenza “educativa” dei genitori (o i brutti voti rimediabili se a scuola
si studia di più).
Va
detto, però, che mentre l’idea della condanna a varie incarnazioni fino al
“premio” del nirvana costituisce una (paradossale) interpretazione immanente
(umana) della trascendenza, la semplice
ipotesi (non complicata da contenuti culturali) relativa all’esistenza di
“altri” piani della realtà e alla possibilità di storie soggettive vissute in
dimensioni o epoche diverse, per quanto insolita, rientra fra quelle
considerate in certi ambiti della parapsicologia. Ian Stevenson ha affrontato
la questione con molta prudenza, da psichiatra e da accademico, evitando di
trarre conclusioni affrettate: “non siamo obbligati a supporre che ogni caso favorevole all’ipotesi della
rinascita debba essere spiegato come esempio di reincarnazione. La questione è
piuttosto se vi sono alcuni casi (od
anche appena uno), per i quali nessuna spiegazione sembri migliore della
reincarnazione per darci ragione di tutti i fatti” (1966, p. 384). Le ricerche
da lui condotte su bambini che conoscevano persone con cui non erano mai
entrati in contatto e luoghi che non avevano mai visitato, e su bambini che
avevano alla nascita dei segni sul corpo così simili a cicatrici da non poter
essere ritenuti casuali (cfr. Stevenson 1997) forse non offrono risposte, ma
sollecitano delle domande. Queste ed altre ricerche su fatti che la scienza
stenta a spiegare, lasciano spazio a ipotesi che vanno valutate e accettate o
respinte come qualsiasi altra ipotesi formulata nell’ambito della scienza, ma
non giustificano (se ci si mantiene su un piano razionale) delle concezioni
ascetiche, moralistiche o “evolutive” basate sulla svalutazione di aspetti
fondamentali dell’esistenza personale.
Ho
conosciuto persone rigidamente “aggrappate” alla concezione della reincarnazione
e soprattutto all’idea di “dare un senso” a vicende molto dolorose e mai
superate della loro vita: per tali persone, l’idea di espiare delle “colpe”
risalenti a vite precedenti subendo in questa vita dei maltrattamenti lasciava
spazio alla speranza di pagare tutti i “debiti” e raggiungere, prima o poi, la
felicità. In fondo, l’idea di ripianare, pagando con comode rate in più vite,
il male commesso non è più strana dell’idea di placare la collera divina con il
pentimento e le buone azioni o dell’idea di placare delle pulsioni inconsce
distruttive ed edipiche con rituali psicoanalitici o dell’idea di cancellare la
solitudine sniffando cocaina o della determinazione a mettere al mondo tanti
figli immaginati come fornitori di una “definitiva” sicurezza affettiva. A mio
parere, le concezioni espresse dalle grandi tradizioni orientali non hanno un
valore conoscitivo maggiore di quelle delle più diffuse religioni monoteiste
perché ciò che si può dire a proposito della divinità dei cristiani, degli ebrei
e dei musulmani si può dire anche a proposito delle divinità dell’induismo (o
delle varie tradizioni induiste) e ciò che si può dire del desiderio di
meritare la “salvezza eterna” si può dire anche del desiderio di collezionare
“meriti karmici” e di raggiungere il nirvana. Il buddhismo è una delle
concezioni orientali più note ed apprezzate perché propone uno stile di vita
caratterizzato dal rispetto, dall’amore, dalla semplicità, dalla fratellanza e,
in ultima analisi, da tutte le virtù che nei secoli persone religiose e non
religiose hanno considerato esempi di un modo “autenticamente umano” di
vivere. Ciò che va analizzato, a mio parere, non è l’apprezzamento dell’amore e
della benevolenza, ma proprio l’idea di fare sforzi per giungere ad agire in
modi apprezzabili, perché se viviamo in modi distruttivi non lo facciamo “per
debolezza” o “colpevolmente”, ma lo facciamo perché siamo rimasti fermi alle
paure ed alle illusioni dell’infanzia.
Per
il buddhismo, il sentiero delle buone azioni è una liberazione dalle illusioni
e non, come nelle religioni tradizionali, l’espressione di un “dovere”.
Tuttavia, la concezione buddhista, pur non essendo imperniata su condanne
moralistiche sottolinea la “lotta tra le forze negative e positive” presenti
nella mente delle persone (Dalai Lama, 1994, p. 7). Questa idea ricapitola la
profonda differenza fra i “percorsi interiori” riconducibili ad una visione
etico-filosofica dell’uomo ed il lavoro analitico che non mira a rendere le
persone “migliori” in qualche accezione del termine, ma consapevoli di ciò che
sono e sentono se non si opprimono in una logica difensiva. Le persone che
condividono le assunzioni fondamentali del buddhismo, dunque, considerano
inevitabili le conseguenze (anche su altre vite) delle loro azioni e sulla base
di ciò decidono di agire in certi modi. L’etica buddhista, quindi, anche se
viene proposta con modalità diverse da quelle di altre concezioni
filosofico-religiose, implica una visione riduttiva delle potenzialità umane e
fa leva sulla paura di spiacevoli incarnazioni anziché sulla capacità di
superare le paure infantili. Credo che non dobbiamo stupirci delle ipotesi più
audaci delle tradizioni orientali, dato che la stessa fisica teorica avanza
ipotesi decisamente controintuitive, ma dobbiamo preoccuparci del “bisogno di
credere” che tanto spesso prevale sul bisogno di conoscere. Se davvero
rientriamo in qualche modo in una realtà “altra”, o “trascendente”, dobbiamo
evitare di ricondurla alle categorie mentali della nostra realtà e dobbiamo,
quindi, per rispettare noi stessi, convivere con l’incertezza.
Se
ci sporgiamo oltre il limite delle nostre conoscenze possiamo solo convivere
con l’incertezza oppure “credere” a ciò che ci risulta più comodo. Ciò vale
anche per le concezioni della morte. In pratica, se la morte non è il “nulla
eterno”, ma qualcosa di “altro”, non è razionalmente riconducibile a paradisi e
inferni o a pagamenti rateali (in varie incarnazioni) di “colpe” passate,
semplicemente perché le colpevolizzazioni sono irrazionali e “terribilmente
umane” e perché i paradisi e gli inferni esistono proprio nelle illusioni e
negli incubi degli esseri umani. La morte non può ragionevolmente essere
compresa nemmeno sulla base dei “ricordi” (immanenti) di una eventuale realtà
trascendente (forse) sfiorata da chi “torna” da esperienze perimortali (cfr.
Moody jr. 1975). I resoconti di chi è “tornato in vita” dopo essere risultato
clinicamente deceduto sono per certi aspetti simili, ma per altri aspetti
diversi e variano anche in ambiti culturali differenti (cfr. Corazza, 2008).
Ciò rende ragionevoli delle ricerche sempre più approfondite e persino delle
speranze, ma non giustifica alcuna schematica interpretazione dei fatti a
disposizione. Come afferma Marie Lelay, il personaggio femminile del film Hereafter di Clint Eastwood,
sull’argomento, “E’ evidente che c’è ancora molto da fare
prima che si possa trattare della morte e di ciò che segue in una maniera anche
minimamente ragionevole”. Il sincero desiderio di conoscere non consente di
considerare vere le ipotesi più rassicuranti. Da bambini ci creiamo illusioni
per sopravvivere psicologicamente al dolore, ma da adulti siamo letteralmente
schiacciati dal peso delle nostre illusioni, comprese quelle più “comode”. Come
è razionale convivere con il dolore, è razionale convivere con l’incertezza,
perché proprio questo modo “scomodo” di vivere consente di non passare tutto il
tempo nel circolo vizioso di un’infanzia mai accettata e mai superata.
Dopo
aver chiarito i motivi per cui considero poco ragionevoli le “concezioni della
realtà” che caratterizzano le tradizioni entro le quali si sono delineati i più
noti “percorsi spirituali”, voglio sottolineare che anche le varie tecniche di “risveglio” mentale elaborate
all’interno di tali tradizioni conducono a domande sulla “totalità della
realtà” che possono avere risposte razionali o semplicemente consolatorie. In
ogni caso, ciò che più mi sta a cuore non è la “efficacia” (a volte dimostrata
sul piano fisico) delle pratiche che accompagnano vari “percorsi interiori”, ma
la loro utilità o inutilità rispetto ai disturbi psicologici. A questo
proposito ritengo che le tecniche orientali di meditazione, come quelle
psicoterapeutiche di rilassamento siano davvero poco utili per i vari “disagi
psicologici”, dato che ogni tipo di “rilassamento” può incidere sui livelli di
tensione fisica e mentale, ma non sui processi intenzionali delle persone. In altre parole, la meditazione o gli
esercizi di mindfulness o il training autogeno o la bioenergetica o le varie
forme di desensibilizzazione psicoterapeutica possono rendere meno penosi certi
stati d’animo, ma non possono incidere sulle ragioni (difensive) per cui le
persone producono tali stati d’animo.
Negli
anni dedicati alla mia analisi personale, ogni mio cambiamento significativo è
stato facilitato da uno specifico lavoro in una particolare seduta e non è mai
avvenuto “casualmente” o “gradualmente”. Non posso quindi attribuire alcuna mia
“scoperta” o “apertura” personale alla Meditazione Trascendentale (MT) che
praticavo in quegli anni (cfr. Bloomfield e AA. VV., 1975). Anche con i clienti che praticavano la MT non ho mai
riscontrato alcun contributo significativo di tale pratica al lavoro svolto
nelle sedute. Ogni cambiamento significativo è sempre dipeso dal chiarimento
delle strategie difensive e dall’elaborazione dei vissuti dolorosi. Se quindi varie tecniche derivate dalle tradizioni ascetiche
o mediche orientali possono risultare apprezzabili ed anche efficaci, almeno
per il raggiungimento di alcuni risultati, credo sia indispensabile analizzare
le ragioni per cui delle persone decidono di dedicare molto tempo o anche tutta
la vita a pratiche mentali e fisiche decisamente impegnative, che comportano
notevoli rinunce.
L’espressione
“trovare se stessi” ricorre in tutti i casi in cui le persone si propongono di
fare un “percorso” (morale, mistico, “terapeutico” o “spirituale”). Di fatto,
tale proposito può rientrare in una ragionevole ricerca volta a recuperare
potenzialità inespresse, ma in genere riflette una rigida aspirazione a
“migliorare” o ad “evolvere”. In oriente come in occidente l’aspirazione ad
abbandonare modi di vivere “superficiali” o “banali” o “inaccettabili”
costituisce una difesa psicologica decisamente crudele che esaspera
dissociazioni e conflitti interiori. In passato io stesso ho utilizzato
l’espressione “percorso analitico” per sottolineare che l’obiettivo
dell’analisi non era la cura di immaginarie patologie, ma un “recupero” delle
capacità espressive. Purtroppo, ho visto che molti clienti tendevano ad
accettare tale idea per illudersi di essere “sulla strada giusta” e di poter
“diventare migliori”. Tale uso improprio
dell’analisi è difensivo, perché comporta una svalutazione di sé e l’illusione
di acquisire un potere sull’accettazione degli altri. Per questo motivo oggi preferisco parlare di "lavoro analitico". Il dolore, la compassione
e la benevolenza non rendono le persone “migliori”, ma semplicemente più in
contatto con sé e con gli altri e le rendono libere dalla paura di perdere un
amore che non c’è mai stato e che non ci può essere come “premio” per una
“missione compiuta”. Se persino il lavoro analitico (che si pone agli antipodi
delle svalutazioni) può essere inteso da alcuni clienti come un “percorso
migliorativo”, molti percorsi interiori caratterizzati proprio da forti
svalutazioni per ciò che è “terreno” o “materiale” o “inautentico” si rivelano
inevitabilmente dei complessi sintomi ideologizzati e ritualizzati, grazie ai
quali le “guide” e i discepoli diventano complici in un’inutile fatica. Non
voglio escludere che ci possano anche essere ricerche interiori basate su una
sincera curiosità per nuove esperienze, ma il faticoso inseguimento di uno
stato di “consapevolezza” ritenuto “ideale” si riduce in genere alla ricerca di
un benessere simile a quell’accettazione che nell’infanzia è sempre mancata e
che solo allora sarebbe stata pacificante. In questo senso, i “percorsi
interiori” possono essere considerati delle sofisticate trappole mentali che distolgono da una reale, semplice e
razionale comprensione di ciò che si è, di ciò che si può ottenere, di ciò che non si può ottenere e di ciò che si può
fare.
Non
abbiamo alcun bisogno di “migliorare”, ma abbiamo bisogno di capire perché
viviamo al di sotto delle nostre potenzialità espressive. Il lavoro “in
negativo” di tipo analitico consente di sperimentare la reale capacità di gioire e di provare la felicità di “esserci” e
non stati d’animo previsti da un “percorso” ideale. Le persone che si
propongono di “compiere un percorso interiore” assomigliano alle persone che
vogliono a tutti i costi essere spontanee. Le persone spontanee non vogliono
essere o diventare o dimostrare nulla e proprio per questo agiscono
spontaneamente, mentre le persone determinate ad essere spontanee sono
rigidamente aggrappate ad un ideale di spontaneità che le rende rigide. Allo
stesso modo chi cerca nei libri o nella pratica assidua dello yoga o dello zen
o nella meditazione o nella dedizione agli altri o nella adesione ai principi
affermati da maestri di saggezza, una chiave d’accesso a stati di coscienza
“superiori” o “non ordinari” o “spirituali”, sta cercando di combattere qualche
aspetto svalutato di sé.
Anche
se da qualche parte esistesse un “nirvana” (che comunque sarebbe “altro” e non
quello immaginato dalle persone immerse in questa
realtà) non vedo perché dovremmo guastarci la vita che stiamo vivendo per
raggiungere al più presto quel traguardo meraviglioso (peraltro ipotetico).
Nisargadatta Maharaj, un saggio o comunque un libero pensatore indiano che
spesso lasciava perplessi i devote allievi occidentali bramosi di “nutrirsi” di
illuminazioni, riteneva che la ricerca spirituale fosse abitualmente
un’illusione e che l’ansia di superare le “illusioni” (Maya) rientrasse fra tali
illusioni: “Anche la beatitudine è un concetto che fa parte di Maya, del regno
dell’illusione” (1983, p. 172). In fondo, quelli che vanno in India per trovare
la “pace interiore” assomigliano molto alle persone che in occidente si
sottopongono a psicoterapie per essere “curati” dalle loro “patologie
psichiche” o che fanno aerobica per restare eternamente giovani e belli.
Secondo Maharaj “Nello Yoga esistono delle tecniche che consentono di fermare
l’attenzione e di arrivare al samadhi; ma sono pratiche arbitrarie. Non ci si
muove più, ci si ritira all’interno, e si smette di essere in contatto col
mondo. L’essere che si affida a tali pratiche non ha capito qual è la sua vera
natura” (p. 195). A mio parere, tuttavia, anche la ricerca descritta da Maharaj
si riduce ad una costruzione difensiva. Egli suggerisce: “Prima di tutto
renditi conto dell’ ‘Io sono’, poi diventa il testimone dell’ ‘Io sono’.
Facendo così, trascendi l’ ‘Io sono’. ” (p. 78). In questo modo si attua una
complessa manovra psicologica volta a stabilire un distacco da ciò che si
desidera. Se si resta osservatori esterni dei propri desideri si cessa di
soffrire quando i desideri sono insoddisfacibili. Tale strategia difensiva è
attuata da molti bambini, anche se in modi più rudimentali di quelli
focalizzati sull’idea di trascendere il cosiddetto “Io”. Se la nostra vita è
davvero Maya, cioè apparenza e illusione anziché la “vera” realtà, forse c’è
una ragione (per noi incomprensibile) di tale “inganno cosmico”. In tal caso,
perché affannarsi a trascendere fin da ora l’immanenza? Solo banalissime
istanze psicologiche giustificano tale affanno confezionato come ricerca
“spirituale”. Comune ai vari percorsi religiosi è il superamento (etico)
dell’egoismo attraverso lo sforzo interiore, mentre comune ai vari percorsi
spirituali è il superamento dell’Io, attraverso la consapevolezza di ciò che si
è “davvero”. Tuttavia, solo per un forte ego-centrismo una persona che si sente
in un certo modo si può dedicare a “distaccarsi” da ciò che chiama “Io” per sentirsi
in un altro modo.
Hiroshi
Motoyama è un “sacerdote Shinto noto in Giappone come visionario e guaritore”
che “pratica regolarmente la meditazione dalle tre del mattino fino alle dieci
o a mezzogiorno, e qualche volta addirittura per tutta la giornata” (Corazza,
2008, pp. 90-91). Così egli descrive alcune sue esperienze dopo mesi di
meditazione: “Quando raccoglievo la mia coscienza nell’addome inferiore per
equilibrare l’energia ki nel mio
corpo … ho avuto improvvisamente l’esperienza … di una colonna di fuoco caldo e
voluminoso che scoppiava dalla base della colonna vertebrale per estendersi
attraverso la cavità centrale del midollo spinale. Tutto il mio corpo era di un
calore bruciante e non ho fatto a tempo ad accorgermene che il mio corpo
repentinamente si è sollevato di venti o trenta centimetri, anche se stavo
mantenendo una postura da meditazione. (…) Per circa una settimana dopo il verificarsi
di questa esperienza, ho sentito che tutto il mio corpo era estremamente caldo.
E’ stata un’esperienza di risveglio della kundalini.
Prima di questo esercizio mi ero dedicato a ‘esercizi d’inverno’ all’aperto, in
cui rovesciavo secchi di acqua gelata sul mio corpo. L’ho fatto con regolarità
tra la fine di gennaio e i primi di febbraio.
(…) Dopo essermi versato addosso vari secchi d’acqua, rimanevo nudo nel
vento freddo invernale per circa un’ora mentre pregavo. (…) Tuttavia, dopo aver
risvegliato la kundalini, non ho più
sentito freddo durante tutti questi ‘esercizi d’inverno’ e in effetti, quando
versavo sul mio corpo secchi d’acqua,
potevo vedere dei vapori bianchi che si levavano da tutto il mio corpo” (citato
in: Corazza, 2008, pp. 172-173). Anche se riteniamo veritiero questo resoconto
e se accettiamo la concezione energetica con cui Motoyama spiega la sua
esperienza, dobbiamo interrogarci sulle ragioni per cui potremmo seguire il suo
esempio nella speranza di avvertire il risveglio della kundalini. Ciò che voglio sottolineare non è il fatto che non provo
alcun desiderio di fare tante rinunce per raggiungere quell’obiettivo, ma che
non riesco ad immaginare alcuna giustificazione razionale per una tale impresa.
Posso immaginare delle ragioni difensive, ma non delle ragioni significative
sul piano del miglioramento della qualità della vita.
I
più noti percorsi “spirituali” condividono una svalutazione profonda della
“materia” e poco cambia se un prete considera peccaminosi i “piaceri della
carne” o se un mistico orientale colloca fra le maglie del ‘velo di Maya’ tutte
le umane passioni. In entrambi i casi viene ignorata o negata la distinzione
fondamentale fra l’espressione delle potenzialità personali e l’attivazione delle
difese psicologiche. Se si considera la svalutazione che accomuna il moralismo
religioso e il misticismo spiritualista, si comprende che solo superficialmente
si riscontra una diversità fra l’auto-repressione dei credenti e la distaccata
indifferenza di chi si dedica ad un “percorso spirituale”. Anche se il
misticismo orientale attrae persone con una formazione culturale diversa da
quella delle persone aderenti alle religioni tradizionali, risulta “attraente”
per le stesse ragioni difensive. Mi rendo conto del fatto che può sembrare
semplicistica la mia critica radicale di fenomeni complessi come le grandi
tradizioni orientali, ma a questo proposito posso dire solo ciò che ho già
detto parlando delle religioni tradizionali: una bugia non diventa una verità
se è creduta da molte persone. L’idea buddhista di domare i propri desideri e
di diventare quindi liberi dal dolore (di questa e di altre eventuali vite) non
mi sembra davvero “elevata”. Il Dalai Lama ricorda il nostro compito di aiutare
gli altri con queste parole: “il benessere degli altri è in ultimo più
importante del nostro, poiché, senza gli altri, noi non avremmo alcuna pratica
spirituale, alcuna opportunità di illuminazione” (1994, p. 10). In pratica,
fare il bene è un affare. Tale affermazione riconduce, quindi, anche la compassione
ad un modo di vivere basato sulla ricerca del potere. Le “buone azioni” fatte
per interesse (sia per interessi materiali, sia per “interessi spirituali”)
perdono la freschezza degli slanci che hanno le loro radici in un’autentica
sensibilità umana. Ciò è inevitabile, dal momento che il sentiero del buddhismo mira a modificare i comportamenti anziché a
chiarire le ragioni difensive per cui le persone agiscono in modi irrazionali e
distruttivi.
Chi va in Oriente a cercare l’illuminazione, così come
chi si fa delle “canne”, cerca di mantenere le difese dal dolore, ma vuole
anche il benessere. Di fatto, chi cerca di raggiungere stati di consapevolezza
“elevati” cerca solo di “sentirsi meglio” grazie ad un espediente (mentale
anziché chimico) rinunciando ad attuare quei cambiamenti reali che possono
produrre una reale felicità. La felicità possibile agli esseri umani deriva
dalla contemplazione e dalla creazione della bellezza e comporta l’accettazione
del dolore. La ricerca di una felicità “assoluta” possibile solo ai bambini
(proprio per via della loro incapacità di comprendere la realtà) induce,
quindi, molti adulti a non costruire una reale felicità, ma a cercare
confusamente sensazioni di
“benessere”. In tal caso, poco conta che la ricerca conduca all’assunzione di
droghe, all’illusione di far parte di una grande famiglia ideologizzata,
all’illusione di ottenere con adeguate psicoterapie un benessere psicologico o
all’illusione di non aver bisogno di nulla e di raggiungere stati di coscienza
“elevati”. Cambiano le procedure, cambiano gli obiettivi dichiarati, ma resta
la rinuncia al piacere, alla bellezza e all’amore. In pratica, resta poco.