martedì 17 luglio 2018

34. Vivere e morire







In questo capitolo non mi occuperò dei pensieri di suicidio che a volte si presentano in stati di grave disordine mentale e che quindi dipendono da patologie del sistema nervoso o da disturbi psicologici che si sono aggravati al punto da alterare il basilare contatto con la realtà. In questi casi la cieca tendenza autodistruttiva rende necessari interventi farmacologici e non può essere esaminata sul piano dell’intenzionalità difensiva, anche se il confine fra reali patologie e disturbi psicologici può non essere netto. Ciò che ora voglio prendere in considerazione è il desiderio di morire manifestato da persone che ragionano o sragionano normalmente sulla loro vita e sulla loro morte. Credo che l’idea del suicidio si presenti più spesso di quanto si riconosce e che in molti casi si presenti confusamente, senza cioè una reale intenzione di concludere la vita. In altre parole, l’idea del suicidio è più frequente, ma anche meno frequente di quanto si pensa. Credo inoltre che il desiderio di morire sia quasi sempre espressione di difese psicologiche, ma che anche l’ostinazione a sopravvivere senza amarsi e senza amare nessuno sia espressione di gravi difese psicologiche.
Esaminando vari aspetti della questione cercherò di evidenziare l’irrazionalità della pretesa di trattare in chiave “bioetica” questioni delicate come l’eutanasia ed il suicidio assistito. Cercherò quindi di chiarire che i vari modi di intendere e fraintendere la morte sono una diretta conseguenza dei più generali modi espressivi o difensivi di vivere e di concepire l’esistenza umana. A mio parere, la normale dissociazione dal dolore determina molte idee irrazionali sul vivere e sul morire e proprio per questo motivo è possibile comprendere il desiderio di morire manifestato in certe situazioni da alcune persone solo se si rinuncia a giustificare o a condannare e se si prendono in considerazione le emozioni accettate o negate dalle persone. Anche sul tema della morte la normale irrazionalità individuale ha prodotto gravi forme di irrazionalità consolidatesi nella cultura accademica e popolare, nelle leggi e nel modo in cui la società tratta le persone. Sul piano culturale la confusione fra depressione e dolore (presente anche nelle concezioni psicoterapeutiche) determina riflessioni sul tema molto confuse, mentre sul piano pratico, la normale non accettazione della morte si traduce in forme di autoritarismo che calpestano sia il desiderio di vivere in modo soddisfacente, sia il desiderio di non continuare a vivere in modo inaccettabile.
Alcune vicende toccanti e terribili (come quelle di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby) hanno sollecitato accese polemiche sui giornali e negli spazi televisivi. Le persone più convinte di rappresentare una "sensibilità etica" superiore non hanno esitato ad utilizzare il termine “omicidio” quando si valutava la possibilità di “staccare la spina”. Tali fatti hanno rivelato uno strano paradosso: una parte molto rilevante della società, normalmente indifferente alle vite degli altri, diventa stranamente determinata a mantenere in vita artificialmente chi non vuole più valersi di congegni che prolungano un’agonia Tali vicende hanno dato impulso alle richieste di riconoscimento del testamento biologico e tali richieste hanno prodotto un ulteriore irrigidimento dei “sostenitori della vita”. Va sottolineato il fatto che questi “sostenitori” quasi sempre esprimono una concezione religiosa che include l’idea della “non disponibilità” della vita, compresa la propria vita. Secondo tale posizione, la vita è un dono, ma non è a nostra disposizione e non siamo quindi liberi di decidere se vivere o morire. Il paradosso del dono che però non è un vero dono, dato che non è a disposizione di chi lo riceve, ha come esito ultimo l’idea che la società debba impedire la morte a chi non vuole più vivere.
La questione però è più complessa, perché anche le persone orientate ad accettare l’eutanasia in presenza di malattie gravi, incurabili e tali da causare intense sofferenze, non sempre riconoscono la stessa legittimità alla richiesta di un riconoscimento del “suicidio assistito”. Il suicidio assistito di Lucio Magri, ha infatti spiazzato anche persone propense a respingere l’accanimento terapeutico. Sul “suicidio assistito” di Lucio Magri in Svizzera ho letto testimonianze di rispettosa comprensione, di rispettoso dissenso ed anche commenti decisamente sprezzanti. Le considerazioni che maggiormente mi hanno rattristato sono riconducibili all’assunto secondo cui i medici devono guarire, non uccidere, e quindi chi si vuole suicidare si deve arrangiare. La brutalità di questo sillogismo zoppo, riflette una mentalità che non contempla la complessità della dimensione interiore delle persone e che nega persino dei fatti gravissimi e indiscutibili: alcune persone non hanno la capacità fisica di “arrangiarsi” e anche chi ha tale capacità, se ricevesse un aiuto potrebbe morire più serenamente. La tolleranza sociale per l’eutanasia e il suicidio assistito non è, quindi, da intendere come un semplice corollario di una concezione politica libertaria, ma è da intendere come l’espressione di un autentico rispetto sia del bisogno delle persone di vivere la loro vita, sia del bisogno di non vivere una vita decisa dagli altri.
Io non credo che “staccare la spina” a chi la vuole staccata, ma non è in grado di staccarla, costituisca un omicidio. Lascio queste semplificazioni agli esperti di “psico-terrorismo” che non mi sembrano mossi da compassione per sé e per gli altri, ma da scopi oscuri di cui loro stessi non hanno alcuna consapevolezza. Credo, in ogni caso, che il problema della vita e della morte sia un problema che può trovare risposte rispettose solo se viene posto su un piano razionale e con un minimo di sensibilità. E’ sicuramente difficile che chi desidera morire sia libero da difese psicologiche, ma è pure difficile che sia libero da difese psicologiche chi discute in merito al desiderio di morire manifestato in modi ragionevoli da altri. Il paradosso delle risposte sociali ai più complessi drammi individuali, sta nel fatto che chi ha l’autorità ed anche il potere di dare risposte non è necessariamente più saggio di chi pone i problemi. Le persone vivono vite reali, spesso sperimentano emozioni rattrappite, ma a volte toccano o sfiorano anche stati d’animo limpidi. Spesso gioiscono e soffrono in modi superficiali o confusi, ma possono anche essere felici e soffrire intensamente. In ogni caso, se si suicidano, purtroppo, muoiono davvero e tale tragica realtà dovrebbe indurre le persone insensibili a tacere o a misurare le parole, ma proprio la loro insensibilità attiva il loro bisogno di “esprimere un punto di vista” o di fare una “battaglia”.
Non a caso, nella storia, le risposte sociali al suicidio sono state a volte addirittura grottesche. Si consideri, ad esempio, la realtà che si presentava nel XVIII secolo in Inghilterra: il suicidio era vietato per legge e, ovviamente, le persone che si suicidavano non potevano essere punite. Se però un suicida falliva nel tentativo, veniva condannato … alla pena di morte! (cfr. Monti, 2010, p. 65). Nel secolo XIX il tentato suicidio era punito penalmente in vari paesi dell’Occidente e in alcuni di essi i beni delle persone che si erano suicidate venivano confiscati e sottratti, quindi, ai famigliari. Anche il divieto di sepoltura nei luoghi consacrati rientrava nella stessa logica (cfr. G. Fornero, 2005, p. 170).
La posizione davvero “prevalente” è quella che si riassume nel non voler prendere in considerazione la morte. Un fatto inequivocabile depone a favore di questa affermazione: “soltanto l’8 per cento di quanti arrivano nelle terapie intensive ha dato chiare indicazioni su quali trattamenti intende accettare e quali rifiutare, percentuale che raddoppia se si tiene conto delle disposizioni dei familiari. (…) Il restante 84 per cento affida la propria sorte ai medici: fate di me ciò che (in scienza e coscienza) credete. (…) Tutto è nelle mani dei sanitari: tocca a loro stabilire il momento in cui un trattamento diventa inutile e si trasforma in accanimento terapeutico. Persino negli Stati Uniti, che dal 1991 hanno una legge federale sulle direttive anticipate, le percentuali non si discostano di molto: solo il 10 per cento degli americani ha provveduto a scriverle” (Monti, 2010, pp. XII-XIII). Tali dati portano a concludere che persino una legge sul testamento biologico tutela solo le poche persone disposte a porsi il problema. Ciò significa che anche le questioni più delicate, che non sono “etiche”, ma emozionali e quindi psicologiche, come quelle riguardanti l’eutanasia ed il suicidio assistito cadono nell’indifferenza generale. Chi, per motivi più o meno ragionevoli, desidera morire “deve arrangiarsi” non perché il suo problema sia irrilevante e non possa interessare gli altri, ma perché la società evita da sempre le questioni importanti per la vita delle persone. La società in cui viviamo riconosce il bisogno di cibo, di cure mediche, di lavoro, di giustizia, di conoscenza, ecc. Tale società, però è organizzata in modo da non dare risposte adeguate nemmeno a questi problemi “riconosciuti”. Il problema della fame nel mondo è “oggetto di dibattito”, ma non è una priorità per nessuno, tranne che per gli affamati, i quali, quindi, “si arrangiano” e in genere muoiono di fame. In una società di questo tipo, a maggior ragione, esigenze meno ovvie di quelle di mangiare o di lavorare, difficilmente possono trovare un’adeguata comprensione e risposte ragionevoli.
Credo che la vita meriti di essere vissuta nonostante il dolore che comporta e che siano soprattutto le difese psicologiche a produrre a volte l’impressione che essa non abbia alcun senso. Tuttavia, penso che in particolari circostanze il percorso della vita possa essere considerato un’esperienza conclusa e quindi da interrompere, anche da chi non sta attivando delle difese psicologiche. Non sono interessato ad “affermare” una posizione ideologica, ma voglio fare qualche riflessione sulla vita e sulla morte per evidenziare proprio quegli aspetti che le ideologie tendono a trascurare. Irvin D. Yalom ha scritto: “Sebbene la realtà fisica della morte ci distrugga, l’idea della morte può salvarci” (2002, p. 126). Proprio la stretta connessione fra vita e morte e fra consapevolezza della vita e della morte deve, a mio parere, essere tenuta presente nelle riflessioni sul desiderio di morire.
Manca una definizione condivisa dei termini “eutanasia” e “suicidio assistito”. L’Associazione “Dignitas - vivere degnamente - morire degnamente” considera il termine “eutanasia” poco preciso e per i servizi che fornisce utilizza l’espressione “accompagnamento alla morte volontaria”. Tuttavia sia nei testi dedicati all’argomento, sia nei giornali, il termine è utilizzato, come pure è utilizzato il termine “suicidio assistito” per quelle modalità di suicidio non praticabili senza la collaborazione di un medico. Chi utilizza le espressioni “eutanasia” e “suicidio assistito”, inoltre, distingue fra interventi attivi, passivi, diretti o indiretti. Il tema è complesso e le leggi sul tema sono molto diverse nei diversi paesi. Poiché non voglio toccare le questioni giuridiche, utilizzerò le espressioni che abitualmente ricorrono nelle pubblicazioni sul tema e utilizzerò il termine “eutanasia” per riferirmi solo ad interventi (richiesti dal soggetto) volti ad interrompere una situazione di estrema sofferenza dovuta ad una malattia incurabile in stato avanzato, mentre con il termine “suicidio assistito” mi riferirò più in generale al suicidio attuato da una persona grazie ad un aiuto sul piano medico.
Karl Jaspers ha affermato un secolo fa che “Il suicidio non è, come tale, un segno di anormalità psichica, ma la maggior parte dei suicidi appartiene a quei tipi di personalità che hanno avuto bisogno dello psichiatra, o che soffrono di malattie reali. Perciò la statistica dei suicidi è in certo senso una misura della frequenza degli stati psichici anormali” (1913, pp. 791-792). Tale valutazione è sostanzialmente la stessa degli studiosi contemporanei. Tuttavia, su questa base si giunge facilmente a concludere che il desiderio di morire non sfiori quasi mai le persone. Se i suicidi sono pochi e se solo una minima parte di essi non è riconducibile alla psicosi, si deve concludere che il desiderio di morire normalmente non abbia molto a che fare con la vita reale delle persone. L’idea non è convincente, perché, se consideriamo anche i desideri impliciti o inespressi di morire, ci accorgiamo di un fatto curioso: la morte è molto spesso ritenuta preferibile alla vita, o ad un certo tipo di vita o alla semplice sopravvivenza.
Tutto l’ambito delle difese psicologiche è un ambito di morte. Morte parziale, ma morte. Con l’attivazione delle difese psicologiche ci dissociamo da esperienze dolorose che ci appartengono e diventiamo impermeabili a nuove situazioni dolorose che potrebbero rimetterci in contatto con il nostro antico dolore. Inevitabilmente diventiamo impermeabili anche ad esperienze positive. In tal modo uccidiamo molte sensazioni, riflessioni, emozioni, azioni ed anche tutte le loro possibili conseguenze. Restiamo vivi, ma nel perimetro angusto costituito dalla nostra indifferenza. Restiamo “mezzi vivi e mezzi morti”. In questo caso, il suicidio non è completo, ma è un suicidio. Non è consapevole, ma è agito. Non è noto ad altri, ma incide sulla nostra vita e anche sulle vite degli altri. Molti si suicidano “parzialmente” con l’indifferenza, con la superficialità, con il lavoro, con la malvagità, con l’adesione ad ideologie “comode”, con il “non pensare” né alla morte né alla vita. Molti si suicidano parzialmente inseguendo illusioni e molti si suicidano parzialmente esprimendo intensamente emozioni difensive, affermando convinzioni irrazionali o impegnandosi per obiettivi fondamentalmente distruttivi.
Può sembrare un po’ forzata l’operazione di concepire le difese psicologiche come un suicidio parziale, ma purtroppo non c’è alcuna forzatura, a meno che non si identifichi la vita umana con la sopravvivenza. Solo in questa interpretazione limitativa dell’esistenza chi non si uccide materialmente non si suicida. La prova di ciò è costituita dalle testimonianze di alcune persone che hanno tentato il suicidio, fallendo, e che poi hanno lavorato in analisi sulla loro vita, cioè sugli anni trascorsi prima di tentare il suicidio. Irvin Yalom (1980, pp. 33-35) fornisce dei resoconti molto significativi di questa presa di coscienza: prima le persone non vivevano “realmente”, ma vivevano una vita rattrappita, di cui il tentativo di suicidio era, in fondo, solo una conseguenza meccanica. Analoghe riflessioni emergono da persone che hanno sfiorato accidentalmente la morte e si sono accorte di non aver mai percepito prima l’importanza della loro vita. La differenza fra il suicidio psicologico e quello “operativo” è quindi quantitativa e se i moralisti fossero interessati a capire anziché a non capire le scelte delle persone, si preoccuperebbero di questa strage quotidiana più che dei casi, tutto sommato abbastanza rari, in cui le persone si suicidano davvero o chiedono alla società di essere aiutate a concludere la loro vita.
Se i “suicidi parziali” (psicologici) sono purtroppo molto diffusi, altri suicidi (reali) sono diffusi ma non sono classificati come suicidi, perché vengono considerati “scelte esistenziali”. In tali scelte, però, è implicita la disponibilità a morire pur di non vivere “un certo tipo di vita”. In questa prospettiva molti casi di morte interpretati come “tragica fatalità” o “decisione eroica” sono, a rigore, dei suicidi programmati o almeno “messi in conto”. Se noi potessimo in punto di morte sopravvivere prendendo il posto di un’altra persona giovane, sana e magari piena di qualità, probabilmente respingeremmo tale opportunità. Forse potremmo essere tentati dalla possibilità di sopravvivere in un altro corpo, o almeno in un corpo per noi accettabile, ma mantenendo la nostra soggettività. Difficilmente però vorremmo sopravvivere sperimentando la vita di un’altra persona. Come mai? Il nostro rifiuto (e la conseguente scelta di morire anziché sopravvivere) si baserebbe sul rifiuto di vivere una vita “non nostra”. La vita che l’altra persona (in cui dovremmo “calarci”) considera “propria” ci risulterebbe intollerabile non necessariamente perché “sbagliata”, ma perché “non nostra”. Ciò significa che noi abbiamo un’idea della nostra vita a cui siamo legati più di quanto siamo legati alla nostra sopravvivenza. Ora, posto che abbiamo, almeno implicitamente, un’idea di ciò che può essere e non essere la “nostra” vita, dobbiamo riconoscere che il desiderio di morire, in certi casi, può far parte del semplice vivere, se la realtà ci porta ad una sopravvivenza inconciliabile con la nostra idea di vita.
C’è una distinzione psicologica molto importante da fare, che riguarda i motivi per cui consideriamo “nostra” la nostra vita: a volte tali motivi si radicano nel contatto con noi stessi e con la realtà e altre volte tali motivi sono irrazionali e difensivi. La persona che desidera morire perché non accetta di aver commesso un errore o perché con l’età ha perso la bellezza di un tempo, ovviamente manifesta un desiderio irrazionale e difensivo di morire perché si identifica in alcuni dettagli di sé o in un’immagine idealizzata di sé, ma non possiamo affermare che il desiderio di morire sia sempre e comunque frutto di un equivoco o di un’illusione. Quante persone nei panni di Piergiorgio Welby non si sarebbero poste il problema che egli si è posto? Ciò induce a pensare che molte persone che nemmeno immaginano di poter desiderare l’eutanasia o il suicidio assistito prenderebbero in considerazione tale possibilità se avessero la sfortuna di fare esperienze che solo per caso e per fortuna non fanno.
Nella “realtà reale”, abbiamo modo di osservare (se stiamo attenti) che con le loro scelte pratiche moltissime persone dimostrano di “preferire la morte ad un certo tipo di vita”. Anche se non esprimono in senso stretto un desiderio di morire, manifestano una esplicita tolleranza per l’idea di morire pur di non vivere un certo tipo di vita. Il caso più evidente è quello delle tante persone che nella storia si sono volontariamente arruolate in un esercito impegnato in una guerra già dichiarata o che hanno aderito ad un movimento rivoluzionario. Chi va in guerra o “si espone” in una rivoluzione, non solo “rischia” la morte: se non sopravvive muore davvero. L’espressione “rischiare la morte” è ipnotica e confusiva perché fa pensare che si scelga solo il rischio, mentre il rischio dura poco: entro una settimana o un anno si torna a casa oppure si è morti davvero. Per questo motivo siamo costretti a riconoscere che chi sceglie di rischiare la propria vita afferma implicitamente che preferisce morire piuttosto che vivere restando indifferente a certe vicende. Poco conta che la guerra o la rivoluzione siano ragionevoli o assurde: per chi si coinvolge sono non solo ragionevoli, ma più importanti della sopravvivenza.
Anche in situazioni di altro tipo si attua la stessa scelta: ci sono persone che non accettano un ricatto o non cedono ad una minaccia e vengono uccise. Si può dire che hanno solo rischiato di morire o che hanno affermato la propria dignità. Tuttavia, in questi casi le persone si trovavano ad un bivio e hanno scelto la direzione che sicuramente salvava la loro dignità anziché la loro vita. Altre persone in situazioni analoghe si sarebbero adattate, si sarebbero piegate e sarebbero rimaste vive. Anche la guardia del corpo che si lancia sulla persona che deve proteggere e riceve la pallottola al suo posto non agisce così semplicemente perché ciò fa parte del suo lavoro: agisce così perché preferisce morire rispettando gli impegni presi piuttosto che sopravvivere. Egli considera quella morte come l’ultimo momento di una vita “propria” e la possibile sopravvivenza come una vita “non propria” e quindi “invivibile”.
In questi casi, la differenza significativa riguarda i motivi (razionali o difensivi) per cui consideriamo “nostra” una certa vita e “non nostra” un’altra vita. Abbiamo gli esempi di magistrati che hanno rischiato di morire e sono anche morti davvero per combattere la mafia, ma abbiamo anche gli esempi di mafiosi che hanno rischiato la vita e sono anche morti davvero pur di sentirsi e dimostrarsi “uomini d’onore”. La differenza è abissale, ma è una differenza che riguarda il percorso della vita, non la decisione di “morire pur di non vivere in un certo modo”. In fondo, tutti siamo disposti a vivere solo a certe condizioni e solo per un equivoco intenzionale e difensivo fingiamo di non conoscere questo fatto. Tale finzione ci porta a considerare il desiderio di morire e il desiderio di non vivere a certe condizioni, come questioni che riguardano solo i pazzi e una manciata di persone un po’ strane.
Nella battaglia delle Termopili e ad Alamo, secondo gli storici, molte persone morirono “eroicamente”. Di fatto tali persone trovarono delle ragioni valide per morire e per non fuggire o arrendersi. Alcune persone possono aver scelto quel suicidio per amore di un ideale (e quindi per amore della loro vita e dei loro compagni) ed altre possono anche averlo scelto solo per timore di essere considerate codarde (e quindi per odio nei confronti di loro stesse). La stessa scelta può derivare dall’amore o da una paura irrazionale, ma in entrambi i casi è una scelta. Solo per la paura di riconoscere quanto la morte “attraversi” le nostre scelte di vita, abitualmente non parliamo di suicidio in tutti i casi in cui si rischia la vita.
Su tale questione la speculazione etica riesce a creare molta confusione. I moralisti respingono l’idea che rischiare la propria vita a favore degli altri sia fondamentalmente un suicidio e, anzi, definiscono tale scelta come una nobile scelta “morale” o un sacrificio altruistico compiuto proprio da chi vorrebbe vivere. In questa lettura bizzarra della realtà, la persona “eroica” non vuole morire, ma pur di salvare gli altri è disposto a “rinunciare” alla propria vita. Il ragionamento è più fine di quelli delle tecniche di vendita, ma è egualmente manipolativo. Esso violenta i fatti. L’eroe non sceglie fra la propria vita e quella degli altri, ma fra vivere una (propria) vita sicura che però non favorirebbe gli altri e una (propria) vita breve dedicata agli altri. L’eroe può scegliere solo in merito alla propria vita, come il suicida “comune”. L’eroe, sacrificandosi per gli altri, afferma di non trovare accettabile una vita non dedicata agli altri. Fa quindi una scelta relativa alla propria vita come chi chiede l’eutanasia o il suicidio assistito: respinge una vita più lunga ma inaccettabile e sceglie una vita più breve, ma a suo giudizio degna di essere vissuta. Credo che nessuno abbia il diritto di stabilire in generale per cosa valga o non valga la pena di vivere o morire o rischiare la propria vita. Ognuno decide sulla base della propria capacità di amare e delle proprie difese psicologiche. Queste considerazioni ci costringono ad ammettere che le persone accettano spesso di morire piuttosto che vivere in un certo modo e che quindi il problema “bioetico” focalizzato sull’eutanasia e sul suicidio assistito nasconde semplicemente la realtà: una realtà in cui le persone consapevolmente o inconsapevolmente decidono sempre e comunque di vivere o di morire. Una realtà disconosciuta dai moralisti. Una realtà "reale" che non coincide con il "mondo dei sogni" costituito dal normale modo di "vivere poco": una realtà, quindi, su cui non hanno molto da dire gli stessi psicoterapeuti.
Dopo aver chiarito in che senso il desiderio di morire è molto più diffuso di quanto si crede, vorrei chiarire in che senso, invece, è meno diffuso di quanto si crede.
Molte persone dichiarano alle persone “care” di desiderare la morte senza avere alcuna intenzione di por fine ai loro giorni e provando solo il desiderio (non conscio, in genere) di aggredire gli altri per ottenere attenzione. Tra le persone che “recitano” il desiderio di morire, vanno incluse tutte quelle (soprattutto anziane) che pur lamentandosi e dichiarando che vorrebbero morire, in realtà richiedono continuamente visite mediche o accertamenti e assumono diligentemente tutti i farmaci prescritti, dato che nessun malato grave e realmente desideroso di morire sarebbe tanto ansioso di curarsi. Queste “recite” non riflettono un’intenzione cosciente di ingannare o far soffrire gli altri: le persone che agiscono in questi modi stanno davvero male, soprattutto perché si fanno del male e aspirano ad un un benessere che nemmeno riescono a definire. In pratica, se da giovani e piene di salute potevano dire “la vita è uno schifo”, da anziane e malate possono dire che la morte sarebbe una liberazione, ma anche in tal caso non affermano nulla di sentito. Non sentono ciò che dichiarano, ma si ostinano a sentire “poco”. Sentono il malessere risultante dalla rabbia che attivano e disconoscono. Sono quindi persone che non si amano, non amano, non provano veri interessi o entusiasmi e pretendono di “ricevere” quella felicità che nel mondo dei grandi può solo essere costruita. Soffrono “inutilmente” pur di non soffrire realmente e rinunciano a gioire, perché la vera gioia le esporrebbe anche alle vere sofferenze mai accettate e mai superate. Per questo motivo, tali persone non vanno sicuramente “comprese”, ma nemmeno svalutate, dato che non sanno davvero perché fanno ciò che fanno. Avrebbero bisogno di un aiuto, ma proprio di quell’aiuto che non cercano. In ogni caso non vanno incluse fra le persone che desiderano morire.
Se non dobbiamo includere fra le persone che desiderano morire quelle che si limitano a recitare (ai limiti della consapevolezza) tale desiderio, non dobbiamo nemmeno includere molte persone che progettano o attuano un suicidio, ma hanno idee confuse e distorte sulla morte. Per tale confusione-distorsione desiderano “qualcosa”, ma non la morte. A volte si uccidono davvero, ma in tal caso, in fondo, si suicidano “per errore”. Proverò ad esemplificare questa situazione. Alcune persone considerano insopportabile la vita in quanto fonte di sofferenze e desiderano “avere una tregua, una pausa, un’interruzione”, ma non hanno ben chiaro che la morte non è una tregua, una pausa, un momento di pace, perché è la fine della “guerra” … e anche della pace. E’ la fine e basta. Ciò vale anche per gli spiritualisti convinti o per le persone religiose (normalmente più conformiste che “convinte”). Anche le persone che considerano questa vita un aspetto di una totalità più “ampia”, da qualche parte sanno che con la morte, questa vita, la vita in cui “si riconoscono”, si concluderà. Qualsiasi ipotizzata esperienza “ulteriore”, proprio in quanto “altra” non può ragionevolmente essere concepita come un proseguimento meno frustrante di questa vita. Ciò vale, quindi, per gli atei, per i credenti e per gli spiritualisti non religiosi. Morire non equivale a non soffrire, ma a non essere più nell’unica vita conosciuta. Il “nulla” o il “totalmente altro” non sono ragionevolmente concepibili come una “pausa” di (questa) vita. Da ciò deriva che tutte le persone che desiderano morire con tale confusione in mente, desiderano qualcosa che definiscono “morte”, ma che non ha nulla a che fare con la morte. Non solo: le persone che si uccidono con questa confusione in mente, si uccidono davvero e trovano la morte, ma sicuramente non ciò che cercavano. Molti suicidi, in altre parole, sono il risultato di un equivoco, piuttosto che di una decisione di concludere l’esperienza personale del vivere. Come non consideriamo omicidio quello di chi si addormenta guidando e causa la morte di altre persone, non dovremmo considerare veri suicidi quelli attuati per sperimentare “una pausa” (cioè di una delle possibilità di questa vita).
Molti clienti hanno discusso con me il loro desiderio di morire, ma mi hanno fatto capire che avevano in mente solo una confusa ribellione alla loro vita, ad una vita che non dava risposte a certi bisogni. Non avevano in mente l’eventualità di non pensare, non sentire, non ricordare, non sperare, non toccare, non aiutare, non essere aiutati. Avevano in mente una vaga ostinazione a “reagire” esasperando un antico modello difensivo che caratterizzava il loro modo di vivere, ma che non aveva nulla a che fare con il reale desiderio di non vivere più. In casi di questo tipo, ciò che serve è una comprensione della rabbia irrazionale e quindi difensiva attivata nei confronti di una realtà dolorosa. La rabbia serve per cambiare le cose e non serve quando le cose non possono essere cambiate. Le situazioni dolorose e immodificabili vanno accettate, perché il non farlo equivale ad un rifiuto di sé e del proprio dolore. Inoltre, in questi casi è molto utile una comprensione del tipo di desiderio che non riceve risposta. In genere non è un desiderio sorto nel presente, ma è un desiderio che ha radici antiche, anche se è tuttora percepito intensamente. Tale desiderio “antico” che permane, va capito, rispettato, accettato, ma va accettato assieme all’impossibilità di un appagamento. In questi casi la rabbia e la lotta non servono, perché le persone hanno solo bisogno di abbracciarsi e di lasciarsi andare al pianto.
A volte la rabbia (difensiva e irrazionale) che apparentemente attiva il desiderio di morire non è “vaga” o “diffusa”, ma è focalizzata su qualche persona. Una cliente mi disse di pensare che se si fosse suicidata finalmente la madre si sarebbe ripresa tutti i sensi di colpa che le aveva “trasmesso”. Le ho chiesto da dove avrebbe osservato la scena e, dopo un attimo di perplessità, ha risposto “Cazzo, io sono atea! Non credo di poter osservare proprio nulla da morta!”. Le ho fatto notare che, anche se fosse credente, dovrebbe ipotizzare di aver cose più interessanti da fare nell’aldilà. Abbiamo riso un po’ e siamo quindi tornati al vero tema della seduta, che in realtà non era il desiderio di morire, ma la rabbia che aveva attivato dopo aver generato (per propria scelta) i sensi di colpa. Se un conoscente l’avesse colpevolizzata per il fatto di non essere vegetariana, lei non avrebbe costruito alcun senso di colpa, perché con i sensi di colpa restava “legata” alla madre. Certi biglietti lasciati a persone accusate di “aver rovinato la vita”, evidenziano tale dinamica. Tale rabbia è irrazionale, perché serve solo ad evitare la consapevolezza di un dolore. Ovviamente l’idea di morire e di trovare “una tregua”, l’idea di “ribellarsi e farla finita” e l’idea di “punire” qualcuno, non si escludono reciprocamente, anche se possono essere distinte concettualmente. Implicano comunque una confusione sul dolore e sulle proprie capacità e in tutti questi casi il desiderio di morire non è un vero desiderio di morire.
L’idea della morte è un’idea “difficile” che stenta a trovare un posto nella nostra concezione di noi stessi e della nostra vita perché esclude noi stessi e la vita. Immaginare la morte è un po’ come cercare di sollevarsi da terra senza far leva su qualcosa, dato che l’idea della morte è psicologicamente paradossale. In genere, chi sta male desidera non star male o star bene, ma raramente desidera “non stare più in alcun modo” pur di non soffrire. Per questi motivi, spesso il voler morire è solo apparentemente un desiderio di morire, mentre è in realtà un desiderio di cambiare “qualcosa” quando non si può cambiare nulla. Sulla base di queste considerazioni, quindi, si può riconoscere che molte dichiarazioni relative al desiderio di morire, molti tentati suicidi e persino molti suicidi non hanno molto a che fare con un reale desiderio di morire. Mi si potrà obiettare che sto giocando con le parole, ma non è così, perché ho in mente anche dei fatti molto concreti. Nel libro La morte e il morire, la psichiatra Elisabeth Kubler-Ross (1969) descrive le situazioni che ha avuto modo di osservare per molti anni: la maggior parte delle persone venute a conoscenza di avere una grave malattia incurabile reagiva secondo uno schema nel quale solo l’ultima fase implicava un contatto con la realtà. Le fasi “tipiche” da lei descritte e che riassumo sinteticamente, erano le seguenti: incredulità/rifiuto dei fatti accertati, collera, depressione e infine accettazione della realtà dolorosa. Se le persone normalmente reagiscono con incredulità, poi con rabbia, poi con depressione (cioè con una variante della rabbia) prima di arrendersi al dolore della conclusione della loro vita, è ovvio che normalmente, cioè in condizioni di salute, le stesse persone formano famiglie, allevano figli, lavorano ed eleggono i governi senza avere alcun contatto con la realtà, dato che la realtà implica anche la loro morte.
Consideriamo ora la cosa da altre angolazioni. Io non credo che tutti coloro i quali non sono “donatori d’organi” siano fermamente convinti di voler conservare nella loro bara tutti i pezzi del loro (inutile) corpo. Credo invece che siano persone che non immaginano di poter morire fra dieci anni o … domani. Per lo stesso motivo poche persone hanno depositato un testamento biologico. Le altre, ne hanno sentito parlare e … “ci penseranno”. A mio parere tutte queste “altre” persone non credono in realtà di potersi mai trovare in una situazione di “sopravvivenza forzata” in cui il testamento biologico potrebbe essere utile.
Le considerazioni fin qui svolte ci portano a riconoscere che un numero imprecisato, ma consistente, di persone non si pone affatto il problema di realizzare un progetto di vita delimitato dalla morte. Tale “implicita convinzione”, riassumibile nell’idea secondo cui “tutti muoiono … tranne me”, ha molte conseguenze terribili. Sprechiamo attimi e decenni senza impegnarci nella nostra vita, dato che “c’è tempo” e non facciamo ciò che serve per giungere alla morte senza troppi rimpianti. A mio parere, chi desidera la morte, nella maggior parte dei casi, manifesta delle difese psicologiche. Tuttavia, purtroppo, molte persone che non provano mai quel desiderio sono dissociate in altri modi dal problema della morte e non sono affatto innamorate della vita. Proprio per questo motivo si suicidano “parzialmente” ogni giorno.
Sicuramente, il suicidio assistito, ove è legalmente consentito, è scelto da chi vuole morire nel modo più semplice e indolore, ma anche da chi non è indifferente agli altri e non vuole danneggiare gli altri mettendoli in pericolo o creando traumi (eventualità non trascurabile nel caso di suicidi attuati senza alcun supporto). In genere chi desidera morire o pensa di suicidarsi è orientato a compiere questo gesto perché detesta la propria vita, la vita in generale e, quindi, anche gli altri, oppure perché ha idee o emozioni confuse. Tuttavia, si può anche desiderare la morte per compassione nei propri confronti e nei confronti degli altri (e quindi per amore). Prima di considerare più approfonditamente la questione voglio riportare alcune riflessioni di due studiosi che si sono posti tale domanda in un quadro di riferimento diverso dal mio e hanno dato una risposta che non condivido.
Il libro intitolato Il suicidio, scritto da Mario Rossi Monti e Alessandra D’Agostino (2012) merita attenzione perché gli autori cercano proprio di tracciare una distinzione fra suicidi riconducibili a disturbi mentali e suicidi comprensibili come scelte “esistenziali”. Gli Autori riportano un dato desunto da studi recenti: anche se i suicidi sono quasi sempre correlati a gravi disturbi mentali, “circa il 10% dei soggetti che muoiono per suicidio non presenta invece un evidente disturbo mentale” (op. cit. p. 37). Quindi, una piccola quota di suicidi non sembra riconducibile a considerazioni medico-psichiatriche. Tale idea sembra ragionevole, ma richiede ulteriori precisazioni. Ci sono aspetti della dimensione personale che non vengono ritenuti di competenza psichiatrica, perché frequenti (e quindi normali), ma che ben difficilmente possono essere ritenuti ragionevoli. Quindi, quel 10% che non rientra nei “casi psichiatrici” non esprime necessariamente istanze “esistenziali”, dato che può anche rientrare nella “normale follia” della società in cui viviamo. In altre parole, per capire se il desiderio di morire può davvero essere parte di una vita realmente vissuta dobbiamo identificare dei casi in cui il desiderio di morire non dipende né da gravi disturbi mentali né dalle normali difese psicologiche che comunque sono irrazionali e distruttive.
Il nodo cruciale della questione è quindi costituito proprio dal fatto che, a parte i più gravi disturbi che alterano radicalmente il contatto con la realtà, l’esistenza delle persone si dipana attraverso una fitta trama di aspetti razionali (e quindi espressivi) e di aspetti irrazionali che fin dall’infanzia hanno una funzione difensiva. In pratica, le varie concezioni psicoterapeutiche, rinunciando a distinguere la normalità dall’espressione delle potenzialità personali, non riescono a chiarire in quali casi il suicidio possa rientrare fra le opzioni di una vita pienamente vissuta. Non dobbiamo trascurare il fatto che, ad esempio, Eugenio Borgna considera la depressione come “una delle fondamentali dimensioni emozionali della vita” (2011, p. 60) e prende in considerazione, oltre alla “depressione psicotica”, quella che definisce depressione “esistenziale” e “motivata” (op. cit. pp. 60-67). In questo indirizzo “fenomenologico-esistenziale” della psichiatria manca la distinzione fra emozioni espressive e difensive e quindi manca la distinzione fra tristezza e depressione. Gli studiosi di tale orientamento hanno il lodevole obiettivo di non trattare i pazienti come “oggetti” da curare o da normalizzare, ma finiscono per manifestare “comprensione” per stati d’animo che sono solo difese dal dolore. Purtroppo, quindi, da un lato abbiamo psichiatri e psicoterapeuti “riduzionisti” che etichettano come “patologico” tutto ciò che non è “benessere” e normalità e, dal lato opposto, abbiamo psichiatri e psicoterapeuti disponibili ad accompagnare le persone nei sentieri impervi della loro emotività, ma che non distinguono fra la sofferenza dovuta all’accettazione di reali mancanze e la (pseudo)sofferenza depressiva costruita per scopi difensivi. Purtroppo, in queste concezioni non troviamo alcuno strumento valido per capire se il suicidio possa essere un’opzione razionale e compassionevole o possa essere soltanto l’esito di una reale patologia o di un atteggiamento difensivo spacciato per “scelta esistenziale”.
Per comprendere il desiderio di morire, dobbiamo fare una distinzione non speculativa, ma razionale e psicologica, relativa al vivere: quella fra vivere per amore o per paura. Se la paura limita il contatto con la vita, offusca anche l’idea della morte, che è “il perimetro” della vita. Inevitabilmente, la paura di vivere, porta sia a timori esasperati ed irrazionali di morire, sia a desideri altrettanto irrazionali di morire. L’amore per la vita inizia dove finisce il timore di sentire la vita. Le filosofie esistenzialiste focalizzate sulla “angoscia esistenziale” e le teorizzazioni psicoterapeutiche centrate su un immaginario istinto di morte sono solo alcune delle concezioni speculative volte a distogliere l’attenzione dal fatto che la vita è una cosa immensa, un oceano di sensazioni e conoscenze in cui la felicità è intensa e struggente anche se è accompagnata dal dolore. Di fatto, è possibile amare la propria vita anche in momenti di grande sofferenza, così come è possibile vivere “poco” e desiderare la morte in momenti in cui la sofferenza è modesta, ma non è gestita razionalmente. Ciò che quasi sempre genera il desiderio di morire non è, quindi, la presenza del dolore o il fatto di sentirsi poco amati, ma il fatto di amare poco per paura di sentire troppo. Proprio l’amore per noi stessi e per gli altri ci tiene attaccati alla vita nei momenti più difficili. Queste considerazioni non implicano, tuttavia, che il desiderio di morire rientri sempre e comunque in un progetto di vita difensivo. Ci possono essere situazioni non inquinate dalle difese psicologiche in cui le persone possono desiderare la morte proprio per salvare ciò che è possibile della loro vita e di quella delle persone care e in cui, quindi, la scelta di scomparire può essere un segno di pietà per sé e anche per gli altri.
Il film di Richard Attenborough Viaggio in Inghilterra, tratto dal romanzo di Leonore Fleischer (1993) aiuta a capire e a sentire che possiamo vivere intensamente anche in situazioni molto dolorose nelle quali siamo comunque necessari alle persone amate e che ci amano. Ad un certo punto, però, la donna, realmente tormentata dal dolore fisico dovuto alla sua malattia, chiede al marito di “lasciarla andare”. Tutto l’amore è già stato espresso compiutamente e i nuovi momenti aggiungono solo del dolore a ciò che è stato vissuto. Il film non tocca il tema dell’eutanasia, ma mostra che in certe situazioni è comprensibile sia il desiderio di “restare” (per amore di se stessi e degli altri), sia il desiderio di “andare via” (per amore di se stessi e degli altri).
Quando si sceglie l’eutanasia per un animale sofferente che non può guarire, si agisce per pietà e solo perché non si ha la possibilità di donare un po’ di felicità ad un animale amato. Gli animali ovviamente non chiedono l’eutanasia, ma i proprietari degli animali arrivano a tale decisione identificandosi nella sofferenza “inutile” dell’animale. Chi considera ragionevole in certi casi l’eutanasia per un animale e non per le persone manifesta un atteggiamento contraddittorio e lo fa proprio per aggrapparsi a dei “valori” e per dissociarsi dalla compassione per sé e per gli altri, e quindi dal dolore. E’ vero, la vita umana è più complessa di quella di un animale, ma anche il dolore umano può essere più complesso. Il punto della questione non sta nella differenza, indiscutibile, fra animali e persone, ma nel fatto che la stessa azione non può essere in un caso un atto d’amore e nell’altro caso un crimine. Come mai le persone contrarie all’eutanasia non fanno nulla per “donare” anche agli animali un’agonia prolungata nel tempo? Tali persone, ostinandosi a negare l’eutanasia a chi ne fa richiesta, non sentono affatto compassione, ma solo il bisogno di aggrapparsi a delle idee con le quali hanno soffocato da tempo immemorabile il loro dolore.
Non è sempre facile capire quando il desiderio di morire ha radici nell’amore per la propria vita e per gli altri e quando ha radici nella rabbia irrazionale e nella paura irrazionale. Per questo motivo le associazioni che in altri paesi si occupano dell’accompagnamento alla morte volontaria, considerano un obiettivo prioritario proprio la prevenzione del suicidio. Infatti, nei momenti in cui il desiderio di morire affiora e viene esplicitato è anche possibile che la persona possa essere aiutata a riesaminare le coordinate del proprio percorso esistenziale e possa essere dissuasa dalla decisione di concludere la vita. Il desiderio di morire è quindi un tema complesso e dovrebbe essere affrontato con lucidità, sensibilità e rispetto, sul piano psicologico. Non dovrebbe essere ricondotto agli schemi preconfezionati delle concezioni etiche o “bioetiche”. La psicoterapia potrebbe, in linea di principio, offrire chiarimenti ma, purtroppo, offrendo idee confuse sulla vita umana e sul dolore, non può certo favorire riflessioni ragionevoli sulla morte e sul modo di affrontarla.
Chi desidera morire o ha deciso di morire, spesso ha bisogno (anche se non lo sa) di essere aiutato a riflettere sulla sua vita e a valutare se può cambiare delle cose nella sua vita, anziché morire. Tuttavia, per richiedere o accettare questo aiuto ha bisogno di sapere che la sua intenzione di morire non verrà pregiudizialmente trattata come un crimine o una malattia e potrà, quindi, anche essere compresa e accettata. Per questo, proprio chi rispetta e consente il suicidio assistito da un lato rende più lieve e comunque dignitoso il trapasso di chi ha davvero deciso di morire, e da un altro lato consente a persone non davvero convinte di voler morire, di essere aiutate a cambiare idea. Se lasciate a se stesse, possono morire molte persone che avrebbero potuto essere aiutate a riesaminare le loro intenzioni.
Per alcuni studiosi le norme che vietano l’eutanasia creano un’ingiusta disparità fra persone fisicamente autonome e persone non più autonome. Esaminando il caso dei trattamenti volti a garantire la sopravvivenza, Hans Jonas ricorda che “l’impotenza del paziente, che lo mette alla mercé del medico, non dovrebbe pregiudicare il suo diritto in rapporto a quello del paziente in grado di muoversi, il quale può semplicemente alzarsi e andarsene indisturbato. (…) Sarebbe tanto ingiusto quanto illogico far scontare al paziente ‘prigioniero’ la sua impotenza fisica con la perdita di un diritto” (1985, pp. 32-33). In questa lettura viene evidenziata una grave discriminazione sociale.
Va ricordato anche un altro aspetto della questione: l’impossibilità di ricorrere all’eutanasia si intreccia con il problema del possibile “suicidio preventivo”. Consideriamo il caso di una persona colpita da una malattia incurabile e progressiva. Tale persona sa che fino ad un certo punto vivrà una vita qualitativamente peggiore di quella a cui è abituata, ma che considera ancora accettabile e sa di essere in grado di uccidersi, ma di non volerlo fare. Oltre quel punto, però, sa di essere prima o poi condannata ad una semplice sopravvivenza. Prevedendo tale situazione, pensa di non volere una vita di quel tipo, ma capisce che proprio in tale circostanza potrebbe morire solo con un’assistenza che però è per legge negata. Ora, se tale persona è determinata a vivere, ma anche a non sopravvivere con inutili sofferenze, può essere, di fatto, costretta a suicidarsi “preventivamente”, cioè in un momento in cui desidera ancora vivere. Può, quindi porre fine ai propri giorni proprio perché sta ancora bene ed ha una libertà che presto non avrà più. In altre parole, le leggi che impediscono l’eutanasia non solo impongono sofferenze prolungate a persone che preferirebbero concludere una vita ridotta ad una sequenza di giornate inutilmente dolorose per loro e per i loro cari, ma possono anche portare altre persone a concludere la loro vita prima di sperimentare una condizione di impotenza e di soggezione ai capricci etici degli altri.
La pretesa di stabilire per gli altri che il dolore non è mai troppo mi sembra talmente violenta da giustificare il timore di una possibile costrizione a vivere per forza in una società che con la scienza allunga la durata della vita, ma per motivi “bioetici” impone una vita ridotta a dolorosa sopravvivenza. Umberto Veronesi riconosce che se la medicina è riuscita a risolvere problemi un tempo irrisolvibili ha anche creato un problema nuovo: la “paura di sopravvivere oltre il limite consentito dalla dignità personale, dal nostro desiderio, dalla nostra capacità di sopportare sofferenze fisiche e mentali” (2005, p. 101). Questa doppiezza della medicina che può salvare vite con strumenti sempre più raffinati, ma può anche condannare le persone ad agonie interminabili genera un profondo e giustificato timore nei confronti della medicina. Il buon senso richiede che la società disapprovi solo le azioni criminose. Purtroppo a volte la società si assume il compito di regolamentare, ostacolare o punire comportamenti che riguardano essenzialmente la dimensione personale. In passato, prima della legalizzazione del divorzio, la società si intrometteva nella vita sentimentale delle coppie e anche sul problema dell’interruzione delle gravidanze ci sono state fortissime pressioni sociali sulle scelte personali. Oggi l’autoritarismo sociale continua ad intromettersi nello spazio privato in cui le persone decidono se vivere o morire.
Nel caso dell’eutanasia e del suicidio assistito, la società impone i “valori” di alcune persone con leggi valide per tutti in relazione ad ambiti indiscutibilmente delicati e privati. La cosa è inquietante, ma riflette una mentalità che ha radici antiche. La società calpesta con i “valori” educativi il piacere e il bisogno di sicurezza dei bambini, calpesta con l’etica la dimensione emotiva degli adulti e calpesta con l’idealizzazione della sopravvivenza biologica la libertà di chi vuol concludere dignitosamente una vita che non ritiene più accettabile. Il mondo interiore delle persone è così grande e appassionante che si può ragionevolmente apprezzare la vita anche solo per scambiare un sorriso con una persona amata o per riordinare i ricordi belli con gioia ed i ricordi dolorosi con compassione. E’ però anche possibile che le persone care non ci siano più, oppure che per donarci un sorriso anche loro debbano privarsi di molte cose. In altre parole, non è ragionevole pensare che qualsiasi desiderio di morire sia difensivo.
Siamo tutti unici e differenti, pur essendo tutti umani e quindi possiamo avere idee diverse su quale sia una vita accettabile. Forse non vivremo mai in un mondo davvero “umano”, ma nel mondo in cui ci è dato vivere abbiamo la possibilità di mantenere un dialogo interno sincero e di costruire relazioni interpersonali autentiche. Gli sforzi con cui i nostri simili si adoperano per rendere invivibile fin dall’infanzia la nostra vita (e a volte anche la nostra morte), non possono cancellare la nostra esigenza di pensare alla vita e alla morte prescindendo dalle “ideologie prevalenti”. Per questo abbiamo bisogno di riflettere sulla nostra vita, sulla nostra morte e sul tipo di vita che consideriamo “nostra” e quindi vivibile.
Io non so se Lucio Magri abbia compiuto l’ultimo suo viaggio in Svizzera perché era depresso, come alcuni giornalisti hanno scritto. Non conoscendo nulla di preciso non voglio inventare ipotesi che comunque non sarebbero giustificate. Il fatto però mi ha colpito molto perché quella persona è stata uno dei miei punti di riferimento negli anni della gioventù. Scriveva cose difficili per un ragazzo, ma scriveva cose difficili perché toccava temi complessi. Mi ha insegnato a immaginare una società non facilmente realizzabile e poco conta che la “sua” società comunista fosse troppo libera e troppo giusta per essere alla portata di politici ottusi e di masse drogate di idee normali. Sono affezionato al suo sogno anche dopo decenni spesi a capire che gli esseri umani hanno troppa paura e troppa rabbia per realizzare a livello sociale i sogni più belli. E’ già molto se realizzano qualche sogno nei rapporti con le persone più care. In ogni caso, non posso non collegare quel discreto ma autorevole studioso e uomo politico all’amore per la vita. Il mio amore per la vita ha preso forma anche grazie al suo modo di immaginare un mondo migliore per tutti e di valutare nei dettagli quali contraddizioni sociali e quali interlocutori potessero favorire un cambiamento. Sezionava come un chirurgo tutte le pieghe della società per trovare qualcosa su cui fosse possibile far leva per cambiare le regole del gioco e rendere più libera e felice la convivenza sociale.
Anche se le varie società continuano a stabilizzare la paura e la rabbia nelle persone, il cambiamento resta possibile almeno nelle vite di chi osa sognare cose belle e riesce ad esprimere sentimenti limpidi. Magri ha vissuto con la libertà di studiare i fatti per immaginare delle possibilità e gli sono grato per la sua testimonianza di questa libertà. Era sicuramente stanco. Non so nulla delle sue vicende interiori, ma so che fino all’ultimo ha manifestato un affetto sincero per gli altri e una determinazione a mantenere i propri impegni. Soprattutto l’impegno preso con la sua compagna. Infatti, nel libro pubblicato poco prima della sua morte ha inserito alcune parole non consuete nei testi dedicati a temi politici.
“Arrivo ora all’ultima tappa del mio lavoro: la fine del Pci. Ci arrivo in condizioni pessime. Anzitutto, e soprattutto, perché, dopo un breve intervallo, riprendo la penna in mano nel momento in cui vivo un dramma personale profondo. E’ scomparsa la mia amatissima compagna, Mara: non solo un dolore ma un’amputazione di me stesso, che non si rimarginerà, rende opaca l’intelligenza e fiacca la volontà. E proprio sul letto di morte mi ha imposto la promessa di continuare a campare senza di lei almeno fino a quando non avrò finito il lavoro che avevo cominciato durante gli anni delle sue sofferenze. E so che se lo sospendessi ora non sarei più capace di mantenere la promessa. In secondo luogo, per caso, mi trovo ad affrontare il tema più complesso, a sua volta doloroso, della fine del Pci proprio nel momento in cui non il Pci ma l’intera sinistra sembra scomparsa, o è in totale confusione” (2009, p. 387).
Non ha senso parlare di depressione sulla base delle “impressioni” dei conoscenti, dato che anche i professionisti della psiche spesso non distinguono la tristezza dalla depressione. Non è comunque scontato che alla soglia degli ottant’anni una persona abbia ancora la determinazione a vivere di ricordi e ad impegnarsi per nuovi obiettivi. Le vite sono complesse e mai compiutamente comprensibili, ma credo che possa essere umana e non solo depressiva la stanchezza di chi è rimasto solo ed ha di fronte una manciata d’anni da trascorrere presumibilmente fra le braccia del sistema sanitario e sotto la cappa di una società assurda.
In Italia non è possibile essere aiutati a morire in modo discreto e dignitoso e si deve vivere “per forza” se una malattia immobilizza il corpo, oppure si deve “far da sé”. Magri ha mantenuto il suo rispetto per le persone evitando di imporre agli altri la scoperta del suo cadavere e ha accettato l’aiuto di persone di un altro paese per andar via nel modo garbato con cui era stato fra noi. Forse era depresso, ma probabilmente era solo triste e sentiva di aver completato il suo viaggio. Sicuramente a me piacerebbe vivere in un mondo pieno di persone “depresse” in quel modo. Nella realtà, la vita e la morte si intrecciano e le nostre idee, i nostri sentimenti e i nostri desideri relativi al vivere e al morire sono lo specchio del nostro rapporto con noi stessi.