In
questo capitolo non mi occuperò dei pensieri di suicidio che a volte si
presentano in stati di grave disordine mentale e che quindi dipendono da
patologie del sistema nervoso o da disturbi psicologici che si sono aggravati
al punto da alterare il basilare contatto con la realtà. In questi casi la
cieca tendenza autodistruttiva rende necessari interventi farmacologici e non può essere esaminata sul piano dell’intenzionalità difensiva, anche se il confine fra
reali patologie e disturbi psicologici può non essere netto. Ciò che ora voglio
prendere in considerazione è il desiderio di morire manifestato da persone che ragionano o sragionano normalmente sulla
loro vita e sulla loro morte. Credo che l’idea del suicidio si presenti più spesso di quanto si riconosce e che
in molti casi si presenti confusamente, senza cioè una reale intenzione di
concludere la vita. In altre parole, l’idea del suicidio è più frequente, ma
anche meno frequente di quanto si pensa. Credo inoltre che il desiderio di
morire sia quasi sempre espressione
di difese psicologiche, ma che anche l’ostinazione a sopravvivere senza amarsi
e senza amare nessuno sia espressione di gravi difese psicologiche.
Esaminando
vari aspetti della questione cercherò di evidenziare
l’irrazionalità della pretesa di trattare in chiave “bioetica” questioni
delicate come l’eutanasia ed il suicidio assistito. Cercherò quindi di chiarire che i
vari modi di intendere e fraintendere la morte sono una diretta conseguenza dei
più generali modi espressivi o difensivi
di vivere e di concepire l’esistenza umana. A mio parere, la normale
dissociazione dal dolore determina molte idee irrazionali sul vivere e sul
morire e proprio per questo motivo è possibile comprendere il desiderio di
morire manifestato in certe situazioni da alcune persone solo se si rinuncia a giustificare o a condannare e se si prendono in considerazione le emozioni
accettate o negate dalle persone. Anche sul tema della morte la normale
irrazionalità individuale ha prodotto gravi forme di irrazionalità
consolidatesi nella cultura accademica e popolare, nelle leggi e nel modo in
cui la società tratta le persone. Sul piano culturale la confusione fra
depressione e dolore (presente anche nelle concezioni psicoterapeutiche)
determina riflessioni sul tema molto confuse, mentre sul piano pratico, la
normale non accettazione della morte si traduce in forme di autoritarismo che
calpestano sia il desiderio di vivere in modo soddisfacente, sia il desiderio
di non continuare a vivere in modo inaccettabile.
Alcune
vicende toccanti e terribili (come quelle di Eluana Englaro e Piergiorgio
Welby) hanno sollecitato accese polemiche sui giornali e negli spazi
televisivi. Le persone più convinte di rappresentare una "sensibilità etica" superiore non hanno esitato ad utilizzare il termine “omicidio” quando si
valutava la possibilità di “staccare la spina”. Tali fatti hanno rivelato uno
strano paradosso: una parte molto rilevante della società, normalmente
indifferente alle vite degli altri, diventa stranamente determinata a mantenere
in vita artificialmente chi non vuole più valersi di congegni che prolungano
un’agonia Tali vicende hanno dato impulso alle richieste di riconoscimento del
testamento biologico e tali richieste hanno prodotto un ulteriore irrigidimento
dei “sostenitori della vita”. Va sottolineato il fatto che questi “sostenitori”
quasi sempre esprimono una concezione religiosa che include l’idea della “non
disponibilità” della vita, compresa la propria vita. Secondo tale posizione, la
vita è un dono, ma non è a nostra disposizione e non siamo quindi liberi di
decidere se vivere o morire. Il paradosso del dono che però non è un vero dono,
dato che non è a disposizione di chi lo riceve, ha come esito ultimo l’idea che
la società debba impedire la morte a chi non vuole più vivere.
La
questione però è più complessa, perché anche le persone orientate ad accettare
l’eutanasia in presenza di malattie gravi, incurabili e tali da causare intense
sofferenze, non sempre riconoscono la stessa legittimità alla richiesta di un
riconoscimento del “suicidio assistito”. Il suicidio assistito di Lucio Magri,
ha infatti spiazzato anche persone propense a respingere l’accanimento
terapeutico. Sul “suicidio assistito” di Lucio Magri in Svizzera ho letto
testimonianze di rispettosa comprensione, di rispettoso dissenso ed anche
commenti decisamente sprezzanti. Le considerazioni che maggiormente mi hanno
rattristato sono riconducibili all’assunto secondo cui i medici devono guarire,
non uccidere, e quindi chi si vuole
suicidare si deve arrangiare. La brutalità di questo sillogismo zoppo,
riflette una mentalità che non contempla la complessità della dimensione
interiore delle persone e che nega persino dei fatti gravissimi e
indiscutibili: alcune persone non hanno la capacità fisica di “arrangiarsi” e anche
chi ha tale capacità, se ricevesse un aiuto potrebbe morire più serenamente. La
tolleranza sociale per l’eutanasia e il suicidio assistito non è, quindi, da
intendere come un semplice corollario di una concezione politica libertaria, ma
è da intendere come l’espressione di un autentico rispetto sia del bisogno
delle persone di vivere la loro vita, sia del bisogno di non vivere una vita
decisa dagli altri.
Io
non credo che “staccare la spina” a chi la vuole staccata, ma non è in grado di
staccarla, costituisca un omicidio. Lascio queste semplificazioni agli esperti
di “psico-terrorismo” che non mi sembrano mossi da compassione per sé e per gli
altri, ma da scopi oscuri di cui loro stessi non hanno alcuna consapevolezza.
Credo, in ogni caso, che il problema della vita e della morte sia un problema
che può trovare risposte rispettose solo se viene posto su un piano razionale e
con un minimo di sensibilità. E’ sicuramente difficile che chi desidera morire
sia libero da difese psicologiche, ma è pure difficile che sia libero da difese
psicologiche chi discute in merito al desiderio di morire manifestato in modi
ragionevoli da altri. Il paradosso delle risposte sociali ai più complessi
drammi individuali, sta nel fatto che chi ha l’autorità ed anche il potere di
dare risposte non è necessariamente più saggio di chi pone i problemi. Le
persone vivono vite reali, spesso sperimentano emozioni rattrappite, ma a volte
toccano o sfiorano anche stati d’animo limpidi. Spesso gioiscono e soffrono in
modi superficiali o confusi, ma possono anche essere felici e soffrire
intensamente. In ogni caso, se si suicidano, purtroppo, muoiono davvero e tale
tragica realtà dovrebbe indurre le persone insensibili a tacere o a misurare le
parole, ma proprio la loro insensibilità attiva il loro bisogno di “esprimere
un punto di vista” o di fare una “battaglia”.
Non
a caso, nella storia, le risposte sociali al suicidio sono state a volte
addirittura grottesche. Si consideri, ad esempio, la realtà che si presentava
nel XVIII secolo in Inghilterra: il suicidio era vietato per legge e,
ovviamente, le persone che si suicidavano non potevano essere punite. Se però
un suicida falliva nel tentativo, veniva condannato … alla pena di morte! (cfr. Monti, 2010, p. 65). Nel secolo XIX il tentato suicidio era punito
penalmente in vari paesi dell’Occidente e in alcuni di essi i beni delle
persone che si erano suicidate venivano confiscati e sottratti, quindi, ai
famigliari. Anche il divieto di sepoltura nei luoghi consacrati rientrava nella
stessa logica (cfr. G. Fornero, 2005, p. 170).
La
posizione davvero “prevalente” è quella che si riassume nel non voler prendere
in considerazione la morte. Un fatto inequivocabile depone a favore di questa
affermazione: “soltanto l’8 per cento di quanti arrivano nelle terapie
intensive ha dato chiare indicazioni su quali trattamenti intende accettare e
quali rifiutare, percentuale che raddoppia se si tiene conto delle disposizioni
dei familiari. (…) Il restante 84 per cento affida la propria sorte ai medici:
fate di me ciò che (in scienza e coscienza) credete. (…) Tutto è nelle mani dei
sanitari: tocca a loro stabilire il momento in cui un trattamento diventa
inutile e si trasforma in accanimento terapeutico. Persino negli Stati Uniti,
che dal 1991 hanno una legge federale sulle direttive anticipate, le
percentuali non si discostano di molto: solo il 10 per cento degli americani ha
provveduto a scriverle” (Monti, 2010, pp. XII-XIII). Tali dati portano a
concludere che persino una legge sul testamento biologico tutela solo le poche
persone disposte a porsi il problema. Ciò significa che anche le questioni più
delicate, che non sono “etiche”, ma emozionali e quindi psicologiche, come
quelle riguardanti l’eutanasia ed il suicidio assistito cadono nell’indifferenza
generale. Chi, per motivi più o meno ragionevoli, desidera morire “deve
arrangiarsi” non perché il suo problema sia irrilevante e non possa
interessare gli altri, ma perché la società evita da sempre le questioni
importanti per la vita delle persone. La società in cui viviamo riconosce
il bisogno di cibo, di cure mediche, di lavoro, di giustizia, di conoscenza,
ecc. Tale società, però è organizzata in modo da non dare risposte adeguate
nemmeno a questi problemi “riconosciuti”. Il problema della fame nel mondo è
“oggetto di dibattito”, ma non è una priorità per nessuno, tranne che per gli
affamati, i quali, quindi, “si arrangiano” e in genere muoiono di fame. In una
società di questo tipo, a maggior ragione, esigenze meno ovvie di quelle di mangiare
o di lavorare, difficilmente possono trovare un’adeguata comprensione e
risposte ragionevoli.
Credo che la vita meriti di
essere vissuta nonostante il dolore che comporta e che siano soprattutto le
difese psicologiche a produrre a volte l’impressione che essa non abbia alcun
senso. Tuttavia, penso che in particolari circostanze il percorso
della vita possa essere considerato un’esperienza conclusa e quindi da
interrompere, anche da chi non sta attivando delle difese psicologiche. Non
sono interessato ad “affermare” una posizione ideologica, ma voglio fare
qualche riflessione sulla vita e sulla morte per evidenziare proprio quegli
aspetti che le ideologie tendono a trascurare. Irvin D. Yalom ha scritto:
“Sebbene la realtà fisica della morte ci distrugga, l’idea della morte può salvarci”
(2002, p. 126). Proprio la stretta connessione fra vita e morte e fra
consapevolezza della vita e della morte deve, a mio parere, essere tenuta
presente nelle riflessioni sul desiderio di morire.
Manca
una definizione condivisa dei termini “eutanasia” e “suicidio assistito”.
L’Associazione “Dignitas - vivere degnamente - morire degnamente”
considera il termine “eutanasia” poco preciso e per i servizi che fornisce
utilizza l’espressione “accompagnamento alla morte volontaria”. Tuttavia sia
nei testi dedicati all’argomento, sia nei giornali, il termine è utilizzato,
come pure è utilizzato il termine “suicidio assistito” per quelle modalità di
suicidio non praticabili senza la collaborazione di un medico. Chi utilizza le
espressioni “eutanasia” e “suicidio assistito”, inoltre, distingue fra
interventi attivi, passivi, diretti o indiretti. Il tema è complesso e le leggi
sul tema sono molto diverse nei diversi paesi. Poiché non voglio toccare le
questioni giuridiche, utilizzerò le espressioni che abitualmente ricorrono
nelle pubblicazioni sul tema e utilizzerò il termine “eutanasia” per riferirmi
solo ad interventi (richiesti dal soggetto) volti ad interrompere una
situazione di estrema sofferenza dovuta ad una malattia incurabile in stato
avanzato, mentre con il termine “suicidio assistito” mi riferirò più in
generale al suicidio attuato da una persona grazie ad un
aiuto sul piano medico.
Karl
Jaspers ha affermato un secolo fa che “Il suicidio non è, come tale, un segno di anormalità psichica,
ma la maggior parte dei suicidi appartiene a quei tipi di personalità che hanno
avuto bisogno dello psichiatra, o che soffrono di malattie reali. Perciò la
statistica dei suicidi è in certo senso una misura della frequenza degli stati
psichici anormali” (1913, pp. 791-792). Tale valutazione è sostanzialmente la
stessa degli studiosi contemporanei. Tuttavia, su questa base si giunge
facilmente a concludere che il desiderio di morire non sfiori quasi mai le
persone. Se i suicidi sono pochi e se solo una minima parte di essi non è
riconducibile alla psicosi, si deve concludere che il desiderio di morire
normalmente non abbia molto a che fare con la vita reale delle persone. L’idea
non è convincente, perché, se consideriamo anche i desideri impliciti o
inespressi di morire, ci accorgiamo di un fatto curioso: la morte è molto spesso ritenuta preferibile alla vita, o ad un certo tipo di vita o alla semplice
sopravvivenza.
Tutto
l’ambito delle difese psicologiche è un ambito di morte. Morte parziale, ma morte.
Con l’attivazione delle difese psicologiche ci dissociamo da esperienze
dolorose che ci appartengono e diventiamo impermeabili a nuove situazioni
dolorose che potrebbero rimetterci in contatto con il nostro antico dolore.
Inevitabilmente diventiamo impermeabili anche ad esperienze positive. In tal
modo uccidiamo molte sensazioni, riflessioni, emozioni, azioni ed anche tutte
le loro possibili conseguenze. Restiamo vivi, ma nel perimetro angusto
costituito dalla nostra indifferenza. Restiamo “mezzi vivi e mezzi morti”. In
questo caso, il suicidio non è completo, ma è un suicidio. Non è consapevole, ma è agito. Non è noto ad altri, ma incide sulla nostra vita e anche
sulle vite degli altri. Molti si suicidano “parzialmente” con l’indifferenza,
con la superficialità, con il lavoro, con la malvagità, con l’adesione ad ideologie “comode”, con
il “non pensare” né alla morte né alla vita. Molti si suicidano parzialmente
inseguendo illusioni e molti si suicidano parzialmente esprimendo intensamente
emozioni difensive, affermando convinzioni irrazionali o impegnandosi per
obiettivi fondamentalmente distruttivi.
Può
sembrare un po’ forzata l’operazione di concepire le difese psicologiche come
un suicidio parziale, ma purtroppo non c’è alcuna forzatura, a meno che non si
identifichi la vita umana con la sopravvivenza. Solo in questa interpretazione
limitativa dell’esistenza chi non si uccide materialmente non si suicida. La
prova di ciò è costituita dalle testimonianze di alcune persone che hanno
tentato il suicidio, fallendo, e che poi hanno lavorato in analisi sulla loro
vita, cioè sugli anni trascorsi prima di tentare il suicidio. Irvin Yalom
(1980, pp. 33-35) fornisce dei resoconti molto significativi di questa presa di
coscienza: prima le persone non vivevano “realmente”, ma vivevano una vita
rattrappita, di cui il tentativo di suicidio era, in fondo, solo una
conseguenza meccanica. Analoghe riflessioni emergono da persone che hanno
sfiorato accidentalmente la morte e si sono accorte di non aver mai percepito
prima l’importanza della loro vita. La differenza fra il suicidio psicologico e
quello “operativo” è quindi quantitativa e se i moralisti fossero interessati
a capire anziché a non capire le scelte delle persone, si
preoccuperebbero di questa strage
quotidiana più che dei casi, tutto sommato abbastanza rari, in cui le
persone si suicidano davvero o chiedono alla società di essere aiutate a
concludere la loro vita.
Se
i “suicidi parziali” (psicologici) sono purtroppo molto diffusi, altri suicidi
(reali) sono diffusi ma non sono classificati come suicidi, perché vengono
considerati “scelte esistenziali”. In tali scelte, però, è implicita la disponibilità a morire pur di non vivere
“un certo tipo di vita”. In questa prospettiva molti casi di morte
interpretati come “tragica fatalità” o “decisione eroica” sono, a rigore, dei
suicidi programmati o almeno “messi in conto”. Se noi potessimo in punto di
morte sopravvivere prendendo il posto di un’altra persona giovane, sana e
magari piena di qualità, probabilmente respingeremmo tale opportunità. Forse
potremmo essere tentati dalla possibilità di sopravvivere in un altro corpo, o
almeno in un corpo per noi accettabile, ma mantenendo la nostra soggettività.
Difficilmente però vorremmo sopravvivere sperimentando la vita di un’altra
persona. Come mai? Il nostro rifiuto (e la conseguente scelta di morire anziché
sopravvivere) si baserebbe sul rifiuto di vivere una vita “non nostra”. La vita
che l’altra persona (in cui dovremmo “calarci”) considera “propria” ci
risulterebbe intollerabile non necessariamente perché “sbagliata”, ma perché
“non nostra”. Ciò significa che noi abbiamo
un’idea della nostra vita a cui siamo legati più di quanto siamo legati alla
nostra sopravvivenza. Ora, posto che abbiamo, almeno implicitamente,
un’idea di ciò che può essere e non essere la “nostra” vita, dobbiamo
riconoscere che il desiderio di morire, in certi casi, può far parte del
semplice vivere, se la realtà ci porta ad una sopravvivenza inconciliabile con
la nostra idea di vita.
C’è
una distinzione psicologica molto importante da fare, che riguarda i motivi per
cui consideriamo “nostra” la nostra vita: a volte tali motivi si radicano nel
contatto con noi stessi e con la realtà e altre volte tali motivi sono
irrazionali e difensivi. La persona che desidera morire perché non accetta di
aver commesso un errore o perché con l’età ha perso la bellezza di un tempo,
ovviamente manifesta un desiderio irrazionale e difensivo di morire perché si
identifica in alcuni dettagli di sé o in un’immagine idealizzata di sé, ma non
possiamo affermare che il desiderio di morire sia sempre e comunque frutto di
un equivoco o di un’illusione. Quante persone nei panni di Piergiorgio Welby
non si sarebbero poste il problema che egli si è posto? Ciò induce a pensare
che molte persone che nemmeno immaginano di poter desiderare l’eutanasia o il
suicidio assistito prenderebbero in considerazione tale possibilità se avessero
la sfortuna di fare esperienze che solo per caso e per fortuna non fanno.
Nella
“realtà reale”, abbiamo modo di osservare (se stiamo attenti) che con le loro
scelte pratiche moltissime persone
dimostrano di “preferire la morte ad un
certo tipo di vita”. Anche se non esprimono in senso stretto un desiderio
di morire, manifestano una esplicita tolleranza per l’idea di morire pur di non vivere un certo tipo di vita.
Il caso più evidente è quello delle tante persone che nella storia si sono
volontariamente arruolate in un esercito impegnato in una guerra già dichiarata
o che hanno aderito ad un movimento rivoluzionario. Chi va in guerra o “si
espone” in una rivoluzione, non solo “rischia” la morte: se non sopravvive
muore davvero. L’espressione “rischiare la morte” è ipnotica e confusiva perché
fa pensare che si scelga solo il rischio, mentre il rischio dura poco: entro
una settimana o un anno si torna a casa oppure si è morti davvero. Per questo
motivo siamo costretti a riconoscere che chi sceglie di rischiare la propria
vita afferma implicitamente che preferisce morire piuttosto che vivere restando
indifferente a certe vicende. Poco conta che la guerra o la rivoluzione siano
ragionevoli o assurde: per chi si coinvolge sono non solo ragionevoli, ma più
importanti della sopravvivenza.
Anche
in situazioni di altro tipo si attua la stessa scelta: ci sono persone che non
accettano un ricatto o non cedono ad una minaccia e vengono uccise. Si può dire
che hanno solo rischiato di morire o che hanno affermato la propria dignità.
Tuttavia, in questi casi le persone si trovavano ad un bivio e hanno scelto la
direzione che sicuramente salvava la loro dignità anziché la loro vita. Altre
persone in situazioni analoghe si sarebbero adattate, si sarebbero piegate e
sarebbero rimaste vive. Anche la guardia del corpo che si lancia sulla persona
che deve proteggere e riceve la pallottola al suo posto non agisce così
semplicemente perché ciò fa parte del suo lavoro: agisce così perché preferisce
morire rispettando gli impegni presi piuttosto che sopravvivere. Egli
considera quella morte come l’ultimo momento di una vita “propria” e la
possibile sopravvivenza come una vita “non propria” e quindi “invivibile”.
In questi casi, la differenza significativa riguarda i motivi (razionali o
difensivi) per cui consideriamo “nostra” una certa vita e “non nostra” un’altra
vita. Abbiamo gli esempi di magistrati che hanno rischiato di morire e sono
anche morti davvero per combattere la mafia, ma abbiamo anche gli esempi di
mafiosi che hanno rischiato la vita e sono anche morti davvero pur di sentirsi
e dimostrarsi “uomini d’onore”. La differenza è abissale, ma è una differenza
che riguarda il percorso della vita, non la decisione di “morire pur di non
vivere in un certo modo”. In fondo,
tutti siamo disposti a vivere solo a certe condizioni e solo per un equivoco intenzionale e
difensivo fingiamo di non conoscere questo fatto. Tale finzione ci porta a
considerare il desiderio di morire e il desiderio di non vivere a certe
condizioni, come questioni che riguardano solo i pazzi e una manciata di
persone un po’ strane.
Nella
battaglia delle Termopili e ad Alamo, secondo gli storici, molte persone
morirono “eroicamente”. Di fatto tali persone trovarono delle ragioni valide
per morire e per non fuggire o arrendersi. Alcune persone possono aver scelto
quel suicidio per amore di un ideale (e quindi per amore della loro vita e dei
loro compagni) ed altre possono anche averlo scelto solo per timore di essere
considerate codarde (e quindi per odio nei confronti di loro stesse). La stessa
scelta può derivare dall’amore o da una paura irrazionale, ma in entrambi i
casi è una scelta. Solo per la paura di riconoscere quanto la morte
“attraversi” le nostre scelte di vita, abitualmente non parliamo di suicidio in
tutti i casi in cui si rischia la vita.
Su
tale questione la speculazione etica riesce a creare molta confusione. I
moralisti respingono l’idea che rischiare la propria vita a favore degli altri
sia fondamentalmente un suicidio e, anzi, definiscono tale scelta come una
nobile scelta “morale” o un sacrificio altruistico compiuto proprio da chi
vorrebbe vivere. In questa lettura bizzarra della realtà, la persona “eroica”
non vuole morire, ma pur di salvare gli altri è disposto a “rinunciare” alla
propria vita. Il ragionamento è più fine di quelli delle tecniche di vendita,
ma è egualmente manipolativo. Esso violenta i fatti. L’eroe non sceglie fra la propria vita e quella
degli altri, ma fra vivere una
(propria) vita sicura che però non favorirebbe gli altri e una (propria) vita
breve dedicata agli altri. L’eroe
può scegliere solo in merito alla propria vita, come il suicida “comune”.
L’eroe, sacrificandosi per gli altri, afferma di non trovare
accettabile una vita non dedicata agli altri. Fa quindi una scelta relativa alla propria vita come chi chiede l’eutanasia o il suicidio
assistito: respinge una vita più lunga ma inaccettabile e sceglie una vita
più breve, ma a suo giudizio degna di essere vissuta. Credo che nessuno abbia
il diritto di stabilire in generale per cosa valga o non valga la pena di
vivere o morire o rischiare la propria vita. Ognuno decide sulla base della
propria capacità di amare e delle proprie difese psicologiche. Queste
considerazioni ci costringono ad ammettere che le persone accettano spesso di
morire piuttosto che vivere in un certo modo e che quindi il problema
“bioetico” focalizzato sull’eutanasia e sul suicidio assistito nasconde
semplicemente la realtà: una realtà in cui le persone consapevolmente o
inconsapevolmente decidono sempre e
comunque di vivere o di morire. Una realtà disconosciuta dai moralisti. Una realtà "reale" che non coincide con il "mondo dei sogni" costituito dal normale modo di "vivere poco": una realtà, quindi, su cui non hanno molto da dire gli stessi psicoterapeuti.
Dopo
aver chiarito in che senso il desiderio di morire è molto più diffuso di quanto
si crede, vorrei chiarire in che senso, invece, è meno diffuso di quanto si crede.
Molte
persone dichiarano alle persone “care” di desiderare la morte senza avere
alcuna intenzione di por fine ai loro giorni e provando solo il desiderio (non
conscio, in genere) di aggredire gli altri per ottenere attenzione. Tra le
persone che “recitano” il desiderio di morire, vanno incluse tutte quelle
(soprattutto anziane) che pur lamentandosi e dichiarando che vorrebbero morire,
in realtà richiedono continuamente visite mediche o accertamenti e assumono
diligentemente tutti i farmaci prescritti, dato che nessun malato grave e
realmente desideroso di morire sarebbe tanto ansioso di curarsi. Queste
“recite” non riflettono un’intenzione cosciente di ingannare o far soffrire gli altri: le
persone che agiscono in questi modi stanno davvero male, soprattutto perché si
fanno del male e aspirano ad un un benessere che nemmeno riescono a
definire. In pratica, se da giovani e piene di salute potevano dire “la vita è
uno schifo”, da anziane e malate possono dire che la morte sarebbe una
liberazione, ma anche in tal caso non affermano nulla di sentito. Non sentono
ciò che dichiarano, ma si ostinano a sentire “poco”. Sentono il malessere
risultante dalla rabbia che attivano e disconoscono. Sono quindi persone che
non si amano, non amano, non provano veri interessi o entusiasmi e pretendono
di “ricevere” quella felicità che nel mondo dei grandi può solo essere
costruita. Soffrono “inutilmente” pur di non soffrire realmente e rinunciano a
gioire, perché la vera gioia le esporrebbe anche alle vere sofferenze mai
accettate e mai superate. Per questo motivo, tali persone non vanno sicuramente
“comprese”, ma nemmeno svalutate, dato che non sanno davvero perché fanno ciò
che fanno. Avrebbero bisogno di un aiuto, ma proprio di quell’aiuto che non
cercano. In ogni caso non vanno incluse fra le persone che desiderano morire.
Se
non dobbiamo includere fra le persone che desiderano morire quelle che si
limitano a recitare (ai limiti della consapevolezza) tale desiderio, non
dobbiamo nemmeno includere molte persone che progettano o attuano un suicidio,
ma hanno idee confuse e distorte sulla morte. Per tale confusione-distorsione
desiderano “qualcosa”, ma non la morte. A volte si uccidono davvero, ma
in tal caso, in fondo, si suicidano “per errore”. Proverò ad esemplificare
questa situazione. Alcune persone considerano insopportabile la vita in quanto
fonte di sofferenze e desiderano “avere una tregua, una pausa,
un’interruzione”, ma non hanno ben chiaro che la morte non è una tregua, una
pausa, un momento di pace, perché è la fine della “guerra” … e anche della
pace. E’ la fine e basta. Ciò vale anche per gli spiritualisti convinti o per
le persone religiose (normalmente più conformiste che “convinte”). Anche le persone che considerano questa vita un aspetto di una totalità più “ampia”, da qualche parte
sanno che con la morte, questa vita, la
vita in cui “si riconoscono”, si concluderà. Qualsiasi ipotizzata esperienza
“ulteriore”, proprio in quanto “altra” non può ragionevolmente essere concepita
come un proseguimento meno frustrante di questa
vita. Ciò vale, quindi, per gli atei, per i credenti e per gli spiritualisti
non religiosi. Morire non equivale a non soffrire, ma a non essere più
nell’unica vita conosciuta. Il “nulla” o il “totalmente altro” non sono
ragionevolmente concepibili come una “pausa” di (questa) vita. Da ciò deriva
che tutte le persone che desiderano morire con tale confusione in mente,
desiderano qualcosa che definiscono “morte”, ma che non ha nulla a che fare con
la morte. Non solo: le persone che si uccidono con questa confusione in mente,
si uccidono davvero e trovano la morte, ma sicuramente non ciò che cercavano.
Molti suicidi, in altre parole, sono il risultato di un equivoco, piuttosto che
di una decisione di concludere l’esperienza personale del vivere. Come non
consideriamo omicidio quello di chi si addormenta guidando e causa la morte di
altre persone, non dovremmo considerare veri suicidi quelli attuati per
sperimentare “una pausa” (cioè di una delle possibilità di questa vita).
Molti
clienti hanno discusso con me il loro desiderio di morire, ma mi hanno fatto
capire che avevano in mente solo una confusa ribellione alla loro vita, ad una
vita che non dava risposte a certi bisogni. Non avevano in mente l’eventualità
di non pensare, non sentire, non ricordare, non sperare, non toccare, non
aiutare, non essere aiutati. Avevano in mente una vaga ostinazione a “reagire”
esasperando un antico modello difensivo che caratterizzava il loro modo di
vivere, ma che non aveva nulla a che fare con il reale desiderio di non vivere
più. In casi di questo tipo, ciò che serve è una comprensione della rabbia
irrazionale e quindi difensiva attivata nei confronti di una realtà dolorosa.
La rabbia serve per cambiare le cose e non serve quando le cose non possono
essere cambiate. Le situazioni dolorose e immodificabili vanno accettate,
perché il non farlo equivale ad un rifiuto di sé e del proprio dolore. Inoltre,
in questi casi è molto utile una comprensione del tipo di desiderio che non
riceve risposta. In genere non è un desiderio sorto nel presente, ma è un
desiderio che ha radici antiche, anche se è tuttora percepito intensamente.
Tale desiderio “antico” che permane, va capito, rispettato, accettato, ma va
accettato assieme all’impossibilità di un appagamento. In questi casi la rabbia
e la lotta non servono, perché le persone hanno solo bisogno di abbracciarsi e
di lasciarsi andare al pianto.
A
volte la rabbia (difensiva e irrazionale) che apparentemente attiva il
desiderio di morire non è “vaga” o “diffusa”, ma è focalizzata su qualche
persona. Una cliente mi disse di pensare che se si fosse suicidata finalmente
la madre si sarebbe ripresa tutti i sensi di colpa che le aveva “trasmesso”. Le
ho chiesto da dove avrebbe osservato la scena e, dopo un attimo di perplessità,
ha risposto “Cazzo, io sono atea! Non credo di poter osservare proprio nulla da
morta!”. Le ho fatto notare che, anche se fosse credente, dovrebbe ipotizzare
di aver cose più interessanti da fare nell’aldilà. Abbiamo riso un po’ e siamo
quindi tornati al vero tema della seduta, che in realtà non era il desiderio di
morire, ma la rabbia che aveva attivato dopo aver generato (per propria scelta)
i sensi di colpa. Se un conoscente l’avesse colpevolizzata per il fatto di
non essere vegetariana, lei non avrebbe costruito alcun senso di colpa, perché
con i sensi di colpa restava “legata” alla madre. Certi biglietti lasciati a persone
accusate di “aver rovinato la vita”, evidenziano tale dinamica. Tale rabbia è
irrazionale, perché serve solo ad evitare la consapevolezza di un dolore. Ovviamente
l’idea di morire e di trovare “una tregua”, l’idea di “ribellarsi e farla
finita” e l’idea di “punire” qualcuno, non si escludono reciprocamente, anche
se possono essere distinte concettualmente. Implicano comunque una confusione
sul dolore e sulle proprie capacità e in tutti questi casi il desiderio di
morire non è un vero desiderio di morire.
L’idea
della morte è un’idea “difficile” che stenta a trovare un posto nella nostra
concezione di noi stessi e della nostra vita perché esclude noi stessi e la
vita.
Immaginare la morte è un po’ come cercare di sollevarsi da terra senza far leva
su qualcosa, dato che l’idea della morte è psicologicamente paradossale. In
genere, chi sta male desidera non star male o star bene, ma raramente desidera
“non stare più in alcun modo” pur di non soffrire. Per questi motivi, spesso il
voler morire è solo apparentemente un desiderio di morire, mentre è in realtà
un desiderio di cambiare “qualcosa” quando non si può cambiare nulla. Sulla
base di queste considerazioni, quindi, si può riconoscere che molte
dichiarazioni relative al desiderio di morire, molti tentati suicidi e persino
molti suicidi non hanno molto a che fare con un reale desiderio di morire. Mi
si potrà obiettare che sto giocando con le parole, ma non è così, perché ho in
mente anche dei fatti molto concreti. Nel libro La morte e il morire, la psichiatra Elisabeth Kubler-Ross (1969)
descrive le situazioni che ha avuto modo di osservare per molti anni: la
maggior parte delle persone venute a conoscenza di avere una grave malattia
incurabile reagiva secondo uno schema nel quale solo l’ultima fase implicava un
contatto con la realtà. Le fasi “tipiche” da lei descritte e che riassumo sinteticamente,
erano le seguenti: incredulità/rifiuto dei fatti accertati, collera,
depressione e infine accettazione
della realtà dolorosa. Se le persone normalmente reagiscono con incredulità,
poi con rabbia, poi con depressione (cioè con una variante della rabbia) prima
di arrendersi al dolore della conclusione della loro vita, è ovvio che
normalmente, cioè in condizioni di salute, le stesse persone formano famiglie,
allevano figli, lavorano ed eleggono i governi senza avere alcun contatto con la realtà, dato che la realtà implica
anche la loro morte.
Consideriamo
ora la cosa da altre angolazioni. Io non credo che tutti coloro i quali non
sono “donatori d’organi” siano fermamente convinti di voler conservare nella
loro bara tutti i pezzi del loro (inutile) corpo. Credo invece che siano
persone che non immaginano di poter morire fra dieci anni o … domani. Per lo
stesso motivo poche persone hanno depositato un testamento biologico. Le altre,
ne hanno sentito parlare e … “ci penseranno”. A mio parere tutte queste “altre”
persone non credono in realtà di potersi mai trovare in una situazione di “sopravvivenza
forzata” in cui il testamento biologico potrebbe essere utile.
Le
considerazioni fin qui svolte ci portano a riconoscere che un numero
imprecisato, ma consistente, di persone non si pone affatto il problema di
realizzare un progetto di vita delimitato dalla morte. Tale “implicita
convinzione”, riassumibile nell’idea secondo cui “tutti muoiono … tranne me”,
ha molte conseguenze terribili. Sprechiamo attimi e decenni senza impegnarci
nella nostra vita, dato che “c’è tempo” e non facciamo ciò che serve per
giungere alla morte senza troppi rimpianti. A mio parere, chi desidera la
morte, nella maggior parte dei casi, manifesta delle difese psicologiche.
Tuttavia, purtroppo, molte persone che non provano mai quel desiderio sono
dissociate in altri modi dal problema della morte e non sono affatto innamorate della vita.
Proprio per questo motivo si suicidano “parzialmente” ogni giorno.
Sicuramente,
il suicidio assistito, ove è legalmente consentito, è scelto da chi vuole
morire nel modo più semplice e indolore, ma anche da chi non è indifferente
agli altri e non vuole danneggiare gli altri mettendoli in pericolo o creando
traumi (eventualità non
trascurabile nel caso di suicidi attuati senza alcun supporto). In genere chi
desidera morire o pensa di suicidarsi è orientato a compiere questo gesto
perché detesta la propria vita, la vita in generale e, quindi, anche gli altri,
oppure perché ha idee o emozioni confuse. Tuttavia, si può anche desiderare la morte per
compassione nei propri confronti e nei confronti degli altri (e quindi per
amore). Prima di considerare più
approfonditamente la questione voglio riportare alcune riflessioni di due
studiosi che si sono posti tale domanda in un quadro di riferimento diverso dal
mio e hanno dato una risposta che non condivido.
Il
libro intitolato Il suicidio,
scritto da Mario Rossi Monti e Alessandra D’Agostino (2012) merita attenzione
perché gli autori cercano proprio di tracciare una distinzione fra suicidi
riconducibili a disturbi mentali e suicidi comprensibili come scelte
“esistenziali”. Gli Autori riportano un dato desunto da studi recenti: anche se
i suicidi sono quasi sempre correlati a gravi disturbi mentali, “circa il 10%
dei soggetti che muoiono per suicidio non presenta invece un evidente disturbo
mentale” (op. cit. p. 37). Quindi, una piccola quota di suicidi non sembra
riconducibile a considerazioni medico-psichiatriche. Tale idea sembra
ragionevole, ma richiede ulteriori precisazioni. Ci sono aspetti della
dimensione personale che non vengono ritenuti di competenza psichiatrica,
perché frequenti (e quindi normali), ma che ben difficilmente possono essere ritenuti
ragionevoli. Quindi, quel 10% che non rientra nei “casi psichiatrici” non
esprime necessariamente istanze “esistenziali”, dato che può anche rientrare
nella “normale follia” della società in cui viviamo. In altre parole, per
capire se il desiderio di morire può davvero essere parte di una vita realmente
vissuta dobbiamo identificare dei casi in cui il desiderio di morire non dipende né da gravi disturbi mentali né dalle normali difese psicologiche che comunque sono irrazionali e
distruttive.
Il
nodo cruciale della questione è quindi costituito proprio dal fatto che, a
parte i più gravi disturbi che alterano radicalmente il contatto con la realtà,
l’esistenza delle persone si dipana attraverso una fitta trama di aspetti
razionali (e quindi espressivi) e di aspetti irrazionali che fin dall’infanzia
hanno una funzione difensiva. In pratica, le varie concezioni
psicoterapeutiche, rinunciando a distinguere la normalità dall’espressione
delle potenzialità personali, non riescono a chiarire in quali casi il suicidio
possa rientrare fra le opzioni di una vita pienamente vissuta.
Non dobbiamo trascurare il fatto che, ad esempio, Eugenio Borgna considera la
depressione come “una delle fondamentali dimensioni emozionali della vita”
(2011, p. 60) e prende in considerazione, oltre alla “depressione psicotica”,
quella che definisce depressione “esistenziale” e “motivata” (op. cit. pp.
60-67). In questo indirizzo “fenomenologico-esistenziale” della psichiatria
manca la distinzione fra emozioni espressive e difensive e quindi manca la
distinzione fra tristezza e depressione. Gli studiosi di tale orientamento
hanno il lodevole obiettivo di non trattare i pazienti come “oggetti” da curare
o da normalizzare, ma finiscono per manifestare “comprensione” per stati
d’animo che sono solo difese dal dolore. Purtroppo, quindi, da un lato abbiamo
psichiatri e psicoterapeuti “riduzionisti” che etichettano come “patologico”
tutto ciò che non è “benessere” e normalità e, dal lato opposto, abbiamo
psichiatri e psicoterapeuti disponibili ad accompagnare le persone nei sentieri
impervi della loro emotività, ma che non distinguono fra la sofferenza dovuta
all’accettazione di reali mancanze e la (pseudo)sofferenza depressiva costruita
per scopi difensivi. Purtroppo, in queste concezioni non troviamo alcuno
strumento valido per capire se il suicidio possa essere un’opzione razionale e
compassionevole o possa essere soltanto l’esito di una reale patologia o di un
atteggiamento difensivo spacciato per “scelta esistenziale”.
Per
comprendere il desiderio di morire, dobbiamo fare una distinzione non
speculativa, ma razionale e psicologica, relativa
al vivere: quella fra vivere per amore o per paura. Se la paura limita il
contatto con la vita, offusca anche l’idea della morte, che è “il perimetro”
della vita. Inevitabilmente, la paura di vivere, porta sia a timori esasperati ed irrazionali di morire, sia a desideri
altrettanto irrazionali di morire. L’amore per la vita inizia dove finisce il
timore di sentire la vita. Le filosofie esistenzialiste focalizzate sulla
“angoscia esistenziale” e le teorizzazioni psicoterapeutiche centrate su un
immaginario istinto di morte sono solo alcune delle concezioni speculative
volte a distogliere l’attenzione dal fatto che la vita è una cosa immensa, un
oceano di sensazioni e conoscenze in cui la felicità è intensa e struggente
anche se è accompagnata dal dolore. Di fatto, è possibile amare la propria vita
anche in momenti di grande sofferenza, così come è possibile vivere “poco” e
desiderare la morte in momenti in cui la sofferenza è modesta, ma non è gestita
razionalmente. Ciò che quasi sempre genera il desiderio di morire non è,
quindi, la presenza del dolore o il fatto di sentirsi poco amati, ma il fatto
di amare poco per paura di sentire troppo. Proprio l’amore per noi stessi e per gli altri
ci tiene attaccati alla vita nei momenti più difficili. Queste
considerazioni non implicano, tuttavia, che il desiderio di morire rientri sempre e comunque in un progetto di vita difensivo. Ci
possono essere situazioni non inquinate dalle difese psicologiche in cui le
persone possono desiderare la morte proprio
per salvare ciò che è possibile della loro vita e di quella delle persone care
e in cui, quindi, la scelta di scomparire può essere un segno di pietà per sé e
anche per gli altri.
Il
film di Richard Attenborough Viaggio
in Inghilterra, tratto dal romanzo
di Leonore Fleischer (1993) aiuta a capire e a sentire che possiamo vivere
intensamente anche in situazioni molto dolorose nelle quali siamo comunque
necessari alle persone amate e che ci amano. Ad un certo punto, però, la donna,
realmente tormentata dal dolore fisico dovuto alla sua malattia, chiede al marito
di “lasciarla andare”. Tutto l’amore è già stato espresso compiutamente e i
nuovi momenti aggiungono solo del dolore a ciò che è stato vissuto. Il film non
tocca il tema dell’eutanasia, ma mostra che in certe situazioni è comprensibile
sia il desiderio di “restare” (per amore di se stessi e degli altri), sia il
desiderio di “andare via” (per amore di se stessi e degli altri).
Quando
si sceglie l’eutanasia per un animale sofferente che non può guarire, si agisce
per pietà e solo perché non si ha la possibilità di donare un po’ di felicità
ad un animale amato. Gli animali ovviamente non chiedono l’eutanasia, ma i
proprietari degli animali arrivano a tale decisione identificandosi nella
sofferenza “inutile” dell’animale. Chi considera ragionevole in certi casi
l’eutanasia per un animale e non per le persone manifesta un atteggiamento
contraddittorio e lo fa proprio per aggrapparsi a dei “valori” e per
dissociarsi dalla compassione per sé e per gli altri, e quindi dal dolore. E’
vero, la vita umana è più complessa di quella di un animale, ma anche il dolore
umano può essere più complesso. Il punto della questione non sta nella
differenza, indiscutibile, fra animali e persone, ma nel fatto che la stessa
azione non può essere in un caso un atto d’amore e nell’altro caso un crimine.
Come mai le persone contrarie all’eutanasia non fanno nulla per “donare” anche
agli animali un’agonia prolungata nel tempo? Tali persone, ostinandosi a negare l’eutanasia a
chi ne fa richiesta, non sentono affatto compassione, ma solo il bisogno di
aggrapparsi a delle idee con le quali hanno soffocato da tempo immemorabile il
loro dolore.
Non
è sempre facile capire quando il desiderio di morire ha radici nell’amore per
la propria vita e per gli altri e quando ha radici nella rabbia irrazionale e
nella paura irrazionale. Per questo motivo
le associazioni che in altri paesi si occupano dell’accompagnamento
alla morte volontaria, considerano un
obiettivo prioritario proprio la prevenzione del suicidio. Infatti, nei
momenti in cui il desiderio di morire affiora e viene esplicitato è anche possibile che la persona possa
essere aiutata a riesaminare le coordinate del proprio percorso esistenziale e
possa essere dissuasa dalla decisione di concludere la vita. Il desiderio di
morire è quindi un tema complesso e dovrebbe essere affrontato con lucidità,
sensibilità e rispetto, sul piano
psicologico. Non dovrebbe essere ricondotto agli schemi preconfezionati
delle concezioni etiche o “bioetiche”. La psicoterapia potrebbe, in linea di
principio, offrire chiarimenti ma, purtroppo, offrendo idee confuse sulla vita
umana e sul dolore, non può certo favorire riflessioni ragionevoli sulla morte
e sul modo di affrontarla.
Chi
desidera morire o ha deciso di morire, spesso ha bisogno (anche se non lo sa)
di essere aiutato a riflettere sulla sua vita e a valutare se può cambiare
delle cose nella sua vita, anziché morire. Tuttavia, per richiedere o accettare
questo aiuto ha bisogno di sapere che la sua intenzione di morire non verrà
pregiudizialmente trattata come un crimine o una malattia e potrà, quindi, anche essere compresa e accettata. Per
questo, proprio chi rispetta e consente il suicidio assistito da un lato rende
più lieve e comunque dignitoso il trapasso di chi ha davvero deciso di morire,
e da un altro lato consente a persone non davvero convinte di voler morire, di
essere aiutate a cambiare idea. Se
lasciate a se stesse, possono morire molte persone che avrebbero potuto essere
aiutate a riesaminare le loro intenzioni.
Per
alcuni studiosi le norme che vietano l’eutanasia creano un’ingiusta disparità
fra persone fisicamente autonome e persone non più autonome. Esaminando il caso
dei trattamenti volti a garantire la sopravvivenza, Hans Jonas ricorda che
“l’impotenza del paziente, che lo mette alla mercé del medico, non dovrebbe
pregiudicare il suo diritto in rapporto a quello del paziente in grado di
muoversi, il quale può semplicemente alzarsi e andarsene indisturbato. (…)
Sarebbe tanto ingiusto quanto illogico far scontare al paziente ‘prigioniero’
la sua impotenza fisica con la perdita di un diritto” (1985, pp. 32-33). In
questa lettura viene evidenziata una grave discriminazione sociale.
Va
ricordato anche un altro aspetto della questione: l’impossibilità di ricorrere
all’eutanasia si intreccia con il problema del possibile “suicidio preventivo”. Consideriamo il caso di una persona colpita da
una malattia incurabile e progressiva. Tale persona sa che fino ad un certo
punto vivrà una vita qualitativamente peggiore di quella a cui è abituata, ma
che considera ancora accettabile e sa di essere in grado di uccidersi, ma di
non volerlo fare. Oltre quel punto, però, sa di essere prima o poi condannata
ad una semplice sopravvivenza. Prevedendo tale situazione, pensa di non volere
una vita di quel tipo, ma capisce che proprio in tale circostanza potrebbe
morire solo con un’assistenza che però è per legge negata. Ora, se tale persona
è determinata a vivere, ma anche a non sopravvivere con inutili sofferenze, può
essere, di fatto, costretta a suicidarsi
“preventivamente”, cioè in un momento in cui desidera ancora vivere. Può,
quindi porre fine ai propri giorni proprio perché sta ancora bene ed ha una
libertà che presto non avrà più. In altre parole, le leggi che impediscono
l’eutanasia non solo impongono sofferenze prolungate a persone che
preferirebbero concludere una vita ridotta ad una sequenza di giornate
inutilmente dolorose per loro e per i loro cari, ma possono anche portare altre
persone a concludere la loro vita prima di sperimentare una condizione di
impotenza e di soggezione ai capricci etici degli altri.
La
pretesa di stabilire per gli altri che il dolore non è mai troppo mi sembra
talmente violenta da giustificare il timore di una possibile costrizione a
vivere per forza in una società che con la scienza allunga la durata della
vita, ma per motivi “bioetici” impone una vita ridotta a dolorosa
sopravvivenza. Umberto Veronesi riconosce che se la medicina è riuscita a
risolvere problemi un tempo irrisolvibili ha anche creato un problema nuovo: la
“paura di sopravvivere oltre il limite consentito dalla dignità personale, dal
nostro desiderio, dalla nostra capacità di sopportare sofferenze fisiche e
mentali” (2005, p. 101). Questa doppiezza della medicina che può salvare vite
con strumenti sempre più raffinati, ma può anche condannare le persone ad
agonie interminabili genera un profondo e giustificato timore nei confronti
della medicina. Il buon senso richiede che la società disapprovi solo le azioni
criminose. Purtroppo a volte la società si assume il compito di regolamentare,
ostacolare o punire comportamenti che riguardano essenzialmente la dimensione
personale. In passato, prima della legalizzazione del divorzio, la società si intrometteva
nella vita sentimentale delle coppie e anche sul problema dell’interruzione
delle gravidanze ci sono state fortissime pressioni sociali sulle scelte
personali. Oggi l’autoritarismo sociale continua ad intromettersi nello spazio
privato in cui le persone decidono se vivere o morire.
Nel
caso dell’eutanasia e del suicidio assistito, la società impone i “valori” di
alcune persone con leggi valide per tutti in relazione ad ambiti
indiscutibilmente delicati e privati. La cosa è inquietante, ma riflette una
mentalità che ha radici antiche. La società calpesta con i “valori” educativi
il piacere e il bisogno di sicurezza dei bambini, calpesta con l’etica la
dimensione emotiva degli adulti e calpesta con l’idealizzazione della
sopravvivenza biologica la libertà di chi vuol concludere dignitosamente una
vita che non ritiene più accettabile. Il mondo interiore delle persone è così
grande e appassionante che si può ragionevolmente apprezzare la vita anche solo
per scambiare un sorriso con una persona amata o per riordinare i ricordi belli
con gioia ed i ricordi dolorosi con compassione. E’ però anche possibile che le
persone care non ci siano più, oppure che per donarci un sorriso anche loro
debbano privarsi di molte cose. In altre parole, non è ragionevole pensare che qualsiasi desiderio di morire sia
difensivo.
Siamo tutti unici e differenti, pur essendo tutti umani
e quindi possiamo avere idee diverse su quale sia una vita accettabile. Forse non
vivremo mai in un mondo davvero “umano”, ma nel mondo in cui ci è dato vivere
abbiamo la possibilità di mantenere un dialogo interno sincero e di costruire
relazioni interpersonali autentiche. Gli sforzi con cui i nostri simili si
adoperano per rendere invivibile fin dall’infanzia la nostra vita (e a volte
anche la nostra morte), non possono cancellare la nostra esigenza di pensare
alla vita e alla morte prescindendo dalle “ideologie prevalenti”. Per questo
abbiamo bisogno di riflettere sulla nostra vita, sulla nostra morte e sul tipo
di vita che consideriamo “nostra” e quindi vivibile.
Io
non so se Lucio Magri abbia compiuto l’ultimo suo viaggio in Svizzera perché
era depresso, come alcuni giornalisti hanno scritto. Non conoscendo nulla di
preciso non voglio inventare ipotesi che comunque non sarebbero giustificate.
Il fatto però mi ha colpito molto perché quella persona è stata uno dei miei
punti di riferimento negli anni della gioventù. Scriveva cose difficili per un
ragazzo, ma scriveva cose difficili perché toccava temi complessi. Mi ha
insegnato a immaginare una società non facilmente realizzabile e poco conta che
la “sua” società comunista fosse troppo libera e troppo giusta per essere alla
portata di politici ottusi e di masse drogate di idee normali. Sono affezionato
al suo sogno anche dopo decenni spesi a capire che gli esseri umani hanno
troppa paura e troppa rabbia per realizzare a livello sociale i sogni più belli.
E’ già molto se realizzano qualche sogno nei rapporti con le persone più care.
In ogni caso, non posso non collegare quel discreto ma autorevole studioso e
uomo politico all’amore per la vita. Il mio amore per la vita ha preso forma anche grazie al suo modo di immaginare un mondo
migliore per tutti e di valutare nei dettagli quali contraddizioni sociali e
quali interlocutori potessero favorire un cambiamento. Sezionava come un
chirurgo tutte le pieghe della società per trovare qualcosa su cui fosse possibile
far leva per cambiare le regole del gioco e rendere più libera e felice la
convivenza sociale.
Anche
se le varie società continuano a stabilizzare la paura e la rabbia nelle
persone, il cambiamento resta possibile almeno nelle vite di chi osa sognare
cose belle e riesce ad esprimere sentimenti limpidi. Magri ha vissuto con la
libertà di studiare i fatti per immaginare delle possibilità e gli sono grato
per la sua testimonianza di questa libertà. Era sicuramente stanco. Non so
nulla delle sue vicende interiori, ma so che fino all’ultimo ha manifestato un
affetto sincero per gli altri e una determinazione a mantenere i propri
impegni. Soprattutto l’impegno preso con la sua compagna. Infatti, nel libro
pubblicato poco prima della sua morte ha inserito alcune parole non consuete
nei testi dedicati a temi politici.
“Arrivo
ora all’ultima tappa del mio lavoro: la fine del Pci. Ci arrivo in condizioni
pessime. Anzitutto, e soprattutto, perché, dopo un breve intervallo, riprendo
la penna in mano nel momento in cui vivo un dramma personale profondo. E’
scomparsa la mia amatissima compagna, Mara: non solo un dolore ma
un’amputazione di me stesso, che non si rimarginerà, rende opaca l’intelligenza
e fiacca la volontà. E proprio sul letto di morte mi ha imposto la promessa di
continuare a campare senza di lei almeno fino a quando non avrò finito il
lavoro che avevo cominciato durante gli anni delle sue sofferenze. E so che se
lo sospendessi ora non sarei più capace di mantenere la promessa. In secondo
luogo, per caso, mi trovo ad affrontare il tema più complesso, a sua volta
doloroso, della fine del Pci proprio nel momento in cui non il Pci ma l’intera
sinistra sembra scomparsa, o è in totale confusione” (2009, p. 387).
Non
ha senso parlare di depressione sulla base delle “impressioni” dei conoscenti,
dato che anche i professionisti della psiche spesso non distinguono la
tristezza dalla depressione. Non è comunque scontato che alla soglia degli
ottant’anni una persona abbia ancora la determinazione a vivere di ricordi e ad
impegnarsi per nuovi obiettivi. Le vite sono complesse e mai compiutamente
comprensibili, ma credo che possa essere umana e non solo depressiva la
stanchezza di chi è rimasto solo ed ha di fronte una manciata d’anni da
trascorrere presumibilmente fra le braccia del sistema sanitario e sotto la
cappa di una società assurda.
In
Italia non è possibile essere aiutati a morire in modo discreto e dignitoso e
si deve vivere “per forza” se una malattia immobilizza il corpo, oppure si deve
“far da sé”. Magri ha mantenuto il suo rispetto per le persone evitando di
imporre agli altri la scoperta del suo cadavere e ha accettato l’aiuto di
persone di un altro paese per andar via nel modo garbato con cui era stato fra
noi. Forse era depresso, ma probabilmente era solo triste e sentiva di aver
completato il suo viaggio. Sicuramente a me piacerebbe vivere in un mondo pieno
di persone “depresse” in quel modo. Nella realtà, la vita e la morte si
intrecciano e le nostre idee, i nostri sentimenti e i nostri desideri relativi
al vivere e al morire sono lo specchio del nostro rapporto con noi stessi.