Credo
sia venuto il momento di chiarire in modo articolato alcune questioni che
finora ho solo sfiorato e che riguardano la relazione fra soggettività e
oggettività e quindi le idee (fondate o arbitrarie) su noi stessi e sulla
realtà oggettiva. Come al solito procederò in modo discorsivo, senza esporre
dettagli non necessari delle varie concezioni metafisiche e delle conoscenze
scientifiche, ma traccerò una mappa del patrimonio collettivo di conoscenze e di
illusioni che porta gli esseri umani a concepirsi in modi spesso strani e a
fare discorsi irrazionali su loro stessi che servono, di fatto, solo a sentire
“poco” e a “vivere poco”. Trattando una questione particolare come la coscienza di sé potrò evidenziare che sia gli studiosi, sia le persone prive di conoscenze specialistiche subiscono i pesanti condizionamenti di una cultura diffusa che ostacola le domande scomode, i dubbi e la consapevolezza di ciò che si conosce e di ciò che non si conosce.
La teoria dell’evoluzione spiega in modo convincente le tappe di una lunga storia che ha consentito la sopravvivenza delle specie grazie alla trasmissione e alla selezione di alcune caratteristiche. In tale lento processo oggettivo si colloca anche la manifestazione in certi casi di attività coscienti e, nella specie umana, di una complessa autocoscienza. La neurofisiologia spiega molti aspetti dei meccanismi cerebrali che corrispondono a varie manifestazioni o alterazioni della coscienza. Questa preziosa massa di conoscenze, tuttavia, non spiega in alcun modo come mai fra tanti oggetti esistenti solo alcuni provino qualcosa ad essere ciò che sono. Il fatto che noi, oltre ad “esserci”, proviamo qualcosa e addirittura sappiamo di provare qualcosa, non è un fatto ovvio. Tra l’altro, provando qualcosa ed essendone coscienti ci formiamo un’idea di noi stessi e concepiamo anche gli altri (o almeno quelli più simili a noi) non solo come oggetti della nostra attenzione, ma come soggetti che, a loro volta, provano qualcosa, ne sono coscienti, hanno una loro idea di ciò che sono e persino di noi stessi.
La teoria dell’evoluzione spiega in modo convincente le tappe di una lunga storia che ha consentito la sopravvivenza delle specie grazie alla trasmissione e alla selezione di alcune caratteristiche. In tale lento processo oggettivo si colloca anche la manifestazione in certi casi di attività coscienti e, nella specie umana, di una complessa autocoscienza. La neurofisiologia spiega molti aspetti dei meccanismi cerebrali che corrispondono a varie manifestazioni o alterazioni della coscienza. Questa preziosa massa di conoscenze, tuttavia, non spiega in alcun modo come mai fra tanti oggetti esistenti solo alcuni provino qualcosa ad essere ciò che sono. Il fatto che noi, oltre ad “esserci”, proviamo qualcosa e addirittura sappiamo di provare qualcosa, non è un fatto ovvio. Tra l’altro, provando qualcosa ed essendone coscienti ci formiamo un’idea di noi stessi e concepiamo anche gli altri (o almeno quelli più simili a noi) non solo come oggetti della nostra attenzione, ma come soggetti che, a loro volta, provano qualcosa, ne sono coscienti, hanno una loro idea di ciò che sono e persino di noi stessi.
La
compresenza di oggetti che “stanno dove stanno e basta” (come i sassi), di
oggetti che manifestano elementari “movimenti vitali” senza presumibilmente provare nulla (come gli organismi unicellulari), di oggetti che si muovono
perché provano qualcosa (come i mammiferi) e di oggetti che sono addirittura
consapevoli di ciò che provano e si considerano soggetti responsabili delle
loro azioni (come gli esseri umani) costituisce un incubo conoscitivo. Infatti,
il “mondo” dei nostri ricordi, dei nostri progetti, delle nostre sensazioni e
delle nostre idee su noi stessi e sugli altri ci risulta ben diverso dal “mondo
esterno” in cui ci sono oggetti che non provano nulla o che provano qualcosa,
ma non ciò che proviamo noi. Il fatto stesso che esista qualcosa non è “ovvio”
e non è ovvio nemmeno che fra le tante cose esistenti solo alcune siano esseri
viventi. Ma il fatto che alcuni esseri viventi sappiano di essere qualcosa e addirittura pensino di essere
qualcuno, crea una sorta di tensione:
se ci pensiamo come soggetti (un particolare soggetto), vediamo il mondo come
lo sfondo della nostra esistenza, mentre se ci pensiamo come oggetti (un
oggetto fra i tanti), vediamo la nostra dimensione soggettiva come qualcosa che
vacilla, sfuma, si perde fra i dettagli del tutto.
Credo
sia opportuno spendere qualche parola per evidenziare ciò che sappiamo e ciò
che non sappiamo di “noi”. Ho sempre evitato di usare concetti psicologici come
“Io” o “Sé” (tanto cari agli psicologi) e concetti come “materia” o “spirito”
(tanto cari ai filosofi metafisici). Il nocciolo della questione, infatti,
riguarda il fatto che abbiamo un “nostro” punto di vista soggettivo che però ci
costringe a concepire anche un punto di vista oggettivo che non è non più
“nostro”. In questa “tensione” si collocano le domande e le risposte (razionali
e irrazionali) relative a ciò che ci rende “noi stessi”. Con buona pace di
Cartesio, non siamo soggetti isolati che grazie alle loro idee chiare e
distinte riescono a farsi un’idea della realtà e dei loro simili, ma siamo
esseri pensanti in quanto collegati
alla realtà e agli altri. Donald Davidson ha sottolineato l’interazione fra
questi tre ambiti della conoscenza e l’irriducibilità di ognuno di essi agli
altri: “io ho, come ogni altra creatura razionale, tre tipi di conoscenza:
conoscenza del mondo oggettivo (…); conoscenza delle menti altrui; e conoscenza
dei contenuti della mia mente. Nessuno di questi tre tipi di conoscenza è
riducibile a uno degli altri due, né alla combinazione degli altri due. Anzi,
dal fatto che posseggo uno di questi tipi di conoscenza segue che ho gli altri due, perché il triangolo fondamentale è una
condizione del pensiero, ma nessun tipo di conoscenza è concettualmente o
temporalmente prioritario rispetto agli altri” (2001, p. 111). Tale tesi, affermata da uno dei maestri della filosofia analitica contemporanea,
“si incastra” bene con le ricerche relative alle origini della specie umana e,
in particolare, con ciò che sappiamo sul rapporto strettissimo fra l’evoluzione
delle nostre capacità (affettive e cognitive) e la creazione di relazioni
(intersoggettive e sociali). Tuttavia, l’idea della compresenza di tre tipi di conoscenza che si
intersecano restando irriducibili, non attenua il disagio (psicologico ed
esistenziale, più che conoscitivo) che proviamo nel riconoscerci sia come
oggetti conoscibili, sia come
soggetti conoscenti. Più raggiungiamo
una conoscenza soddisfacente (oggettiva) della realtà, più ci scontriamo con la
difficoltà di conoscere davvero (oggettivamente) il nostro mondo privato (soggettivo), che resta inaccessibile agli
altri. Tale fatto tormenta gli esseri umani da sempre e costituisce una sorta
di conseguenza inevitabile della coscienza
di essere coscienti. Crea molto disagio proprio perché non è un semplice
rompicapo intellettuale, ma ha riflessi notevoli sul piano emotivo. In altre parole, ogni dimensione soggettiva
(e ogni storia personale) sembra un ambito di passione e di compassione
collocato in un più ampio ambito impersonale e “impassibile”.
Thomas
Nagel ha usato l’espressione “uno sguardo da nessun luogo” (1986), che rende
perfettamente l’idea di una polarità fondamentale fra il nostro punto di vista
e quello di tutti e di nessuno.
L’incubo della “tensione” fra soggettività e oggettività genera altri
“sotto-incubi”. Noi esseri umani tendiamo facilmente a considerare oggettivo
non solo ciò che possiamo accertare assieme agli altri, ma anche ciò che
rientra nella nostra dimensione soggettiva. Ho già chiarito che affermando certi valori tendiamo a dare un valore assoluto a ciò che per noi è importante e che nell’etica,
come ha evidenziato Bertrand Russell, parliamo all’indicativo di ciò di cui
dovremmo parlare all’ottativo, cioè affermiamo che “è morale” (oggettivamente) ciò
che vorremmo veder realizzato. Parlando della "tendenza all’oggettivazione" chiarirò
come siamo spesso portati a commettere questo errore anche quando non
affermiamo valori o doveri. A ciò si aggiunge un altro “sotto-incubo”
costituito dalla tendenza degli esseri umani a concepirsi come collocati nella
trama di una narrazione personale. Tale tendenza comporta una sensazione
(normalmente minimizzata) molto dolorosa di precarietà, dovuta al fatto che,
pur considerandoci autori della nostra storia, non abbiamo il controllo del
futuro della storia che creiamo. Siamo artefici di una narrazione soggettiva
che però è subordinata alla realtà oggettiva.
Trattando
tali argomenti non intendo scivolare dall’ambito che mi compete e mi è
congeniale (l’analisi delle difese psicologiche) a quello della storia del
pensiero. Voglio semplicemente ricapitolare i termini delle discussioni più
interessanti, evidenziare le posizioni ragionevoli e quelle inconsistenti e
collegare tutta la questione a quella su cui ho realmente la possibilità di
aggiungere qualcosa: infatti, sono convinto che le soluzioni “comode” alle
domande più scomode sul rapporto fra dimensione soggettiva e oggettiva, siano
soluzioni “difensive” rispetto al dolore che la nostra esistenza comporta.
Noi
umani disponiamo ormai di teorie abbastanza solide che spiegano vari aspetti
della realtà oggettiva (teorie fisiche, biologiche, cosmologiche, ecc.) e di
teorie che spiegano alcuni dettagli della dimensione soggettiva (teorie
dell’apprendimento, dei processi mnemonici e persino delle difese
psicologiche), ma non disponiamo di
teorie adatte a spiegare la relazione fra la realtà oggettiva e la realtà
soggettiva. E non a caso: la scienza evita
appositamente le domande relative alla realtà in quanto tale. Risponde a
domande relative ai processi osservabili della realtà; individua regolarità,
relazioni causali, ricava previsioni e controlla le previsioni. Cosa “sia” la
“realtà” che “include” i processi oggettivi di tipo fisico o biologico e cosa
“sia” la “realtà” dei fenomeni soggettivi non
è rilevante per la scienza: tali questioni sono da sempre affrontate
speculativamente dai filosofi metafisici i quali però non hanno prodotto reali
conoscenze. Alfred J. Ayer ha affermato che “la mente e il corpo non debbono
essere considerati come due entità” e che parlare della mente o parlare del
corpo equivale a classificare e interpretare in “due modi diversi” le nostre
esperienze (1953, p. 88). Rudolf Carnap, in modo ancor più netto ha affermato
che “Accettare il mondo cosale non significa niente di più che accettare una
certa forma di linguaggio. In altre parole, accettare regole per formulare e
dimostrare enunciati, per accoglierli o respingerli" (1950, p. 633). Tuttavia, tale coerente rifiuto di
introdurre speculativamente delle “sostanze” nell’ambito delle spiegazioni
scientifiche, non impedisce agli esseri umani (anche a quelli poco interessati
alle speculazioni) di riconoscere lo scarto fra il fatto di essere inclusi fra gli oggetti osservabili da tutti e il fatto di provare qualcosa e di avere
un punto di vista “privato” sull’intera realtà.
Nel
grande mondo in cui si addensano eventi accade
che una cellula si scinda, che un animale vada a caccia e che io pensi di
andare a Milano e vada a Milano. In questa lettura oggettiva delle cose, il
“mio” viaggio a Milano si trasforma: cessa di essere un impegno, una
opportunità, un’avventura e diventa un insieme di movimenti delle mie cellule,
dell’auto che uso fino al parcheggio della stazione, del mio corpo che si avvia
verso il treno. Improvvisamente divento un oggetto che si muove nel grande
mondo (come le cellule, le zanzare e gli scoiattoli) e che fa anche una cosa
più complicata, come quella di concepire e realizzare un viaggio importante che
però non ha la stessa “importanza” per gli altri passeggeri dello stesso treno
e per i tanti esseri umani che nemmeno si trovano su quel treno. Nel passaggio
da una descrizione soggettiva ad una oggettiva, il mio viaggio diventa solo un
battito d’ali in un vuoto cosmico. Tuttavia, anche se davvero “accetto” di
essere “solamente” un battito d’ali nel grande mondo “di tutti e di nessuno”,
non trovo pace: ho dato un nome e una nuova “collocazione” a me stesso e al mio
viaggio, ma non sono uscito dalla “mia” soggettività. Persino con quella ridefinizione
“oggettivante” ho “fatto qualcosa”, “pensato qualcosa” e “sentito qualcosa” come soggetto.
La
coscienza non è “una cosa” in più nel “mondo delle cose”. E’ un altro mondo. E’ un mondo soggettivo che
tratta il mondo “di sempre” come l’oggetto della propria attenzione. I sassi vengono mossi, gli organismi
unicellulari si muovono secondo schemi ripetitivi, gli animali agiscono “spinti
da istinti”, gli esseri umani agiscono perché provano il desiderio di
affrontare la realtà e pensano anche di poter interagire con altri esseri concepiti come soggetti e non solo come
oggetti. Gli esseri coscienti e, in particolare, gli esseri umani
autocoscienti non dispongono solo di complesse strutture nervose, ma hanno la
possibilità di provare qualcosa e di
avere un punto di vista sugli altri
(ed anche su di sé e persino sul proprio sistema nervoso). Secondo la teoria
dell’evoluzione, prima della coscienza c’era una realtà oggettiva popolata da
piccoli esseri viventi del tutto ignari di vivere in una realtà “oggettivamente
data”. Noi concepiamo una dimensione oggettiva proprio perché “abitiamo la casa
della nostra soggettività”. Inoltre, consideriamo “davvero reali” solo i fatti
confermati da altri soggetti: se in un sogno vediamo un cavallo con le ali, al
risveglio non crediamo che esista davvero proprio perché non è mai stato
osservato dagli altri. In fondo, la più sofisticata operazione svolta
nell’ambito della dimensione soggettiva è proprio quella consistente
nell’affermazione di una dimensione oggettiva.
Donald
Davidson, come abbiamo visto, ha posto al centro delle sue riflessioni il
rapporto fra la conoscenza di sé,
degli altri e della realtà, mentre Thomas Nagel ha posto al centro delle sue
analisi proprio la questione più a monte, relativa al rapporto fra la
dimensione soggettiva e quella oggettiva. A mio parere, un suo breve articolo
del 1974 intitolato provocatoriamente Che
effetto fa essere un pipistrello e in seguito incluso nel libro Questioni mortali (1979) costituisce una
pietra miliare sul tema e risulta anche un discorso “definitivo”. Tale articolo
è da anni citato in qualsiasi studio rispettabile sull’argomento e ciò dimostra
che, anche se non tutti gli studiosi concordano con Nagel, tutti ritengono che
egli abbia evidenziato in modo “spietatamente intrigante” i termini della
spinosa questione. Egli parte da una semplice considerazione:
“fondamentalmente, un organismo ha stati mentali coscienti se e solo se fa un
certo effetto essere quell’organismo
– un certo effetto per l’organismo.
Possiamo chiamare questo il carattere soggettivo dell’esperienza” (1979, pp.
242-243).
Al
fine di dimostrare l’impossibilità di qualsiasi riduzione dei fenomeni soggettivi a stati o processi fisici, Nagel
prende in considerazione un animaletto abbastanza simile a noi (in quanto
mammifero), ma molto diverso da noi per il suo sistema percettivo. I
pipistrelli, infatti, “percepiscono il mondo esterno principalmente con un
ecogoniometro, o ecolocalizzatore, che scorge i riflessi che provengono dagli
oggetti all’interno del loro raggio d’azione, attraverso le loro strida brevi,
sottilmente modulate, ad alta frequenza. (…) l’ecogoniometro di un pipistrello,
anche se è chiaramente una forma di percezione, non è simile, nel suo modo di
funzionare, a uno qualsiasi dei nostri sensi (…) Questo sembra creare
difficoltà per la nozione dell’effetto che fa essere un pipistrello” (1979, p.
245). L’autore chiarisce meglio tale difficoltà precisando che se noi immaginassimo
di avere membrane palmate sui nostri arti e di volare di notte acchiappando
insetti, per poi riposarci appesi a testa in giù, ci limiteremmo ad immaginare
che effetto farebbe a noi essere dei
pipistrelli. Per completare il discorso, Nagel sottolinea che se dei
pipistrelli molto intelligenti o dei marziani cercassero di farsi un’idea di che effetto fa essere noi, si
troverebbero nella stessa difficoltà. Per questi motivi, quindi, i fatti “a
proposito di che effetto fa essere un essere umano, o un pipistrello, o un
marziano, sembrano essere fatti che incorporano un particolare punto di vista”
(1979, p. 249).
Nagel
va oltre, sottolineando che una sempre maggiore comprensione della fisiologia
della percezione non cambierebbe nulla e che quindi anche un’ipotetica
conoscenza oggettiva molto approfondita delle esperienze soggettive non farebbe
chiarezza sulle esperienze fatte dai soggetti in questione. “Dopo tutto, cosa
resterebbe dell’effetto che fa essere un pipistrello se si rimuove il punto di
vista del pipistrello?” (1979, p. 251). Antonio Damasio ha scritto uno dei suoi
libri più importanti per evidenziare e correggere “l’errore di Cartesio”,
ovvero “l’abissale separazione tra corpo e mente” (1994, p. 338), ma, dopo più
di trecento pagine ha ammesso: “Mi piacerebbe poter affermare che si sa con
certezza in quale modo il cervello produce la mente, ma non sono in grado di
farlo, e temo che nessuno lo sia” (1994, p. 349). Mentre l’utilizzazione di
microscopi e telescopi ci permette di raggiungere conoscenze della realtà
oggettiva più accurate di quelle ottenibili con l’uso del nostro apparato
percettivo, nessun ipotizzabile progresso nello studio dei processi cerebrali
può approfondire la conoscenza delle nostre esperienze o riflessioni o fantasie
soggettive. “Se il carattere soggettivo dell’esperienza è pienamente
comprensibile solo da un punto di vista, allora ogni spostamento verso una
maggiore oggettività (…) non ci porta più vicino alla reale natura del
fenomeno: ce ne allontana ancor di più” (T. Nagel, 1979, p. 252).
Mi
sono soffermato su queste riflessioni di Thomas Nagel per far presente che non
sto esponendo una concezione personale e “originale”. Questo filosofo di
orientamento analitico, a mio parere, ha fatto considerazioni discutibili sul
tema della moralità, ma ha trattato il tema della soggettività in modo
terribilmente rigoroso e convincente. Non si è impantanato in discorsi
speculativi sulla “essenza” materiale o spirituale della realtà e le sue
conclusioni, hanno tagliato le gambe a tutte le idee “ottimistiche” secondo le
quali i progressi nello studio del cervello offriranno “spiegazioni” sempre più
accurate della coscienza umana. Nagel ha chiarito che tale questione si colloca
fra quelle che, pur formulate correttamente, non possono avere alcuna risposta.
Pietro Perconti ha raccolto e sintetizzato in un suo saggio sull’autocoscienza
una quantità notevole di speculazioni, ricerche empiriche ed elaborazioni
teoriche sul tema in questione, ma ha dovuto ammettere che “Benché il desiderio
di indagare scientificamente l’evoluzione dell’autocoscienza sia emerso già ai
tempi di Darwin (…) ancor oggi non disponiamo che di congetture” (2008, p.
129). Affermare che la dimensione soggettiva “non è altro” che un sussulto
della “materia” (o del sistema nervoso) è arbitrario come affermare che la
dimensione soggettiva dimostra l’esistenza di una “sostanza spirituale”
distinta da quella “materiale”. Credo valga la pena riportare alcuni esempi di
questi comodi “giochi di prestigio” intellettuali perché, a mio parere, queste
concezioni della realtà riflettono la paura di convivere con il dolore: in
questo caso, il dolore dovuto al fatto che non disponiamo di alcuna risposta
alle domande più delicate relative alla “posizione” che occupiamo nella realtà
oggettiva.
Le
persone “moderne” e “laiche” (sia quelle più colte, sia quelle più ignoranti)
spesso chiudono la porta all’inquietudine affermando che sicuramente la
scienza, prima o poi, chiarirà ciò che ancora non sappiamo in merito
all’autocoscienza. Tuttavia, questa “fede” non chiarisce come la conoscenza di
nuovi fatti oggettivi possa illuminarci sulla soggettività. Sul versante
opposto, le persone colte o ignoranti ma molto “devote”, chiudono la porta
all’inquietudine affermando che la soggettività è semplicemente un’espressione
dell’anima e che l’anima non può essere studiata dalla scienza, ma può essere
affermata dalle persone che hanno fede. Tali fatti mi riportano all’idea che in
una società composta da bambini spaventati divenuti adulti determinati a vivere
“poco”, non solo le questioni riguardanti il contatto, la sessualità e la
ripartizione delle risorse vengono “risolte” da ideologie basate su svalutazioni e
illusioni, ma anche la questione relativa al nostro essere sia oggetti, sia
soggetti, viene normalmente “risolta” con la fede “scientista” nella riduzione del soggettivo all’oggettivo o
con la fede religiosa.
Il
riduzionismo viene a volte formulato in termini “funzionalisti”. Ad esempio,
l’intenzionalità umana è assimilata a quella di un distributore di bevande: il
distributore è fatto in un certo modo e funziona in un certo modo (reagisce
alla monetina offrendo una bibita) e noi siamo fatti in un altro modo e
funzioniamo in un altro modo, offrendo, a seconda dei casi, carezze o insulti.
Daniel Dennett (1987; 1996) ha descritto meticolosamente mappe di processi
gerarchicamente ordinati che suggeriscono un’idea del modo in cui la semplice
reattività degli esseri viventi più elementari può essere divenuta, per tappe
successive, così complessa da rendere le azioni degli individui prevedibili in
termini intenzionali. Altri ricercatori hanno sottolineato la “informazione
integrata” che si realizza in parti specifiche del cervello (Tononi, 2014, pp.
146-162). Altri hanno trattato i “paradossi” dell’autocoscienza cercando lumi
nella logica matematica e, in particolare, nei teoremi limitativi di Godel
(Hofstadter, 1979, p. 755). Tuttavia, tali audaci acrobazie intellettuali non
ci liberano dal fatto che da un certo
momento (o grado di complessità) la selezione di “parti” o di “funzioni” ha
dato luogo a quel cambiamento radicale costituito dal “provare qualcosa” e
dall’avere un “punto di vista”. Negli ultimi anni, anche i computer hanno
permesso a molti studiosi di immaginare che la nostra coscienza non sia altro
che una funzione della materia: il silicio genera la “coscienza” dei computer,
mentre le cellule generano la coscienza degli animali e l’autocoscienza degli
esseri umani. Tuttavia, a mio parere, Hubert Dreyfus ha smontato tale ipotesi
pezzo per pezzo, chiarendo cosa non
possono fare i computer (1979). Infatti, la concezione riduzionista di ciò
che “davvero” siamo, formulata in riferimento alla cibernetica, non spiega come
mai proviamo qualcosa annusando un fiore e persino leggendo in un libro
l’esposizione di una teoria riduzionista, mentre i fiori e i libri non provano
nulla.
Nel
suo volume Il bello, il buono, il vero,
Jean-Pierre Changeux, noto per le sue ricerche sul sistema nervoso, scrive:
“sappiamo che il cervello dell’essere umano contiene le basi neuronali per la coscienza
di sé” (2008, p. 323). Ma tali “basi”, in quale senso sono “basi”? Dato che fanno parte
del cervello e riguardano la sua attività, rientrano nei dati oggettivi e
Changeux commette, quindi, un errore quando arriva ad affermare che “sentiamo
la musica con il cervello” (2008, p. 50). Possiamo amare o detestare un brano
musicale, ma quando proviamo delle sensazioni e pensiamo o immaginiamo qualcosa
ascoltando quella musica stiamo compiendo operazioni che, pur avendo “basi”
fisiche, avvengono in una dimensione assolutamente privata che nessun biologo
può fotografare o pesare o descrivere in alcun modo. E con ciò torniamo alle
considerazioni svolte da Thomas Nagel.
Persino
Jacques Monod, pur contestando le filosofie dualiste, ha sottolineato che,
nonostante tutti i progressi scientifici, l’uomo resta comunque un “unico e
innegabile testimone di se stesso” (1970, p. 153). Alfred Jules Ayer, un altro
avversario del dualismo spiritualista, ha evitato semplificazioni ingenue e
dogmatiche evidenziando la debolezza del riduzionismo più di mezzo secolo fa
con un’osservazione candidamente provocatoria che merita di essere ricordata:
“Mi riesce difficile immaginare uno cui sembri di sentire un gran dolore e che,
informato che il suo cervello non si trova nella condizione prescritta dalla
teoria, decida di essersi sbagliato credendo di star provando dolore” (1973, p.
176). In altre parole, non solo le
concezioni metafisiche perdono credibilità se analizzate in modo rigoroso,
ma anche le concezioni speculative
associate alle scoperte scientifiche perdono credibilità appena
distinguiamo in esse gli enunciati scientificamente dimostrati da quelli
dogmaticamente affermati. Tutte le forme di riduzionismo finiscono per
mescolare alcune conoscenze preziose e alcune assunzioni arbitrarie. Anche
esse, di fatto, aggirano l’esperienza scomoda
e dolorosa che deriva dalla mancanza di alcune verità a cui vorremmo
aggrapparci per non sentirci smarriti.
Il
tema della soggettività crea difficoltà alle concezioni riduzionistiche, ma
crea difficoltà anche al dualismo spiritualista. Non mi riferisco solo allo
spiritualismo religioso, ma a qualsiasi concezione volta ad ipotizzare un
secondo piano di realtà corrispondente
alla dimensione esperienziale soggettiva. Mentre le religioni hanno come base
una fede (e quindi un rifiuto della conoscenza), le concezioni spiritualiste
non religiose cercano di suggerire possibili spiegazioni di fenomeni difficili
da spiegare. Tuttavia, anche quelle più ragionevoli (fondate sullo studio di
fenomeni paranormali considerati ai
confini della realtà ordinaria), ci lasciano in una situazione di
incertezza. Se ammettiamo un piano di realtà distinto da quello fisico,
troviamo difficile capire come si realizzi negli esseri umani l’intreccio fra i
due piani, ritenuti indipendenti. Di queste linee di ricerca parlerò più
avanti, ma per ora voglio sottolineare che le assunzioni relative alla “realtà
in quanto tale” non ci liberano dalla “tensione” scomoda fra la dimensione
oggettiva e quella soggettiva.
Noi
umani manifestiamo una marcata tendenza a fare confusione fra soggettività e
oggettività non solo quando attiviamo
difese svalutative di tipo morale, ma
anche quando consideriamo oggettivamente importante o significativo ciò che
è tale per noi. Ricorrendo ad un
orologio possiamo misurare oggettivamente il ritardo di qualcuno ad un
appuntamento e capire che, anche se ci è parso di aver sperimentato una
lunghissima attesa, di fatto abbiamo dovuto aspettare solo sei minuti. Quando,
invece, affermiamo che non “sprecheremmo” il nostro denaro accumulando abiti
firmati, perché intendiamo farne un uso “sensato” per acquisti davvero
“importanti”, non stiamo cercando di capire qualcosa, ma stiamo affermando che
alcune cose della vita hanno “valore” e altre non ne hanno. E stiamo affermando
un principio inteso come valido per tutti e non semplicemente per noi, anche se
esso non è valido per tutti e
sicuramente non lo è per chi frequenta il “mondo della moda”. Manifestando
questa tendenza all’oggettivazione,
di fatto, facciamo una sorta di pubblicità scorretta a ciò che pare a noi e per
questo non produciamo conoscenza. Credo sia necessario distinguere questo tipo di oggettivazione dalla sua
“applicazione particolare” di tipo etico: nell’oggettivazione di cui parlo ora
in termini generali, non affermiamo l’immoralità
ma l’insensatezza o futilità o banalità
di qualcosa. E abbiamo l’impressione di affermare valori generali. Tuttavia,
oggetti, animali e persone sono più o meno importanti soggettivamente perché
hanno effetti particolari sulla sfera dei desideri soggettivamente sperimentati
e questo fatto contraddice l’idea che “esistano” criteri oggettivi in base a
cui attribuire o negare importanza, valore e significato a qualcosa. Chi afferma che la
famiglia è “sacra”, che la cultura è preziosa, che servire la patria è un
onore, di fatto oggettivizza stati d’animo soggettivi che sicuramente non sono
condivisi da chi trascura il/la partner e i figli (magari per dedicarsi ad
impegni lavorativi “più importanti”), da chi ha letto libri solo a scuola e
dalle persone che si sentono “cittadini del mondo” e non “patrioti”. E ciò non
cambia se qualcuno aggiunge che le “cose importanti” oltre ad essere tali
“dovrebbero” essere riconosciute da tutti come tali.
La
nostra dimensione soggettiva (fatta di convinzioni, desideri ed emozioni) è solo nostra e possiamo riconoscere che
va già bene se almeno con qualcuno
possiamo sentirci in sintonia. La tolleranza è sempre servita a far convivere
negli ambiti della quotidianità persone con preferenze diverse, atteggiamenti
diversi e aspirazioni diverse. Tuttavia, in generale, lo “scarto” fra la
dimensione soggettiva e quella oggettiva resta difficile da accettare, da
gestire e persino da riconoscere e troviamo quasi insopportabile arrenderci al
fatto che ciò a cui teniamo molto sia semplicemente una nostra preferenza. E
che tale nostra preferenza sia, quindi, semplicemente una delle tante cose che accadono nella realtà oggettiva.
Soprattutto di fronte a certi comportamenti violenti, umilianti o crudeli proviamo
un rifiuto profondo e proviamo il bisogno di pensare che certe cose non siano
semplicemente a noi sgradite, ma
siano inaccettabili. Anche se non
abbracciamo alcun moralismo, vogliamo pensare che lo siano in assoluto, per
chiunque, da sempre e per sempre. Se dovessimo rinunciare ad usare termini come
“banale”, “superficiale”, “stupido” o “importante”, “significativo”, “sensato”
o “prezioso”, finiremmo per cercare dei sinonimi o per inventarne di nuovi.
Questo fatto è in genere trascurato o minimizzato. I filosofi che affermano il
relativismo dei valori non arrivano ad esaminare la difficoltà psicologica a tracciare una netta
distinzione fra soggettività e oggettività e quelli che affermano la “evidenza”
di alcuni valori ricadono nella speculazione metafisica. E’ terribilmente
penoso riconoscere che ciò che è “banale” per noi non sia oggettivamente banale
e che ciò che è “prezioso” per noi non sia oggettivamente prezioso. Per questo
abbiamo tanta voglia di prendere scorciatoie rassicuranti e di affermare in
modo perentorio cose di questo tipo: “la superficialità degli altri è
insopportabile”, “è difficile vivere in un mondo di pazzi”, “noi abbiamo una
missione da compiere”, “frequento solo persone di un certo livello”, “molti non
capiscono ciò che conta davvero”, e così via. Di fatto, però, queste
“scorciatoie” riguardano fenomeni molto diversi e anche opposti, dato che sono
utilizzate da reazionari, rivoluzionari e qualunquisti, da credenti e atei, da
intellettuali e persone di scarsa cultura. E conducono a conflitti inutili e a
svalutazioni distruttive.
Partendo
da queste considerazioni possiamo sicuramente affermare che la compresenza della dimensione soggettiva e
di quella oggettiva è molto dolorosa. Ciò genera una domanda: possiamo, senza dissociarci, attenuare in qualche
modo ragionevole tale tensione? La distinzione fra modi di pensare, sentire e
agire espressivi e difensivi consente,
entro certi limiti, sia di mantenere
una rigorosa distinzione fra dimensione soggettiva e oggettiva (e quindi di considerare
errata l’oggettivazione di preferenze, sentimenti e desideri soggettivi), sia di chiarire in quali casi le nostre
oggettivazioni sono almeno collegate
a fatti oggettivamente accertabili. La distinzione fra espressione di sé e
difese, tanto trascurata nell’ambito della ricerca psicologica, risulta,
quindi, ancora una volta fondamentale: il lavoro analitico offre una “terza
via” rispetto al relativismo nichilista e all’affermazione metafisica di valori
“assoluti”. Purtroppo, tale “terza via”, non essendo speculativa, non è davvero
“rassicurante”. Ci permette solo di chiarire che alcune cose importanti per noi
sono (in assenza di difese psicologiche) percepite come importanti da tutti i
nostri simili. Infatti, manifestando (senza attivare difese psicologiche) le
capacità empatiche che rientrano nelle potenzialità dell’intera specie umana, possiamo affermare che il nostro impegno,
anche se non è prezioso oggettivamente, lo è sia per noi, sia per i nostri simili.
Proprio
facendo leva sull’empatia e sulla razionalità possiamo affermare l’importanza per noi e per tutti i nostri simili di
una felicità condivisa. Possiamo
ragionevolmente considerare importante giocare con i nostri figli perché ciò li
rende certamente felici e possiamo considerare assurdo imporre a loro delle
norme che li rendono infelici e li portano a dissociarsi da ciò che sentono.
Possiamo in fondo dimostrare sul piano
empirico, che l’espressione della razionalità e dell’empatia non rende gli
esseri umani identici, ma realmente simili. Ciò li accomuna nell’apprezzare
certe cose e non altre. Gli esseri umani hanno voglia di sopravvivere, ma
soprattutto di provare piacere nel gioco, nell’intimità, nella conoscenza,
nella creazione di legami, nella creazione e nella condivisione della felicità.
Sbagliano se oggettivano ciò che provano, ma in certi casi possono dimostrare che ciò che provano riflette
tendenze profonde di ogni essere umano. Il lavoro sulle difese psicologiche ci
aiuta a convivere con il dolore inevitabile nell’esistenza. Ci aiuta anche a
convivere con l’impossibilità di conciliare la dimensione soggettiva con quella
oggettiva e ad “accontentarci” di quella parziale
ma ragionevole oggettivazione consistente nel riconoscere che alcuni aspetti
della soggettività caratterizzano (almeno potenzialmente) tutti i nostri simili.
La
distinzione fra ciò che è espressivo e ciò che è difensivo ci aiuta sia a non sprofondare nel relativismo
assoluto (necessariamente affermato con distacco), sia a non smarrirci nelle speculazioni metafisiche su ciò che gli
esseri umani “dovrebbero” pensare e sentire. Noi siamo individui unici, ma
siamo eredi di una storia condivisa in cui abbiamo anche acquisito delle
competenze che ci accomunano. Pur essendo unici nel nostro modo di esprimere
ciò che ci definisce come individui, siamo “fratelli” nell’essere depositari di
alcune risorse affettive e cognitive. Lo siamo e questo è un fatto, non un
ideale. Dobbiamo però accontentarci di questa “oggettivazione” (empirica, non
metafisica) di alcuni aspetti della nostra vita che ci toccano in profondità.
Infatti, siamo membri di una delle
moltissime specie che sono apparse (e scomparse) nella storia di un
universo in cui è accaduto, accade e accadrà di tutto. Gli altri animali
nemmeno concepiscono la nostra “base condivisa” di cose umanamente importanti e non sappiamo cosa ne pensino i marziani o
gli angeli. Se proviamo a immaginare la distanza che separa il nostro universo
da altri universi, o gli anni che ci separano dal big bang, dall’origine della
vita sulla terra, dai primi scimmioni nudi, quale “consistenza” possiamo dare
alla “base comune” che ci avvicina agli altri esseri umani o almeno ad alcuni
di loro?
Eravamo
partiti dal disagio di non poter dare un valore oggettivo alle nostre
esperienze soggettive e siamo giunti alla consapevolezza di poter condividere
l’importanza di certe esperienze almeno con i nostri simili (o con alcuni di
essi). La realtà costituita dai nostri simili è però solo una “soggettività dilatata” (relativa ad una delle tante
specie) in una realtà oggettiva immensa che procede implacabilmente al di là di
qualsiasi soggettività individuale o di qualsiasi “base” comune a qualsiasi
specie. Dobbiamo, quindi, pensare che l’importanza delle nostre scelte più
impegnative sia solo un bagliore in un caotico moto di dettagli di un universo
“assente”?
Siamo
forse nuovamente costretti a sprofondare nel nichilismo o ad aggrapparci a
qualche intuizione metafisica? Non credo che l’analisi ora svolta ci riporti a
tale alternativa, ma penso che ci costringa ad accettare un ulteriore dolore. Un dolore da cui dipende la nostra felicità.
L’unica felicità a noi possibile. Possiamo rispettare il fatto che per noi è
importante ciò che ci rende “umani”, e che rende tali i nostri simili, ma
dobbiamo condividere con loro anche la solitudine di essere membri di
una specie che è solo una delle tante
specie. Dobbiamo accettare che anche il punto di vista della nostra specie
non è altro che un “grande” punto di vista soggettivo, nel “più grande” mondo
“di tutti e di nessuno”. Può sembrare paradossale, ma per non sentirci
completamente soli dobbiamo condividere
coi nostri simili tutte le sfumature delle nostre solitudini. A tale proposito valgono come utile spunto di riflessione le parole di un uomo di scienza che
non ha perso la passione per le vicende umane non traducibili in equazioni:
“Nasciamo e moriamo come nascono e muoiono le stelle, sia individualmente che
collettivamente. Questa è la nostra realtà. Per noi, proprio per la sua natura
effimera, la vita è preziosa” (Rovelli, 2014, p. 83). Possiamo individuare le
ragioni per cui la cultura respinge la consapevolezza del dolore, ma abbiamo
bisogno di accogliere quel dolore e salvare quel modo di pensare e di sentire
che ci rende umani. E possiamo costruire relazioni veramente soddisfacenti con
i nostri simili proprio condividendo la consapevolezza di essere ciò che siamo
nel mondo oggettivo che è ciò che è.
Credo
sia utile notare che spesso cerchiamo di sentirci meno smarriti non solo oggettivando ciò che ci tocca
soggettivamente ma anche collocando tutte le nostre esperienze, i nostri
ricordi e i nostri progetti in una sorta di narrazione. Quasi a voler
sembrare più “solidi” grazie alla storia che ci definisce. Già nella
soggettività di altri animali si presenta, appena accennata, la tendenza umana
ad inquadrare i fatti in una narrazione: il cane inferisce da un particolare
rumore che qualcuno della famiglia sta rientrando e si prepara,
consapevolmente, a fare qualcosa (le feste) e non a fare “qualsiasi cosa”. Le
“narrazioni” canine, però, sono davvero “minimaliste”, perché mancano di una
trama generale capace di dare “peso” ai singoli eventi e coerenza al
personaggio principale. La mia storia non è da me concepita come una lunga
pausa in cui ogni tanto prendo decisioni a breve termine; essa non prevede
sviluppi che risulterebbero estranei alla narrazione che sto sviluppando “nella
mia testa”. Include purtroppo la memoria di errori che non ripeterei, ma che
sono stati errori “concepibili” nella storia di una persona come me. Include,
purtroppo, il timore di commettere altri errori, ma non certo il timore di
ubriacarmi ad un rave party, perché se farò sciocchezze esse saranno
sciocchezze compatibili con la mia storia.
Non
possiamo fare a meno di organizzare in una “trama” ciò che pensiamo, ciò che
proviamo e persino ciò che è semplicemente accaduto. Per questo non credo che
la tendenza a costruire, anche senza saperlo, una narrazione della nostra vita,
costituisca un’operazione difensiva. Semmai i
modi di ricapitolare le esperienze in una narrazione possono essere
espressivi o difensivi. Le sorprese non ci sarebbero se non ci fossero
narrazioni. E non ci sarebbero attese o decisioni. In pratica, il castoro
compie quotidianamente il suo lavoro da architetto, senza raccontarsi nulla di una storia che semmai siamo noi
ad immaginare. Gli esseri umani, invece, prendono in considerazione molti aspetti delle loro dimensioni
soggettive e di quelle dei loro interlocutori. Possono anche distorcerli
difensivamente, ma hanno la possibilità di conoscerli almeno in qualche misura
e in ogni caso li mettono in fila in una pagina precisa di una sceneggiatura.
Le storie tipicamente umane presuppongono l’idea che ogni evento e ogni azione
rientri in una trama più grande e contribuisca allo sviluppo dell’intera vicenda
e al raggiungimento di una possibile conclusione. Non possiamo pensare né a noi
stessi né agli altri prescindendo dalla storia che abbiamo “in mente”.
Tutte
le narrazioni personali sono tali perché si basano su un’idea del personaggio
principale e su un’idea di ciò che condurrà ad una “compiutezza” l’insieme
delle sue azioni e delle vicende che lo riguarderanno. Anche sforzandomi, non
potrei immaginare la mia vita come una storia “finalmente realizzata” grazie ad
una vincita ad una lotteria o come una storia che potrebbe concludersi
“prematuramente” nel senso di “prima di diventare ricco”. Non potrei nemmeno
immaginare la mia vita come una storia realizzata con uno “scacco matto”
inflitto ad un nemico, né potrei temere di avere un infarto prima di compiere
una vendetta. Proprio per il fatto di avere un’idea di me e della mia storia (in
cui non hanno “peso” le lotterie o le vendette) concepisco la mia vita come
un’opera già “compiuta” per molti aspetti e come un’opera che resterà
presumibilmente (e dolorosamente) incompiuta per altri aspetti. Se l’idea di
una narrazione personale è inevitabile, i contenuti di tale narrazione cambiano
da persona a persona e a volte cambiano “in corso d’opera”. Proprio tali
contenuti possono essere espressivi o difensivi. I cambiamenti sono possibili solo
all’interno di un particolare campo di possibilità. Sherwood Anderson scriveva
di getto e non correggeva mai i suoi romanzi: quando non procedevano in modo
soddisfacente ricominciava da capo (1940, p. 22). Non so quante pagine
bellissime (per me) egli abbia strappato, ma sicuramente ha gettato via abbozzi
di storie incompatibili con la “vera” storia che voleva scrivere e anche con la
storia che stava realizzando con le azioni anziché con la penna. Sicuramente
non ha mai scritto una sola pagina “concepibile” da parte di Joyce o Borges. Le
vite, quindi, sono vissute soggettivamente come narrazioni in corso: includono
cambiamenti e anche cambiamenti radicali, ma solo cambiamenti relativi ad un
“personalissimo” filo conduttore. Possiamo vietarci (difensivamente) di tener
presenti molti aspetti (dolorosi) della nostra vita, ma, consapevoli o no di
essi, ogni giorno scriviamo una pagina di una sola narrazione e in ogni momento
ci chiediamo come si stia sviluppando l’intera vicenda che abbiamo concepito.
La
fisica contemporanea ha chiarito che il tempo “della realtà oggettiva” (quello
delle teorie scientifiche) è un po’ più “complicato” di quello che “abbiamo in
mente”, ma ora voglio tener presente proprio il fatto (oggettivamente dato) che
ogni soggettività genera una propria
temporalità e costituisce una narrazione. La soggettività umana è “un mucchio
di cose”, ma è sempre una narrazione e comporta anche quel dolore che
caratterizza ogni storia personale. Le narrazioni letterarie possono avere
(anzi, devono avere) una loro compiutezza,
ma le narrazioni personali sono dolorose
in quanto comportano necessariamente qualche tipo di incompiutezza. Se la
nostra narrazione è il nostro sogno, l’incompiutezza è l’incubo che accompagna
anche il sogno più bello. L’incompiutezza ha molte sfaccettature, ma credo che
tre di esse possano essere considerate fondamentali.
La
prima sfaccettatura, quella più evidente, riguarda la conclusione di ogni
narrazione personale. Una conclusione non decisa dall’autore. Scriviamo
continuamente pagine di un’opera, ma sappiamo di non avere il controllo di ciò
che sarà decisivo per la sua conclusione. Tale “sottrazione del finale” avviene
anche nei suicidi. In genere il suicidio viene attuato per motivi difensivi, ma
anche se viene attuato per altri motivi è la conseguenza di una situazione (un
dolore eccessivo, l’essere di peso agli altri, ecc.) che ha alterato la qualità
della vita personale. La morte è particolarmente tragica quando interviene
precocemente, cioè quando le persone non hanno ancora potuto fare un “bilancio
esistenziale” riguardante ciò che ha reso soddisfacente la loro vita e ciò che
sentono ancora mancante.
La
seconda sfaccettatura dell’incompiutezza di ogni narrazione soggettiva non
riguarda l’estensione nel tempo della trama, ma le particolari “limitazioni”
che condizionano ogni vicenda. Chi è nato, vissuto e deceduto in un villaggio
sperduto in un lontano passato non ha avuto nemmeno la possibilità di
centellinare una poesia per noi “importantissima”; chi è nato con gravi
limitazioni fisiche o le ha sperimentate in seguito ad una malattia o ad un
incidente, ha perso la possibilità di fare o non fare molte cose che per altri
sono scontate. Anche le persone in grado di vivere una vita “normale”, pur evitando
di pensarci, vivono privati di alcune capacità: le capacità olfattive
utilizzate da altri animali, o la capacità di volare normalmente manifestata
dagli uccelli. Poiché siamo inclini a pensare entro lo schema della nostra
esperienza abituale, tendiamo a considerare più tragica la perdita di capacità
già sperimentate delle mancanze che caratterizzano la vita di tutti i membri
della nostra specie, ma qualsiasi limitazione fa “morire” qualche ambito di
espressione e qualche sviluppo narrativo. Anche quando ci consideriamo
“fortunati” o “ben equipaggiati” per l’avventura che immaginiamo di realizzare,
dobbiamo scontrarci non solo con la nostra “imprevedibile” morte e i nostri
limiti, ma con tutte le limitazioni che gli altri e “il caso” ci impongono o ci
potranno imporre.
Una
terza sfaccettatura dell’incompiutezza delle narrazioni soggettive è costituita
dal vivere “poco”. Il vivere “poco” non è dovuto all’intervento “finale” della
morte o all’intervento del caso o degli altri su alcuni snodi della nostra storia
, ma è dovuto a noi stessi. Il vivere “poco” è dovuto alle autolimitazioni e
alle illusioni costruite inconsciamente nell’infanzia e mantenute negli anni e
nei decenni successivi. Per varie circostanze mi sono da sempre confrontato
soprattutto con questa terza sfaccettatura dell’incompiutezza della mia vita e
delle vite dei miei simili. Non penso che essa sia necessariamente più dolorosa
o “importante” delle altre, ma so che è tale da peggiorare anche gli effetti delle altre. Se certe perdite o mancanze
condizionano la storia personale e se la morte interrompe “a suo piacimento”
tale storia, il vivere “poco” determina modi riduttivi o distorti di
sperimentare ogni momento dell’avventura in corso e anche i suoi momenti più tragici. Alcuni esempi possono chiarire
come la vita quotidiana possa essere impoverita da convinzioni, desideri ed
emozioni irrazionali.
Un
cliente inizia la seduta facendo un sospiro e dicendo “Non so da dove
cominciare”. Lo interrompo prima che avvii la lamentela di rito facendogli notare
che ha già cominciato ed ha cominciato presentandosi come una persona “in
difficoltà”. Non ha avviato la conversazione in un altro dei mille modi
possibili. Gli chiedo se è consapevole delle ragioni per cui ha scelto quella
particolarissima ouverture. Alla fine
dell’ora riconosce di pretendere molte cose da tutti perché sente un vuoto e lo
invito a riflettere sul fatto che nessuno può riempire i vuoti che sono
“memorie sentite”.
Una
cliente inizia la seduta raccontandomi che la madre ottantenne è stata
ricoverata all’ospedale e che potrebbe non superare la crisi. Aggiunge che
sente di “non poter reggere” il dolore di quella possibile perdita. Le chiedo:
“Cosa ti mancherà esattamente? Quali esperienze bellissime non potrai più
condividere con lei?” e mi risponde di non aver mai condiviso nulla con quella
donna egocentrica e ingrata. Le faccio notare che, quindi, sta parlando della
sua incapacità di “reggere” un dolore che non è un dolore. Seduta difficile:
prima si offende per la mia “insensibilità”, poi ammette che il dolore che sta
evitando di accettare riguarda (da sempre) la “non-relazione” con la madre e
non l’eventuale interruzione di tale non relazione.
Ad
un altro cliente convinto di non poter più amare la compagna che lo ha deluso e
abbandonato, chiedo: “Se amavi quella persona, cosa fai per impedirti di continuare ad amarla?” Mi risponde di non
capire la mia domanda e quindi gli propongo di chiarire se in precedenza aveva
solo stimato quella donna (in quanto “apprezzabile/utilizzabile”) o l’aveva anche
amata per ciò che era (e che era rimasta, pur avendolo abbandonato). Mi
risponde che pensa di non averla mai amata e di essersi solo sentito frustrato
dall’impossibilità di godere della sua presenza. Ora il discorso è almeno
coerente e comunque toglie “benzina” alla rabbia. Poi, dopo aver riflettuto, mi
dice: “Però … era una bella persona anche quando non mi dava nulla: quando
stava dormendo e forse stava facendo solo i suoi sogni”. Gli faccio presente
che dipende solo da lui tenere presente questo fatto e conservare la propria
benevolenza oppure dissociarsi. A quel punto, dicendo “Mi manca” sfiora il
pianto e capisce che con la svalutazione rabbiosa copriva solo il proprio
dolore.
Una
cliente, che chiamerò Laura, mi telefona nell’orario del suo appuntamento.
L.
Ciao, oggi non vengo e farei una seduta telefonica.
GF.
Va bene.
L.
Mi sono presa dei giorni di vacanza e sono in montagna. A dire la verità non ho
avuto una buona idea e so già cosa pensi: è inutile cercare soluzioni esterne,
pratiche, a problemi interni. Ora lo penso anche io. Mi trovo in un posto
bellissimo. La giornata è bellissima. Io sto di merda. Questa notte ho fatto un
sogno e mi sono svegliata male. Ho trascritto il sogno e alcune mie riflessioni
in un file del mio portatile. Posso leggerti il file? Posso inviartelo in
allegato?
GF.
Come preferisci.
L.
Ti mando l’allegato e ci sentiamo fra dieci minuti.
GF.
OK
Testo
inviato:
“Mi trovavo con mia madre in una spiaggia meravigliosa col mare calmo. Lei
parlava e parlava. Io non la sopportavo, ma non riuscivo ad andare via. Lei mi
dice che bisogna preparare i bagagli e io rispondo che l’unica cosa sensata da
fare è fare il bagno. Lei continua a parlare senza fare attenzione a ciò che ho
detto. Mi sveglio con la sensazione sgradevole di non aver nuotato in
quell’acqua trasparente e con molta rabbia per quel parlare e parlare
esasperante. Tutto ciò non ha senso, ma io sono come paralizzata.
Ora
sono in un luogo molto diverso da quello del sogno, ma altrettanto bello.
Nessuno mi opprime con parole inutili. Mi sono svegliata pensando che avrei
dovuto inventarmi un’altra giornata. Tutte le giornate che vorrei non ci sono.
Vorrei svegliarmi con un uomo. Ezio, però non sta più con me e anche lui,
quando c’era, parlava e parlava. Altri non sono qui. Con questo stato d’animo
però, forse non saprei cosa fare di buono con un uomo decente. Ho fatto una
stupida colazione e mi sto prendendo una vacanza da uno stupido lavoro. In un
bellissimo posto che da stupida non mi godo. Mi trovo con una Laura che non sa nemmeno
farsi una nuotata in uno stupido sogno. Anche questa giornata non ha molto
senso. Va avanti come le lancette dell’orologio.
Sono
andata a fare una passeggiata nel bosco che circonda l’albergo. Non certo un
posto selvaggio, ma più naturale dei posti con il cemento armato. Ho notato i
particolari. La bellezza di una pigna, il sole che mi scaldava i piedi mentre
le gambe restavano all’ombra di un albero. Cose terribilmente belle, che però
erano lì e basta. Sono tornata in camera, ho letto qualche mail, il giornale, e
mi sono fatta portare un caffè. Che ci facciamo in un mondo di chiacchiere?”.
[Leggendo
queste righe noto che l’immobilità di Laura dipende dal non aver deciso nulla.
Poiché non decide nulla, resta ferma e resta con la madre nel modo peggiore, cioè senza
prendersi la responsabilità di averlo deciso. A quarant’anni il suo bisogno non
può essere né quello di stare con la madre né quello di allontanarsi dalla
madre. La domanda interessante, quindi è: perché non va verso l’acqua? Qualcosa di non risolto la
trattiene nel “vortice” delle parole della madre. Laura mi richiama e mi chiede
se ho letto la mail. La invito a fare un lavoro sul sogno perché non capisco
delle cose che solo lei può spiegarmi. Accetta la proposta.]
GF.
Mettiti comoda e torna nel sogno. La cosa incompiuta è la tua nuotata. Ciò che
hai messo in evidenza creando quella situazione di stallo è da un lato la tua
immobilità e dall’altro lato l’insensibilità di tua madre. Ciò che hai lasciato
ai margini della trama è la possibilità di nuotare nell’acqua. Eppure tu hai
costruito quel sogno, tutto il sogno, anche quella bellissima acqua
trasparente. Potevi costruire un sogno in cui tu e tua madre conversavate in prossimità
di una discarica o del palco di un comizio. Allora vorrei che tu chiudessi gli
occhi e immaginassi la possibilità non realizzata, cioè quella della nuotata. Vorrei però che non ti identificassi in
Laura, ma nell’acqua del mare.
L.
Non riesco.
GF.
Non ci hai nemmeno provato. Metti in conto che possa essere difficile, ma se
non fai questo lavoro io non posso capire il sogno. Devi sentirti senza il
corpo che percepisci e dilatarti fino a coincidere con il grande corpo
costituito dalla massa dell’acqua, dalle onde, dalla vita di tutto l’insieme.
L.
(…)
GF.
[Dopo un po’] Che succede?
[Mi
pare di udire sfumati singhiozzi di pianto]
L.
[Dopo un po’] Sento di sostenere Laura, ma lei è una bambina. Lei non sa
nuotare, ma sono io a sostenerla. E’ lei che piange e io piango con lei. Le mie
lacrime però sono più grandi, sono onde compatte, sicure. Lei è disperata e io
non sopporto che sia così sola. L’unica cosa che posso fare è tenerla a galla,
renderle lieve quell’esperienza. Non ci sono parole da dire. Io non ho bisogno
di parlare come sua madre e posso non dire nulla mentre tengo Laura fra le mie
braccia.
Questa
seduta è stata importante per Laura, ma è importante anche per le cose che
permette di capire in generale. I fatti sono i seguenti: prima della telefonata
Laura era immobile come nel sogno. Era in grado di sentirsi attratta dalla
bellezza della natura come nel sogno, ma non godeva di quella bellezza: nel
sogno detestava la madre e in montagna detestava la giornata vuota. La madre
aveva dispensato parole vuote e le giornate non ci danno nulla se noi non ci
attiviamo nel labirinto degli attimi e delle ore dopo aver accettato ciò che ci
addolora. Scavare nell’infanzia serve a poco se lo facciamo scordando di essere
adulti che rivivono antichi vissuti e di disporre di quella forza che da
bambini non avevamo.
Nella
seduta successiva Laura mi ha detto che dopo quel pianto ha sentito in modo
diverso tutta la sua situazione e ha trascorso alcuni giorni di vacanza molto
intensi, facendo cose piacevoli. Non si è solo “rilassata”, ma si è coinvolta con sé. Con altri pianti si è fatta compagnia.
Le
situazioni oggettive sicuramente incidono sulla nostra vita, ma esse vengono
comunque filtrate dalla nostra disponibilità a “sostenerci” (come le onde del
mare) e quindi a sentire e capire, oppure vengono filtrate dalle nostre difese
psicologiche (come l’opposizione passiva alla madre). Sostenendoci e
rispettandoci siamo in contatto con noi stessi e con la realtà e ciò ci fa
anche piangere, costa dolore, ma rende possibile la gioia e la felicità. Rende
superflua l’ostinazione a “reagire” ai genitori e al passato, dato che nel
presente siamo noi ad aver cura di noi stessi. Proprio accettando i nostri vissuti “antichi”, attiviamo le capacità adulte e riusciamo a sentirci persone
impegnate nel presente. Più riconosciamo di essere grandi come il mare, più sentiamo
di essere piccoli come pulcini. Non solo: più lasciamo fluire il pianto del
pulcino più consolidiamo la consapevolezza della nostra forza. Solo i grandi
possono concedersi il lusso di sentirsi piccoli e anche disperati. I bambini riescono a sentirsi piccoli e al sicuro,
ma appena sfiorano l’incubo di essere piccoli e disperati, se non trovano
sostegno nei genitori, attivano delle dissociazioni e cominciano a stare
distaccati o a “star male”, pur di non sprofondare in un dolore troppo grande.
Dopo venti o cinquant’anni sono ancora impegnati a negare il dolore, pur
potendolo accettare, esprimere e superare.
Una
vita incompiuta ha il “sapore” di una “brutta copia” e le brutte copie sono
tali sia in quanto “brutte”, sia in quanto provvisorie (cioè non ancora
sviluppate “pienamente”). A questo proposito dobbiamo tener presente ciò che
abbiamo chiarito parlando della tendenza all’oggettivazione: come le cose
importanti sono tali da un certo punto di vista, così anche le storie compiute
sono tali da un certo punto di vista. Al massimo possiamo individuare certe
potenzialità espressive tipicamente umane che rendono importanti per tutti
certe esperienze e soddisfacenti certi sviluppi di una storia personale.
Scrivendo questo capitolo ho già cancellato interi periodi che, già ad una
prima rilettura mi sembravano confusi o inutili. Ora non mi chiedo più nulla su
tali paragrafi perché costituivano solo
un tentativo di dire qualcosa. E un tentativo non riuscito non è “nulla”
rispetto al progetto “in atto”. Sotto questo aspetto, la stesura di un testo
può essere paragonata alla “stesura” di un’intera vita.
Che
dire delle vite che non sembrano essere state “corrette” in modo tale da
diventare “belle copie”? Può capitare che una persona agisca in un certo modo
credendo di aver subito un torto e può capitare che si renda conto del
fraintendimento, che si scusi e che recuperi il rapporto che aveva incrinato.
Questa è una storia con dei passaggi e una conclusione. Che storia sarebbe
stata se il nostro ipotetico “personaggio principale” avesse avuto un incidente
mortale prima di scusarsi con quella persona? Sarebbe stata solo la brutta
copia di una storia non realizzata e solo immaginata. Eppure molte storie
procedono proprio così. In un certo senso tutte le nostre storie sono solo
“brutte copie”. Io non cancello solo paragrafi nei testi che scrivo, ma
cancello o almeno “metto da parte” interi periodi della mia vita che sono stati
centrati su aspirazioni, convinzioni, impegni che non mi sembrano più
“appartenenti a me”. Brutte copie “cestinate” della “vera opera” in corso.
Un’opera che, tuttavia, a molti può sembrare uno spreco di tempo. Un’opera che
in futuro potrei io stesso
considerare solo la premessa di una “vera” storia ancora da scrivere. E, in tal
caso, sicuramente “aggiusterei il tiro” (come ho già fatto tante volte), ma se
morissi prima di accorgermene, avrei vissuto solo una “brutta copia” della
“mia” vita.
Se
morissi oggi prima di aver capito di aver sbagliato tutto “dal mio punto di
vista di domani”, morirei comunque abbastanza soddisfatto (soggettivamente)
della vita (incompiuta) che ho vissuto. Ma il semplice pensiero che,
continuando a vivere, in futuro potrei trasformare la mia “brutta copia” in una
“bella copia” è un pensiero che dà per scontato un “progresso” nella mia
consapevolezza. Tale progresso però non è scontato: potrei vivere a lungo e
rovinare una vita che era invece “una bella copia” proprio nel mio passato.
L’idea del compimento è soggettiva e può cambiare in ogni fase della vita. Tali
cambiamenti non procedono verso una perfezione oggettiva. Su un piano oggettivo
le vite degli esseri umani non sono né “poco vissute” né “incompiute”. E
nemmeno “compiute”. Sono ciò che sono e basta.
Sia
la tendenza ad oggettivare, sia la tendenza a collocare in una narrazione le
tappe della vita sono aspetti della soggettività: sono tendenze che si
manifestano assieme a milioni di altri fatti in una realtà semplicemente
“data”. Capita, nell’universo, che la mia vita si stia svolgendo, ma capita
solo a me di considerarla dal mio punto di vista più o meno importante e più o
meno “compiuta”. E con ciò torniamo allo “scarto” fra dimensione soggettiva e
oggettiva. E al dolore riconducibile al senso di precarietà che ci accompagna
(se non ce ne dissociamo) nel “grande mondo” in cui viviamo, che è bellissimo, terribile e comunque
“altro da noi”.