giovedì 19 luglio 2018

35. Cosa proviamo ad essere noi stessi?







Credo sia venuto il momento di chiarire in modo articolato alcune questioni che finora ho solo sfiorato e che riguardano la relazione fra soggettività e oggettività e quindi le idee (fondate o arbitrarie) su noi stessi e sulla realtà oggettiva. Come al solito procederò in modo discorsivo, senza esporre dettagli non necessari delle varie concezioni metafisiche e delle conoscenze scientifiche, ma traccerò una mappa del patrimonio collettivo di conoscenze e di illusioni che porta gli esseri umani a concepirsi in modi spesso strani e a fare discorsi irrazionali su loro stessi che servono, di fatto, solo a sentire “poco” e a “vivere poco”. Trattando una questione particolare come la coscienza di sé potrò evidenziare che sia gli studiosi, sia le persone prive di conoscenze specialistiche subiscono i pesanti condizionamenti di una cultura diffusa che ostacola le domande scomode, i dubbi e la consapevolezza di ciò che si conosce e di ciò che non si conosce.

La teoria dell’evoluzione spiega in modo convincente le tappe di una lunga storia che ha consentito la sopravvivenza delle specie grazie alla trasmissione e alla selezione di alcune caratteristiche. In tale lento processo oggettivo si colloca anche la manifestazione in certi casi di attività coscienti e, nella specie umana, di una complessa autocoscienza. La neurofisiologia spiega molti aspetti dei meccanismi cerebrali che corrispondono a varie manifestazioni o alterazioni della coscienza. Questa preziosa massa di conoscenze, tuttavia, non spiega in alcun modo come mai fra tanti oggetti esistenti solo alcuni provino qualcosa ad essere ciò che sono. Il fatto che noi, oltre ad “esserci”, proviamo qualcosa e addirittura sappiamo di provare qualcosa, non è un fatto ovvio. Tra l’altro, provando qualcosa ed essendone coscienti ci formiamo un’idea di noi stessi e concepiamo anche gli altri (o almeno quelli più simili a noi) non solo come oggetti della nostra attenzione, ma come soggetti che, a loro volta, provano qualcosa, ne sono coscienti, hanno una loro idea di ciò che sono e persino di noi stessi.
La compresenza di oggetti che “stanno dove stanno e basta” (come i sassi), di oggetti che manifestano elementari “movimenti vitali” senza presumibilmente provare nulla (come gli organismi unicellulari), di oggetti che si muovono perché provano qualcosa (come i mammiferi) e di oggetti che sono addirittura consapevoli di ciò che provano e si considerano soggetti responsabili delle loro azioni (come gli esseri umani) costituisce un incubo conoscitivo. Infatti, il “mondo” dei nostri ricordi, dei nostri progetti, delle nostre sensazioni e delle nostre idee su noi stessi e sugli altri ci risulta ben diverso dal “mondo esterno” in cui ci sono oggetti che non provano nulla o che provano qualcosa, ma non ciò che proviamo noi. Il fatto stesso che esista qualcosa non è “ovvio” e non è ovvio nemmeno che fra le tante cose esistenti solo alcune siano esseri viventi. Ma il fatto che alcuni esseri viventi sappiano di essere qualcosa e addirittura pensino di essere qualcuno, crea una sorta di tensione: se ci pensiamo come soggetti (un particolare soggetto), vediamo il mondo come lo sfondo della nostra esistenza, mentre se ci pensiamo come oggetti (un oggetto fra i tanti), vediamo la nostra dimensione soggettiva come qualcosa che vacilla, sfuma, si perde fra i dettagli del tutto.
Credo sia opportuno spendere qualche parola per evidenziare ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo di “noi”. Ho sempre evitato di usare concetti psicologici come “Io” o “Sé” (tanto cari agli psicologi) e concetti come “materia” o “spirito” (tanto cari ai filosofi metafisici). Il nocciolo della questione, infatti, riguarda il fatto che abbiamo un “nostro” punto di vista soggettivo che però ci costringe a concepire anche un punto di vista oggettivo che non è non più “nostro”. In questa “tensione” si collocano le domande e le risposte (razionali e irrazionali) relative a ciò che ci rende “noi stessi”. Con buona pace di Cartesio, non siamo soggetti isolati che grazie alle loro idee chiare e distinte riescono a farsi un’idea della realtà e dei loro simili, ma siamo esseri pensanti in quanto collegati alla realtà e agli altri. Donald Davidson ha sottolineato l’interazione fra questi tre ambiti della conoscenza e l’irriducibilità di ognuno di essi agli altri: “io ho, come ogni altra creatura razionale, tre tipi di conoscenza: conoscenza del mondo oggettivo (…); conoscenza delle menti altrui; e conoscenza dei contenuti della mia mente. Nessuno di questi tre tipi di conoscenza è riducibile a uno degli altri due, né alla combinazione degli altri due. Anzi, dal fatto che posseggo uno di questi tipi di conoscenza segue che ho gli altri due, perché il triangolo fondamentale è una condizione del pensiero, ma nessun tipo di conoscenza è concettualmente o temporalmente prioritario rispetto agli altri” (2001, p. 111). Tale tesi, affermata da uno dei maestri della filosofia analitica contemporanea, “si incastra” bene con le ricerche relative alle origini della specie umana e, in particolare, con ciò che sappiamo sul rapporto strettissimo fra l’evoluzione delle nostre capacità (affettive e cognitive) e la creazione di relazioni (intersoggettive e sociali). Tuttavia, l’idea della compresenza di tre tipi di conoscenza che si intersecano restando irriducibili, non attenua il disagio (psicologico ed esistenziale, più che conoscitivo) che proviamo nel riconoscerci sia come oggetti conoscibili, sia come soggetti conoscenti. Più raggiungiamo una conoscenza soddisfacente (oggettiva) della realtà, più ci scontriamo con la difficoltà di conoscere davvero (oggettivamente) il nostro mondo privato (soggettivo), che resta inaccessibile agli altri. Tale fatto tormenta gli esseri umani da sempre e costituisce una sorta di conseguenza inevitabile della coscienza di essere coscienti. Crea molto disagio proprio perché non è un semplice rompicapo intellettuale, ma ha riflessi notevoli sul piano emotivo. In altre parole, ogni dimensione soggettiva (e ogni storia personale) sembra un ambito di passione e di compassione collocato in un più ampio ambito impersonale e “impassibile”.
Thomas Nagel ha usato l’espressione “uno sguardo da nessun luogo” (1986), che rende perfettamente l’idea di una polarità fondamentale fra il nostro punto di vista e quello di tutti e di nessuno. L’incubo della “tensione” fra soggettività e oggettività genera altri “sotto-incubi”. Noi esseri umani tendiamo facilmente a considerare oggettivo non solo ciò che possiamo accertare assieme agli altri, ma anche ciò che rientra nella nostra dimensione soggettiva. Ho già chiarito che affermando certi valori tendiamo a dare un valore assoluto a ciò che per noi è importante e che nell’etica, come ha evidenziato Bertrand Russell, parliamo all’indicativo di ciò di cui dovremmo parlare all’ottativo, cioè affermiamo che “è morale” (oggettivamente) ciò che vorremmo veder realizzato. Parlando della "tendenza all’oggettivazione" chiarirò come siamo spesso portati a commettere questo errore anche quando non affermiamo valori o doveri. A ciò si aggiunge un altro “sotto-incubo” costituito dalla tendenza degli esseri umani a concepirsi come collocati nella trama di una narrazione personale. Tale tendenza comporta una sensazione (normalmente minimizzata) molto dolorosa di precarietà, dovuta al fatto che, pur considerandoci autori della nostra storia, non abbiamo il controllo del futuro della storia che creiamo. Siamo artefici di una narrazione soggettiva che però è subordinata alla realtà oggettiva.
Trattando tali argomenti non intendo scivolare dall’ambito che mi compete e mi è congeniale (l’analisi delle difese psicologiche) a quello della storia del pensiero. Voglio semplicemente ricapitolare i termini delle discussioni più interessanti, evidenziare le posizioni ragionevoli e quelle inconsistenti e collegare tutta la questione a quella su cui ho realmente la possibilità di aggiungere qualcosa: infatti, sono convinto che le soluzioni “comode” alle domande più scomode sul rapporto fra dimensione soggettiva e oggettiva, siano soluzioni “difensive” rispetto al dolore che la nostra esistenza comporta.
Noi umani disponiamo ormai di teorie abbastanza solide che spiegano vari aspetti della realtà oggettiva (teorie fisiche, biologiche, cosmologiche, ecc.) e di teorie che spiegano alcuni dettagli della dimensione soggettiva (teorie dell’apprendimento, dei processi mnemonici e persino delle difese psicologiche), ma non disponiamo di teorie adatte a spiegare la relazione fra la realtà oggettiva e la realtà soggettiva. E non a caso: la scienza evita appositamente le domande relative alla realtà in quanto tale. Risponde a domande relative ai processi osservabili della realtà; individua regolarità, relazioni causali, ricava previsioni e controlla le previsioni. Cosa “sia” la “realtà” che “include” i processi oggettivi di tipo fisico o biologico e cosa “sia” la “realtà” dei fenomeni soggettivi non è rilevante per la scienza: tali questioni sono da sempre affrontate speculativamente dai filosofi metafisici i quali però non hanno prodotto reali conoscenze. Alfred J. Ayer ha affermato che “la mente e il corpo non debbono essere considerati come due entità” e che parlare della mente o parlare del corpo equivale a classificare e interpretare in “due modi diversi” le nostre esperienze (1953, p. 88). Rudolf Carnap, in modo ancor più netto ha affermato che “Accettare il mondo cosale non significa niente di più che accettare una certa forma di linguaggio. In altre parole, accettare regole per formulare e dimostrare enunciati, per accoglierli o respingerli" (1950, p. 633). Tuttavia, tale coerente rifiuto di introdurre speculativamente delle “sostanze” nell’ambito delle spiegazioni scientifiche, non impedisce agli esseri umani (anche a quelli poco interessati alle speculazioni) di riconoscere lo scarto fra il fatto di essere inclusi fra gli oggetti osservabili da tutti e il fatto di provare qualcosa e di avere un punto di vista “privato” sull’intera realtà.
Nel grande mondo in cui si addensano eventi accade che una cellula si scinda, che un animale vada a caccia e che io pensi di andare a Milano e vada a Milano. In questa lettura oggettiva delle cose, il “mio” viaggio a Milano si trasforma: cessa di essere un impegno, una opportunità, un’avventura e diventa un insieme di movimenti delle mie cellule, dell’auto che uso fino al parcheggio della stazione, del mio corpo che si avvia verso il treno. Improvvisamente divento un oggetto che si muove nel grande mondo (come le cellule, le zanzare e gli scoiattoli) e che fa anche una cosa più complicata, come quella di concepire e realizzare un viaggio importante che però non ha la stessa “importanza” per gli altri passeggeri dello stesso treno e per i tanti esseri umani che nemmeno si trovano su quel treno. Nel passaggio da una descrizione soggettiva ad una oggettiva, il mio viaggio diventa solo un battito d’ali in un vuoto cosmico. Tuttavia, anche se davvero “accetto” di essere “solamente” un battito d’ali nel grande mondo “di tutti e di nessuno”, non trovo pace: ho dato un nome e una nuova “collocazione” a me stesso e al mio viaggio, ma non sono uscito dalla “mia” soggettività. Persino con quella ridefinizione “oggettivante” ho “fatto qualcosa”, “pensato qualcosa” e “sentito qualcosa” come soggetto.
La coscienza non è “una cosa” in più nel “mondo delle cose”. E’ un altro mondo. E’ un mondo soggettivo che tratta il mondo “di sempre” come l’oggetto della propria attenzione. I sassi vengono mossi, gli organismi unicellulari si muovono secondo schemi ripetitivi, gli animali agiscono “spinti da istinti”, gli esseri umani agiscono perché provano il desiderio di affrontare la realtà e pensano anche di poter interagire con altri esseri concepiti come soggetti e non solo come oggetti. Gli esseri coscienti e, in particolare, gli esseri umani autocoscienti non dispongono solo di complesse strutture nervose, ma hanno la possibilità di provare qualcosa e di avere un punto di vista sugli altri (ed anche su di sé e persino sul proprio sistema nervoso). Secondo la teoria dell’evoluzione, prima della coscienza c’era una realtà oggettiva popolata da piccoli esseri viventi del tutto ignari di vivere in una realtà “oggettivamente data”. Noi concepiamo una dimensione oggettiva proprio perché “abitiamo la casa della nostra soggettività”. Inoltre, consideriamo “davvero reali” solo i fatti confermati da altri soggetti: se in un sogno vediamo un cavallo con le ali, al risveglio non crediamo che esista davvero proprio perché non è mai stato osservato dagli altri. In fondo, la più sofisticata operazione svolta nell’ambito della dimensione soggettiva è proprio quella consistente nell’affermazione di una dimensione oggettiva.
Donald Davidson, come abbiamo visto, ha posto al centro delle sue riflessioni il rapporto fra la conoscenza di sé, degli altri e della realtà, mentre Thomas Nagel ha posto al centro delle sue analisi proprio la questione più a monte, relativa al rapporto fra la dimensione soggettiva e quella oggettiva. A mio parere, un suo breve articolo del 1974 intitolato provocatoriamente Che effetto fa essere un pipistrello e in seguito incluso nel libro Questioni mortali (1979) costituisce una pietra miliare sul tema e risulta anche un discorso “definitivo”. Tale articolo è da anni citato in qualsiasi studio rispettabile sull’argomento e ciò dimostra che, anche se non tutti gli studiosi concordano con Nagel, tutti ritengono che egli abbia evidenziato in modo “spietatamente intrigante” i termini della spinosa questione. Egli parte da una semplice considerazione: “fondamentalmente, un organismo ha stati mentali coscienti se e solo se fa un certo effetto essere quell’organismo – un certo effetto per l’organismo. Possiamo chiamare questo il carattere soggettivo dell’esperienza” (1979, pp. 242-243).
Al fine di dimostrare l’impossibilità di qualsiasi riduzione dei fenomeni soggettivi a stati o processi fisici, Nagel prende in considerazione un animaletto abbastanza simile a noi (in quanto mammifero), ma molto diverso da noi per il suo sistema percettivo. I pipistrelli, infatti, “percepiscono il mondo esterno principalmente con un ecogoniometro, o ecolocalizzatore, che scorge i riflessi che provengono dagli oggetti all’interno del loro raggio d’azione, attraverso le loro strida brevi, sottilmente modulate, ad alta frequenza. (…) l’ecogoniometro di un pipistrello, anche se è chiaramente una forma di percezione, non è simile, nel suo modo di funzionare, a uno qualsiasi dei nostri sensi (…) Questo sembra creare difficoltà per la nozione dell’effetto che fa essere un pipistrello” (1979, p. 245). L’autore chiarisce meglio tale difficoltà precisando che se noi immaginassimo di avere membrane palmate sui nostri arti e di volare di notte acchiappando insetti, per poi riposarci appesi a testa in giù, ci limiteremmo ad immaginare che effetto farebbe a noi essere dei pipistrelli. Per completare il discorso, Nagel sottolinea che se dei pipistrelli molto intelligenti o dei marziani cercassero di farsi un’idea di che effetto fa essere noi, si troverebbero nella stessa difficoltà. Per questi motivi, quindi, i fatti “a proposito di che effetto fa essere un essere umano, o un pipistrello, o un marziano, sembrano essere fatti che incorporano un particolare punto di vista” (1979, p. 249).
Nagel va oltre, sottolineando che una sempre maggiore comprensione della fisiologia della percezione non cambierebbe nulla e che quindi anche un’ipotetica conoscenza oggettiva molto approfondita delle esperienze soggettive non farebbe chiarezza sulle esperienze fatte dai soggetti in questione. “Dopo tutto, cosa resterebbe dell’effetto che fa essere un pipistrello se si rimuove il punto di vista del pipistrello?” (1979, p. 251). Antonio Damasio ha scritto uno dei suoi libri più importanti per evidenziare e correggere “l’errore di Cartesio”, ovvero “l’abissale separazione tra corpo e mente” (1994, p. 338), ma, dopo più di trecento pagine ha ammesso: “Mi piacerebbe poter affermare che si sa con certezza in quale modo il cervello produce la mente, ma non sono in grado di farlo, e temo che nessuno lo sia” (1994, p. 349). Mentre l’utilizzazione di microscopi e telescopi ci permette di raggiungere conoscenze della realtà oggettiva più accurate di quelle ottenibili con l’uso del nostro apparato percettivo, nessun ipotizzabile progresso nello studio dei processi cerebrali può approfondire la conoscenza delle nostre esperienze o riflessioni o fantasie soggettive. “Se il carattere soggettivo dell’esperienza è pienamente comprensibile solo da un punto di vista, allora ogni spostamento verso una maggiore oggettività (…) non ci porta più vicino alla reale natura del fenomeno: ce ne allontana ancor di più” (T. Nagel, 1979, p. 252).
Mi sono soffermato su queste riflessioni di Thomas Nagel per far presente che non sto esponendo una concezione personale e “originale”. Questo filosofo di orientamento analitico, a mio parere, ha fatto considerazioni discutibili sul tema della moralità, ma ha trattato il tema della soggettività in modo terribilmente rigoroso e convincente. Non si è impantanato in discorsi speculativi sulla “essenza” materiale o spirituale della realtà e le sue conclusioni, hanno tagliato le gambe a tutte le idee “ottimistiche” secondo le quali i progressi nello studio del cervello offriranno “spiegazioni” sempre più accurate della coscienza umana. Nagel ha chiarito che tale questione si colloca fra quelle che, pur formulate correttamente, non possono avere alcuna risposta. Pietro Perconti ha raccolto e sintetizzato in un suo saggio sull’autocoscienza una quantità notevole di speculazioni, ricerche empiriche ed elaborazioni teoriche sul tema in questione, ma ha dovuto ammettere che “Benché il desiderio di indagare scientificamente l’evoluzione dell’autocoscienza sia emerso già ai tempi di Darwin (…) ancor oggi non disponiamo che di congetture” (2008, p. 129). Affermare che la dimensione soggettiva “non è altro” che un sussulto della “materia” (o del sistema nervoso) è arbitrario come affermare che la dimensione soggettiva dimostra l’esistenza di una “sostanza spirituale” distinta da quella “materiale”. Credo valga la pena riportare alcuni esempi di questi comodi “giochi di prestigio” intellettuali perché, a mio parere, queste concezioni della realtà riflettono la paura di convivere con il dolore: in questo caso, il dolore dovuto al fatto che non disponiamo di alcuna risposta alle domande più delicate relative alla “posizione” che occupiamo nella realtà oggettiva.
Le persone “moderne” e “laiche” (sia quelle più colte, sia quelle più ignoranti) spesso chiudono la porta all’inquietudine affermando che sicuramente la scienza, prima o poi, chiarirà ciò che ancora non sappiamo in merito all’autocoscienza. Tuttavia, questa “fede” non chiarisce come la conoscenza di nuovi fatti oggettivi possa illuminarci sulla soggettività. Sul versante opposto, le persone colte o ignoranti ma molto “devote”, chiudono la porta all’inquietudine affermando che la soggettività è semplicemente un’espressione dell’anima e che l’anima non può essere studiata dalla scienza, ma può essere affermata dalle persone che hanno fede. Tali fatti mi riportano all’idea che in una società composta da bambini spaventati divenuti adulti determinati a vivere “poco”, non solo le questioni riguardanti il contatto, la sessualità e la ripartizione delle risorse vengono “risolte” da ideologie basate su svalutazioni e illusioni, ma anche la questione relativa al nostro essere sia oggetti, sia soggetti, viene normalmente “risolta” con la fede “scientista” nella riduzione del soggettivo all’oggettivo o con la fede religiosa.
Il riduzionismo viene a volte formulato in termini “funzionalisti”. Ad esempio, l’intenzionalità umana è assimilata a quella di un distributore di bevande: il distributore è fatto in un certo modo e funziona in un certo modo (reagisce alla monetina offrendo una bibita) e noi siamo fatti in un altro modo e funzioniamo in un altro modo, offrendo, a seconda dei casi, carezze o insulti. Daniel Dennett (1987; 1996) ha descritto meticolosamente mappe di processi gerarchicamente ordinati che suggeriscono un’idea del modo in cui la semplice reattività degli esseri viventi più elementari può essere divenuta, per tappe successive, così complessa da rendere le azioni degli individui prevedibili in termini intenzionali. Altri ricercatori hanno sottolineato la “informazione integrata” che si realizza in parti specifiche del cervello (Tononi, 2014, pp. 146-162). Altri hanno trattato i “paradossi” dell’autocoscienza cercando lumi nella logica matematica e, in particolare, nei teoremi limitativi di Godel (Hofstadter, 1979, p. 755). Tuttavia, tali audaci acrobazie intellettuali non ci liberano dal fatto che da un certo momento (o grado di complessità) la selezione di “parti” o di “funzioni” ha dato luogo a quel cambiamento radicale costituito dal “provare qualcosa” e dall’avere un “punto di vista”. Negli ultimi anni, anche i computer hanno permesso a molti studiosi di immaginare che la nostra coscienza non sia altro che una funzione della materia: il silicio genera la “coscienza” dei computer, mentre le cellule generano la coscienza degli animali e l’autocoscienza degli esseri umani. Tuttavia, a mio parere, Hubert Dreyfus ha smontato tale ipotesi pezzo per pezzo, chiarendo cosa non possono fare i computer (1979). Infatti, la concezione riduzionista di ciò che “davvero” siamo, formulata in riferimento alla cibernetica, non spiega come mai proviamo qualcosa annusando un fiore e persino leggendo in un libro l’esposizione di una teoria riduzionista, mentre i fiori e i libri non provano nulla.
Nel suo volume Il bello, il buono, il vero, Jean-Pierre Changeux, noto per le sue ricerche sul sistema nervoso, scrive: “sappiamo che il cervello dell’essere umano contiene le basi neuronali per la coscienza di sé” (2008, p. 323). Ma tali “basi”, in quale senso sono “basi”? Dato che fanno parte del cervello e riguardano la sua attività, rientrano nei dati oggettivi e Changeux commette, quindi, un errore quando arriva ad affermare che “sentiamo la musica con il cervello” (2008, p. 50). Possiamo amare o detestare un brano musicale, ma quando proviamo delle sensazioni e pensiamo o immaginiamo qualcosa ascoltando quella musica stiamo compiendo operazioni che, pur avendo “basi” fisiche, avvengono in una dimensione assolutamente privata che nessun biologo può fotografare o pesare o descrivere in alcun modo. E con ciò torniamo alle considerazioni svolte da Thomas Nagel.
Persino Jacques Monod, pur contestando le filosofie dualiste, ha sottolineato che, nonostante tutti i progressi scientifici, l’uomo resta comunque un “unico e innegabile testimone di se stesso” (1970, p. 153). Alfred Jules Ayer, un altro avversario del dualismo spiritualista, ha evitato semplificazioni ingenue e dogmatiche evidenziando la debolezza del riduzionismo più di mezzo secolo fa con un’osservazione candidamente provocatoria che merita di essere ricordata: “Mi riesce difficile immaginare uno cui sembri di sentire un gran dolore e che, informato che il suo cervello non si trova nella condizione prescritta dalla teoria, decida di essersi sbagliato credendo di star provando dolore” (1973, p. 176). In altre parole, non solo le concezioni metafisiche perdono credibilità se analizzate in modo rigoroso, ma anche le concezioni speculative associate alle scoperte scientifiche perdono credibilità appena distinguiamo in esse gli enunciati scientificamente dimostrati da quelli dogmaticamente affermati. Tutte le forme di riduzionismo finiscono per mescolare alcune conoscenze preziose e alcune assunzioni arbitrarie. Anche esse, di fatto, aggirano l’esperienza scomoda e dolorosa che deriva dalla mancanza di alcune verità a cui vorremmo aggrapparci per non sentirci smarriti.
Il tema della soggettività crea difficoltà alle concezioni riduzionistiche, ma crea difficoltà anche al dualismo spiritualista. Non mi riferisco solo allo spiritualismo religioso, ma a qualsiasi concezione volta ad ipotizzare un secondo piano di realtà corrispondente alla dimensione esperienziale soggettiva. Mentre le religioni hanno come base una fede (e quindi un rifiuto della conoscenza), le concezioni spiritualiste non religiose cercano di suggerire possibili spiegazioni di fenomeni difficili da spiegare. Tuttavia, anche quelle più ragionevoli (fondate sullo studio di fenomeni paranormali considerati ai confini della realtà ordinaria), ci lasciano in una situazione di incertezza. Se ammettiamo un piano di realtà distinto da quello fisico, troviamo difficile capire come si realizzi negli esseri umani l’intreccio fra i due piani, ritenuti indipendenti. Di queste linee di ricerca parlerò più avanti, ma per ora voglio sottolineare che le assunzioni relative alla “realtà in quanto tale” non ci liberano dalla “tensione” scomoda fra la dimensione oggettiva e quella soggettiva.
Noi umani manifestiamo una marcata tendenza a fare confusione fra soggettività e oggettività non solo quando attiviamo difese svalutative di tipo morale, ma anche quando consideriamo oggettivamente importante o significativo ciò che è tale per noi. Ricorrendo ad un orologio possiamo misurare oggettivamente il ritardo di qualcuno ad un appuntamento e capire che, anche se ci è parso di aver sperimentato una lunghissima attesa, di fatto abbiamo dovuto aspettare solo sei minuti. Quando, invece, affermiamo che non “sprecheremmo” il nostro denaro accumulando abiti firmati, perché intendiamo farne un uso “sensato” per acquisti davvero “importanti”, non stiamo cercando di capire qualcosa, ma stiamo affermando che alcune cose della vita hanno “valore” e altre non ne hanno. E stiamo affermando un principio inteso come valido per tutti e non semplicemente per noi, anche se esso non è valido per tutti e sicuramente non lo è per chi frequenta il “mondo della moda”. Manifestando questa tendenza all’oggettivazione, di fatto, facciamo una sorta di pubblicità scorretta a ciò che pare a noi e per questo non produciamo conoscenza. Credo sia necessario distinguere questo tipo di oggettivazione dalla sua “applicazione particolare” di tipo etico: nell’oggettivazione di cui parlo ora in termini generali, non affermiamo l’immoralità ma l’insensatezza o futilità o banalità di qualcosa. E abbiamo l’impressione di affermare valori generali. Tuttavia, oggetti, animali e persone sono più o meno importanti soggettivamente perché hanno effetti particolari sulla sfera dei desideri soggettivamente sperimentati e questo fatto contraddice l’idea che “esistano” criteri oggettivi in base a cui attribuire o negare importanza, valore e significato a qualcosa. Chi afferma che la famiglia è “sacra”, che la cultura è preziosa, che servire la patria è un onore, di fatto oggettivizza stati d’animo soggettivi che sicuramente non sono condivisi da chi trascura il/la partner e i figli (magari per dedicarsi ad impegni lavorativi “più importanti”), da chi ha letto libri solo a scuola e dalle persone che si sentono “cittadini del mondo” e non “patrioti”. E ciò non cambia se qualcuno aggiunge che le “cose importanti” oltre ad essere tali “dovrebbero” essere riconosciute da tutti come tali.
La nostra dimensione soggettiva (fatta di convinzioni, desideri ed emozioni) è solo nostra e possiamo riconoscere che va già bene se almeno con qualcuno possiamo sentirci in sintonia. La tolleranza è sempre servita a far convivere negli ambiti della quotidianità persone con preferenze diverse, atteggiamenti diversi e aspirazioni diverse. Tuttavia, in generale, lo “scarto” fra la dimensione soggettiva e quella oggettiva resta difficile da accettare, da gestire e persino da riconoscere e troviamo quasi insopportabile arrenderci al fatto che ciò a cui teniamo molto sia semplicemente una nostra preferenza. E che tale nostra preferenza sia, quindi, semplicemente una delle tante cose che accadono nella realtà oggettiva. Soprattutto di fronte a certi comportamenti violenti, umilianti o crudeli proviamo un rifiuto profondo e proviamo il bisogno di pensare che certe cose non siano semplicemente a noi sgradite, ma siano inaccettabili. Anche se non abbracciamo alcun moralismo, vogliamo pensare che lo siano in assoluto, per chiunque, da sempre e per sempre. Se dovessimo rinunciare ad usare termini come “banale”, “superficiale”, “stupido” o “importante”, “significativo”, “sensato” o “prezioso”, finiremmo per cercare dei sinonimi o per inventarne di nuovi. Questo fatto è in genere trascurato o minimizzato. I filosofi che affermano il relativismo dei valori non arrivano ad esaminare la difficoltà psicologica a tracciare una netta distinzione fra soggettività e oggettività e quelli che affermano la “evidenza” di alcuni valori ricadono nella speculazione metafisica. E’ terribilmente penoso riconoscere che ciò che è “banale” per noi non sia oggettivamente banale e che ciò che è “prezioso” per noi non sia oggettivamente prezioso. Per questo abbiamo tanta voglia di prendere scorciatoie rassicuranti e di affermare in modo perentorio cose di questo tipo: “la superficialità degli altri è insopportabile”, “è difficile vivere in un mondo di pazzi”, “noi abbiamo una missione da compiere”, “frequento solo persone di un certo livello”, “molti non capiscono ciò che conta davvero”, e così via. Di fatto, però, queste “scorciatoie” riguardano fenomeni molto diversi e anche opposti, dato che sono utilizzate da reazionari, rivoluzionari e qualunquisti, da credenti e atei, da intellettuali e persone di scarsa cultura. E conducono a conflitti inutili e a svalutazioni distruttive.
Partendo da queste considerazioni possiamo sicuramente affermare che la compresenza della dimensione soggettiva e di quella oggettiva è molto dolorosa. Ciò genera una domanda: possiamo, senza dissociarci, attenuare in qualche modo ragionevole tale tensione? La distinzione fra modi di pensare, sentire e agire espressivi e difensivi consente, entro certi limiti, sia di mantenere una rigorosa distinzione fra dimensione soggettiva e oggettiva (e quindi di considerare errata l’oggettivazione di preferenze, sentimenti e desideri soggettivi), sia di chiarire in quali casi le nostre oggettivazioni sono almeno collegate a fatti oggettivamente accertabili. La distinzione fra espressione di sé e difese, tanto trascurata nell’ambito della ricerca psicologica, risulta, quindi, ancora una volta fondamentale: il lavoro analitico offre una “terza via” rispetto al relativismo nichilista e all’affermazione metafisica di valori “assoluti”. Purtroppo, tale “terza via”, non essendo speculativa, non è davvero “rassicurante”. Ci permette solo di chiarire che alcune cose importanti per noi sono (in assenza di difese psicologiche) percepite come importanti da tutti i nostri simili. Infatti, manifestando (senza attivare difese psicologiche) le capacità empatiche che rientrano nelle potenzialità dell’intera specie umana, possiamo affermare che il nostro impegno, anche se non è prezioso oggettivamente, lo è sia per noi, sia per i nostri simili.
Proprio facendo leva sull’empatia e sulla razionalità possiamo affermare l’importanza per noi e per tutti i nostri simili di una felicità condivisa. Possiamo ragionevolmente considerare importante giocare con i nostri figli perché ciò li rende certamente felici e possiamo considerare assurdo imporre a loro delle norme che li rendono infelici e li portano a dissociarsi da ciò che sentono. Possiamo in fondo dimostrare sul piano empirico, che l’espressione della razionalità e dell’empatia non rende gli esseri umani identici, ma realmente simili. Ciò li accomuna nell’apprezzare certe cose e non altre. Gli esseri umani hanno voglia di sopravvivere, ma soprattutto di provare piacere nel gioco, nell’intimità, nella conoscenza, nella creazione di legami, nella creazione e nella condivisione della felicità. Sbagliano se oggettivano ciò che provano, ma in certi casi possono dimostrare che ciò che provano riflette tendenze profonde di ogni essere umano. Il lavoro sulle difese psicologiche ci aiuta a convivere con il dolore inevitabile nell’esistenza. Ci aiuta anche a convivere con l’impossibilità di conciliare la dimensione soggettiva con quella oggettiva e ad “accontentarci” di quella parziale ma ragionevole oggettivazione consistente nel riconoscere che alcuni aspetti della soggettività caratterizzano (almeno potenzialmente) tutti i nostri simili.
La distinzione fra ciò che è espressivo e ciò che è difensivo ci aiuta sia a non sprofondare nel relativismo assoluto (necessariamente affermato con distacco), sia a non smarrirci nelle speculazioni metafisiche su ciò che gli esseri umani “dovrebbero” pensare e sentire. Noi siamo individui unici, ma siamo eredi di una storia condivisa in cui abbiamo anche acquisito delle competenze che ci accomunano. Pur essendo unici nel nostro modo di esprimere ciò che ci definisce come individui, siamo “fratelli” nell’essere depositari di alcune risorse affettive e cognitive. Lo siamo e questo è un fatto, non un ideale. Dobbiamo però accontentarci di questa “oggettivazione” (empirica, non metafisica) di alcuni aspetti della nostra vita che ci toccano in profondità. Infatti, siamo membri di una delle moltissime specie che sono apparse (e scomparse) nella storia di un universo in cui è accaduto, accade e accadrà di tutto. Gli altri animali nemmeno concepiscono la nostra “base condivisa” di cose umanamente importanti e non sappiamo cosa ne pensino i marziani o gli angeli. Se proviamo a immaginare la distanza che separa il nostro universo da altri universi, o gli anni che ci separano dal big bang, dall’origine della vita sulla terra, dai primi scimmioni nudi, quale “consistenza” possiamo dare alla “base comune” che ci avvicina agli altri esseri umani o almeno ad alcuni di loro?
Eravamo partiti dal disagio di non poter dare un valore oggettivo alle nostre esperienze soggettive e siamo giunti alla consapevolezza di poter condividere l’importanza di certe esperienze almeno con i nostri simili (o con alcuni di essi). La realtà costituita dai nostri simili è però solo una “soggettività dilatata” (relativa ad una delle tante specie) in una realtà oggettiva immensa che procede implacabilmente al di là di qualsiasi soggettività individuale o di qualsiasi “base” comune a qualsiasi specie. Dobbiamo, quindi, pensare che l’importanza delle nostre scelte più impegnative sia solo un bagliore in un caotico moto di dettagli di un universo “assente”?
Siamo forse nuovamente costretti a sprofondare nel nichilismo o ad aggrapparci a qualche intuizione metafisica? Non credo che l’analisi ora svolta ci riporti a tale alternativa, ma penso che ci costringa ad accettare un ulteriore dolore. Un dolore da cui dipende la nostra felicità. L’unica felicità a noi possibile. Possiamo rispettare il fatto che per noi è importante ciò che ci rende “umani”, e che rende tali i nostri simili, ma dobbiamo condividere con loro anche la solitudine di essere membri di una specie che è solo una delle tante specie. Dobbiamo accettare che anche il punto di vista della nostra specie non è altro che un “grande” punto di vista soggettivo, nel “più grande” mondo “di tutti e di nessuno”. Può sembrare paradossale, ma per non sentirci completamente soli dobbiamo condividere coi nostri simili tutte le sfumature delle nostre solitudini. A tale proposito valgono come utile spunto di riflessione le parole di un uomo di scienza che non ha perso la passione per le vicende umane non traducibili in equazioni: “Nasciamo e moriamo come nascono e muoiono le stelle, sia individualmente che collettivamente. Questa è la nostra realtà. Per noi, proprio per la sua natura effimera, la vita è preziosa” (Rovelli, 2014, p. 83). Possiamo individuare le ragioni per cui la cultura respinge la consapevolezza del dolore, ma abbiamo bisogno di accogliere quel dolore e salvare quel modo di pensare e di sentire che ci rende umani. E possiamo costruire relazioni veramente soddisfacenti con i nostri simili proprio condividendo la consapevolezza di essere ciò che siamo nel mondo oggettivo che è ciò che è.
Credo sia utile notare che spesso cerchiamo di sentirci meno smarriti non solo oggettivando ciò che ci tocca soggettivamente ma anche collocando tutte le nostre esperienze, i nostri ricordi e i nostri progetti in una sorta di narrazione. Quasi a voler sembrare più “solidi” grazie alla storia che ci definisce. Già nella soggettività di altri animali si presenta, appena accennata, la tendenza umana ad inquadrare i fatti in una narrazione: il cane inferisce da un particolare rumore che qualcuno della famiglia sta rientrando e si prepara, consapevolmente, a fare qualcosa (le feste) e non a fare “qualsiasi cosa”. Le “narrazioni” canine, però, sono davvero “minimaliste”, perché mancano di una trama generale capace di dare “peso” ai singoli eventi e coerenza al personaggio principale. La mia storia non è da me concepita come una lunga pausa in cui ogni tanto prendo decisioni a breve termine; essa non prevede sviluppi che risulterebbero estranei alla narrazione che sto sviluppando “nella mia testa”. Include purtroppo la memoria di errori che non ripeterei, ma che sono stati errori “concepibili” nella storia di una persona come me. Include, purtroppo, il timore di commettere altri errori, ma non certo il timore di ubriacarmi ad un rave party, perché se farò sciocchezze esse saranno sciocchezze compatibili con la mia storia.
Non possiamo fare a meno di organizzare in una “trama” ciò che pensiamo, ciò che proviamo e persino ciò che è semplicemente accaduto. Per questo non credo che la tendenza a costruire, anche senza saperlo, una narrazione della nostra vita, costituisca un’operazione difensiva. Semmai i modi di ricapitolare le esperienze in una narrazione possono essere espressivi o difensivi. Le sorprese non ci sarebbero se non ci fossero narrazioni. E non ci sarebbero attese o decisioni. In pratica, il castoro compie quotidianamente il suo lavoro da architetto, senza raccontarsi nulla di una storia che semmai siamo noi ad immaginare. Gli esseri umani, invece, prendono in considerazione molti aspetti delle loro dimensioni soggettive e di quelle dei loro interlocutori. Possono anche distorcerli difensivamente, ma hanno la possibilità di conoscerli almeno in qualche misura e in ogni caso li mettono in fila in una pagina precisa di una sceneggiatura. Le storie tipicamente umane presuppongono l’idea che ogni evento e ogni azione rientri in una trama più grande e contribuisca allo sviluppo dell’intera vicenda e al raggiungimento di una possibile conclusione. Non possiamo pensare né a noi stessi né agli altri prescindendo dalla storia che abbiamo “in mente”.
Tutte le narrazioni personali sono tali perché si basano su un’idea del personaggio principale e su un’idea di ciò che condurrà ad una “compiutezza” l’insieme delle sue azioni e delle vicende che lo riguarderanno. Anche sforzandomi, non potrei immaginare la mia vita come una storia “finalmente realizzata” grazie ad una vincita ad una lotteria o come una storia che potrebbe concludersi “prematuramente” nel senso di “prima di diventare ricco”. Non potrei nemmeno immaginare la mia vita come una storia realizzata con uno “scacco matto” inflitto ad un nemico, né potrei temere di avere un infarto prima di compiere una vendetta. Proprio per il fatto di avere un’idea di me e della mia storia (in cui non hanno “peso” le lotterie o le vendette) concepisco la mia vita come un’opera già “compiuta” per molti aspetti e come un’opera che resterà presumibilmente (e dolorosamente) incompiuta per altri aspetti. Se l’idea di una narrazione personale è inevitabile, i contenuti di tale narrazione cambiano da persona a persona e a volte cambiano “in corso d’opera”. Proprio tali contenuti possono essere espressivi o difensivi. I cambiamenti sono possibili solo all’interno di un particolare campo di possibilità. Sherwood Anderson scriveva di getto e non correggeva mai i suoi romanzi: quando non procedevano in modo soddisfacente ricominciava da capo (1940, p. 22). Non so quante pagine bellissime (per me) egli abbia strappato, ma sicuramente ha gettato via abbozzi di storie incompatibili con la “vera” storia che voleva scrivere e anche con la storia che stava realizzando con le azioni anziché con la penna. Sicuramente non ha mai scritto una sola pagina “concepibile” da parte di Joyce o Borges. Le vite, quindi, sono vissute soggettivamente come narrazioni in corso: includono cambiamenti e anche cambiamenti radicali, ma solo cambiamenti relativi ad un “personalissimo” filo conduttore. Possiamo vietarci (difensivamente) di tener presenti molti aspetti (dolorosi) della nostra vita, ma, consapevoli o no di essi, ogni giorno scriviamo una pagina di una sola narrazione e in ogni momento ci chiediamo come si stia sviluppando l’intera vicenda che abbiamo concepito.
La fisica contemporanea ha chiarito che il tempo “della realtà oggettiva” (quello delle teorie scientifiche) è un po’ più “complicato” di quello che “abbiamo in mente”, ma ora voglio tener presente proprio il fatto (oggettivamente dato) che ogni soggettività genera una propria temporalità e costituisce una narrazione. La soggettività umana è “un mucchio di cose”, ma è sempre una narrazione e comporta anche quel dolore che caratterizza ogni storia personale. Le narrazioni letterarie possono avere (anzi, devono avere) una loro compiutezza, ma le narrazioni personali sono dolorose in quanto comportano necessariamente qualche tipo di incompiutezza. Se la nostra narrazione è il nostro sogno, l’incompiutezza è l’incubo che accompagna anche il sogno più bello. L’incompiutezza ha molte sfaccettature, ma credo che tre di esse possano essere considerate fondamentali.
La prima sfaccettatura, quella più evidente, riguarda la conclusione di ogni narrazione personale. Una conclusione non decisa dall’autore. Scriviamo continuamente pagine di un’opera, ma sappiamo di non avere il controllo di ciò che sarà decisivo per la sua conclusione. Tale “sottrazione del finale” avviene anche nei suicidi. In genere il suicidio viene attuato per motivi difensivi, ma anche se viene attuato per altri motivi è la conseguenza di una situazione (un dolore eccessivo, l’essere di peso agli altri, ecc.) che ha alterato la qualità della vita personale. La morte è particolarmente tragica quando interviene precocemente, cioè quando le persone non hanno ancora potuto fare un “bilancio esistenziale” riguardante ciò che ha reso soddisfacente la loro vita e ciò che sentono ancora mancante.
La seconda sfaccettatura dell’incompiutezza di ogni narrazione soggettiva non riguarda l’estensione nel tempo della trama, ma le particolari “limitazioni” che condizionano ogni vicenda. Chi è nato, vissuto e deceduto in un villaggio sperduto in un lontano passato non ha avuto nemmeno la possibilità di centellinare una poesia per noi “importantissima”; chi è nato con gravi limitazioni fisiche o le ha sperimentate in seguito ad una malattia o ad un incidente, ha perso la possibilità di fare o non fare molte cose che per altri sono scontate. Anche le persone in grado di vivere una vita “normale”, pur evitando di pensarci, vivono privati di alcune capacità: le capacità olfattive utilizzate da altri animali, o la capacità di volare normalmente manifestata dagli uccelli. Poiché siamo inclini a pensare entro lo schema della nostra esperienza abituale, tendiamo a considerare più tragica la perdita di capacità già sperimentate delle mancanze che caratterizzano la vita di tutti i membri della nostra specie, ma qualsiasi limitazione fa “morire” qualche ambito di espressione e qualche sviluppo narrativo. Anche quando ci consideriamo “fortunati” o “ben equipaggiati” per l’avventura che immaginiamo di realizzare, dobbiamo scontrarci non solo con la nostra “imprevedibile” morte e i nostri limiti, ma con tutte le limitazioni che gli altri e “il caso” ci impongono o ci potranno imporre.
Una terza sfaccettatura dell’incompiutezza delle narrazioni soggettive è costituita dal vivere “poco”. Il vivere “poco” non è dovuto all’intervento “finale” della morte o all’intervento del caso o degli altri su alcuni snodi della nostra storia , ma è dovuto a noi stessi. Il vivere “poco” è dovuto alle autolimitazioni e alle illusioni costruite inconsciamente nell’infanzia e mantenute negli anni e nei decenni successivi. Per varie circostanze mi sono da sempre confrontato soprattutto con questa terza sfaccettatura dell’incompiutezza della mia vita e delle vite dei miei simili. Non penso che essa sia necessariamente più dolorosa o “importante” delle altre, ma so che è tale da peggiorare anche gli effetti delle altre. Se certe perdite o mancanze condizionano la storia personale e se la morte interrompe “a suo piacimento” tale storia, il vivere “poco” determina modi riduttivi o distorti di sperimentare ogni momento dell’avventura in corso e anche i suoi momenti più tragici. Alcuni esempi possono chiarire come la vita quotidiana possa essere impoverita da convinzioni, desideri ed emozioni irrazionali.
Un cliente inizia la seduta facendo un sospiro e dicendo “Non so da dove cominciare”. Lo interrompo prima che avvii la lamentela di rito facendogli notare che ha già cominciato ed ha cominciato presentandosi come una persona “in difficoltà”. Non ha avviato la conversazione in un altro dei mille modi possibili. Gli chiedo se è consapevole delle ragioni per cui ha scelto quella particolarissima ouverture. Alla fine dell’ora riconosce di pretendere molte cose da tutti perché sente un vuoto e lo invito a riflettere sul fatto che nessuno può riempire i vuoti che sono “memorie sentite”.
Una cliente inizia la seduta raccontandomi che la madre ottantenne è stata ricoverata all’ospedale e che potrebbe non superare la crisi. Aggiunge che sente di “non poter reggere” il dolore di quella possibile perdita. Le chiedo: “Cosa ti mancherà esattamente? Quali esperienze bellissime non potrai più condividere con lei?” e mi risponde di non aver mai condiviso nulla con quella donna egocentrica e ingrata. Le faccio notare che, quindi, sta parlando della sua incapacità di “reggere” un dolore che non è un dolore. Seduta difficile: prima si offende per la mia “insensibilità”, poi ammette che il dolore che sta evitando di accettare riguarda (da sempre) la “non-relazione” con la madre e non l’eventuale interruzione di tale non relazione.
Ad un altro cliente convinto di non poter più amare la compagna che lo ha deluso e abbandonato, chiedo: “Se amavi quella persona, cosa fai per impedirti di continuare ad amarla?” Mi risponde di non capire la mia domanda e quindi gli propongo di chiarire se in precedenza aveva solo stimato quella donna (in quanto “apprezzabile/utilizzabile”) o l’aveva anche amata per ciò che era (e che era rimasta, pur avendolo abbandonato). Mi risponde che pensa di non averla mai amata e di essersi solo sentito frustrato dall’impossibilità di godere della sua presenza. Ora il discorso è almeno coerente e comunque toglie “benzina” alla rabbia. Poi, dopo aver riflettuto, mi dice: “Però … era una bella persona anche quando non mi dava nulla: quando stava dormendo e forse stava facendo solo i suoi sogni”. Gli faccio presente che dipende solo da lui tenere presente questo fatto e conservare la propria benevolenza oppure dissociarsi. A quel punto, dicendo “Mi manca” sfiora il pianto e capisce che con la svalutazione rabbiosa copriva solo il proprio dolore.
Una cliente, che chiamerò Laura, mi telefona nell’orario del suo appuntamento.
L. Ciao, oggi non vengo e farei una seduta telefonica.
GF. Va bene.
L. Mi sono presa dei giorni di vacanza e sono in montagna. A dire la verità non ho avuto una buona idea e so già cosa pensi: è inutile cercare soluzioni esterne, pratiche, a problemi interni. Ora lo penso anche io. Mi trovo in un posto bellissimo. La giornata è bellissima. Io sto di merda. Questa notte ho fatto un sogno e mi sono svegliata male. Ho trascritto il sogno e alcune mie riflessioni in un file del mio portatile. Posso leggerti il file? Posso inviartelo in allegato?
GF. Come preferisci.
L. Ti mando l’allegato e ci sentiamo fra dieci minuti.
GF. OK
Testo inviato: “Mi trovavo con mia madre in una spiaggia meravigliosa col mare calmo. Lei parlava e parlava. Io non la sopportavo, ma non riuscivo ad andare via. Lei mi dice che bisogna preparare i bagagli e io rispondo che l’unica cosa sensata da fare è fare il bagno. Lei continua a parlare senza fare attenzione a ciò che ho detto. Mi sveglio con la sensazione sgradevole di non aver nuotato in quell’acqua trasparente e con molta rabbia per quel parlare e parlare esasperante. Tutto ciò non ha senso, ma io sono come paralizzata.
Ora sono in un luogo molto diverso da quello del sogno, ma altrettanto bello. Nessuno mi opprime con parole inutili. Mi sono svegliata pensando che avrei dovuto inventarmi un’altra giornata. Tutte le giornate che vorrei non ci sono. Vorrei svegliarmi con un uomo. Ezio, però non sta più con me e anche lui, quando c’era, parlava e parlava. Altri non sono qui. Con questo stato d’animo però, forse non saprei cosa fare di buono con un uomo decente. Ho fatto una stupida colazione e mi sto prendendo una vacanza da uno stupido lavoro. In un bellissimo posto che da stupida non mi godo. Mi trovo con una Laura che non sa nemmeno farsi una nuotata in uno stupido sogno. Anche questa giornata non ha molto senso. Va avanti come le lancette dell’orologio.
Sono andata a fare una passeggiata nel bosco che circonda l’albergo. Non certo un posto selvaggio, ma più naturale dei posti con il cemento armato. Ho notato i particolari. La bellezza di una pigna, il sole che mi scaldava i piedi mentre le gambe restavano all’ombra di un albero. Cose terribilmente belle, che però erano lì e basta. Sono tornata in camera, ho letto qualche mail, il giornale, e mi sono fatta portare un caffè. Che ci facciamo in un mondo di chiacchiere?”.
[Leggendo queste righe noto che l’immobilità di Laura dipende dal non aver deciso nulla. Poiché non decide nulla, resta ferma e resta con la madre nel modo peggiore, cioè senza prendersi la responsabilità di averlo deciso. A quarant’anni il suo bisogno non può essere né quello di stare con la madre né quello di allontanarsi dalla madre. La domanda interessante, quindi è: perché non va verso l’acqua? Qualcosa di non risolto la trattiene nel “vortice” delle parole della madre. Laura mi richiama e mi chiede se ho letto la mail. La invito a fare un lavoro sul sogno perché non capisco delle cose che solo lei può spiegarmi. Accetta la proposta.]
GF. Mettiti comoda e torna nel sogno. La cosa incompiuta è la tua nuotata. Ciò che hai messo in evidenza creando quella situazione di stallo è da un lato la tua immobilità e dall’altro lato l’insensibilità di tua madre. Ciò che hai lasciato ai margini della trama è la possibilità di nuotare nell’acqua. Eppure tu hai costruito quel sogno, tutto il sogno, anche quella bellissima acqua trasparente. Potevi costruire un sogno in cui tu e tua madre conversavate in prossimità di una discarica o del palco di un comizio. Allora vorrei che tu chiudessi gli occhi e immaginassi la possibilità non realizzata, cioè quella della nuotata. Vorrei però che non ti identificassi in Laura, ma nell’acqua del mare.
L. Non riesco.
GF. Non ci hai nemmeno provato. Metti in conto che possa essere difficile, ma se non fai questo lavoro io non posso capire il sogno. Devi sentirti senza il corpo che percepisci e dilatarti fino a coincidere con il grande corpo costituito dalla massa dell’acqua, dalle onde, dalla vita di tutto l’insieme.
L. (…)
GF. [Dopo un po’] Che succede?
[Mi pare di udire sfumati singhiozzi di pianto]
L. [Dopo un po’] Sento di sostenere Laura, ma lei è una bambina. Lei non sa nuotare, ma sono io a sostenerla. E’ lei che piange e io piango con lei. Le mie lacrime però sono più grandi, sono onde compatte, sicure. Lei è disperata e io non sopporto che sia così sola. L’unica cosa che posso fare è tenerla a galla, renderle lieve quell’esperienza. Non ci sono parole da dire. Io non ho bisogno di parlare come sua madre e posso non dire nulla mentre tengo Laura fra le mie braccia.
Questa seduta è stata importante per Laura, ma è importante anche per le cose che permette di capire in generale. I fatti sono i seguenti: prima della telefonata Laura era immobile come nel sogno. Era in grado di sentirsi attratta dalla bellezza della natura come nel sogno, ma non godeva di quella bellezza: nel sogno detestava la madre e in montagna detestava la giornata vuota. La madre aveva dispensato parole vuote e le giornate non ci danno nulla se noi non ci attiviamo nel labirinto degli attimi e delle ore dopo aver accettato ciò che ci addolora. Scavare nell’infanzia serve a poco se lo facciamo scordando di essere adulti che rivivono antichi vissuti e di disporre di quella forza che da bambini non avevamo.
Nella seduta successiva Laura mi ha detto che dopo quel pianto ha sentito in modo diverso tutta la sua situazione e ha trascorso alcuni giorni di vacanza molto intensi, facendo cose piacevoli. Non si è solo “rilassata”, ma si è coinvolta con sé. Con altri pianti si è fatta compagnia.
Le situazioni oggettive sicuramente incidono sulla nostra vita, ma esse vengono comunque filtrate dalla nostra disponibilità a “sostenerci” (come le onde del mare) e quindi a sentire e capire, oppure vengono filtrate dalle nostre difese psicologiche (come l’opposizione passiva alla madre). Sostenendoci e rispettandoci siamo in contatto con noi stessi e con la realtà e ciò ci fa anche piangere, costa dolore, ma rende possibile la gioia e la felicità. Rende superflua l’ostinazione a “reagire” ai genitori e al passato, dato che nel presente siamo noi ad aver cura di noi stessi. Proprio accettando i nostri vissuti “antichi”, attiviamo le capacità adulte e riusciamo a sentirci persone impegnate nel presente. Più riconosciamo di essere grandi come il mare, più sentiamo di essere piccoli come pulcini. Non solo: più lasciamo fluire il pianto del pulcino più consolidiamo la consapevolezza della nostra forza. Solo i grandi possono concedersi il lusso di sentirsi piccoli e anche disperati. I bambini riescono a sentirsi piccoli e al sicuro, ma appena sfiorano l’incubo di essere piccoli e disperati, se non trovano sostegno nei genitori, attivano delle dissociazioni e cominciano a stare distaccati o a “star male”, pur di non sprofondare in un dolore troppo grande. Dopo venti o cinquant’anni sono ancora impegnati a negare il dolore, pur potendolo accettare, esprimere e superare.
Una vita incompiuta ha il “sapore” di una “brutta copia” e le brutte copie sono tali sia in quanto “brutte”, sia in quanto provvisorie (cioè non ancora sviluppate “pienamente”). A questo proposito dobbiamo tener presente ciò che abbiamo chiarito parlando della tendenza all’oggettivazione: come le cose importanti sono tali da un certo punto di vista, così anche le storie compiute sono tali da un certo punto di vista. Al massimo possiamo individuare certe potenzialità espressive tipicamente umane che rendono importanti per tutti certe esperienze e soddisfacenti certi sviluppi di una storia personale. Scrivendo questo capitolo ho già cancellato interi periodi che, già ad una prima rilettura mi sembravano confusi o inutili. Ora non mi chiedo più nulla su tali paragrafi perché costituivano solo un tentativo di dire qualcosa. E un tentativo non riuscito non è “nulla” rispetto al progetto “in atto”. Sotto questo aspetto, la stesura di un testo può essere paragonata alla “stesura” di un’intera vita.
Che dire delle vite che non sembrano essere state “corrette” in modo tale da diventare “belle copie”? Può capitare che una persona agisca in un certo modo credendo di aver subito un torto e può capitare che si renda conto del fraintendimento, che si scusi e che recuperi il rapporto che aveva incrinato. Questa è una storia con dei passaggi e una conclusione. Che storia sarebbe stata se il nostro ipotetico “personaggio principale” avesse avuto un incidente mortale prima di scusarsi con quella persona? Sarebbe stata solo la brutta copia di una storia non realizzata e solo immaginata. Eppure molte storie procedono proprio così. In un certo senso tutte le nostre storie sono solo “brutte copie”. Io non cancello solo paragrafi nei testi che scrivo, ma cancello o almeno “metto da parte” interi periodi della mia vita che sono stati centrati su aspirazioni, convinzioni, impegni che non mi sembrano più “appartenenti a me”. Brutte copie “cestinate” della “vera opera” in corso. Un’opera che, tuttavia, a molti può sembrare uno spreco di tempo. Un’opera che in futuro potrei io stesso considerare solo la premessa di una “vera” storia ancora da scrivere. E, in tal caso, sicuramente “aggiusterei il tiro” (come ho già fatto tante volte), ma se morissi prima di accorgermene, avrei vissuto solo una “brutta copia” della “mia” vita.
Se morissi oggi prima di aver capito di aver sbagliato tutto “dal mio punto di vista di domani”, morirei comunque abbastanza soddisfatto (soggettivamente) della vita (incompiuta) che ho vissuto. Ma il semplice pensiero che, continuando a vivere, in futuro potrei trasformare la mia “brutta copia” in una “bella copia” è un pensiero che dà per scontato un “progresso” nella mia consapevolezza. Tale progresso però non è scontato: potrei vivere a lungo e rovinare una vita che era invece “una bella copia” proprio nel mio passato. L’idea del compimento è soggettiva e può cambiare in ogni fase della vita. Tali cambiamenti non procedono verso una perfezione oggettiva. Su un piano oggettivo le vite degli esseri umani non sono né “poco vissute” né “incompiute”. E nemmeno “compiute”. Sono ciò che sono e basta.
Sia la tendenza ad oggettivare, sia la tendenza a collocare in una narrazione le tappe della vita sono aspetti della soggettività: sono tendenze che si manifestano assieme a milioni di altri fatti in una realtà semplicemente “data”. Capita, nell’universo, che la mia vita si stia svolgendo, ma capita solo a me di considerarla dal mio punto di vista più o meno importante e più o meno “compiuta”. E con ciò torniamo allo “scarto” fra dimensione soggettiva e oggettiva. E al dolore riconducibile al senso di precarietà che ci accompagna (se non ce ne dissociamo) nel “grande mondo” in cui viviamo, che è bellissimo, terribile e comunque “altro da noi”.