Se
facciamo due passi di notte e osserviamo il cielo stellato, avvertiamo in modo
quasi “tangibile” la nostra piccolezza in tale immensità. Ci rendiamo conto di
essere più che mai “attaccati” al nostro punto di vista soggettivo (che genera
tali sensazioni), ma siamo anche “travolti” dall’onda di oggettività
rappresentata dal “tutto” di cui siamo solo una minuscola parte. Ora, quali che
siano le spiegazioni che potremo trovare per i fenomeni particolari che
ancora non conosciamo, siamo certi di esistere in tale realtà. La “domanda delle domande”, quindi, suona così:
come mai c’è “qualcosa” e non c’è semplicemente il nulla? Questa domanda, che
attraversa la storia della filosofia e della scienza (Holt, 2012), non va
confusa con quella (non corretta) relativa alle cause di ciò che esiste.
Infatti, i teisti affermano che una divinità non creata debba aver creato
tutto, ma si può anche pensare che la realtà sia semplicemente “data”. La
“domanda delle domande” non riguarda, quindi, le “origini” della realtà e non
va confusa nemmeno con la domanda “specifica” relativa ai processi fisici (il
big bang e “cose del genere”) che sembrano aver caratterizzato la storia
dell’universo che conosciamo. La nostra domanda riguarda invece il puro e
semplice esistere di una realtà che potrebbe non esserci. Anche uomini di
scienza, tutt’altro che inclini a fare speculazioni metafisiche hanno colto il
nucleo di tale questione: “Perché l’universo si dà la pena di esistere? (…)
Fino ad oggi la maggior parte degli scienziati sono stati troppo occupati nello
sviluppo di nuove teorie che descrivono cosa
sia l’universo per porsi la domanda
perché?” (Hawking, 1988, pp. 196-197). Il “perché” di tale fatto non ha
risposta. Continueremo a renderci conto di essere immersi in una realtà che è
“lì” e ci include, ma che potrebbe non esserci. Siamo immersi in un immenso
fatto incomprensibile.
Un
altro fatto difficile da chiarire è il passaggio dalla realtà fisica a quella
biologica. Le conoscenze disponibili relative alle condizioni dell’universo
primordiale e a ciò che caratterizza i processi vitali consentono agli studiosi
di fare congetture sul passaggio, in tali condizioni particolari, da
combinazioni casuali di atomi alla formazione di macromolecole e a vere e
proprie cellule. Tuttavia, le congetture più plausibili restano congetture,
anche se sono più ragionevoli e interessanti delle speculazioni metafisiche.
Dopo le scoperte di Louis Pasteur sappiamo che nelle condizioni chimico-fisiche
attuali del nostro pianeta nessun organismo vivente può svilupparsi per
“generazione spontanea”. Possiamo tentare delle ricostruzioni teoriche delle
condizioni “originarie” del pianeta, ma restiamo comunque incapaci di spiegare
i processi specificamente vitali basandoci sulle semplici conoscenze dei
processi chimici che li caratterizzano. Le parti di un motore, se vengono
assemblate in un certo modo, lo “mettono in moto”, ma ciò non capita con le
parti di un organismo: “nessuna delle
parti che compone la cellula è ‘vivente’ in se stessa” (Tortora, 2017, p.
119). Tale (seconda) domanda merita di essere ricordata, anche se ci tocca più
intellettualmente che emotivamente. Siamo turbati dal fatto di esistere “senza
ragioni” in una realtà semplicemente “data”, mentre il fatto di essere più
“simili” ad un batterio che ad un sasso ci crea meno turbamento. Lo stesso vale
per l’essere mortali (in quanto esseri viventi): quando siamo turbati pensando
alla nostra inevitabile morte non pensiamo alla perdita dei nostri organi
“vitali”, ma alla perdita delle nostre sensazioni, dei nostri ricordi, del
contatto con le persone che ci sono care.
Il
terzo fatto che genera domande a cui non si trovano risposte è costituito dalla
presenza di animali coscienti e di esseri umani autocoscienti e quindi di punti
di vista soggettivi in una realtà concepita come oggettiva. Ho già discusso l’argomento nel capitolo precedente e ora posso solo sottolineare che tale
argomento è quello che ci tocca più da vicino. La domanda “Come mai c’è
qualcosa anziché il nulla?” e quella relativa al modo in cui si è sviluppata la
vita dalla “non vita”, sono domande che rendono non scontata o ovvia la realtà
in cui viviamo, ma quella relativa all’essere “noi stessi” in un oceano di
oggettività che è “altro da noi” ci fa sentire incerti e smarriti. In fondo, la
teoria dell’evoluzione ci descrive come esseri che hanno acquisito una “forza”
che li rende consapevoli della loro “debolezza”.
Le
speculazioni metafisiche religiose e non religiose trasformano la polarità
“data” fra fatti oggettivi ed esperienze soggettive nella opposizione fra
un’ipotetica “sostanza” materiale e un’altrettanto ipotetica “sostanza”
spirituale. In questo modo però non hanno mai prodotto vere conoscenze. Di
fatto, la fisica teorica dell’ultimo secolo ha spazzato via l’idea di
“sostanza” persino dal piano fisico. “Se il mondo fosse fatto di cose, d’altra
parte, quali sarebbero queste cose? Gli atomi, che abbiamo scoperto essere composti
a loro volta di particelle più piccole? Le particelle elementari, che abbiamo
scoperto essere nient’altro che eccitazioni effimere di un campo? I campi
quantistici, che abbiamo scoperto essere poco più che codici di un linguaggio
per parlare di interazioni e eventi? Non riusciamo a pensare al mondo fisico come fatto di cose, di enti. Non
funziona. Invece funziona pensare il mondo come rete di eventi” (Rovelli, 2017,
p. 88). Anche il tempo si è in qualche modo “dissolto” o “sfaldato”. Infatti,
“Fisici e filosofi sono arrivati alla conclusione che l’idea di un presente
comune a tutto l’universo sia un’illusione e lo ‘scorrere’ universale del tempo
sia una generalizzazione che non funziona” (Rovelli, 2014, p. 65). La fisica
teorica ci porta a pensare che “la struttura temporale del mondo sia diversa
dall’immagine ingenua che ne abbiamo. Questa immagine è adatta alla nostra vita
quotidiana, ma non è adatta per comprendere il mondo nelle sue pieghe minute o
nella sua vastità” (Rovelli, 2017, p. 168). La realtà oggettiva è oggi, per la
scienza, un intrico di campi, di interazioni e di probabilità e da quando siamo
consapevoli di non poter più concepire la materia come una “sostanza”, abbiamo
ancor meno ragioni per immaginare un’altra
sostanza (spirituale). Se le nostre esperienze ci portassero ad includere nella
realtà anche marziani, fantasmi o angeli disporremmo di altre conoscenze. E anche
in questo caso dovremmo distinguere ciò che conosciamo oggettivamente dei marziani, dei fantasmi o degli angeli
da ciò che proviamo (soggettivamente)
interagendo con tali entità. Le autentiche conoscenze, quindi, non possono
liberarci dal senso di precarietà che deriva dall’essere soggetti in una realtà
oggettiva.
Da
millenni accumuliamo conoscenze sempre più complesse e oggi riusciamo a
spiegare molte cose della nostra fisiologia, delle nostre emozioni, delle
piante, degli animali, delle stelle e persino di eventi ipotizzati e mai
direttamente osservati, ma continuiamo a non capire come possiamo essere
inclusi in una realtà oggettiva che esclude la nostra soggettività. Se proviamo
dolore ad un piede, siamo “noi” a provare dolore e sappiamo che il piede non
prova nulla, perché ha (molto) a che fare con noi, ma “non è noi”; infatti,
resteremmo “noi stessi” anche senza il piede. Ci chiediamo, quindi, se potremmo
restare noi stessi anche senza il cuore (un altro oggetto osservabile come il
piede) o senza il cervello. E se potremmo restare noi stessi anche dopo la
nostra morte. Ci chiediamo anche come possa la nostra avventura personale restare
“nostra”, pur mutando continuamente. E’ davvero un’avventura o è solo un
pallido riflesso di qualcosa che accade? Un riflesso che solo per un equivoco
ci sembra “nostro”? Ma anche se fosse un’illusione sarebbe una nostra illusione.
La
scienza non ci aiuta e non può aiutarci a comprendere il rapporto fra
dimensione soggettiva e oggettiva perché si occupa solo dei fenomeni oggettivi
(fisici, biologici e anche psicologici) che rientrano nella “realtà ordinaria”. Ciò ci consente di immaginare che possa aiutarci se si occupa dei
fenomeni che sono o sembrano collocabili ai confini della realtà ordinaria.
Alcuni studiosi hanno scelto questa linea di indagine e credo sia importante
tener presenti i loro contributi. Non prenderò, quindi, in considerazione
ipotetiche conoscenze “esoteriche” basate (come le religioni) su tradizioni, ma
linee di ricerca di tipo empirico, relative a fatti osservabili ma insoliti.
Linee di ricerca volte a chiarire se
tali fatti sono davvero fatti, se
possono in qualche modo essere spiegati e se
ci aiutano a spiegare ciò che di noi
stessi non riusciamo a capire.
Sicuramente
i fenomeni definiti “paranormali” e a volte “parapsicologici”, o non sono
fenomeni reali oppure sono fenomeni reali non ordinari che richiedono
spiegazioni adeguate. I dubbi relativi a tali fenomeni sono dovuti
principalmente a tre fattori: a) in molti casi sono stati smascherati come
mistificazioni, b) spesso tali fenomeni non sono ripetibili o lo sono, ma non
in maniera controllata, c) spesso tali fenomeni sono sperimentati solo da
soggetti dotati di una particolare “sensibilità” e possono essere valutati
soltanto per le loro conseguenze oggettivamente controllabili. Tali difficoltà
non rendono ingiustificate le ricerche, dato che anche i fenomeni subatomici o
astrofisici non possono essere osservati direttamente. La scienza è tale per i
metodi che adotta, per il tipo di elaborazioni teoriche che sviluppa e per le
previsioni che ricava; non è tale se pregiudizialmente approva o disapprova
delle linee di ricerca.
Pur essendo partito da
una posizione decisamente scettica, giustificata dalla mia formazione in
filosofia della scienza, ho a più riprese aggiustato il tiro, raggiungendo la
convinzione secondo cui la realtà potrebbe anche essere più complessa di quella
descritta dalla scienza occidentale. Negli anni in cui ho praticato
regolarmente la Meditazione Trascendentale (cfr. Bloomfield e AA. VV, 1975;
Wallace-Benson, 1979) ho sperimentato di persona che un esercizio quotidiano
molto semplice mi permetteva di dormire poche ore ogni notte e quindi di avere
a disposizione lunghissime giornate. La scienza spiega le caratteristiche
fisiologiche associate allo stato mentale indotto dalla MT, ma non spiega come
un particolare mantra (un semplice pensiero) induca tali effetti. Analoghe
perplessità sono dovute ai risultati che si possono ottenere con l'agopuntura
che ha come teoria (o pseudoteoria) di riferimento una "fisiologia
sottile" che non ha molto a che fare con le conoscenze della medicina
occidentale. Negli ultimi anni, vari studiosi hanno preso in considerazione una
possibile integrazione della tradizione scientifica e medica occidentale e di
quella orientale (cfr. Capra, 1975 e 1982), ma va riconosciuto che la questione
è tuttora aperta.
Lo
studio del paranormale, quando sembra produrre risultati convincenti, apre
scenari nuovi, nel senso che sembra giustificare un “piano di realtà” diverso
da quello che da sempre la scienza e il “senso comune” hanno concepito come
“realtà oggettiva”. Voglio prima di tutto accennare ad alcuni fenomeni che in
certi casi sembrano autentici, ma non sembrano riconducibili alle conoscenze
consolidate o ad una loro prevedibile estensione. In particolare voglio
esaminare le OBE (Out of the Body Experiences, o esperienze fuori dal corpo, o
esperienze bilocative) e le NDE (Near Death Experiences o esperienze di chi ha
“sfiorato” la morte ed è rimasto o “ritornato” in vita). In seguito prenderò in
considerazione anche altri ambiti della ricerca sul paranormale.
Le
pubblicazioni riguardanti le esperienze fuori dal corpo sono numerose e non
sempre rigorose. Non avendo mai fatto esperienze personali di questo tipo (né
di altro tipo nell’ambito del paranormale) utilizzerò i resoconti di studiosi autorevoli
o di soggetti sperimentali ritenuti affidabili da studiosi autorevoli. Una
ricerca (1968) svolta da Charles Tart (docente universitario statunitense e
autore di molti articoli e saggi specialistici) è a mio parere particolarmente
interessante. Tart esaminò un soggetto (indicato come Miss Z) che affermava di
spostare nelle ore di sonno notturno il proprio centro di consapevolezza
all’esterno del corpo e di fare, quindi, esperienze non dipendenti dai
propri organi fisici di senso. Considerava inoltre queste esperienze nettamente
distinte da quelle che rientravano nei normali sogni. Tart cercò di valutare se
si potessero individuare riscontri oggettivi di queste esperienze soggettive
procedendo in questo modo: per quattro notti Miss Z dormì nel laboratorio
dell’Università collegata a vari apparecchi adatti a rivelare gli stati
cerebrali, la pressione sanguigna, e altre condizioni fisiologiche e si impegnò
a riferire le eventuali esperienze (spontanee) di OBE. In particolare, Miss Z
aveva il compito di fluttuare in prossimità del soffitto, in modo da poter
leggere un numero formato da cinque cifre scritto su un foglio posto in cima ad
una libreria e non visibile, quindi, né dal suo lettino, né da un osservatore
in piedi nella stanza. Nelle quattro notti Miss Z fece varie esperienze di OBE
(caratterizzate da stati cerebrali diversi da quelli normali nel sonno), ma
solo nel corso della quarta notte riuscì a “lasciare il proprio corpo” in modo
da leggere il numero. La lettura fu corretta e, ovviamente, le probabilità di
indicare per caso cinque numeri in ordine erano praticamente nulle. Tart stesso
considerò i vari limiti dell’esperimento effettuato (e che non fu ripetuto
perché Miss Z, che era un soggetto volontario, poi si trasferì in un’altra
città), ma aveva preso molte misure che lo inducevano ad escludere
interpretazioni alternative dei risultati. Tra l’altro, Tart ha pubblicato
altri lavori sull’argomento (1997) riportando sia l’esperimento fatto con miss
Z, sia esperimenti svolti con altri soggetti ed è stato molto accurato nel
riportare vari casi in cui i risultati non
avevano confermato in modo convincente le (presunte) esperienze di bilocazione.
Tart
suggerisce questa interpretazione dei fenomeni bilocativi: corpo e mente hanno
proprietà specifiche, ma nell’esperienza quotidiana ordinaria si intrecciano e
generano esperienze molto diverse da quelle che invece si verificano nelle OBE.
Nei processi bilocativi i soggetti continuano a sentirsi simili alla loro
controparte fisica (e persino a percepirsi con gli abituali vestiti) solo per
via della stretta associazione stabilita in precedenza fra il funzionamento
mentale e la dimensione corporea. Questa interpretazione, simile a quella
tradizionale dell’anima, ma puramente descrittiva e non ancorata a premesse
metafisiche e religiose, a parere di Tart, si adatta ai dati finora acquisiti e
costituisce un quadro concettuale adatto a favorire ulteriori ricerche
empiriche (1974, pp. 347-348). Non a caso, questo studioso ha cercato di
fondare su basi empiriche le proprie ipotesi dualistiche (2006).
La
ricerca svolta da Celia Green (1968) è molto diversa da quelle sperimentali ora
considerate. E’ basata, infatti, su resoconti personali richiesti dall’autrice
attraverso un appello lanciato sui giornali e attraverso la BBC. Questa studiosa
britannica ha dato un contributo interessante procedendo in modo indiretto: ha
infatti evidenziato le notevoli somiglianze fra le esperienze di OBE riportate
da persone diverse e verificatesi in periodi diversi. Ora, se mille persone che
hanno sognato asini che volano raccontassero i loro sogni, presumibilmente
racconterebbero storie molto diverse, proprio perché i sogni sono creazioni e
non esperienze. Per questo motivo le significative concordanze rintracciate
nelle centinaia di testimonianze raccolte da Celia Green depongono a favore del
fatto che i fenomeni bilocativi, almeno in molti casi, non siano riconducibili
ai processi onirici o allucinatori. Nella mia storia personale ho conosciuto
alcune persone che mi hanno confidato esperienze di quel tipo. Non persone
inclini a vantarsi di disporre di “poteri” strani o interessate ad oroscopi e
pendolini, ma persone semplicemente disposte a farmi una confidenza, perché
venute a conoscenza dei miei interessi per l’argomento.
L’analisi
filosofica e le scienze naturali ci hanno tolto dal pantano delle concezioni
speculative sulla materia e sullo spirito e ci hanno fatto prendere confidenza
con metodologie rigorose di ricerca che rendono possibili conoscenze
controllabili. In questo processo culminato nella “rivoluzione scientifica”
degli ultimi secoli restiamo però “fermi” su una questione fondamentale: noi
concepiamo come “dimensione oggettiva” quella che possiamo descrivere e
controllare con gli altri, ma restiamo “soli” in quella dimensione costituita
dai nostri pensieri e da ciò che sentiamo. Una dimensione a cui gli altri non
hanno accesso diretto. Normalmente le due dimensioni sono intrecciate: un danno
in una particolare area del cervello può alterare significativamente le
capacità percettive, motorie e la stessa capacità di ragionare. Ora, i
resoconti di casi in cui la dimensione soggettiva è o sembra dispiegarsi
indipendentemente dai processi oggettivi del corpo e del cervello, ci
prospettano una concezione della realtà che non è puramente speculativa (metafisica),
ma che non coincide con quella che si ricava dalle scienze naturali. Nei
fenomeni bilocativi sembra che noi possiamo essere “noi” e fare delle
esperienze anche indipendentemente dal
nostro corpo, dato che proprio il nostro corpo può essere da noi osservato
come un oggetto fra gli altri oggetti. I fenomeni bilocativi potrebbero anche
essere non autentici, ma, se autentici, ci portano anche a considerare l’eventualità che la morte fisica, corporea,
non sia la semplice conclusione della nostra storia personale.
A
tale proposito, vanno esaminate le NDE (Moody jr., 1975), ovvero le esperienze
riportate da persone che affermano di essere “ritornate” nel loro corpo dopo
aver superato il confine fra la vita e la morte. Il fatto che tali persone
raccontino (spesso dopo un intervento chirurgico) di aver provato sensazioni di
profonda pace e di essere poi state “risucchiate” nel corpo fisico, sollecita
interrogativi profondi. Soprattutto consente di pensare (come nel caso delle
OBE) che davvero la nostra dimensione soggettiva possa non essere semplicemente
un riflesso del corpo fisico. Anche i resoconti delle NDE di persone diverse
sono, come le OBE, per certi aspetti molto simili. Tale eventualità non
conferma il cosiddetto “aldilà” descritto dalle religioni, ma implica molte
cose sicuramente di grande importanza. Anche sulle NDE sono state svolte
ricerche interessanti, sulle quali sarebbe opportuno ragionare prescindendo da
ciò che si preferisce credere o non credere. In un resoconto di tali esperienze
di confine, svolto da un punto di vista molto critico (o “scettico”), James E.
Alcock (2001) esamina vari dati per dimostrare che le NDE non possono essere
reali e afferma nelle conclusioni che “i racconti di chi è stato vicino alla
morte non richiedono interpretazioni mistiche”. A mio parere l’analisi di tali
fenomeni dovrebbe almeno lasciare dei dubbi. Mi stupisce, quindi,
un’affermazione schematica sull’argomento fatta da un neuroscienziato e
psichiatra: “sia i sogni di volare sia le esperienze fuori dal corpo sono causate
da un’insufficienza di sangue in una regione del cervello posta appena dietro
la tempia” (Tononi, 2012, p. XIX). Spesso noi abbiamo dei falsi ricordi: ad
esempio, ripensando a quando eravamo in una spiaggia, facilmente visualizziamo
noi stessi (dall’esterno) stesi sulla sabbia mentre nella realtà noi avevamo
visto il mare, la sabbia e il cielo ma non noi stessi in quella posizione. Ciò,
però non dimostra che qualsiasi osservazione (esterna) di noi stessi debba
essere una sorta di ricostruzione o rielaborazione analoga ai falsi ricordi. Lo
stesso vale per i collegamenti che si possono stabilire fra le NDE e alcune
allucinazioni indotte da droghe. Purtroppo non possiamo basarci su esperienze
ripetibili in condizioni controllate per dire qualcosa di definitivo sulle NDE,
ma non possiamo nemmeno definirle allucinatorie solo perché alcune esperienze
allucinatorie risultano simili.
Christian
Agrillo (2011) ha riportato molte ricerche volte ad individuare i processi
cerebrali che possono determinare sia certi aspetti delle visioni ricorrenti
nelle NDE, sia certi aspetti dei fenomeni bilocativi. I risultati di tali
ricerche sono interessanti perché evidenziano come i processi determinati dalle
condizioni critiche di “quasi morte” possano produrre effetti successivamente
classificati come NDE. Suggeriscono, quindi che tali esperienze possano essere
non la parte iniziale di una “altra” vita, ma un temporaneo strascico
soggettivo di questa (unica) vita. Ovviamente, l’esame di particolari aspetti
delle NDE è significativo, ma lascia intatta la convinzione delle persone che
hanno avuto tali esperienze: la convinzione di aver sperimentato qualcosa di
reale e di irriducibile a fenomeni allucinatori o ad esperienze oniriche.
Certamente
qualcosa di “immanente” o “terreno” o riconducibile a fatti ordinari accettati
dalle scienze naturali deve intervenire nelle esperienze “di confine” (NDE) o
in quelle bilocative (OBE), poiché alcuni aspetti di tale esperienze sono
sfuggenti o incoerenti o simili ad esperienze ordinarie in condizioni
particolari. Un’osservazione, in particolare, mi ha colpito: mentre le tipiche
NDE esaminate nei paesi occidentali sono caratterizzate dal passaggio
attraverso un tunnel che conduce alla luce, “in Giappone la visione perimortale
più comune è quella di un fiume che separa la vita dalla morte” (Corazza, 2008,
p. 30). Queste “peculiarità culturali” ovviamente non invalidano l’ipotesi di
una “realtà” delle NDE, ma portano a ritenere che in esse rientrino anche aspetti “immanenti” e quindi
riconducibili alla storia terrena ed al sistema nervoso. Ciò che, invece, resta
tutt’altro che scontato è che le NDE (o le OBE) siano solo riflessi di processi neurologici non ancora compresi.
A
mio parere, i riscontri oggettivi che maggiormente rafforzano la convinzione
che “noi” possiamo esistere indipendentemente dal nostro corpo, sono quelli
ricavati da esperienze bilocative in cui i soggetti hanno fatto osservazioni
dimostratesi poi corrette. In questo senso, gli studi di Tart sono decisamente
preziosi. Proprio questi fenomeni portano a ritenere che anche le NDE, per
quanto correlate ad alcune particolari condizioni cerebrali, non siano
riducibili ad esse. Una persona che conosco molto bene e che non è mai stata
ricoverata in un reparto psichiatrico, dopo un delicato intervento chiese al chirurgo
se egli avesse davvero detto certe cose al suo assistente. Il chirurgo,
imbarazzatissimo, lo ammise, ma commentò che lei “non poteva” aver udito quelle
parole. Tuttavia, non potendo negare l’evidenza, concluse che a volte gli
effetti dell’anestesia sul cervello sono più complicati di quanto al momento si
conosce. Risposta fideistica: poiché la cosa “era impossibile”, prima o poi
avremmo “sicuramente” ottenuto la “vera” spiegazione. Allo stesso modo, se
chiediamo ad un credente come ci si possa basare su una lunghissima tradizione
orale e scritta per credere che Mosé abbia davvero parlato con dio, egli
risponderà che dobbiamo credere a ciò perché la bibbia è la parola di dio e
deve, quindi, essere veritiera. Dopo aver sperimentato la bilocazione nel corso
dell’intervento chirurgico, quella persona si è ulteriormente “allontanata” dal
corpo sentendosi avvolta da qualcosa che mi ha descritto come “luce” e ha
sentito di non voler “rientrare nel corpo”. E’ “ritornata” solo perché ciò le
sembrava inevitabile o necessario.
Il
grande e variegato insieme di fenomenologie paranormali ci porta in vari modi a
dubitare di qualcosa: o
dell’autenticità dei fenomeni descritti o della completezza della concezione
della realtà delineata dalle scienze naturali. Se le mie capacità e le mie
conoscenze fossero maggiori, potrei essere uno studioso davvero affidabile,
perché sono emotivamente indifferente all’idea di una possibile trascendenza o
di una realtà semplicemente immanente. Sono indifferente non nel senso che non
abbia desideri e non provi emozioni pensando a tali eventualità, ma nel senso
che mi sento a mio agio in entrambi i casi: mi sento a mio agio all’idea di
proseguire l’avventura della mia vita dopo la morte fisica e mi sento a mio
agio all’idea di concludere definitivamente la mia storia personale. Ogni
giorno accarezzo la felicità di aver fatto esperienze di armonia con me stesso
e con alcune persone, nonostante tutte le vicende che mi hanno fatto male. Per
“dar senso” a tutto ciò non ho bisogno né di credere né di non credere a ciò
che non conosco a sufficienza. Purtroppo sono l’ultima persona al mondo capace
di dare un contributo a ricerche mediche o a sperimentazioni di laboratorio.
Posso solo esaminare criticamente gli studi fatti da altri e le esperienze che altri
mi hanno descritto. Alcune ricerche e testimonianze (non tutte) relative ad
eventi per lo meno insoliti mi sembrano convincenti e ciò, unito al fatto
(indiscutibile) che la nostra dimensione soggettiva è irriducibile alla
“realtà” oggettivamente conoscibile, mi fa pensare che la “realtà reale” possa
anche essere diversa da quella che attualmente siamo in grado di conoscere.
A
questo punto vorrei accennare ai fenomeni (reali o non reali) di “alta
medianità”, che pongono problemi la cui soluzione non è facile. Negli anni in
cui ero molto interessato a questi temi, non ho potuto partecipare alle sedute
che, in base alle letture fatte, avevo trovato più interessanti, perché erano
decedute le persone che stabilivano (o erano ritenute capaci di stabilire) un
contatto con entità trapassate. Fui però invitato ad una seduta collettiva
organizzata da un amico con una medium statunitense allieva di una persona di
cui avevo letto un libro per lo meno interessante. Il mio scopo era soprattutto
quello di capire se davvero in tale incontro accadesse “qualcosa”. A differenza
di altri partecipanti che comunicarono difficoltà personali e ricevettero
risposte sagge e incoraggianti, chiesi come mai nel corso della notte fossi
stato così agitato e mi fossi svegliato sentendo un gran peso sul cuore. In
realtà avevo dormito benissimo e mi ero svegliato sentendomi semplicemente
desideroso di capire se avrei fatto un’esperienza positiva o avrei perso tempo.
La medium, che affermava di mettersi in contatto con il mio spirito guida, mi
diede spiegazioni molto “profonde” sul periodo difficile che stavo
attraversando e non commentò in alcun modo la falsità delle mie dichiarazioni
iniziali. Penso che anche un “angelo di seconda classe” come quello del
bellissimo film diretto da Frank Capra (La
vita è meravigliosa) mi avrebbe comunicato qualcosa di significativo e non
avrebbe cercato di farmi risolvere un problema che non avevo. Il pregevole film
recente di Clint Eastwood (Hereafter)
ha sia il merito di denunciare gli inganni nell’ambito dello “spiritismo” e la
“fame” di rassicurazioni che tante persone provano, sia il merito di lasciar
spazio alla possibilità che l’esistenza umana non sia solo terrena.
Al
momento, le mie domande restano senza risposte per me “conclusive”. Pur avendo,
quindi, provato il desiderio di verificare di persona il terreno della “alta
medianità”, non ho potuto fare esperienze significative. Vivendo a
Bologna ho però avuto modo di conoscere Silvio Ravaldini, recentemente
scomparso, che era direttore della Fondazione Biblioteca Bozzano–De Boni. Lo
ricordo come una persona intelligente e molto semplice. Essendo cresciuto in
una famiglia in cui si svolgevano regolarmente sedute medianiche, ha coltivato
nella sua vita un vivo interesse per i fenomeni paranormali e, in età avanzata,
ha riportato in un libro (1988) gli avvenimenti sui quali da ragazzo aveva preso appunti.
Non voglio riassumere i concetti che sono affiorati negli incontri da lui
descritti o in altri ambiti della “alta medianità” (ad es. Roberts, 1970 e 1972;
Cerchio Firenze 77, 1977), ma desidero esaminare alcuni fatti che depongono a
favore o a sfavore dell’autenticità di tali fenomeni e che pongono anche
problemi difficili e scomodi.
Si
usa il termine “alta medianità” nei casi in cui l’attività del medium non è
classificabile come commerciale o “professionale”, in cui le (presunte)
comunicazioni non sono banali e non sembrano ingannevoli, in cui il medium non
solo evita di arricchirsi ma anche di procurarsi ammiratori e in cui nelle
sedute affiorano “insegnamenti” filosoficamente complessi e si verificano anche
altri fenomeni che sembrano inspiegabili. In vari casi i contenuti di tali
“incontri” sono sfasati rispetto al patrimonio conoscitivo (spesso molto
limitato) del medium. Per un ciarlatano sarebbe facile raccontare che è in
contatto con il genitore di un partecipante e comunicare il suo affetto, ma non
sarebbe facile esporre concezioni filosoficamente complesse della realtà.
Questo fatto non si spiega o si spiega supponendo eventualità ancor più strane come
il contatto telepatico del medium con qualche studioso che da qualche parte si
lascia “leggere i pensieri”. Le sedute che trovo più interessanti sono sempre
state svolte con molta discrezione (a differenza di quelle che caratterizzano
le sette religiose in cui si vendono “verità e miracoli”) e ad esse sono stati
invitati in certi momenti anche studiosi che avrebbero (forse) potuto
smascherare imbrogli. Le pubblicazioni di tali sedute in certi casi sono
avvenute anni dopo l’inizio degli incontri o dopo il decesso del medium e
questo fatto, pur non rendendo possibili delle verifiche, sicuramente fa
escludere un bisogno di “fama”. La lettura di questi resoconti colpisce perché
essi offrono idee sulla vita umana coerenti, filosoficamente complesse, più interessanti
delle speculazioni di illustri filosofi. Anche se faccio fatica ad accettare
certe affermazioni espresse in tali sedute, sono colpito dal fatto che vi
siano delle somiglianze fra alcune idee comunicate da entità che si sono
manifestate attraverso “sensitivi” diversi, in città diverse, in continenti
diversi e in periodi storici diversi.
Nonostante
la mia profonda antipatia per gli “illuminati” del settore, soprattutto per
quelli di formazione “New Age”, tendo a prendere in considerazione la possibilità
che “qualcosa” stia davvero alla base di alcuni resoconti di sedute
riconducibili all’ambito dell’alta medianità. In ogni caso, continuo a non
capire ciò che non capisco. Soprattutto, mi chiedo quanto di un possibile
messaggio proveniente da un altro piano di realtà appartenga a tale “altra”
realtà e quanto sia dovuto alla traduzione linguistica e concettuale che fa
parte della “nostra” realtà. In pratica, non riesco proprio a prendere queste
comunicazioni alla lettera perché, anche se fossero autentiche, difficilmente
potrebbero dirmi qualcosa che inevitabilmente recepisco con le mie capacità e i
miei limiti e che lo stesso medium ha recepito e “tradotto” con le proprie
capacità e i propri limiti. Le varie entità che sono ritenute Guide nei casi di
alta medianità non lasciano messaggi di tipo religioso e, anzi, includono le
religioni fra le visioni riduttive della realtà costruite dagli esseri umani.
Non trasmettono nemmeno concezioni moralistiche e non colpevolizzano le
persone. Comunicano in genere l’idea che attraversiamo la nostra esistenza per
fare alcune esperienze che abbiamo bisogno di fare. Occorre però evidenziare
che queste entità non comunicano messaggi identici e loro stesse, in certi
casi, hanno spiegato che tali differenze dipendono dai limiti della loro
consapevolezza. Per questo motivo, anche chi ritiene che i fenomeni
manifestatisi con un particolare medium siano autentici, deve tener presente
che le entità manifestatesi comunicano solo ciò che sono riuscite a comprendere
e lo esprimono solo nei limiti determinati dalla “traduzione” che il medium ha
reso possibile (cfr. Cerchio Firenze 77, 1977, cap. 15, p. 174).
Anche
se non posso nemmeno tentare di fare un riassunto delle idee trasmesse da varie
“guide” in varie sedute medianiche, vorrei evidenziare un tema che è stato
riproposto in varie occasioni: la realtà di cui facciamo parte come esseri
umani viene presentata non tanto come un insieme di processi evolutivi da cui
affiora la nostra coscienza, ma come un effetto dell’attività “fondamentale”
della nostra coscienza. Silvio Ravaldini, ricordando le sedute di cui fu
testimone da giovane, ha scritto: “tutti coloro che si manifestarono sempre
affermarono che la parentesi umana è praticamente inesistente. Infatti dissero
più volte che la vita nella materia è un sogno” (1988, p. 210). E’ curioso come
dopo vari decenni, l’entità Seth manifestatasi negli Stati Uniti attraverso la
medium Jane Roberts abbia fatto questa affermazione: “siete i creatori del
mondo fisico così come lo conoscete” (Roberts, 1970, p. 114). Mi colpisce il
fatto che in modi simili, anche se non identici, questi “insegnamenti” diano
una “forma” particolare a quell’idea generale, prospettata solo come ipotesi non irragionevole, da Thomas Nagel nel libro Mente e cosmo (2012). Probabilmente egli
si ribellerebbe all’idea di essere anche lontanamente collegato a queste
“trasmissioni spiritiche”, ma è sua la responsabilità di aver prospettato una
possibile evoluzione di tipo “psichico” dell’intera realtà cosmica.
Avendo
riscontrato personalmente che in certi ambienti apparentemente seri si possono
fare esperienze di medianità poco credibili, resto dubbioso sulle esperienze
medianiche rispetto alle quali sono state avanzate delle valutazioni critiche.
Mi riferisco, ad esempio, a quelle di Massimo Polidoro e Luigi Garlaschelli
(2001) relative alle sedute del Cerchio di Firenze. In questo caso, data la
notevole complessità delle comunicazioni, stento a considerare tutta
l’esperienza (protrattasi per tanti anni) inautentica, ma devo restare
nell’incertezza. Trovo più convincenti i resoconti fatti da Silvio Ravaldini
(1988) perché egli parlava delle sue esperienze con una semplicità disarmante.
Vorrei
ora almeno accennare ad un altro insieme di fenomeni paranormali sui quali
esiste un’abbondante letteratura che, purtroppo, include sia documentazioni di
(presunti) fatti, sia contestazioni di tali fatti. Non credo sia compito mio
fare il punto della situazione perché vari studiosi hanno già fatto cose del
genere e continuano a trasmettere ciò che hanno capito o ritengono di aver
capito. Voglio solo accennare al lavoro di Russell Targ (2012), un fisico che
dal 1972 al 1982 ha svolto ricerche finanziate dalla NASA e dalla CIA sulle
capacità psichiche paranormali. E’ difficile pensare che enti pubblici di quel
tipo abbiano devoluto tante risorse a ricercatori incapaci di produrre alcun
risultato. Targ scrive: “alcuni nostri vedenti psichici furono in grado di
trovare un bombardiere russo abbattuto in Africa, di descrivere lo stato di
salute di ostaggi americani in Iran, di individuare un generale americano
rapito in Italia. Abbiamo descritto fabbriche d’armi in Siberia e un test
atomico cinese tre giorni prima che si verificasse” (2012, p. 28). Targ ha lavorato
con vari sensitivi e soprattutto con Ingo Swann, un artista molto disponibile a
sottoporsi a test controllati. A lui si deve l’uso dell’espressione “visione
remota”. Targ scrive in modo asciutto, senza quell’entusiasmo “strano” che
caratterizza molti libri sul paranormale. In ogni caso, non sono
pregiudizialmente scettico sulla visione remota e la percezione extrasensoriale
perché sono stato testimone di alcuni fatti che non saprei spiegare in altri
modi. Da giovane ho vissuto alcuni anni a Napoli con una ragazza e in alcune
(poche) occasioni prendemmo in considerazione seriamente la possibilità di
lasciarci. Ogni volta, ricevemmo una telefonata della madre della mia compagna
che era preoccupata per noi. Quella signora abitava a centinaia di chilometri
di distanza e non telefonava mai, ma in quei momenti “critici” sentiva qualcosa
e sicuramente non con l’udito. Ho conosciuto anche alcune persone inclini a
percepire “energie” particolari in certi ambienti fisici o sociali, ma, oltre
ad essere compiaciute della loro “sensibilità” non dicevano nulla di
significativo. Nel caso della madre della mia ragazza, invece, questi
atteggiamenti erano assenti. Sapevo, anzi, che da bambina era stata prescelta
da una parente come la persona a cui “trasmettere” la propria “sensitività”, ma
lei aveva rifiutato quel ruolo perché era spaventata dalle cose “insolite”.
I
fenomeni che non sembrano riconducibili alla concezione scientifica della
realtà che ci è familiare, sono tanti e ci suggeriscono che forse “noi” non
siamo solo ciò che crediamo di essere e non esistiamo solo nella realtà che
consideriamo oggettivamente data. Le ricerche di Ian Stevenson (1974; 1997),
che includono casi di bambini che mostrano di conoscere persone mai incontrate
nella loro vita attuale o che hanno segni sulla pelle difficili da spiegare,
sono a dir poco inquietanti. Risultano in qualche modo coerenti solo
considerando la possibilità della reincarnazione. La questione è però spinosa,
perché spesso la reincarnazione è presentata come una serie di esperienze che
una “anima” dovrebbe acquisire in varie vite per raggiungere uno sviluppo
spirituale e tale idea mi sembra difficile da accettare perché assomiglia
troppo alle esperienze umane di crescita culturale. Anche se certi fenomeni
sono autentici non è detto che debbano essere inquadrati nei nostri consueti
schemi concettuali. Proprio in una comunicazione medianica è stata messa in
dubbio la comune interpretazione delle reincarnazioni: “La distanza tra una
vita e l’altra esiste psicologicamente e non in termini di anni o secoli (…) le
vite reincarnative sono in effetti presenti alternati. C’è un’interazione tra
voi e i vostri sé reincarnativi, un’interazine costante. (…) La reincarnazione,
così come viene spesso spiegata , nei termini di una vita dopo l’altra, è un
mito” (Roberts, 1972, p. 346). Tale interpretazione, anche per chi tende a
credere nella reincarnazione, può sembrare bizzarra, ma, di fatto, non lo è più
di quanto lo siano le idee della fisica teorica sul tempo: “Per un’ipotetica vista
acutissima che vedesse tutto non ci sarebbe tempo ‘che scorre’ e l’universo
sarebbe un blocco di passato presente e futuro. Ma noi esseri coscienti
abitiamo il tempo perché vediamo solo un’immagine sbiadita del mondo” (Rovelli,
2014, p. 67).
Le
testimonianze di fenomeni paranormali che sono stati smascherati come imbrogli
giustificano un atteggiamento scettico, ma altre testimonianze che, pur difficili
da accettare, non sono oggetto di contestazioni convincenti giustificano
l’ipotesi che la realtà che noi conosciamo non
sia quella “davvero reale”. Le convergenze e
anche le differenze fra le interpretazioni della realtà che si possono
ricavare dalle ricerche sui più svariati fenomeni paranormali, a mio parere,
dimostrano solo che una dimensione trascendente è possibile, ma che, se davvero è trascendente, non è traducibile nei concetti basati
sulle nostre (immanenti) capacità (sensoriali e intellettive). Appena si passa
dall’idea di una possibile trascendenza ad una presunta comprensione di essa,
si passa dal desiderio di conoscere al desiderio di fuggire dall’incertezza. Ho
conosciuto molte persone interessate ai fenomeni paranormali e convinte della
autenticità di alcuni di essi, ma molte di esse avevano un atteggiamento
“ottimistico”: non si limitavano a ritenere possibile una realtà trascendente,
ma ritenevano anche di averne comprese le caratteristiche essenziali sulla base
di quanto avevano letto o ascoltato da studiosi, da persone che avevano fatto
esperienze di confine o da guide spirituali. Non trovo ragionevole tale
“adesione” a modelli interpretativi perché proprio il concetto di trascendenza
esclude delle interpretazioni immanenti. In pratica le persone che credono e
pensano di aver capito commettono lo stesso errore delle persone religiose che
si rappresentano una divinità come figura paterna o materna. Pur trovando
convincenti alcune ricerche o esperienze relative ad un altro piano di realtà,
mi vieto di fantasticare “interpretazioni” che sarebbero mie e ricondurrebbero
irrazionalmente l’ipotesi ragionevole di una trascendenza ai miei attuali
desideri e alle mie attuali speranze. Per questo preferisco mantenere un
atteggiamento sobrio, non da “credente” anche nei casi in cui credo che
qualcosa di “altro” sia reale. Anche le ricerche più convincenti nell’ambito
del paranormale non ci liberano dal senso di precarietà che caratterizza
l’esistenza umana. Non ci rassicurano perché diventano rassicuranti solo se
vengono ricondotte alle tradizionali concezioni metafisiche e religiose.
Infatti, una possibile dimensione trascendente è tale proprio se è “altra”
rispetto alle nostre categorie mentali, alle nostre paure e alle nostre
speranze. Se tale dimensione è reale ed è davvero “altra” rispetto ai nostri
schemi concettuali non può offrirci le “rassicurazioni” che qui e ora desideriamo.
A questo punto credo
sia opportuno accennare ad alcune sedute nelle quali ho dovuto affrontare
situazioni che potevo inquadrate in due modi opposti. Non avendo certezze
davvero solide ero certo solo del fatto che in uno dei due casi (ma quale?)
avrei commesso un grave errore e che solo nell’altro caso avrei fatto ciò che
sarebbe servito alla persona con cui stavo lavorando. Pur non avendo mai
considerato la stanza delle sedute come una laboratorio per la formulazione e
per il controllo di congetture riguardanti i fenomeni “paranormali”, ho avuto
modo di lavorare anche con persone che avevano spiccati interessi per la
fenomenologia paranormale o che aderivano a concezioni spiritualistiche
orientali o che mi riferivano esperienze personali "non ordinarie".
Nei vari casi ho cercato di focalizzarmi sull’analisi delle strategie difensive
più che su ipotesi difficili da controllare, ma in alcuni casi ho dovuto in
qualche modo affrontare situazioni che dovevano essere affrontate.
Voglio ricordare due
tipi ben distinti di situazioni “difficili” che si possono presentare in
analisi: a) quelle in cui i clienti comunicano personali convinzioni sul
paranormale, alla luce delle quali traggono particolari conclusioni sulla loro
vita o sulle altre persone e b) quelle in cui i clienti riferiscono esperienze
personali paranormali o ritenute tali. Convinzioni e valutazioni riguardanti
l'ambito del paranormale mettono l'analista in una situazione analoga a quella
che si crea quando i clienti manifestano forti convinzioni religiose, morali o
politiche. In tali casi l’analista deve tener presente il ruolo
espressivo o difensivo delle idee dei clienti e lasciare da parte la loro
compatibilità o incompatibilità con le proprie idee. La situazione si complica
quando sono in ballo esperienze personali che possono essere “reali” o essere
interpretazioni confuse di semplici stati d’animo. Credo sia chiaro a chiunque
quanto possa essere pericoloso che un'esperienza psicotica venga trattata come
un'interessante esperienza paranormale, ed è chiaro quanto possa essere
pericoloso che una (eventuale) esperienza paranormale di un/una cliente venga
interpretata come un sintomo psicotico. Le esperienze paranormali, comunque o
sono reali o non lo sono. Le cose stanno in un modo o nell'altro e poiché gli
analisti, gli psichiatri e gli psicoterapeuti (come pure i parapsicologi) hanno
sia convinzioni di un tipo che di un altro, uno dei due gruppi di analisti
commette inevitabilmente errori gravi
in alcuni casi. Tuttavia, una
curiosità sincera, libera da ansie irrazionali, anche se non può eliminare gli
errori di valutazione, può almeno ridurre l'ostinazione a sbagliare e può
rendere meno gravi gli errori inevitabili.
Una cliente, che
chiamerò Alberta era in analisi da alcuni anni e ormai si stava preparando a
concludere il suo percorso analitico. All'epoca dell'incontro che voglio
riportare, mi stavo accingendo a cambiare studio. Non avevo parlato con nessun
cliente della cosa e Alberta non frequentava miei conoscenti stretti. In ogni
caso, per due mesi avevo cercato un nuovo studio e solo da pochi giorni avevo
visto un appartamento che per alcune caratteristiche sembrava adatto alle mie
esigenze del momento. Dopo aver lasciato il deposito nello studio immobiliare
andai al caffè con l’agente e, uscendo, incontrai Alberta. Ci salutammo
affettuosamente e mi chiese se per caso stessi trasferendo la mia attività
professionale in quella zona. Le chiesi come lo sapesse e mi disse che non lo
sapeva, ma appena mi aveva visto aveva avuto una delle sue
"sensazioni". Le confermai di aver appena firmato il contratto e
scherzammo un po' sul fatto che non le si poteva mai nascondere niente. Alberta
aveva a volte delle "sensazioni" corrette relative ad avvenimenti non
da lei dipendenti. Ne avevamo parlato in qualche seduta, senza dedicarci troppo
tempo, poiché a lei non interessava particolarmente una sua eventuale
"sensitività" ed anche a me la cosa non interessava più di tanto.
Avevamo accettato che forse certe cose non capitano per caso e ogni volta
avevamo lasciato cadere il discorso per occuparci di questioni più
significative per lei. Dico questo per sottolineare che Alberta era tranquilla
su quelle cose e non andava a fare "profezie" dal parrucchiere. Aveva
altri interessi e non era né turbata, né attratta dalla possibilità di
"sapere" cose per vie non chiare. Si può ritenere che possa rientrare
nelle regolarità statistiche il fatto che ogni tanto un nostro pensiero trovi
riscontro in un accadimento e forse Alberta non aveva mai avuto percezioni non
ordinarie. Se io avessi sempre minimizzato per trascuratezza le sporadiche
comunicazioni fatte a me da Alberta sull'argomento e se fossi stato convinto
che certe cose non possono avvenire, cosa avrei potuto pensare quando mi ha
comunicato la sua "sensazione" relativa al mio trasloco? Avrei potuto
pensare che Alberta mi avesse visto prima con l'agente immobiliare sulla soglia
dell’agenzia e in tal caso avrei considerato la sua comunicazione un vero
inganno. Avrei quindi dovuto fare molte ipotesi sulle ragioni di tale inganno e
sicuramente con il mio atteggiamento sospettoso avrei alterato il nostro
rapporto nelle sedute successive, ma fortunatamente, dopo un paio di mesi ho
concluso il lavoro con Alberta. Successivamente ho avuto modo di incontrarla
casualmente, di avere sue notizie da sue amiche in analisi e continuo a
pensarla come una persona cara, equilibrata, di buoni sentimenti, con il
cervello in ordine e con la capacità di percepire alcune cose in modo non
ordinario.
Angela era una giovane
insegnante che aveva da un anno e mezzo iniziato l'analisi e che aveva superato
molto velocemente una fase di depressione profonda, ma non grave, ancorandosi
stabilmente alle sue capacità adulte, che non erano risultate compromesse
nemmeno nel periodo più buio. Solo per ignoranza dei famigliari era stata
inizialmente (e inutilmente) affidata ad uno psichiatra che, senza valide
ragioni, aveva prescritto psicofarmaci (fortunatamente in dosi lievi). Dopo
poco tempo, seguendo il consiglio di un'amica, si era rivolta ad un medico che
le aveva sospeso gli antidepressivi e le aveva consigliato di contattarmi. Da
quasi un anno ci eravamo sbarazzati dei problemi urgenti e ci occupavamo delle
sue chiusure emotive di fondo e delle sue difficoltà di relazione. Nella seduta
precedente a quella che voglio riportare avevamo affrontato le sue esitazioni
nell'espressione della rabbia sul piano fisico. Il lavoro non aveva dato luogo
ad esiti significativi, ma era stato
almeno un buon inizio. Dopo molte incertezze si era permessa di urlare a pieni
polmoni e di gridare "no" immaginando di rivolgersi a sua madre. Si
era un po’ preoccupata per l'intensità della sua reazione aggressiva e aveva
bloccato il pianto che stava affiorando. Non avevamo avuto abbastanza tempo per
concludere in modo davvero soddisfacente la seduta.
Angela inizia
l’incontro successivo parlandomi del suo disagio dopo il lavoro precedente.
GF. Hai fatto molta
fatica a trattenere un'emozione così intensa. Quando si avvia un processo
emozionale senza portarlo alla sua naturale conclusione si può avvertire un
disagio ed esso può essere percepito soggettivamente come stato d'animo oppure
può essere a sua volta bloccato e percepito sul piano fisico (come tensione,
spossatezza, parestesie, ecc.).
A. La sera della
seduta, a letto, ho sentito il mio corpo in modo … particolare. Da bambina ciò
mi accadeva spesso. Come se il mio corpo si smaterializzasse. Ho perso
sensibilità anche se, concentrandomi, potevo muovere un piede o una mano. Però
sentivo le mani più grandi del normale e, unendole, percepivo che … si
attraversavano. Siccome quell'esperienza cominciava a durare troppo, mi sono
"concentrata" e sono stata in grado di percepire normalmente il mio
corpo.
GF. Parlami di ciò che
ti capitava da bambina. A quale età facevi queste esperienze?
A. Negli anni difficili
per i problemi fra mia madre e mio fratello: fra gli otto ed i dodici anni. Era
come se una parte di me viaggiasse ed il resto del corpo restasse fermo. In
diverse occasioni ho fatto questi "viaggi". Poi ho smesso, ma per un
certo periodo ho mantenuto la sensazione di potermi muovere con leggerezza
mentre il corpo restava fermo. A ventisei anni ho fumato canne per un po' e
quando avevo fumato mi sentivo "assente". A volte ero seduta, ma non
sentivo di essere seduta. Mi cadevano oggetti dalle mani se non prestavo molta
attenzione. Mi spaventavano queste sensazioni e smisi di fumare canne. Ero già
un po' depressa e queste sensazioni peggioravano il mio stato d'animo. Mi
spaventavano anche. Vorrei parlarti dell'esperienza della notte dopo la seduta
perché non so cosa pensare. In questo periodo sto abbastanza bene e anche la
seduta difficile fatta è comunque stata per me positiva. Un anno fa non mi
sentivo libera di esplorare la mia rabbia con quella intensità. Ho avuto delle
reazioni che poi ho bloccato, ma questo è capitato altre volte. La seduta è
finita "troppo presto", ma non capisco quella reazione.
GF. Forse è stata una
reazione alla seduta, ma non parlerei di quell'esperienza come di un sintomo.
A. Lo psichiatra non la
pensava così.
GF. Credo sbagliasse
perché, anche se la questione è controversa fra gli studiosi, quelle esperienze
possono capitare a persone che non conoscono la depressione nemmeno da lontano.
Sembra che tu abbia avuto una bilocazione la sera della seduta e che facessi
spesso esperienze del genere da bambina o da ragazzina. Le sensazioni che avevi
facendoti canne erano, invece, dei sintomi, ed erano un effetto diretto del
"fumo". Siccome in quel periodo iniziavi ad essere depressa anche il
tuo stato d'animo dopo una canna poteva essere peggiore di quanto fosse
normalmente. La bilocazione è una cosa, gli effetti delle canne un'altra e la
depressione un'altra ancora. Certe persone portano i capelli lunghi, hanno una
spiccata intelligenza e sono sempre ansiose. Il loro stato d'animo pessimo non
ha nulla a che fare con la lunghezza dei capelli o con la loro intelligenza.
A. Se non è un sintomo,
cos'è la bilocazione?
GF. E' un tipo di
esperienza, più frequente di quanto si ammetta. In genere si presenta solo una
volta (in situazioni traumatiche o di forte stress o di indebolimento fisico) e
le persone cercano di non pensarci più e di considerarla una "semplice
impressione"; in altri casi viene sperimentata in più occasioni da persone
che non hanno conoscenze o informazioni adeguate e non ne parlano per paura di
essere considerate matte. Tali esperienze capitano anche a persone non inclini
ad avere allucinazioni, fenomeni dissociativi o confusione mentale. Ci sono
varie pubblicazioni sull'argomento, che è uno dei più interessanti nelle
ricerche svolte sui fenomeni paranormali. Probabilmente hai fatto un uso
difensivo di quella tua semplice "capacità", come chi si getta nel
lavoro o nello studio per “non pensare”. Da bambina ti "allontanavi"
dalla famiglia anche in
quel modo per non sentire quanto stavi male e la settimana scorsa forse ti sei
parzialmente "sdoppiata" perché non riuscivi a trasformare il tuo
"disagio" in un'emozione e ad esprimerla adeguatamente.
A. E' un sollievo poter
comprendere quelle esperienze in questo modo. Ma … come "funziona" la
cosa?
GF. Ci sono delle
ipotesi. Quelle meno compatibili con le teorie scientifiche, purtroppo, sono le
più coerenti. Sulla cosa si può discutere. Se vuoi ti indico delle letture
sull'argomento, ma preferirei che non dessi troppa importanza alla questione.
Certe persone si fissano sul paranormale, vanno in giro con un pendolino nella
borsa, sentono energie strane e vedono spiriti dappertutto. Fanno dei corsi per
spostare oggetti col pensiero, sviluppare la telepatia ed anche per sdoppiarsi
a volontà. Se qualcuno ha una spiccata capacità bilocativa, credo debba
occuparsene e rendere possibili delle ricerche controllate sul fenomeno, ma non
mi sembra questo il tuo caso. Se tali esperienze ti capitano ancora, bene. Se
non ti capitano, bene lo stesso. Se però ti capitano (o te le vai
inconsapevolmente a cercare) in momenti di "disagio", torna subito
nel tuo normale modo di essere, lavora sul tuo disagio e mettiti in gioco sul
piano emotivo.
Non sono stato neutrale.
Anche se non ho proposto la mia chiave interpretativa preferita come una verità
assoluta, ho detto ad Angela quello che pensavo basandomi sulla mia convinzione
che Angela non fosse in una condizione psicotica. Il suo psichiatra aveva fatto
l’opposto: basandosi sul fatto che certe cose sono impossibili aveva formulato
una diagnosi e prescritto degli psicofarmaci che fortunatamente un medico aveva
eliminato, dato che si erano rivelati inutili e dannosi. Angela ha proseguito
il suo lavoro con me e dopo circa un anno ha concluso l’analisi su mio
suggerimento. Se mi fossi intestardito a cercare sintomi gravi, probabilmente
non avrei avuto modo di vedere in certi momenti le sue lacrime (sicuramente non
rabbiose-depressive) e in molti altri il suo bellissimo sorriso.
Di tutt'altro genere
sono state alcune sedute condotte con clienti che mi riportavano con entusiasmo
e commozione la loro partecipazione ad incontri di contatto con un angelo
custode, realizzati con l'aiuto di un/una presunto/a medium). In questi casi ho
sempre cercato di chiarire che 1) data la possibilità (non scontata per tutti,
ma ragionevole per alcuni ricercatori) di piani non materiali di realtà,
l'esistenza di "protettori invisibili" e di una comunicazione con
loro non era impensabile, ma era da dimostrare nei singoli casi, 2) in assenza
di prove, non era ragionevole una reazione emozionale ad un incontro che non si poteva considerare sicuramente avvenuto, 3) in tali casi incerti, la forte reazione emozionale richiedeva
un’attenta analisi. A quel punto orientavo il lavoro analitico sul desiderio di
contatto con un'entità protettiva. Tale eventuale esperienza di contatto era
facilmente immaginata in termini riparativi rispetto ad esperienze di
abbandono, non accettazione o svalutazione vissute con i genitori. In questi
casi sottolineavo che il "bisogno di credere" può interrompere un
lutto temuto perché molto doloroso. Le prove richieste perché si
creda ragionevolmente di aver fatto un'autentica esperienza di questo tipo
devono essere forti: devono riguardare fatti non conosciuti dalla persona e
controllabili.
La
teoria dell’evoluzione è una teoria convincente. Noiosa, tristissima, ma
convincente. La teoria dell’evoluzione, con tutte le sue “diramazioni”
biologiche e psicologiche conduce ad un’idea generale del “posto” occupato
dagli esseri umani (e quindi da ognuno di noi) nell’universo. Un’idea generale molto
più solida e coerente di quella offerta dalle religioni. Un’idea che però non
spiega alcune cose e soprattutto non spiega la dimensione soggettiva. La teoria
dell’evoluzione delle specie e le teorie relative all’evoluzione dell’intero
universo delineano uno scenario in cui c’è posto “anche per noi”, ma in cui
sembra non esserci un posto per la dimensione soggettiva che ci caratterizza e
da cui non possiamo prescindere. Anche se ci immaginiamo dall’esterno come
elementi oggettivi di un processo cosmico, stiamo attivando la nostra immaginazione e dobbiamo
ammettere che non comprendiamo nulla della nostra
posizione nel “grande mondo là fuori”.
Le
idee che affiorano dallo studio dei fenomeni definiti paranormali generano un
altro scenario: la dimensione soggettiva non è ricondotta a concetti metafisici
o religiosi, ma viene intesa come l’aspetto “basilare” della realtà. Tale
concezione ci colloca in una “altra” realtà che non possiamo ricondurre a ciò
che ci è dato conoscere. Tale realtà è trascendente, nel senso che apparteniamo ad essa anche se in qualche modo facciamo esperienza della realtà
ordinaria (fatta di sedie, tavoli, guerre, elettroni, galassie, sessualità,
alberi, libri, delfini, pubblicità, malattie, morte fisica, e così via).
Facciamo esperienza di una realtà che non è la “realtà reale” e apparteniamo ad
una realtà che è trascendente e quindi non è “altra da noi”, ma è al di là di
ciò che qui ed ora possiamo immaginare. Appena la immaginiamo stiamo sbagliando
qualcosa.
Se
accettiamo il primo scenario (evoluzionistico) dobbiamo accettare il dolore di non trovare una “collocazione” per la nostra
soggettività, per il nostro punto di vista sulla realtà oggettiva. Se
accettiamo il secondo scenario (trascendente), dobbiamo accettare il dolore di non poter comprendere la trascendenza, anche
se essa è la nostra “vera casa”. Se vogliamo davvero essere coerenti con ciò
che abbiamo capito, dobbiamo ammettere che entrambi gli scenari ci ripropongono,
in modi diversi, la precarietà della nostra esistenza.
L’idea
di essere pronipoti di monocellulari casualmente formatisi a partire da un
“brodo primordiale” regolato da fenomeni quantistici è devastante e "non quadra” con la commozione di quando ci lasciamo trasportare da una melodia o
vediamo la bellezza di un bambino o riceviamo una carezza. Tali esperienze, a
quanto ci risulta, non hanno nulla a che fare con l’evoluzione di un universo
impersonale. A dire il vero, quando osserviamo folle che acclamano un cantante
o un politico, o studiamo la storia delle guerre, o ascoltiamo una persona
piena di rancore, abbiamo l’impressione di vivere in un formicaio che si muove
con la stupidità di un elettrone. Da tale incubo ci salva però la consapevolezza
del fatto che è la paura e non la “natura” ad interrompere in questi casi
l’armonia, l’empatia, la conoscenza. Ma appena ci aggrappiamo alla bellezza
delle nostre meravigliose potenzialità, della nostra capacità di creare
intimità e di sfidare ogni paura, torniamo increduli di fronte all’idea che
tutta questa avventura sia un esito casuale di un incubo deterministico
protrattosi per milioni di anni. D’altra parte, l’idea di essere radicati in
una realtà trascendente, ma di essere anche condannati a trascorrere un’intera
vita o molte vite fra batteri, guerre, e grumi ideologizzati di stupidità,
produce un senso di vertigine: vorremmo conoscere le nostre “vere” radici
(trascendenti), ma appena le immaginiamo stiamo fantasticando ciò che in questa vita sentiamo mancante. L’idea
del caso e della necessità di un cosmo oggettivo che ha prodotto la nostra
soggettività è fonte di turbamento come l’idea di aver radici in una
trascendenza che per onestà intellettuale rinunciamo a definire. Entrambi gli scenari ci lasciano una sola certezza: possiamo arrenderci
al dolore inevitabile (anche al dolore dei nostri dubbi) e creare l’unica felicità possibile nella realtà in cui
viviamo, oppure possiamo dissociarci e vivere “poco”.