L’irrazionalità
è fondamentalmente la razionalità dei bambini trasferita nel mondo degli
adulti. In condizioni di cronica emergenza, non potendo elaborare il dolore, i
bambini si dissociano dal dolore. Tale dissociazione realizzata con
l’invenzione di complesse difese psicologiche irrazionali è razionale come lo è
uccidere per legittima difesa. Non lo è nella vita adulta, ma gli esseri umani
adulti continuano a dissociarsi dal dolore senza sapere perché fanno ciò che
fanno. L’irrazionalità permea il dialogo interno, le relazioni interpersonali, la
sessualità, le relazioni fra generi e fra gruppi sociali, le concezioni etiche,
religiose, ideologiche e persino le teorie che offrono spiegazioni del
comportamento individuale e dell’organizzazione sociale. Ho cercato di
evidenziare che gli esseri umani evitano la consapevolezza del dolore anche
quando riflettono sulla loro esistenza e sulla loro morte, quando si
interrogano sul rapporto fra la loro dimensione soggettiva e la realtà
oggettiva e quando indagano su fenomeni che suggeriscono la possibilità di una
trascendenza. In pratica, l’irrazionalità attraversa tutta la cultura umana. Pur avendo già accennato ai
risvolti sociali e ideologici dell’irrazionalità, voglio dedicare ora un po’ di
spazio all’irrazionalità sociale e, in
particolare, all’autoritarismo.
Nell’autoritarismo
sociale e politico entrano in gioco forti illusioni di potere, ma entra in
gioco anche la gestione reale di reali poteri. Il potere di legiferare, il
potere di gestire risorse economiche e mezzi di comunicazione, il potere di utilizzare
armi e soldati, sono poteri reali. Sono invece del tutto illusori sia il potere
di conquistare la felicità con la ricchezza o con la violenza, sia il potere di
realizzare, con la sottomissione e l’obbedienza, l’appartenenza ad una comunità
rassicurante. In pratica, nelle società autoritarie persone reali mettono in
moto processi reali per coltivare semplici illusioni e pagano anche un prezzo
altissimo: vivono “poco” e creano sofferenza.
Ministri,
generali, accademici, insegnanti e consumatori non provengono “dalla società”,
ma da una famiglia. Prima di acquisire il potere di dare avvio ad una guerra o
di tenere conferenze o di fare la spesa al supermercato, hanno strutturato
delle difese psicologiche cercando di sopravvivere ai rifiuti dei genitori. Qualcosa
“non fila” nel modo in cui gli esseri umani concepiscono la convivenza sociale
e organizzano culturalmente e politicamente tale convivenza. Qualcosa non fila
se la sessualità è in vari modi svalutata e repressa, mentre le guerre sono
considerate inevitabili e le religioni sono considerate come espressione della
libertà del pensiero e imposte ai bambini. Qualcosa non fila nella
convivenza umana se è stata affidata a dittatori o se è stata affidata a governi
democraticamente eletti ma impegnati a consolidare iniquità e illusioni
condivise. A dispetto di Marx e di tutti i sociologi, la società “non esiste”. O
almeno non esiste come struttura portante della storia condivisa. In qualche
modo “esiste”, ma solo come sottoprodotto della paura di persone in carne ed
ossa. Persone che a volte si esprimono, ma che normalmente agiscono senza
sapere perché fanno ciò che fanno e senza nemmeno sapere perché fanno tanto
male ai loro simili.
Da
un lato l’autoritarismo schiaccia le potenzialità espressive individuali e da
un altro lato le persone sentono il bisogno di sottomettersi al potere che le
opprime e quindi rafforzano l’autoritarismo. Un dittatore non potrebbe imporre
nulla ad una popolazione formata da persone che amano la loro vita. Ogni concezione vittimista
dell’autoritarismo sociale (i proletari oppressi dai capitalisti, la “gente
onesta” derubata dai politici disonesti, le donne vittime degli uomini, ecc.) è,
quindi errata, perché ciò che caratterizza i processi autoritari è proprio il
consenso della parte oppressa, discriminata o sfruttata della popolazione. Anche
se in particolari congiunture storiche un particolare partito politico ha attuato
un particolare regime autoritario rispondendo alle pressioni di gruppi che
gestivano il potere economico e militare, tali gruppi hanno realizzato i loro
progetti solo perché un’intera popolazione è stata disposta a sostenere o
almeno a sopportare l’autoritarismo politico, culturale e sociale. Per questo
motivo tutte le “spiegazioni” socio-economiche delle dittature trascurano il
fatto che tali mostruosità si sono realizzate con il supporto attivo o passivo
di milioni di persone che, ben prima della nascita di una particolare dittatura,
accettavano la violenza, la repressione e la svalutazione nel loro dialogo
interno, nella dimensione famigliare, nelle relazioni interpersonali e nell’ambito
politico.
Ho
già sottolineato che vari animali sociali e i bambini piccoli manifestano un
marcato interesse per il bene dei loro simili e una spontanea disponibilità a
fare dei sacrifici per il loro bene. Il bisogno di “avere di più” costituisce
una difesa psicologico e un sintomo che gli psicoterapeuti non diagnosticano
solo perché tale “bisogno” è molto diffuso e quindi normale. Tale bisogno irrazionale
costituisce una difesa dal dolore perché comporta l’illusione di un possibile appagamento
mai ottenuto nell’infanzia e mai accettato come dolorosamente mancante. Per
questo, anche se continuo a provare più simpatia per i poveri che per i ricchi,
devo riconoscere che le prime vittime dei nobili, dei ricchi, degli schiavisti,
degli imperialisti e dei mafiosi sono proprio i nobili, i ricchi, gli
schiavisti, gli imperialisti e i mafiosi. E’ indiscutibile che un uomo d’affari
viva una vita più comoda di quella dei suoi operai, ma prima di togliere qualcosa
ad altri ha tolto a se stesso e ai suoi cari la felicità. Questo è un fatto,
anche se è difficile da spiegare a chi vive nella miseria o ha subito
persecuzioni politiche. Inoltre, l’avidità ha motivato gli artefici del
colonialismo ma anche le masse. Le ridicole velleità colonialiste dell’Italia
fascista hanno infiammato gli animi di tanti lavoratori che aspiravano ad
“avere un posto al sole”. Ovviamente un avido industriale accumula reali
ricchezze e un nullatenente sostenitore di un partito guerrafondaio coltiva
solo l’illusione di “avere di più”, ma in entrambi i casi l’idea di “avere”
tocca corde profonde, distrae dal dolore e impedisce la creazione della
felicità realmente possibile. In ogni caso le “masse”, pur coltivando a volte
illusioni di potere, coltivano soprattutto l’illusione di sentirsi “al sicuro” sottomettendosi
ad un’autorità “forte”.
I
gregari sono avidi di sicurezza. Mentre gli arrampicatori sociali cercano e a
volte ottengono privilegi inutili, ma reali, i gregari cercano e ottengono un’illusione
di sicurezza restando al loro posto e sentendosi parte di una grande famiglia. Quando
la paura di non avere ciò che si vuole a tutti i costi supera una certa soglia,
la brama diventa distruttiva. Ha reso “giustificabile” lo sterminio dei nativi
americani che ostacolavano “il progresso”, lo sterminio degli ebrei che
contaminavano la “razza pura”, lo sterminio dei palestinesi che tolgono spazio
allo Stato israeliano. Le versioni meno cruente ma egualmente stupide della
stessa logica rendono giustificabili le ruspe nei campi rom e moltissime discriminazioni.
Sia la brama di denaro e potere, sia la brama di un ordine “protettivo”, nascono
dalla paura sperimentata nell’infanzia e, in certe congiunture storiche, generano
violenze individuali e sociali. Le persone che in certi momenti hanno compiuto
massacri o hanno appoggiato fazioni o forze armate dedite a compiere massacri,
pochi anni prima erano persone che vivevano in famiglie normali, che trattavano
normalmente male i figli, che facevano sesso in modi normalmente superficiali e
che partecipavano alle feste paesane. Proprio il vivere “poco”, in certi
momenti critici, produce esplosioni di crudeltà, perché nel vivere
“poco” si spezza il contatto con se stessi e con gli altri.
Se
ci soffermiamo sull’incubo sociale che nel secolo scorso ha avuto effetti devastanti
in tutto il mondo, dobbiamo constatare che il nazifascismo è stato sconfitto,
ma l’autoritarismo è sopravvissuto. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e
il trionfo della “libertà”, negli Stati Uniti (e in altri paesi) sono rimaste
“intatte” le discriminazioni nei confronti della popolazione di colore; nella
Germania orientale si è stabilizzato lo stalinismo e in tutto il mondo si sono
consolidate forme di convivenza sociale basate su pregiudizi e sfruttamento. I
colpi di stato nei paesi sudamericani e le guerre nell’Indocina hanno fatto il
loro corso e “la gente” ha continuato ad accettare ogni forma di autoritarismo
sociale e ogni guerra. Tali fatti dimostrano che non è possibile spiegare il
nucleo o lo “zoccolo duro” dei fenomeni autoritari senza affrontare il tema
della “fame di potere” e della “fame di appartenenza” che le singole persone
provano.
In
particolari congiunture, fabbricanti di armi o petrolieri possono fare
pressioni su gruppi politici per far passare una legge o per far scoppiare una
guerra, ma in tali vicende non si ha alcun confronto fra “l’economia” e “la
politica”, perché tali confronti astratti non sarebbero possibili senza accordi
fra persone reali e senza leggi approvate da persone reali. Tali vicende non sono
dovute nemmeno al rapporto fra “il potere” e “le masse”, perché se un ministro
telefona ad un generale avviene qualcosa fra due persone e una massa esulta in
una piazza solo se moltissime persone, dopo aver letto un giornale o un
volantino salutano i figli, salgono su un autobus con una bandiera e raggiungono
una piazza. Anche i giornali non vengono stampati “dalla società”, ma da chi ha
investito dei capitali nel settore dell’informazione e da chi mantiene la
famiglia scrivendo articoli. Certamente esistono pressioni sociali, ma esse
hanno un certo esito su alcune persone e non su altre. Le “leggi sociologiche” (che
connettono a livello teorico certi fatti sociali ad altri fatti sociali) riguardano i dettagli dei contenuti di
certi processi sociali e non la “realtà” dei processi sociali. L’idea che i
fenomeni sociali vadano spiegati ad un livello d’analisi sociologico e non
psicologico, entro certi limiti è giustificata ed anche banale, ma è
fondamentalmente errata, perché senza l’accanimento di strati sociali
privilegiati e senza il fanatismo e la passività delle “masse”, i più atroci eventi
sociali non sarebbero nemmeno stati immaginati.
L’autoritarismo
è comunemente definito come un eccesso o una distorsione dell’esercizio
dell’autorità, ma possiamo essere più specifici e affermare che costituisce un
esercizio dell’autorità che riflette la paura anziché la ricerca condivisa
della felicità. L’autorità, in quanto tale è un servizio: se con alcuni amici
facciamo una gita in montagna abbiamo bisogno che uno di noi (il più esperto
della zona) ci guidi e questa persona rinuncerà
ad una parte del suo piacere per consentire agli altri di non farsi male. Tale
autorità può ottenere anche un investimento formale e può ottenere (dai
partecipanti) il potere di punire chi mette in pericolo gli altri. Tutto qui.
Ciò vale per la scampagnata e per l’economia globalizzata. L’unica differenza
sta nel fatto che lo sfruttamento non deriva dal desiderio di star bene assieme
agli altri.
Non
solo l’autorità, su un piano razionale, è
un servizio e non una “affermazione” personale, ma l’esercizio del potere, su
un piano razionale, è un peso e non una
gratificazione. E’ ragionevole che una persona si dedichi ad insegnare ciò che
ha imparato o che si impegni a risolvere dei contrasti applicando la legge, ma
non c’è alcuna “soddisfazione personale” nel dedicare ore ad insegnare cose che
già si sanno in una scuola o a risolvere questioni complesse in un tribunale. Chi
“aspira” a queste cose non sa divertirsi e non sa cosa sia la felicità. Certi
incarichi hanno senso perché sono utili
e possono essere preferiti ad un’altra occupazione perché sono più utili, non
perché danno potere o “riconoscimento sociale”. In un film bellissimo di Gary Ross
(Seabiscuit) un anziano uomo di
cavalli cura la zampa di un cavallo che stava per essere abbattuto e,
interrogato sul motivo per cui fa tanto per una bestia che comunque non tornerà
a fare gare, risponde “perché posso”. E’
ragionevole fare cose buone che altri non possono fare, ma non è affatto
ragionevole aspettarsi un “riconoscimento” che solo nell’infanzia sarebbe stato
“nutriente”. Tutto qui. Su un piano razionale, l’esercizio del potere è un peso
che in alcuni casi è opportuno accettare. Anche la sottomissione al potere e
alle norme socialmente stabilite è una seccatura a volte necessaria: è ragionevole
accettare che la precedenza a destra sia fissata per legge ed è ragionevole che
una parte dello stipendio vada ceduto allo Stato che garantisce dei servizi
pubblici. Tali seccature sono sopportabili perché generano alcuni vantaggi
pratici e non perché generano un “senso di appartenenza”: non possono creare il
piacere provato dai bambini che stringono la mano della mamma passeggiando
nelle immense strade di un’immensa città. Se tali seccature sono confuse con la
soddisfazione di far parte di una comunità o di “avere una patria”, qualcosa
“non fila”, come nei casi in cui le persone idealizzano una squadra di calcio o un cantante.
L’irrazionalità
sociale e, in particolare, l’autoritarismo non dipendono solo dalla presenza
“operante” di persone avide e di persone sottomesse, ma anche dalla presenza
passivamente operante di molte persone indifferenti e quindi intellettualmente
ottuse ed emotivamente superficiali. Sicuramente sono gli avidi ad avviare
processi distruttivi e sono i gregari a manifestare fanatismo, ma i disastri voluti
da queste persone distruttive si realizzano soprattutto grazie al consenso
passivo di moltissime persone indifferenti. Persone che accettano tutto perché
“prese” dai dettagli della loro quotidianità: persone indifferenti al proprio
dolore e quindi insensibili al dolore generato da chi trasforma la convivenza
sociale in un manicomio. Accettano idee, pregiudizi, contro-pregiudizi,
violenze e banalità come cose “che capitano”, senza coinvolgersi, senza
dispiacersi e senza reagire. Addirittura trovano accettabili delle sciocchezze ideologizzate
solo per non fare la fatica di riflettere e riescono anche a favorire (in una
competizione elettorale) un partito che non idealizzano con ingenuo fanatismo, ma
di cui non colgono gli obiettivi autoritari e distruttivi. Ascoltano
distrattamente, fanno chiacchiere al bar, decidono di “sostenere” qualcosa “di
nuovo” (o di “tradizionale”) e tornano ad occuparsi della loro rattrappita
quotidianità. Anche questi adulti non sono minorati, ma sono persone che si
ostinano, come nell’infanzia, a mantenere un certo distacco dalla realtà. Normalmente
le persone non si sentono capaci e responsabili di inventare il loro futuro e
non percepiscono la società “data” come una realtà provvisoria e modificabile.
Con
queste considerazioni non intendo rispolverare la vecchia polemica fra
rivoluzionari orientati a cambiare la società e moralisti convinti di dover
cambiare le persone e renderle quindi capaci di migliorare la società. Intendo
al contrario cercare di capire per quale motivo le società non siano mai cambiate. I papi hanno predicato l’amore facendo
guerre di religione, la borghesia ha sostituito il regime “antico” con un altro
regime e le rivoluzioni comuniste hanno prodotto apparati statali burocratici. In
tutte queste società sparuti gruppi di privilegiati infelici hanno difeso i
loro privilegi e ne hanno cercati altri e immense masse popolari infelici hanno
accettato di stare al loro posto. Nella società post-capitalista e
post-comunista divenuta economicamente e ideologicamente “globale” non è
cambiato nulla. E’ cambiata solo la facciata: i privilegiati non giustificano
più ideologicamente il loro potere parlando di dio o della libertà o
dell’uguaglianza e le masse non si lamentano più delle “ingiustizie” perché si
lamentano di tutto con “amici” incontrati su Facebook. La società si è frantumata in una
somma aritmetica di individui orgogliosi della loro ignoranza e determinati a
non immaginare nulla. Questo cambiamento superficiale, può essere spiegato,
come quelli del passato, a livello d’analisi sociologico. Ciò che però la sociologia
non può spiegare è l’aspetto profondo che accomuna le diverse società storiche:
la compresenza di prepotenza e sottomissione, di illusioni diffuse (infantili) di
potere e di illusioni diffuse (infantili) di appartenenza. George Orwell,
descrivendo una società immaginaria in cui la ragione non era altro che “una
pura questione di statistica” (1949, p. 305), stava parlando del suo presente e
delineava quegli sviluppi del suo presente che costituiscono il nostro
presente. Un presente in cui la politica fissa solo i dettagli dell'orrore sociale, in cui l'etica prescrive una benevolenza non alimentata dall'empatia e in cui la psicoterapia si propone di curare i sintomi insoliti per confermare la normale irrazionalità individuale e sociale.
Quando
le persone concepiscono il mondo in cui stanno vivendo come se fosse l’unico
mondo possibile, perdono la capacità di immaginare altre forme di convivenza
sociale. Anche quando progettano delle riforme o delle rivoluzioni concepiscono
solo quelle che riflettono la logica profonda della società “data”. La
razionalità non implica scelte politiche identiche per le diverse persone, dato
che i problemi spesso hanno varie soluzioni razionali (e anche varie soluzioni
irrazionali), ma implica sempre una lucida e sentita esigenza di conoscere,
condividere e creare. Per questo motivo, le persone razionali con idee diverse
possono sempre dialogare costruttivamente, mentre le persone irrazionali con
idee diverse possono solo “contrapporsi” o fare compromessi per divenire
complici nel rafforzamento delle iniquità e delle illusioni.
L’accudimento
dei bambini e la socializzazione infantile, purtroppo, non consistono in un
sostegno offerto dalla famiglia e dalla società ai bambini, ma in un
modellamento dei bambini: in un loro adattamento alla società “data”. I
genitori non solo impediscono ai figli di cadere dal balcone, ma obbligano i
figli a fare moltissime cose inutili. La massa ingombrante di “si deve fare” o
“non si deve fare” investe la totalità della vita dei bambini. Con la pressione
costante delle svalutazioni e delle aspettative degli adulti i bambini non
imparano a farsi domande e a trovare risposte, ma imparano ad adattarsi alle
risposte già date a domande nemmeno formulate. Genitori litigiosi testimoniano,
anche senza fare conferenze, che il sesso “non conta” e nemmeno l’amore.
Genitori ossequienti a tutte le autorità testimoniano che le autorità non contano
per ciò che fanno, ma per il semplice fatto di esserci. Genitori preoccupati
della loro “posizione sociale” testimoniano che le persone non contano, mentre
le “posizioni sociali” sono fondamentali. Alla fine delle elementari i bambini
non sanno ancora usare bene i congiuntivi, ma sono già laureati in conformismo.
Partendo
da queste osservazioni, possiamo chiederci cosa renda razionale (in un
villaggio o in uno Stato moderno) l’esercizio
del potere. Credo che la risposta sia semplice (anche se tutt’altro che
scontata): l’esercizio del potere è razionale nella misura in cui a) consente
il raggiungimento di obiettivi non alla portata dei singoli, b) facilita la
convivenza, c) tutela i membri della comunità e soprattutto i più deboli. In
pratica, occorre una certa gestione del potere per costruire una linea
ferroviaria, dato che i singoli possono solo costruire o acquistare un piccolo
mezzo di trasporto che, senza strade o binari, può coprire piccole distanze.
Inoltre, occorre una certa gestione del potere per concludere dei contrasti fra
cittadini prima che sfocino in atti di violenza privata e serve anche una certa
gestione del potere perché chi è in gravi difficoltà riceva cure mediche o
supporto tecnico. Credo che queste considerazioni possano essere accettate da
chiunque, ma molte perplessità possono sorgere se ci chiediamo a cosa non può servire, su un piano
razionale, la gestione del potere. Su un
piano razionale, non può mai servire a consolidare delle illusioni.
Purtroppo, la gestione del potere è dedicata soprattutto al consolidamento
delle illusioni: sul piano strutturale e su quello culturale le società
contemporanee sono basate più sulla competizione e sul senso di appartenenza
che sulla collaborazione. In altre parole sono basate su illusioni.
L’orrore
del nazifascismo è ormai storia, ma sono attuali altri orrori. Vi sono Stati,
magari “lontani”, guidati da politici e militari che rendono invivibile la vita
dei cittadini; vi sono Stati (più “vicini”) guidati da persone miserabili,
democraticamente elette da persone normali, che amministrano la realtà “data”
attuando “riforme” che riguardano solo aspetti marginali di tale realtà; vi sono
intere società in cui le leggi vigenti o le tradizioni consolidate mantengono
discriminazioni che calpestano i bisogni di tante persone; vi sono società in
cui è normale la tortura o la pratica delle mutilazioni genitali delle bambine;
vi sono società in cui normalmente si muore per mancanza di cibo o di cure
mediche e società in cui normalmente si sopravvive comodamente, ma non si
immagina una vita umana. L’assuefazione all’orrore non si spiega con i “limiti”
degli esseri umani. Se i topi sono capaci di digiunare per non far subire una
scossa elettrica ai loro simili, o se uno scimpanzé è capace di aiutare un
uccellino a volare, noi siamo capaci di fare molto di più. Non siamo
schiacciati dai nostri limiti, ma dall’infanzia che non abbiamo mai superato. Divenuti
capaci di maneggiare miliardi, cannoni e mezzi di comunicazione, utilizziamo le
risorse a nostra disposizione per vivere “poco” pur di non soffrire “troppo”.
Quando un adulto è disponibile a fare il “saluto romano” o a fare una “dieta
religiosa” o a chiedere un autografo ad un cantante desidera solo
quell’accettazione che non ha avuto nell’infanzia e che non ammette di non
poter più ottenere. L’autoritarismo sociale non si spiega se non lo
riconduciamo a “stupide e ridicole” stranezze infantili e se non riconduciamo
tali stupide e ridicole stranezze al dolore terribile normalmente inflitto ai
bambini del pianeta.
L’autoritarismo
sociale spesso si manifesta con forme di discriminazione e di intolleranza giustificate
per legge e garantite dalle forze dell’ordine. Negli Stati Uniti e nel
Sudafrica la discriminazione nei confronti della popolazione di colore non è
stata un pregiudizio di alcuni o di molti, ma una realtà garantita dallo Stato.
Un po’ ovunque le discriminazioni nei confronti delle donne sono state (e sono) realtà
di fatto regolate dalle leggi. Nelle comunità religiose tali discriminazioni
permangono anche oggi, dato che le donne non possono essere sacerdoti cattolici
e che negli Stati islamici le donne sono discriminate su tutti i piani e non solo
sul piano religioso. L’autoritarismo non è altro che l’applicazione irrazionale
della gestione del potere attuata dalle autorità e accettata dalle “masse”. La
gestione irrazionale del potere favorisce quindi sia interessi particolari, sia pregiudizi molto diffusi. L’autoritarismo è talmente radicato che persino le opposizioni
più significative all’autoritarismo sono spesso di tipo autoritario. Ciò si
verifica perché la contestazione di un’ingiustizia socialmente imposta si
manifesta facilmente come affermazione del suo opposto, e quindi di un’altra
ingiustizia. Le persone “progressiste” giustificano le “quote rosa” come un
imprescindibile segno di equità, ma non pensano ad imporre anche “quote” per i
rom, gli omosessuali, i disabili e per tutti i gruppi che hanno subito ingiuste
discriminazioni. In pratica, l’autoritarismo, come fenomeno sociale e culturale
influenza anche le persone e i gruppi che vi si oppongono. Un esempio
illuminante di questa dolorosa realtà è costituita dal modo in cui la cultura
occidentale (imposta in modi violenti alle popolazioni che hanno subito
l’espansione imperialistica) viene oggi contestata in nome di istanze
multiculturaliste.
Oggi
le società “avanzate” hanno ridimensionato le loro aspirazioni colonialiste
(anche perché è rimasto ben poco da colonizzare) e stanno subendo la pressione
dell’immigrazione di persone in fuga dai loro paesi di origine. Gli immigrati
in genere vogliono liberarsi da condizioni di arretratezza economica, da
governi dispotici e da scenari di guerra. Vogliono però anche restare fedeli
alle loro tradizioni culturali, spesso caratterizzate da pregiudizi, dogmatismi
e consuetudini più barbare di quelli presenti nelle società che hanno in
qualche misura fatto tesoro dell’illuminismo, della cultura scientifica e della
tradizione democratica. La presenza, sempre più ingombrante di persone a cui le
società relativamente “aperte” riconoscono dignità, ma che hanno concezioni
della dignità molto ristrette, crea significativi problemi di convivenza e
costringe a prendere decisioni pratiche relative all’oggettiva disarmonia che
esiste fra la nostra concezione di “noi e loro” e la loro concezione di “loro e
noi”. In tale situazione complessa, purtroppo, tra le persone meno colte si
manifestano rigurgiti diffusi di razzismo, ma fra quelle più colte si
manifestano altrettanto discutibili “aperture mentali” nei confronti di chi
nemmeno concepisce le aperture mentali e ribadisce semplici verità assolute,
sul bene, sul male, su dio, sulla femminilità, sulla virilità, sulla famiglia e
“sull’ordine delle cose”. Le persone più propense a dimostrarsi a tutti i costi
“politicamente corrette” sostengono, quindi, posizioni “multiculturaliste” che
confondono la tolleranza con il relativismo.
La
tolleranza è un atteggiamento razionale che mira a rispettare e tutelare le
persone anche quando pensano, sentono e agiscono in modi criticabili ma non
distruttivi, mentre il relativismo applicato alle diverse tradizioni culturali
è una concezione irrazionale che nega la legittimità di un’analisi critica dei
modi di pensare, sentire e agire. Se è ragionevole rispettare le persone che
indossano abiti strani scelti per una “fede” nella moda di Parigi o per una
“fede religiosa” oscurantista, non è ragionevole “giustificare” qualsiasi
sciocchezza semplicemente perché è accettata da alcuni o da molti. Le abitudini sono solo abitudini, mentre le
affermazioni sono vere o false,
giustificate o ingiustificate. L’idea che le donne debbano coprire il viso
perché sono fondamentalmente delle
prede sessuali e perché gli uomini sono
fondamentalmente dei predatori sessuali, oltre che stupida è falsa e
svalutativa. Ciò, ovviamente, non autorizza nessuno a strappare il velo alle
donne islamiche, che hanno il diritto di rovinarsi la vita come preferiscono,
ma non toglie a nessuno il diritto di definire barbari certi costumi e non
giustifica alcun “confronto culturale” con chi manifesta una cultura ridotta a
pregiudizi e dogmi.
Paradossalmente,
i sostenitori “progressisti” del relativismo culturale, compresi i raffinati
filosofi “postmoderni”, portano alle estreme conseguenze la cultura
anti-dogmatica occidentale e finiscono, di fatto, per “lasciare spazio” proprio
alle concezioni più dogmatiche sorte in altre società. Gli intellettuali più
lucidi, quindi, sottolineano che la razionalità è una capacità umana e non un
vezzo culturale: “molti sono favorevoli a dire non solo –cosa che è vera- che
non si può giustificare moralmente la soggiogazione di un popolo sovrano in
nome della diffusione del sapere, ma anche che non esiste un sapere superiore,
bensì soltanto saperi diversi” (Boghossian, 2006, p. 21). Anche John R. Searle
ha difeso coraggiosamente la razionalità della cultura occidentale in un
saggio intitolato Occidente e multiculturalismo (2003): "Non è esagerato dire che la
nostra tradizione intellettuale relativa all'istruzione, specialmente nelle
università di ricerca, si fonda sulla tradizione razionalista occidentale. Lo
studioso ideale della tradizione è il ricercatore disinteressato,
impegnato nella ricerca della conoscenza oggettiva che avrà una valenza universale” (p. 47). Da qui, la ferma critica di
Searle alle posizioni relativiste assunte sempre più spesso dagli intellettuali
“progressisti”: "Alcuni dipartimenti nelle università sono dominati
ideologicamente da concezioni antirealiste e antirazionaliste, che cominciano a
influenzare sia il contenuto, sia lo stile dell'istruzione superiore. (...)
Decisamente più evidente negli studi umanistici, è ormai accettato il fatto che
la razza, il genere, la classe e l'etnia dello studente definiscano la sua
identità. Sotto questo punto di vista non è più un obiettivo dell'istruzione,
come era invece un tempo, far sì che lo studente sviluppi una identità in
quanto membro di una più ampia cultura intellettuale umana universale.
Piuttosto, il nuovo obiettivo è quello di rafforzare il suo orgoglio
nell'autoidentificarsi in un particolare sottogruppo. (...) Se si abbandona
l'impegno nei confronti della verità e dell'eccellenza intellettuale, che
costituiscono il nucleo della tradizione razionalista occidentale, allora
sembra arbitrario ed elitario pensare che alcuni libri siano intellettualmente
superiori rispetto ad altri" (pp. 53-55). Searle delinea una questione fondamentale:
non si supera l'imperialismo culturale (che imponeva a tutto il mondo usi,
costumi, mode e religioni occidentali spacciandole per "cultura
superiore") affermando che qualsiasi tradizione orale o scritta abbia lo
stesso valore. Il sapere non è "democratico" sia perché deve
scontrarsi con la realtà, sia perché ha conseguenze reali (costruttive o
distruttive). Per questo dobbiamo a tutti i costi analizzare e criticare sia l’irrazionalità
presente nella cultura occidentale, sia analizzare e criticare l’irrazionalità
di ogni altra cultura.
Quella
che Searle chiama tradizione razionalista occidentale è davvero una tradizione
universalista perché può includere la meccanica e la meccanica quantistica, la
medicina accademica, la psicologia e la parapsicologia. Non esclude alcuna tesi
purché sia presentata con serie argomentazioni e tolleri la critica. E' un
baluardo contro il pregiudizio. C'è infatti una differenza basilare tra la
psicoanalisi, da un lato, e la superstizione, il Corano e la dogmatica
cattolica dall’altro: anche se dissentiamo da Freud, dobbiamo riconoscere a
questo studioso il merito di aver costruito un sistema di idee argomentando su
fatti ed esperienze e cercando spiegazioni logiche e coerenti. A mio avviso ha
argomentato male e ha fatto osservazioni poco accurate, ma ha almeno tentato di
fare scienza. Ciò non vale per le superstizioni, per le dottrine religiose e
per molte ideologie o "culture tradizionali". Sicuramente non vale
per il relativismo multiculturalista. In un altro libro, Searle riprende con
parole a mio parere convincenti i termini di tale questione. "Varie forme
di relativismo, talvolta sotto l'etichetta di 'postmodernismo', hanno attaccato
l'idea di razionalità in quanto tale (...) la razionalità in quanto tale non
richiede né ammette alcuna giustificazione, poiché il pensiero e il linguaggio
la presuppongono. Si possono discutere in maniera intelligibile le teorie della
razionalità, non la razionalità" (2001, pp. XIII-XIV). A questo proposito
va sottolineato che l’universalismo
della cultura occidentale (e l’attribuzione di certi diritti fondamentali
a qualsiasi essere umano), non può e non deve essere inteso come un "atteggiamento occidentale” valido come qualsiasi altra presunta verità (cfr.
Benhabib, 2002). In questo senso, il dialogo con “valori culturali” che si
traducono nella svalutazione del ruolo sessuale femminile (ed anche maschile) o
nei matrimoni combinati dalle famiglie, non ha alcun senso, anche se può
gratificare singoli intellettuali o politici votati alla causa del
“politicamente corretto”.
L'autoritarismo
della cultura occidentale non si sconfigge accettando con finta tolleranza
l’irrazionalità di altre culture, ma analizzando l’irrazionalità di qualsiasi
cultura. L'alternativa all'etnocentrismo non consiste nell’essere
"aperti" a idee ottuse e poco rispettose, ma nell'essere critici nei
confronti di ogni irrazionalità e rispettosi di ogni persona. Le persone vanno
rispettate, ma le loro azioni vanno tollerate solo se sono giustificabili. E
non c’è alcuna ragione per giustificare le azioni distruttive. In Italia, un
ginecologo somalo che lavorava presso l’Ospedale Careggi di Firenze propose di
sostituire con una “bucatura di spillo” l’asportazione del clitoride e delle
piccole labbra, per “salvare il rito” (quello delle mutilazioni genitali
femminili) senza causare danni permanenti (cfr. Fallaci, 2004, p. 227-230).
Questa “idea” fu esaminata da amministratori, burocrati e persino dal
Presidente dell’Ordine dei Medici della Toscana e giunse in Parlamento dove fu
discussa e bocciata. Credo non si possa non condividere la convinzione di
Oriana Fallaci, secondo cui “il punto non è l’infibulazione meno dolorosa e
meno pericolosa: il punto è proibirla. Impedirla, punirla in qualsiasi modo
essa avvenga” (2004, p. 230). Questa ignobile vicenda, che fortunatamente non
ha avuto esiti pratici, evidenzia il fatto che la “cultura della libertà”
rischia di diventare un suicidio culturale se resta sganciata dall’accettazione
incondizionata della razionalità.
In
fondo, l’intolleranza nei confronti
di persone concepite solo come “altre da noi” e nei confronti di usi e costumi
semplicemente “diversi” e la tolleranza
acritica nei confronti di idee o consuetudini irrazionali ed anche violente
costituiscono due facce della stessa medaglia. Una “medaglia” che non è fatta
di oro, ma di paura e di illusioni infantili. Tutte le difese psicologiche individuali
diventano materiale inquinante che altera la cultura, il lavoro, la produzione,
il consumo, l’organizzazione sociale, la pubblica amministrazione, il diritto e
l’esercizio del potere statale. In pratica, la società trasforma il vuoto di
consapevolezza e di sentimenti in un “pieno” di bugie, mode e illusioni, e
rende “oggettivo” e “pubblico” tale vuoto producendo leggi, sanzioni, processi,
manifestazioni pubbliche, cariche della polizia, criminalità organizzata,
religiosità organizzata, associazioni, strutture educative, strutture militari,
eventi culturali, guerre e festività nazionali. Il miracolo del nulla che
diventa qualcosa di tangibile copre l’ostinata negazione di qualcosa (il
dolore, la gioia e la felicità) che continua ad esistere solo ai margini della
società e in momenti assolutamente privati. In questa situazione, ogni
contributo volto a sollecitare la razionalità ed il contatto emotivo è
prezioso, proprio perché costituisce l’unico antidoto nei confronti di ogni
forma di autoritarismo sociale, culturale e politico.
L’autoritarismo
è l’incubo dell’umanità da sempre. Sia i romani privilegiati che organizzavano le lotte dei gladiatori, sia i “puri ariani” che sterminavano gli ebrei, sia
i banchieri che continuano a giocare con i risparmi della gente esemplificano
una convivenza sociale non umana basata sull’avidità di pochi e sul bisogno di
appartenenza di molti e mantenuta dall’indifferenza delle moltissime persone che
hanno rinunciato a capire e a sentire. L’autoritarismo è irrazionale e crudele
nelle sue versioni storiche più inquietanti, ma è irrazionale e crudele anche
nelle sue versioni più recenti. Nelle versioni storiche dell’autoritarismo era
vietato il dissenso e il diritto di voto mentre nelle versioni “democratiche”
dell’autoritarismo il dissenso è rispettato e le libertà sono garantite perché le
persone liberamente rinunciano a pensare, a dissentire e a desiderare una
società umana.
Vorrei
aggiungere alcune considerazioni relative ad un altro aspetto
dell’autoritarismo. Un aspetto secondario, meno distruttivo, a volte persino
comico, che non ha effetti immediatamente devastanti, ma che costituisce il terreno
sul quale maturano pensieri ed emozioni che impoveriscono la convivenza sociale.
Come l’autoritarismo “forte” di cui ho parlato (radicato nella fame di potere e
di appartenenza) è sempre stato minimizzato da filosofi e scienziati, anche
l’autoritarismo “debole” a cui dedicherò il prossimo capitolo e che è radicato
soprattutto nel bisogno di “controllo”, è stato ed è minimizzato da
intellettuali, persone di cultura e psicologi. E’ stato ed è minimizzato e
persino giustificato. In questo caso, le giustificazioni non sono centrate
sulla purezza della razza o sul pericolo del comunismo o sul patriottismo, ma su
“cose” più concrete, delimitate e apparentemente più ragionevoli: la sicurezza,
la salute, il benessere. L’autoritarismo minimalista focalizzato
sull’idealizzazione del controllo è meno violento di quello dei colpi di stato,
delle persecuzioni e dei massacri, ma è comunque irrazionale e distruttivo.