venerdì 20 luglio 2018

37. Autoritarismo, potere e appartenenza







L’irrazionalità è fondamentalmente la razionalità dei bambini trasferita nel mondo degli adulti. In condizioni di cronica emergenza, non potendo elaborare il dolore, i bambini si dissociano dal dolore. Tale dissociazione realizzata con l’invenzione di complesse difese psicologiche irrazionali è razionale come lo è uccidere per legittima difesa. Non lo è nella vita adulta, ma gli esseri umani adulti continuano a dissociarsi dal dolore senza sapere perché fanno ciò che fanno. L’irrazionalità permea il dialogo interno, le relazioni interpersonali, la sessualità, le relazioni fra generi e fra gruppi sociali, le concezioni etiche, religiose, ideologiche e persino le teorie che offrono spiegazioni del comportamento individuale e dell’organizzazione sociale. Ho cercato di evidenziare che gli esseri umani evitano la consapevolezza del dolore anche quando riflettono sulla loro esistenza e sulla loro morte, quando si interrogano sul rapporto fra la loro dimensione soggettiva e la realtà oggettiva e quando indagano su fenomeni che suggeriscono la possibilità di una trascendenza. In pratica, l’irrazionalità attraversa tutta la cultura umana. Pur avendo già accennato ai risvolti sociali e ideologici dell’irrazionalità, voglio dedicare ora un po’ di spazio all’irrazionalità  sociale e, in particolare, all’autoritarismo.
Nell’autoritarismo sociale e politico entrano in gioco forti illusioni di potere, ma entra in gioco anche la gestione reale di reali poteri. Il potere di legiferare, il potere di gestire risorse economiche e mezzi di comunicazione, il potere di utilizzare armi e soldati, sono poteri reali. Sono invece del tutto illusori sia il potere di conquistare la felicità con la ricchezza o con la violenza, sia il potere di realizzare, con la sottomissione e l’obbedienza, l’appartenenza ad una comunità rassicurante. In pratica, nelle società autoritarie persone reali mettono in moto processi reali per coltivare semplici illusioni e pagano anche un prezzo altissimo: vivono “poco” e creano sofferenza.
Ministri, generali, accademici, insegnanti e consumatori non provengono “dalla società”, ma da una famiglia. Prima di acquisire il potere di dare avvio ad una guerra o di tenere conferenze o di fare la spesa al supermercato, hanno strutturato delle difese psicologiche cercando di sopravvivere ai rifiuti dei genitori. Qualcosa “non fila” nel modo in cui gli esseri umani concepiscono la convivenza sociale e organizzano culturalmente e politicamente tale convivenza. Qualcosa non fila se la sessualità è in vari modi svalutata e repressa, mentre le guerre sono considerate inevitabili e le religioni sono considerate come espressione della libertà del pensiero e imposte ai bambini. Qualcosa non fila nella convivenza umana se è stata affidata a dittatori o se è stata affidata a governi democraticamente eletti ma impegnati a consolidare iniquità e illusioni condivise. A dispetto di Marx e di tutti i sociologi, la società “non esiste”. O almeno non esiste come struttura portante della storia condivisa. In qualche modo “esiste”, ma solo come sottoprodotto della paura di persone in carne ed ossa. Persone che a volte si esprimono, ma che normalmente agiscono senza sapere perché fanno ciò che fanno e senza nemmeno sapere perché fanno tanto male ai loro simili.
Da un lato l’autoritarismo schiaccia le potenzialità espressive individuali e da un altro lato le persone sentono il bisogno di sottomettersi al potere che le opprime e quindi rafforzano l’autoritarismo. Un dittatore non potrebbe imporre nulla ad una popolazione formata da persone che amano la loro vita. Ogni concezione vittimista dell’autoritarismo sociale (i proletari oppressi dai capitalisti, la “gente onesta” derubata dai politici disonesti, le donne vittime degli uomini, ecc.) è, quindi errata, perché ciò che caratterizza i processi autoritari è proprio il consenso della parte oppressa, discriminata o sfruttata della popolazione. Anche se in particolari congiunture storiche un particolare partito politico ha attuato un particolare regime autoritario rispondendo alle pressioni di gruppi che gestivano il potere economico e militare, tali gruppi hanno realizzato i loro progetti solo perché un’intera popolazione è stata disposta a sostenere o almeno a sopportare l’autoritarismo politico, culturale e sociale. Per questo motivo tutte le “spiegazioni” socio-economiche delle dittature trascurano il fatto che tali mostruosità si sono realizzate con il supporto attivo o passivo di milioni di persone che, ben prima della nascita di una particolare dittatura, accettavano la violenza, la repressione e la svalutazione nel loro dialogo interno, nella dimensione famigliare, nelle relazioni interpersonali e nell’ambito politico.
Ho già sottolineato che vari animali sociali e i bambini piccoli manifestano un marcato interesse per il bene dei loro simili e una spontanea disponibilità a fare dei sacrifici per il loro bene. Il bisogno di “avere di più” costituisce una difesa psicologico e un sintomo che gli psicoterapeuti non diagnosticano solo perché tale “bisogno” è molto diffuso e quindi normale. Tale bisogno irrazionale costituisce una difesa dal dolore perché comporta l’illusione di un possibile appagamento mai ottenuto nell’infanzia e mai accettato come dolorosamente mancante. Per questo, anche se continuo a provare più simpatia per i poveri che per i ricchi, devo riconoscere che le prime vittime dei nobili, dei ricchi, degli schiavisti, degli imperialisti e dei mafiosi sono proprio i nobili, i ricchi, gli schiavisti, gli imperialisti e i mafiosi. E’ indiscutibile che un uomo d’affari viva una vita più comoda di quella dei suoi operai, ma prima di togliere qualcosa ad altri ha tolto a se stesso e ai suoi cari la felicità. Questo è un fatto, anche se è difficile da spiegare a chi vive nella miseria o ha subito persecuzioni politiche. Inoltre, l’avidità ha motivato gli artefici del colonialismo ma anche le masse. Le ridicole velleità colonialiste dell’Italia fascista hanno infiammato gli animi di tanti lavoratori che aspiravano ad “avere un posto al sole”. Ovviamente un avido industriale accumula reali ricchezze e un nullatenente sostenitore di un partito guerrafondaio coltiva solo l’illusione di “avere di più”, ma in entrambi i casi l’idea di “avere” tocca corde profonde, distrae dal dolore e impedisce la creazione della felicità realmente possibile. In ogni caso le “masse”, pur coltivando a volte illusioni di potere, coltivano soprattutto l’illusione di sentirsi “al sicuro” sottomettendosi ad un’autorità “forte”.
I gregari sono avidi di sicurezza. Mentre gli arrampicatori sociali cercano e a volte ottengono privilegi inutili, ma reali, i gregari cercano e ottengono un’illusione di sicurezza restando al loro posto e sentendosi parte di una grande famiglia. Quando la paura di non avere ciò che si vuole a tutti i costi supera una certa soglia, la brama diventa distruttiva. Ha reso “giustificabile” lo sterminio dei nativi americani che ostacolavano “il progresso”, lo sterminio degli ebrei che contaminavano la “razza pura”, lo sterminio dei palestinesi che tolgono spazio allo Stato israeliano. Le versioni meno cruente ma egualmente stupide della stessa logica rendono giustificabili le ruspe nei campi rom e moltissime discriminazioni. Sia la brama di denaro e potere, sia la brama di un ordine “protettivo”, nascono dalla paura sperimentata nell’infanzia e, in certe congiunture storiche, generano violenze individuali e sociali. Le persone che in certi momenti hanno compiuto massacri o hanno appoggiato fazioni o forze armate dedite a compiere massacri, pochi anni prima erano persone che vivevano in famiglie normali, che trattavano normalmente male i figli, che facevano sesso in modi normalmente superficiali e che partecipavano alle feste paesane. Proprio il vivere “poco”, in certi momenti critici, produce esplosioni di crudeltà, perché nel vivere “poco” si spezza il contatto con se stessi e con gli altri.
Se ci soffermiamo sull’incubo sociale che nel secolo scorso ha avuto effetti devastanti in tutto il mondo, dobbiamo constatare che il nazifascismo è stato sconfitto, ma l’autoritarismo è sopravvissuto. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e il trionfo della “libertà”, negli Stati Uniti (e in altri paesi) sono rimaste “intatte” le discriminazioni nei confronti della popolazione di colore; nella Germania orientale si è stabilizzato lo stalinismo e in tutto il mondo si sono consolidate forme di convivenza sociale basate su pregiudizi e sfruttamento. I colpi di stato nei paesi sudamericani e le guerre nell’Indocina hanno fatto il loro corso e “la gente” ha continuato ad accettare ogni forma di autoritarismo sociale e ogni guerra. Tali fatti dimostrano che non è possibile spiegare il nucleo o lo “zoccolo duro” dei fenomeni autoritari senza affrontare il tema della “fame di potere” e della “fame di appartenenza” che le singole persone provano.
In particolari congiunture, fabbricanti di armi o petrolieri possono fare pressioni su gruppi politici per far passare una legge o per far scoppiare una guerra, ma in tali vicende non si ha alcun confronto fra “l’economia” e “la politica”, perché tali confronti astratti non sarebbero possibili senza accordi fra persone reali e senza leggi approvate da persone reali. Tali vicende non sono dovute nemmeno al rapporto fra “il potere” e “le masse”, perché se un ministro telefona ad un generale avviene qualcosa fra due persone e una massa esulta in una piazza solo se moltissime persone, dopo aver letto un giornale o un volantino salutano i figli, salgono su un autobus con una bandiera e raggiungono una piazza. Anche i giornali non vengono stampati “dalla società”, ma da chi ha investito dei capitali nel settore dell’informazione e da chi mantiene la famiglia scrivendo articoli. Certamente esistono pressioni sociali, ma esse hanno un certo esito su alcune persone e non su altre. Le “leggi sociologiche” (che connettono a livello teorico certi fatti sociali ad altri fatti sociali) riguardano i dettagli dei contenuti di certi processi sociali e non la “realtà” dei processi sociali. L’idea che i fenomeni sociali vadano spiegati ad un livello d’analisi sociologico e non psicologico, entro certi limiti è giustificata ed anche banale, ma è fondamentalmente errata, perché senza l’accanimento di strati sociali privilegiati e senza il fanatismo e la passività delle “masse”, i più atroci eventi sociali non sarebbero nemmeno stati immaginati.
L’autoritarismo è comunemente definito come un eccesso o una distorsione dell’esercizio dell’autorità, ma possiamo essere più specifici e affermare che costituisce un esercizio dell’autorità che riflette la paura anziché la ricerca condivisa della felicità. L’autorità, in quanto tale è un servizio: se con alcuni amici facciamo una gita in montagna abbiamo bisogno che uno di noi (il più esperto della zona) ci guidi e questa persona rinuncerà ad una parte del suo piacere per consentire agli altri di non farsi male. Tale autorità può ottenere anche un investimento formale e può ottenere (dai partecipanti) il potere di punire chi mette in pericolo gli altri. Tutto qui. Ciò vale per la scampagnata e per l’economia globalizzata. L’unica differenza sta nel fatto che lo sfruttamento non deriva dal desiderio di star bene assieme agli altri.
Non solo l’autorità, su un piano razionale, è un servizio e non una “affermazione” personale, ma l’esercizio del potere, su un piano razionale, è un peso e non una gratificazione. E’ ragionevole che una persona si dedichi ad insegnare ciò che ha imparato o che si impegni a risolvere dei contrasti applicando la legge, ma non c’è alcuna “soddisfazione personale” nel dedicare ore ad insegnare cose che già si sanno in una scuola o a risolvere questioni complesse in un tribunale. Chi “aspira” a queste cose non sa divertirsi e non sa cosa sia la felicità. Certi incarichi hanno senso perché sono utili e possono essere preferiti ad un’altra occupazione perché sono più utili, non perché danno potere o “riconoscimento sociale”. In un film bellissimo di Gary Ross (Seabiscuit) un anziano uomo di cavalli cura la zampa di un cavallo che stava per essere abbattuto e, interrogato sul motivo per cui fa tanto per una bestia che comunque non tornerà a fare gare, risponde “perché  posso”. E’ ragionevole fare cose buone che altri non possono fare, ma non è affatto ragionevole aspettarsi un “riconoscimento” che solo nell’infanzia sarebbe stato “nutriente”. Tutto qui. Su un piano razionale, l’esercizio del potere è un peso che in alcuni casi è opportuno accettare. Anche la sottomissione al potere e alle norme socialmente stabilite è una seccatura a volte necessaria: è ragionevole accettare che la precedenza a destra sia fissata per legge ed è ragionevole che una parte dello stipendio vada ceduto allo Stato che garantisce dei servizi pubblici. Tali seccature sono sopportabili perché generano alcuni vantaggi pratici e non perché generano un “senso di appartenenza”: non possono creare il piacere provato dai bambini che stringono la mano della mamma passeggiando nelle immense strade di un’immensa città. Se tali seccature sono confuse con la soddisfazione di far parte di una comunità o di “avere una patria”, qualcosa “non fila”, come nei casi in cui le persone idealizzano una squadra di calcio o un cantante.
L’irrazionalità sociale e, in particolare, l’autoritarismo non dipendono solo dalla presenza “operante” di persone avide e di persone sottomesse, ma anche dalla presenza passivamente operante di molte persone indifferenti e quindi intellettualmente ottuse ed emotivamente superficiali. Sicuramente sono gli avidi ad avviare processi distruttivi e sono i gregari a manifestare fanatismo, ma i disastri voluti da queste persone distruttive si realizzano soprattutto grazie al consenso passivo di moltissime persone indifferenti. Persone che accettano tutto perché “prese” dai dettagli della loro quotidianità: persone indifferenti al proprio dolore e quindi insensibili al dolore generato da chi trasforma la convivenza sociale in un manicomio. Accettano idee, pregiudizi, contro-pregiudizi, violenze e banalità come cose “che capitano”, senza coinvolgersi, senza dispiacersi e senza reagire. Addirittura trovano accettabili delle sciocchezze ideologizzate solo per non fare la fatica di riflettere e riescono anche a favorire (in una competizione elettorale) un partito che non idealizzano con ingenuo fanatismo, ma di cui non colgono gli obiettivi autoritari e distruttivi. Ascoltano distrattamente, fanno chiacchiere al bar, decidono di “sostenere” qualcosa “di nuovo” (o di “tradizionale”) e tornano ad occuparsi della loro rattrappita quotidianità. Anche questi adulti non sono minorati, ma sono persone che si ostinano, come nell’infanzia, a mantenere un certo distacco dalla realtà. Normalmente le persone non si sentono capaci e responsabili di inventare il loro futuro e non percepiscono la società “data” come una realtà provvisoria e modificabile.
Con queste considerazioni non intendo rispolverare la vecchia polemica fra rivoluzionari orientati a cambiare la società e moralisti convinti di dover cambiare le persone e renderle quindi capaci di migliorare la società. Intendo al contrario cercare di capire per quale motivo le società non siano mai cambiate. I papi hanno predicato l’amore facendo guerre di religione, la borghesia ha sostituito il regime “antico” con un altro regime e le rivoluzioni comuniste hanno prodotto apparati statali burocratici. In tutte queste società sparuti gruppi di privilegiati infelici hanno difeso i loro privilegi e ne hanno cercati altri e immense masse popolari infelici hanno accettato di stare al loro posto. Nella società post-capitalista e post-comunista divenuta economicamente e ideologicamente “globale” non è cambiato nulla. E’ cambiata solo la facciata: i privilegiati non giustificano più ideologicamente il loro potere parlando di dio o della libertà o dell’uguaglianza e le masse non si lamentano più delle “ingiustizie” perché si lamentano di tutto con “amici” incontrati su Facebook. La società si è frantumata in una somma aritmetica di individui orgogliosi della loro ignoranza e determinati a non immaginare nulla. Questo cambiamento superficiale, può essere spiegato, come quelli del passato, a livello d’analisi sociologico. Ciò che però la sociologia non può spiegare è l’aspetto profondo che accomuna le diverse società storiche: la compresenza di prepotenza e sottomissione, di illusioni diffuse (infantili) di potere e di illusioni diffuse (infantili) di appartenenza. George Orwell, descrivendo una società immaginaria in cui la ragione non era altro che “una pura questione di statistica” (1949, p. 305), stava parlando del suo presente e delineava quegli sviluppi del suo presente che costituiscono il nostro presente. Un presente in cui la politica fissa solo i dettagli dell'orrore sociale, in cui l'etica prescrive una benevolenza non alimentata dall'empatia e in cui la psicoterapia si propone di curare i sintomi insoliti per confermare la normale irrazionalità individuale e sociale.
Quando le persone concepiscono il mondo in cui stanno vivendo come se fosse l’unico mondo possibile, perdono la capacità di immaginare altre forme di convivenza sociale. Anche quando progettano delle riforme o delle rivoluzioni concepiscono solo quelle che riflettono la logica profonda della società “data”. La razionalità non implica scelte politiche identiche per le diverse persone, dato che i problemi spesso hanno varie soluzioni razionali (e anche varie soluzioni irrazionali), ma implica sempre una lucida e sentita esigenza di conoscere, condividere e creare. Per questo motivo, le persone razionali con idee diverse possono sempre dialogare costruttivamente, mentre le persone irrazionali con idee diverse possono solo “contrapporsi” o fare compromessi per divenire complici nel rafforzamento delle iniquità e delle illusioni.
L’accudimento dei bambini e la socializzazione infantile, purtroppo, non consistono in un sostegno offerto dalla famiglia e dalla società ai bambini, ma in un modellamento dei bambini: in un loro adattamento alla società “data”. I genitori non solo impediscono ai figli di cadere dal balcone, ma obbligano i figli a fare moltissime cose inutili. La massa ingombrante di “si deve fare” o “non si deve fare” investe la totalità della vita dei bambini. Con la pressione costante delle svalutazioni e delle aspettative degli adulti i bambini non imparano a farsi domande e a trovare risposte, ma imparano ad adattarsi alle risposte già date a domande nemmeno formulate. Genitori litigiosi testimoniano, anche senza fare conferenze, che il sesso “non conta” e nemmeno l’amore. Genitori ossequienti a tutte le autorità testimoniano che le autorità non contano per ciò che fanno, ma per il semplice fatto di esserci. Genitori preoccupati della loro “posizione sociale” testimoniano che le persone non contano, mentre le “posizioni sociali” sono fondamentali. Alla fine delle elementari i bambini non sanno ancora usare bene i congiuntivi, ma sono già laureati in conformismo.
Partendo da queste osservazioni, possiamo chiederci cosa renda razionale (in un villaggio o in uno Stato moderno) l’esercizio del potere. Credo che la risposta sia semplice (anche se tutt’altro che scontata): l’esercizio del potere è razionale nella misura in cui a) consente il raggiungimento di obiettivi non alla portata dei singoli, b) facilita la convivenza, c) tutela i membri della comunità e soprattutto i più deboli. In pratica, occorre una certa gestione del potere per costruire una linea ferroviaria, dato che i singoli possono solo costruire o acquistare un piccolo mezzo di trasporto che, senza strade o binari, può coprire piccole distanze. Inoltre, occorre una certa gestione del potere per concludere dei contrasti fra cittadini prima che sfocino in atti di violenza privata e serve anche una certa gestione del potere perché chi è in gravi difficoltà riceva cure mediche o supporto tecnico. Credo che queste considerazioni possano essere accettate da chiunque, ma molte perplessità possono sorgere se ci chiediamo a cosa non può servire, su un piano razionale, la gestione del potere. Su un piano razionale, non può mai servire a consolidare delle illusioni. Purtroppo, la gestione del potere è dedicata soprattutto al consolidamento delle illusioni: sul piano strutturale e su quello culturale le società contemporanee sono basate più sulla competizione e sul senso di appartenenza che sulla collaborazione. In altre parole sono basate su illusioni.
L’orrore del nazifascismo è ormai storia, ma sono attuali altri orrori. Vi sono Stati, magari “lontani”, guidati da politici e militari che rendono invivibile la vita dei cittadini; vi sono Stati (più “vicini”) guidati da persone miserabili, democraticamente elette da persone normali, che amministrano la realtà “data” attuando “riforme” che riguardano solo aspetti marginali di tale realtà; vi sono intere società in cui le leggi vigenti o le tradizioni consolidate mantengono discriminazioni che calpestano i bisogni di tante persone; vi sono società in cui è normale la tortura o la pratica delle mutilazioni genitali delle bambine; vi sono società in cui normalmente si muore per mancanza di cibo o di cure mediche e società in cui normalmente si sopravvive comodamente, ma non si immagina una vita umana. L’assuefazione all’orrore non si spiega con i “limiti” degli esseri umani. Se i topi sono capaci di digiunare per non far subire una scossa elettrica ai loro simili, o se uno scimpanzé è capace di aiutare un uccellino a volare, noi siamo capaci di fare molto di più. Non siamo schiacciati dai nostri limiti, ma dall’infanzia che non abbiamo mai superato. Divenuti capaci di maneggiare miliardi, cannoni e mezzi di comunicazione, utilizziamo le risorse a nostra disposizione per vivere “poco” pur di non soffrire “troppo”. Quando un adulto è disponibile a fare il “saluto romano” o a fare una “dieta religiosa” o a chiedere un autografo ad un cantante desidera solo quell’accettazione che non ha avuto nell’infanzia e che non ammette di non poter più ottenere. L’autoritarismo sociale non si spiega se non lo riconduciamo a “stupide e ridicole” stranezze infantili e se non riconduciamo tali stupide e ridicole stranezze al dolore terribile normalmente inflitto ai bambini del pianeta.
L’autoritarismo sociale spesso si manifesta con forme di discriminazione e di intolleranza giustificate per legge e garantite dalle forze dell’ordine. Negli Stati Uniti e nel Sudafrica la discriminazione nei confronti della popolazione di colore non è stata un pregiudizio di alcuni o di molti, ma una realtà garantita dallo Stato. Un po’ ovunque le discriminazioni nei confronti delle donne sono state (e sono) realtà di fatto regolate dalle leggi. Nelle comunità religiose tali discriminazioni permangono anche oggi, dato che le donne non possono essere sacerdoti cattolici e che negli Stati islamici le donne sono discriminate su tutti i piani e non solo sul piano religioso. L’autoritarismo non è altro che l’applicazione irrazionale della gestione del potere attuata dalle autorità e accettata dalle “masse”. La gestione irrazionale del potere favorisce quindi sia interessi particolari, sia pregiudizi molto diffusi. L’autoritarismo è talmente radicato che persino le opposizioni più significative all’autoritarismo sono spesso di tipo autoritario. Ciò si verifica perché la contestazione di un’ingiustizia socialmente imposta si manifesta facilmente come affermazione del suo opposto, e quindi di un’altra ingiustizia. Le persone “progressiste” giustificano le “quote rosa” come un imprescindibile segno di equità, ma non pensano ad imporre anche “quote” per i rom, gli omosessuali, i disabili e per tutti i gruppi che hanno subito ingiuste discriminazioni. In pratica, l’autoritarismo, come fenomeno sociale e culturale influenza anche le persone e i gruppi che vi si oppongono. Un esempio illuminante di questa dolorosa realtà è costituita dal modo in cui la cultura occidentale (imposta in modi violenti alle popolazioni che hanno subito l’espansione imperialistica) viene oggi contestata in nome di istanze multiculturaliste.
Oggi le società “avanzate” hanno ridimensionato le loro aspirazioni colonialiste (anche perché è rimasto ben poco da colonizzare) e stanno subendo la pressione dell’immigrazione di persone in fuga dai loro paesi di origine. Gli immigrati in genere vogliono liberarsi da condizioni di arretratezza economica, da governi dispotici e da scenari di guerra. Vogliono però anche restare fedeli alle loro tradizioni culturali, spesso caratterizzate da pregiudizi, dogmatismi e consuetudini più barbare di quelli presenti nelle società che hanno in qualche misura fatto tesoro dell’illuminismo, della cultura scientifica e della tradizione democratica. La presenza, sempre più ingombrante di persone a cui le società relativamente “aperte” riconoscono dignità, ma che hanno concezioni della dignità molto ristrette, crea significativi problemi di convivenza e costringe a prendere decisioni pratiche relative all’oggettiva disarmonia che esiste fra la nostra concezione di “noi e loro” e la loro concezione di “loro e noi”. In tale situazione complessa, purtroppo, tra le persone meno colte si manifestano rigurgiti diffusi di razzismo, ma fra quelle più colte si manifestano altrettanto discutibili “aperture mentali” nei confronti di chi nemmeno concepisce le aperture mentali e ribadisce semplici verità assolute, sul bene, sul male, su dio, sulla femminilità, sulla virilità, sulla famiglia e “sull’ordine delle cose”. Le persone più propense a dimostrarsi a tutti i costi “politicamente corrette” sostengono, quindi, posizioni “multiculturaliste” che confondono la tolleranza con il relativismo.
La tolleranza è un atteggiamento razionale che mira a rispettare e tutelare le persone anche quando pensano, sentono e agiscono in modi criticabili ma non distruttivi, mentre il relativismo applicato alle diverse tradizioni culturali è una concezione irrazionale che nega la legittimità di un’analisi critica dei modi di pensare, sentire e agire. Se è ragionevole rispettare le persone che indossano abiti strani scelti per una “fede” nella moda di Parigi o per una “fede religiosa” oscurantista, non è ragionevole “giustificare” qualsiasi sciocchezza semplicemente perché è accettata da alcuni o da molti. Le abitudini sono solo abitudini, mentre le affermazioni sono vere o false, giustificate o ingiustificate. L’idea che le donne debbano coprire il viso perché sono fondamentalmente delle prede sessuali e perché gli uomini sono fondamentalmente dei predatori sessuali, oltre che stupida è falsa e svalutativa. Ciò, ovviamente, non autorizza nessuno a strappare il velo alle donne islamiche, che hanno il diritto di rovinarsi la vita come preferiscono, ma non toglie a nessuno il diritto di definire barbari certi costumi e non giustifica alcun “confronto culturale” con chi manifesta una cultura ridotta a pregiudizi e dogmi.
Paradossalmente, i sostenitori “progressisti” del relativismo culturale, compresi i raffinati filosofi “postmoderni”, portano alle estreme conseguenze la cultura anti-dogmatica occidentale e finiscono, di fatto, per “lasciare spazio” proprio alle concezioni più dogmatiche sorte in altre società. Gli intellettuali più lucidi, quindi, sottolineano che la razionalità è una capacità umana e non un vezzo culturale: “molti sono favorevoli a dire non solo –cosa che è vera- che non si può giustificare moralmente la soggiogazione di un popolo sovrano in nome della diffusione del sapere, ma anche che non esiste un sapere superiore, bensì soltanto saperi diversi” (Boghossian, 2006, p. 21). Anche John R. Searle ha difeso coraggiosamente la razionalità della cultura occidentale in un saggio intitolato Occidente e multiculturalismo (2003): "Non è esagerato dire che la nostra tradizione intellettuale relativa all'istruzione, specialmente nelle università di ricerca, si fonda sulla tradizione razionalista occidentale. Lo studioso ideale della tradizione è il ricercatore disinteressato, impegnato nella ricerca della conoscenza oggettiva che avrà una valenza universale” (p. 47). Da qui, la ferma critica di Searle alle posizioni relativiste assunte sempre più spesso dagli intellettuali “progressisti”: "Alcuni dipartimenti nelle università sono dominati ideologicamente da concezioni antirealiste e antirazionaliste, che cominciano a influenzare sia il contenuto, sia lo stile dell'istruzione superiore. (...) Decisamente più evidente negli studi umanistici, è ormai accettato il fatto che la razza, il genere, la classe e l'etnia dello studente definiscano la sua identità. Sotto questo punto di vista non è più un obiettivo dell'istruzione, come era invece un tempo, far sì che lo studente sviluppi una identità in quanto membro di una più ampia cultura intellettuale umana universale. Piuttosto, il nuovo obiettivo è quello di rafforzare il suo orgoglio nell'autoidentificarsi in un particolare sottogruppo. (...) Se si abbandona l'impegno nei confronti della verità e dell'eccellenza intellettuale, che costituiscono il nucleo della tradizione razionalista occidentale, allora sembra arbitrario ed elitario pensare che alcuni libri siano intellettualmente superiori rispetto ad altri" (pp. 53-55). Searle delinea una questione fondamentale: non si supera l'imperialismo culturale (che imponeva a tutto il mondo usi, costumi, mode e religioni occidentali spacciandole per "cultura superiore") affermando che qualsiasi tradizione orale o scritta abbia lo stesso valore. Il sapere non è "democratico" sia perché deve scontrarsi con la realtà, sia perché ha conseguenze reali (costruttive o distruttive). Per questo dobbiamo a tutti i costi analizzare e criticare sia l’irrazionalità presente nella cultura occidentale, sia analizzare e criticare l’irrazionalità di ogni altra cultura.
Quella che Searle chiama tradizione razionalista occidentale è davvero una tradizione universalista perché può includere la meccanica e la meccanica quantistica, la medicina accademica, la psicologia e la parapsicologia. Non esclude alcuna tesi purché sia presentata con serie argomentazioni e tolleri la critica. E' un baluardo contro il pregiudizio. C'è infatti una differenza basilare tra la psicoanalisi, da un lato, e la superstizione, il Corano e la dogmatica cattolica dall’altro: anche se dissentiamo da Freud, dobbiamo riconoscere a questo studioso il merito di aver costruito un sistema di idee argomentando su fatti ed esperienze e cercando spiegazioni logiche e coerenti. A mio avviso ha argomentato male e ha fatto osservazioni poco accurate, ma ha almeno tentato di fare scienza. Ciò non vale per le superstizioni, per le dottrine religiose e per molte ideologie o "culture tradizionali". Sicuramente non vale per il relativismo multiculturalista. In un altro libro, Searle riprende con parole a mio parere convincenti i termini di tale questione. "Varie forme di relativismo, talvolta sotto l'etichetta di 'postmodernismo', hanno attaccato l'idea di razionalità in quanto tale (...) la razionalità in quanto tale non richiede né ammette alcuna giustificazione, poiché il pensiero e il linguaggio la presuppongono. Si possono discutere in maniera intelligibile le teorie della razionalità, non la razionalità" (2001, pp. XIII-XIV). A questo proposito va sottolineato che l’universalismo della cultura occidentale (e l’attribuzione di certi diritti fondamentali a qualsiasi essere umano), non può e non deve essere inteso come un "atteggiamento occidentale” valido come qualsiasi altra presunta verità (cfr. Benhabib, 2002). In questo senso, il dialogo con “valori culturali” che si traducono nella svalutazione del ruolo sessuale femminile (ed anche maschile) o nei matrimoni combinati dalle famiglie, non ha alcun senso, anche se può gratificare singoli intellettuali o politici votati alla causa del “politicamente corretto”.
L'autoritarismo della cultura occidentale non si sconfigge accettando con finta tolleranza l’irrazionalità di altre culture, ma analizzando l’irrazionalità di qualsiasi cultura. L'alternativa all'etnocentrismo non consiste nell’essere "aperti" a idee ottuse e poco rispettose, ma nell'essere critici nei confronti di ogni irrazionalità e rispettosi di ogni persona. Le persone vanno rispettate, ma le loro azioni vanno tollerate solo se sono giustificabili. E non c’è alcuna ragione per giustificare le azioni distruttive. In Italia, un ginecologo somalo che lavorava presso l’Ospedale Careggi di Firenze propose di sostituire con una “bucatura di spillo” l’asportazione del clitoride e delle piccole labbra, per “salvare il rito” (quello delle mutilazioni genitali femminili) senza causare danni permanenti (cfr. Fallaci, 2004, p. 227-230). Questa “idea” fu esaminata da amministratori, burocrati e persino dal Presidente dell’Ordine dei Medici della Toscana e giunse in Parlamento dove fu discussa e bocciata. Credo non si possa non condividere la convinzione di Oriana Fallaci, secondo cui “il punto non è l’infibulazione meno dolorosa e meno pericolosa: il punto è proibirla. Impedirla, punirla in qualsiasi modo essa avvenga” (2004, p. 230). Questa ignobile vicenda, che fortunatamente non ha avuto esiti pratici, evidenzia il fatto che la “cultura della libertà” rischia di diventare un suicidio culturale se resta sganciata dall’accettazione incondizionata della razionalità.
In fondo, l’intolleranza nei confronti di persone concepite solo come “altre da noi” e nei confronti di usi e costumi semplicemente “diversi” e la tolleranza acritica nei confronti di idee o consuetudini irrazionali ed anche violente costituiscono due facce della stessa medaglia. Una “medaglia” che non è fatta di oro, ma di paura e di illusioni infantili. Tutte le difese psicologiche individuali diventano materiale inquinante che altera la cultura, il lavoro, la produzione, il consumo, l’organizzazione sociale, la pubblica amministrazione, il diritto e l’esercizio del potere statale. In pratica, la società trasforma il vuoto di consapevolezza e di sentimenti in un “pieno” di bugie, mode e illusioni, e rende “oggettivo” e “pubblico” tale vuoto producendo leggi, sanzioni, processi, manifestazioni pubbliche, cariche della polizia, criminalità organizzata, religiosità organizzata, associazioni, strutture educative, strutture militari, eventi culturali, guerre e festività nazionali. Il miracolo del nulla che diventa qualcosa di tangibile copre l’ostinata negazione di qualcosa (il dolore, la gioia e la felicità) che continua ad esistere solo ai margini della società e in momenti assolutamente privati. In questa situazione, ogni contributo volto a sollecitare la razionalità ed il contatto emotivo è prezioso, proprio perché costituisce l’unico antidoto nei confronti di ogni forma di autoritarismo sociale, culturale e politico.
L’autoritarismo è l’incubo dell’umanità da sempre. Sia i romani privilegiati che organizzavano le lotte dei gladiatori, sia i “puri ariani” che sterminavano gli ebrei, sia i banchieri che continuano a giocare con i risparmi della gente esemplificano una convivenza sociale non umana basata sull’avidità di pochi e sul bisogno di appartenenza di molti e mantenuta dall’indifferenza delle moltissime persone che hanno rinunciato a capire e a sentire. L’autoritarismo è irrazionale e crudele nelle sue versioni storiche più inquietanti, ma è irrazionale e crudele anche nelle sue versioni più recenti. Nelle versioni storiche dell’autoritarismo era vietato il dissenso e il diritto di voto mentre nelle versioni “democratiche” dell’autoritarismo il dissenso è rispettato e le libertà sono garantite perché le persone liberamente rinunciano a pensare, a dissentire e a desiderare una società umana.
Vorrei aggiungere alcune considerazioni relative ad un altro aspetto dell’autoritarismo. Un aspetto secondario, meno distruttivo, a volte persino comico, che non ha effetti immediatamente devastanti, ma che costituisce il terreno sul quale maturano pensieri ed emozioni che impoveriscono la convivenza sociale. Come l’autoritarismo “forte” di cui ho parlato (radicato nella fame di potere e di appartenenza) è sempre stato minimizzato da filosofi e scienziati, anche l’autoritarismo “debole” a cui dedicherò il prossimo capitolo e che è radicato soprattutto nel bisogno di “controllo”, è stato ed è minimizzato da intellettuali, persone di cultura e psicologi. E’ stato ed è minimizzato e persino giustificato. In questo caso, le giustificazioni non sono centrate sulla purezza della razza o sul pericolo del comunismo o sul patriottismo, ma su “cose” più concrete, delimitate e apparentemente più ragionevoli: la sicurezza, la salute, il benessere. L’autoritarismo minimalista focalizzato sull’idealizzazione del controllo è meno violento di quello dei colpi di stato, delle persecuzioni e dei massacri, ma è comunque irrazionale e distruttivo.