L’autoritarismo
non caratterizza solo i regimi politici totalitari, perché si possono
riscontrare forme di autoritarismo anche in società formalmente democratiche e in
particolari organizzazioni, associazioni o gruppi; anche gli atteggiamenti di
alcune persone possono essere definiti autoritari. Nel capitolo precedente ho sottolineato
che nei sistemi sociali autoritari è presente un intreccio strettissimo fra l’autorità
costituita, le persone che detengono il potere economico e le persone che sentono
il bisogno di far parte di una società rigidamente organizzata e
ideologicamente compatta. Ora vorrei fare alcune considerazioni su un’altra
forma di autoritarismo sociale che fa leva su bisogni difensivi di
autocontrollo e di controllo, cioè su difese psicologiche che non motivano ad
ottenere potere o a manifestare sottomissione, ma a regolamentare in modo
rigido ed eccessivo i rapporti fra le persone e fra i cittadini e la società. Anche
questo autoritarismo “minimalista” è irrazionale perché mira sia a contrastare
comportamenti che andrebbero rispettati, sia ad affrontare in modi inutilmente
frustranti e soprattutto inefficaci i comportamenti oggettivamente dannosi. Mentre
l’autoritarismo radicato nell’avidità e nel bisogno di appartenenza può
produrre cariche della polizia sui manifestanti, può attuare persecuzioni,
scatenare guerre e alimentare ideologie violente, l’autoritarismo radicato nel
bisogno di controllo produce un numero più contenuto di decessi o di danni alle
persone, ma produce soprattutto stati cronici di frustrazione e di tensione e
favorisce e consolida schemi mentali semplicistici, dicotomici e, in fondo,
stupidi. Mi riferirò a questo “piccolo” autoritarismo usando l’espressione
“cultura del controllo” che può indicare sia schemi mentali individuali, sia leggi
applicate in una società, sia aspetti consolidati della convivenza sociale.
Prima
di delineare la logica ( o meglio, la “non logica”) e le conseguenze della
cultura del controllo voglio accennare a due semplici fatti che possono essere considerati
esperimenti sociali particolarmente illuminanti.
a)
Se si cerca in rete qualche notizia su Hans Monderman si scopre che questo ingegnere olandese
esperto di problemi del traffico ha drasticamente ridotto gli incidenti
stradali in alcuni distretti della rete stradale in cui le sue idee (molto “scomode”
per la cultura del controllo) sono state messe in pratica. Nelle aree dedicate
alla sperimentazione è stata eliminata la segnaletica a terra e sono stati
tolti i cartelli e i semafori. E’ stata mantenuta solo la regola della
precedenza a destra. L’obbligo di “fare attenzione” non è stato “imposto”, ma è
stato automaticamente generato dalle persone stesse, una volta private di tutte
le (false) certezze offerte dalla consueta segnaletica.
b)
Negli Stati Uniti, tra il 1919 e il 1933, la lotta al consumo degli alcolici è
stata condotta in modo molto severo dalle autorità. Il proibizionismo non ha però
avuto gli effetti auspicati, perché ha prodotto soprattutto il commercio
illegale degli alcolici, ha rafforzato la criminalità organizzata e non ha
ridotto il consumo degli alcolici.
Questi
due esperimenti sociali fanno pensare che molte questioni gravi e delicate e
molte difficoltà nella convivenza sociale siano normalmente affrontate da politici,
intellettuali, giuristi, tutori dell’ordine e persone comuni in modi del tutto
irrazionali. La cultura del controllo è una mentalità, ma è una mentalità tanto
diffusa che si traduce in leggi e irrigidimenti normativi della convivenza
sociale e genera malattie, disturbi psicologici e anche decessi. In vari modi causa
dolore non necessario proprio per offrire rassicurazioni illusorie che limitano
la consapevolezza degli aspetti necessariamente dolorosi della vita e della
convivenza sociale. L’irrazionalità distruttiva della cultura del
controllo è negata anche da persone intelligenti, colte e animate da buone
intenzioni perché è talmente radicata da non essere notata. Tale incubo ha
radici antiche, ma nell’ultimo secolo è stato esasperato dall’accresciuta complessità
della società e da vari risvolti negativi di tali cambiamenti (isolamento degli
individui dalla comunità, traffico, inquinamento, ecc.). Tali risvolti negativi
sono stati affrontati in modi non realistici e con una (irrazionale)
determinazione al controllo di fenomeni incontrollabili. Infatti, il controllo
non è, di per sé, irrazionale: chiudere a chiave la porta di casa è ragionevole
perché scoraggia (almeno in qualche misura) le intrusioni, ma l’abitudine di aprirla
e chiuderla tre volte (dato che il 3 è il numero perfetto) sicuramente non
migliora l’efficacia delle serrature. La cultura del controllo funziona così e ha
molto a che fare con i sintomi ossessivi; riflette il bisogno di negare una
situazione dolorosa e di “mettere tutto a posto” con un gesto “magico”.
Nella
cultura del controllo si finge di fare qualcosa per rassicurarsi sul fatto che si sta facendo qualcosa, mentre non si
fa nulla di rilevante per il problema in questione. Se un genitore osserva
che un figlio maltratta il fratello più piccolo, “da qualche parte” si rende
conto che la sua famiglia non funziona, ma, se teme di affrontare il (vero)
problema, punisce il figlio e impone un comportamento amorevole. Con tale
intervento (consistente in un tentativo di controllare una situazione senza
comprenderla) si illude di aver “fatto qualcosa”. In realtà ha davvero fatto
qualcosa: ha aggravato il senso di frustrazione e di solitudine del figlio
maggiore che probabilmente finirà per odiare più di prima (difensivamente) il
fratellino e questi si sentirà ancor più odiato e quindi non protetto. I tipici interventi
“educativi” focalizzati sul controllo sono paragonabili alle danze della
pioggia nei periodi di siccità con cui certi popoli non cambiavano la situazione
meteorologica, ma si illudevano di star facendo qualcosa di utile. Ovviamente
viene da chiedersi se gli esseri umani siano stupidi, dato che continuano ad
aggrapparsi alla cultura del controllo, ma gli esseri umani sono “stupidi” solo
nei casi in cui le loro paure infantili non superate (e nemmeno comprese) riaffiorano
in nuove circostanze e vengono gestite in modi difensivi.
Mentre
l’autoritarismo “forte” ha le sue radici nella competizione rabbiosa e nella
paura dell’esclusione, quello “debole” ha le sue radici nell’obbedienza a
regole, tradizioni, rituali famigliari e sociali e nel timore di non agire nel
modo migliore. Il nucleo della cultura del controllo sta a) nell’autocontrollo,
b) nell’insofferenza per le altrui mancanze di autocontrollo c) nella
determinazione a controllare gli altri anche quando ciò è irrispettoso o
inutile o impossibile. La cultura del controllo non ha molto a che fare con la
ragionevole propensione a prevenire o reprimere le azioni distruttive o
pericolose, perché costituisce soprattutto una “fede” secondo cui l’imposizione
di un ordine eliminerà ogni sofferenza temuta.
L’alcolismo
non è causato dal libero commercio degli alcolici e i clienti migliori di Al Capone
hanno continuato a bere negli anni del proibizionismo, dato che bevevano perché
non sapevano che fare della loro vita. Capita a volte che un ragazzo muoia
“impasticcato” in una discoteca ed è difficile capire come venga in mente ai
politici, ai tutori dell’ordine e agli “specialisti” di “intervenire”
modificando gli orari di apertura delle discoteche. Purtroppo certe idee
“affiorano” solo perché il dolore non ha spazio nella cultura condivisa. Il
dolore è gestito in modi difensivi dai bambini rifiutati e lasciati soli e quei
bambini, divenuti adulti, si trovano a loro agio in un ambiente culturale in
cui i fenomeni dolorosi non vengono accettati, capiti, affrontati
realisticamente. Si trovano a loro agio in un ambiente culturale e sociale in
cui il controllo non è un intervento pratico necessario in alcuni casi, ma è
una sorta di magia a cui ricorrere appena l’ansia supera una certa soglia.
Prima
di evidenziare alcune particolari espressioni della cultura del controllo
voglio fare alcune osservazioni sui danni, normalmente sottovalutati, che causa.
L’autoritarismo sociale è visibilmente distruttivo quando si traduce in fatti
concreti come un plotone d’esecuzione o un genocidio. La cultura del controllo
non prevede interventi distruttivi di questo tipo, ma genera danni meno
evidenti, anche se oggettivamente accertabili. A tale proposito voglio riconsiderare
la questione degli eventi “stressanti” normalmente fraintesa. Lo stress di cui
parlano gli psicoterapeuti non esiste, come non esiste la pulsione di morte.
Questi concetti non spiegano nulla, ma indicano in modi non corretti dei fatti
reali: anche se non è data alcuna pulsione di morte, la distruttività delle
persone è un fatto indiscutibile e, anche se non esistono eventi stressanti ed
effetti dello stress, sicuramente molti eventi sono frustranti e moltissime
persone reagiscono difensivamente alle frustrazioni manifestando tensione,
nervosismo, ansia e rabbia. Manifestando tali reazioni irrazionali ragionano in
modo rigido, provano emozioni inappropriate alla realtà e si irrigidiscono
muscolarmente. L’ipertonia muscolare incide sulla respirazione, sulla circolazione
del sangue, sul funzionamento degli organi. Non uccide come una pallottola, ma
indebolisce e avvelena lentamente l’organismo.
Per
queste ragioni affermo che i “sintomi da stress” sono creati dalle persone e
non causati da particolari
circostanze, ma affermo pure che in una società in cui le persone sono
normalmente dissociate dal dolore, la sistematica creazione di frustrazioni
inutili attiva normalmente reazioni difensive molto pericolose. Buttare un
cerino acceso sull’asfalto non crea danni, ma buttarlo nel bosco in un periodo
di siccità può causare danni gravissimi. Un governo può far morire mille
soldati mandandoli in un paese lontano a combattere una guerra assurda, ma può
accorciare la vita di milioni di persone imponendo regole che costringono i cittadini a
sprecare ore preziose in uffici pubblici, aggiungendo alla vita quotidiana il
timore costante di subire multe o la preoccupazione costante di fare o non fare
ciò che è stato inserito in qualche normativa. La gravità degli omicidi “a rate” compiuti dalla società
è sottovalutata e anche tale sottovalutazione è irrazionale. La cultura del
controllo, come le fabbriche più inquinanti, avvelena “un pochino”, giorno dopo
giorno, le persone.
Poiché
l’esercizio dell’autorità è razionale nella misura in tutela i cittadini,
qualsiasi esercizio dell’autorità volto a contrastare non solo i crimini, ma le
abitudini, le preferenze, i modi di trascorrere il tempo libero, di pensare e
di sentire costituisce un abuso e una forma di autoritarismo, anche se viene
“giustificato” da preoccupazioni riguardanti la sicurezza di tutti, la lotta
all’evasione fiscale, la tutela della privacy, la tutela della salute, ecc. La
cieca obbedienza all’autorità (Milgram, 1974), la “fuga dalla libertà” (Fromm,
1941), la convivenza sociale ridotta ad una sola “dimensione” (Marcuse, 1964) e
il conformismo (Packard, 1957) costituiscono drammi del tutto incomprensibili
se non si considera il fatto che le persone interagiscono con altre persone e
con l’intera comunità di cui fanno parte senza provare alcun desiderio di
creare armonia e bellezza: non vogliono creare nulla perché vivono soprattutto
per sentire poco il dolore che fin dall’infanzia hanno etichettato come
“ingestibile”.
L’ingerenza
della società nella vita privata delle persone ha come condizioni di
possibilità anche la diffusa passione per le contese e per i vittimismi. Poiché
le persone sono interessate a far causa ad un vicino per la “proprietà” di un
albero cresciuto su un confine, o a far causa al Comune perché sono scivolate su
una strada ghiacciata, la cultura del controllo risponde a queste esigenze
sentite da tante persone già inclini a controllarsi e a pretendere che la
società dia importanza alle loro pretese. In questa logica tutto viene
regolamentato in modo ossessivo con due gravi conseguenze: i tribunali sono paralizzati
da innumerevoli cause che non meriterebbero nemmeno di essere avviate e
moltissime persone devono spendere tempo, denaro ed energie per prevenire
denunce da parte di persone sempre pronte a pretendere risarcimenti. La cultura
del controllo da un lato schiaccia i cittadini, ma da un altro lato recepisce
le esigenze di molti cittadini che vogliono essere controllati pur di poter controllare la vita delle altre persone. Purtroppo manca una corrente di
pensieri, sentimenti e azioni capace di suggerire un’alternativa a questa
“dittatura del nulla”.
La
burocrazia, non è solo una seccatura, come risulta dalle lamentele delle
persone che chiacchierano al bar e non è solo un problema marginale, ma è un’espressione
tangibile della cultura del controllo. Tutti gli aspetti non indispensabili
della regolamentazione della convivenza sociale rientrano in una concezione
secondo la quale i cittadini sono oggetti
da controllare anziché soggetti da
tutelare. In altre parole, non si comprende la burocratizzazione della
società se non come un sintomo generalizzato. Il fatto che molti aspetti della
burocrazia siano davvero “stupidi”, che non avvantaggino nessuno e che non
siano nemmeno percepiti come aggressioni dai cittadini non cambia le cose: tali
aspetti danneggiano il tempo “vissuto” delle persone e accorciano anche le vite
delle persone.
Sia
in un villaggio, sia in uno Stato moderno, le persone possono convivere in
armonia e in sicurezza solo delegando ad alcune autorità alcuni compiti (e
attribuendo ad esse alcuni poteri). L’autorità è razionale se è al servizio
della comunità, ma diventa irrazionale appena crea disarmonia e insicurezza.
L’autoritarismo può seminare morte e generare terribili sofferenze in
particolari congiunture storiche, ma è distruttivo anche quando in condizioni
normali peggiora la qualità della vita dei cittadini, riduce inutilmente il tempo
libero, spreca risorse e calpesta la dignità delle persone. L’autorità, in
quanto tale, è una risorsa, non un problema, ma l’autoritarismo è sempre un
disastro istituzionalizzato.
Il
diritto si manifesta originariamente in consuetudini ragionevoli e accettate in
una comunità, ma, come sottolinea Paolo Grossi, “con l’inserimento –avvenuto
nel corso della modernità- del diritto nell’apparato di potere più
perfezionato, ossia nello Stato, dietro l’incubo parossistico dell’ordine
pubblico, il diritto si è visto sostanzialmente stravolto nella sua natura e
funzione originaria e chiamato a svolgere il ruolo di apparecchio ortopedico
del potere politico, di controllo sociale. (…) Il controllo sociale, infatti,
esige il primato della legge e un rigorosissimo principio di legalità,
accompagnati dal contenimento drastico di forme spontanee di organizzazione
giuridica qual è appunto il fenomeno consuetudinario” (2003, pp. 31-32). Questo
ingombrante “apparecchio ortopedico” complica qualsiasi interazione fra le
persone generando una rete normativa fittissima. In genere non si pensa al
fatto che qualsiasi legge comporta notevoli “danni collaterali”. Anche la più
banale normativa comporta che moltissime persone si organizzino in modo da non
essere soggette a sanzioni, che moltissimi uffici aggiornino qualcosa, che
moltissime persone siano incaricate di accertare eventuali infrazioni, che
moltissime persone siano sottoposte a controlli. Non solo: comporta il fatto che
molte persone finiranno per contestare gli esiti degli accertamenti a cui sono
stati sottoposti e che altre persone dovranno intervenire per stabilire la
legittimità delle contestazioni o degli accertamenti contestati. La burocrazia,
in linea di principio, serve a dare un ordine razionale alla vita sociale, ma viene
trasformata dalla cultura del controllo in una calamità che colpisce la vita
sociale.
L’esercizio
irrazionale dell’autorità non solo incide negativamente sulla qualità della
vita dei cittadini, ma sulla stessa partecipazione alla vita sociale: determina
una diffusa consapevolezza del fatto che l’autorità costituita ha un certo
potere, ma non ha alcuna autorevolezza. Anche questo danno non va
sottovalutato, perché l’autorità, in quanto tale, è fondamentale nella
convivenza civile ed ogni crollo dell'autorevolezza minaccia la coesione
sociale. Si deve considerare che nell’ambito sociale, come nell’educazione dei
bambini e nell’addestramento degli animali, è assolutamente indispensabile la presenza di pochissime norme e la
determinazione a farle rispettare. I bambini vivono psicologicamente nel
“loro” mondo, ma vivono realmente nel mondo degli adulti, nel quale esistono
automobili, virus, pedofili e così via. I genitori abitualmente impongono
migliaia di regole inutili ai bambini, non possono farle rispettare e quindi i
bambini imparano solo che gli adulti sono capricciosi e inaffidabili. Nella
società si riscontrano le stesse conseguenze di una proliferazione di norme inutili e della mancata imposizione di certi obblighi basilari. Tale stato di cose
produce solo un senso di sfiducia nei confronti dello Stato e delle sue leggi e
tale sfiducia mina il rapporto fra individuo e società.
Dopo
queste brevi considerazioni sulle caratteristiche di fondo della cultura del
controllo credo sia opportuno esaminare alcune questioni in merito alle quali il
bisogno di “intervenire senza capire” ha generato una crescente intrusione
dello Stato nella vita privata e molte gravi conseguenze.
Se
esaminiamo le misure adottate per ridurre gli incidenti stradali, dobbiamo non
solo notare che gli interventi prospettati da Monderman non sono stati presi in
considerazione, ma che tutte le azioni preventive e repressive sono state
dedicate agli automobilisti, non alle case automobilistiche. Eppure, se proprio
si vuole attuare una strategia di prevenzione, repressione e controllo è più
facile controllare un centinaio di case automobilistiche di quanto lo sia
controllare milioni di automobilisti. C’è qualcosa di bizzarro nel fatto che
vengono prodotte auto sempre più potenti e veloci mentre il codice stradale continua
ad imporre riduzioni della velocità consentita. Sembra che l’impegno dedicato
al controllo della velocità abbia prodotto una diminuzione degli incidenti, ma
per una valutazione corretta di questi risultati dovremmo valutare quante malattie
e quante morti abbia prodotto la cultura del controllo. Quando si guida si può
in qualsiasi momento compiere un’infrazione, pur avendo guidato con prudenza.
Ciò significa che gli automobilisti più consapevoli dei loro sentimenti convivono
con il dolore di non poter guidare
tranquillamente e di dover temere più le multe (sempre possibili) degli
incidenti (improbabili e in qualche misura evitabili). Vi sono anche automobilisti
che “non ci pensano”, ma per “non pensarci” devono dissociarsi e per dissociarsi
devono irrigidirsi mentalmente ed anche muscolarmente e quindi, in qualche
modo, peggiorano la loro salute e accorciano la loro vita. Non solo: le persone
“nervose”, oltre a guidare rabbiosamente, una volta giunte a casa o in ufficio sentono
il bisogno di “scaricare la tensione” e creano circoli viziosi distruttivi
nelle loro relazioni interpersonali.
Forse
ad alcuni il mio punto di vista può sembrare fazioso ed “estremista”. Non è
così e tale fatto può essere dimostrato applicando fino alle estreme conseguenze
il “pensiero controllante”. Supponiamo che il mondo possa davvero essere
liberato dagli incidenti stradali grazie al controllo della velocità degli
automobilisti: in tal caso sarebbe ragionevole collocare degli autovelox su tutte le strade. La cosa sarebbe
fattibile e senza costi, dato che gli autovelox “si pagano da soli”. Ora, la
domanda interessante è proprio questa: perché i fautori della cultura del
controllo non hanno ancora deciso di collocare su tutte le strade le
“macchinette che salvano le vite”? Forse vogliono salvare qualche vita ma non
tutte? Non credo. Il motivo è un altro: una distribuzione “a pioggia” degli
autovelox produrrebbe un disagio socialmente ingestibile. Ciò dimostra che
tutta la prevenzione degli incidenti stradali è l’effetto di una mentalità del
controllo e non deriva da alcuna progettualità razionale. L’idea di controllare
“almeno un pochino” (e soprattutto “simbolicamente”) dei fenomeni ritenuti inaccettabili è fondamentalmente un sintomo spacciato
per un ideale di sicurezza.
La
cultura del controllo non è solo dannosa e incoerente, ma in molti casi si
manifesta come prescrizione di comportamenti impossibili. Anche in questo caso le conoscenze a disposizione di
psicologi e psicoterapeuti potrebbero essere utilizzate per mettere in
discussione la cultura del controllo, ma ciò purtroppo non accade. E’ noto (agli
psicologi e agli psicoterapeuti) un fenomeno che, non a caso, è definito
“trance del guidatore”: quando si svolge un’attività ripetitiva non si focalizza
l’attenzione sui dettagli del processo. In pratica, quando si guida, ma anche
quando si lavora alla catena di montaggio o si vernicia una parete, non si fa
attenzione ad ogni metro di strada, ad ogni congegno da avvitare o ad ogni
pennellata, ma si procede “in automatico” mentre i pensieri vanno “altrove”.
Chi guida, quindi, può pensare alla fidanzata o al mutuo e può reagire
prontamente se deve dare la precedenza o se un daino attraversa una strada di
montagna, ma non può fare attenzione al
colore delle auto che incrocia, alle nuvole e
ad ogni segnale stradale. Anche se si propone di farlo non può. Inevitabilmente,
il timore di ricevere una multa per una disattenzione inevitabile crea uno stato di tensione molto accentuato anche se
non sempre percepito.
Se
il controllo ossessivo anziché pragmatico degli incidenti stradali è più un sintomo che un progetto
razionale, il controllo del “vizio” del fumo costituisce un altro sintomo non
diagnosticato, ma grave. Da giovane ho vissuto in diverse città e viaggiato
molto in treno: ricordo con tenerezza le tante ore trascorse con altre persone,
ma anche le tante ore trascorse da solo nei viaggi in treno e nei bar più belli
di Firenze, Milano, Napoli e altre città in cui pagando un caffè con un piccolo
sovrapprezzo per il servizio al tavolo potevo stare anche più di un’ora con il
libro che mi accompagnava, la mia stilografica, i miei appunti e le mie
sigarette. Un mondo di gentilezza, in cui potevo accarezzare i pensieri con una
nuvola di fumo, dato che ogni tavolino era ricoperto da una tovaglia di cotone
e abbellito da un posacenere. Nei bar ho preparato degli esami e ho scritto i
miei primi articoli, ho trascorso momenti piacevoli con le ragazze e con gli
amici. Infatti, in quegli anni era possibile incontrare tranquillamente “gli
altri” nei locali pubblici, mentre oggi si può fumare una sigaretta in
compagnia solo passeggiando al freddo o con un caldo insopportabile. Un colpo
di stato è stato attuato da igienisti ossessivi, naturisti integralisti e
cultori della sopravvivenza biologica della specie. Non parlo da fumatore, ma
da persona rispettosa di sé e degli altri, dato che ho iniziato a fumare a
ventiquattro anni e anche prima trovavo piacevole incontrare amici o “compagni”
o fidanzate in luoghi pubblici: persone che anche con le loro abitudini si
esprimevano: l’amico che fumava nervosamente o la ragazza che assaporava la
sigaretta sorridendo. Quando non fumavo ero contento di stare con persone che
potevano manifestare liberamente le loro abitudini. Personalmente trovo
detestabile l’uso di qualsiasi sostanza adatta ad alterare le sensazioni e gli
stati d’animo (quindi sia le “droghe
pesanti”, sia quelle “leggere”), ma
se incontrassi amici e conoscenti in luoghi pubblici, vorrei che i miei
interlocutori potessero fumare con me, masticare senza garbo chewing gum, bere
superalcolici e anche farsi “una canna”. Apprezzerei tale libertà come apprezzo
il fatto che le persone possano vestirsi con eleganza o con sciattezza, curarsi
i capelli o tagliarli in modi bizzarri, usare profumi (che detesto) o non
usarli, parlare correttamente o sbagliare qualche congiuntivo.
Le
abitudini, come i pregi e i difetti, sono parte della vita delle persone e
l’intrusione della società nel mondo delle abitudini personali è una forma di
imperialismo culturale e psicologico. Negli anni della mia gioventù si fumava
in biblioteca, negli ambulatori dei medici e nelle sale d’attesa degli
ospedali; solo le persone anziane, parlavano del “vizio” del fumo e nemmeno le
persone colte insultavano la memoria di Einstein o di Freud o di Marx o di Toro
Seduto definendoli “tabagisti”. In quegli anni non ho conosciuto una sola
persona che tossisse o avesse attacchi di panico se qualcuno accendeva una
sigaretta, mentre oggi, moltissime persone soffrono
davvero se qualcuno fuma nel raggio di qualche metro perché, conformandosi
al panico ideologizzato, hanno sensibilizzato i loro organismi. Certe persone
si agitano persino se vedono una sigaretta accesa all’aperto, come facevano le
militanti dell’esercito della salvezza quando vedevano un ubriaco o una
prostituta.
Oggi
tutti sono informati sui danni causati ai polmoni dal fumo, ma ben pochi hanno
un’idea precisa di quanto i loro polmoni siano stati danneggiati da polveri
sottili mentre venivano condotti a passeggio dalle loro madri premurose. Alcune
ricerche hanno dimostrato che i filtri antiparticolato (FAP) applicati ai tubi
di scarico dei motori a ciclo Diesel, creano problemi più gravi di quelli che
dovrebbero risolvere: “In quegli apparati le
polveri grossolane che escono dagli scarichi vengono frantumate in particelle
infinitamente più piccole che, nel loro complesso, mantengono la massa iniziale
ma, proprio a causa delle loro dimensioni diventate così ridotte, sono capaci
d’insinuarsi in profondità nell’organismo, innescando potenzialmente una lunga
serie di malattie chiamate nanopatologie” (Montanari, 2009, p. 1). L’argomento,
ovviamente, non attira la curiosità morbosa di chi adora l’igiene e odia i
vizi, perché tali filtri sono in molti paese obbligatori per legge. Anche gli
studi (cfr. Molimard, 2008) che hanno evidenziato gli errori di metodo di note
ricerche sui danni (gonfiati) dovuti al “fumo passivo” (quello delle
sigarette), non fanno notizia. Tuttavia chiunque capisce (se riflette) che, in
ogni caso, i danni causati dalle sigarette si
aggiungono a quelli causati dall’inquinamento “normale”. Mia madre,
fumatrice convinta, aveva frequentato solo i primi tre anni delle scuole
elementari, ma capiva benissimo che l’aria che si respirava a Ravenna da quando
erano entrati in funzione gli stabilimenti dell’ANIC era “velenosa”. In alcuni
decenni, politici, studiosi e medici non hanno fatto molto per impedire la
diffusione di veleni di quel tipo, ma sono riusciti a creare una diffusa
angoscia nei confronti del fumo. Il panico “ideologizzato” nei confronti del
fumo è irrazionale come quello che è stato indirizzato nei confronti degli
ebrei, delle persone di colore o delle persone omosessuali, ma non viene
compreso né “dalla gente”, né dagli intellettuali, né dagli psicoterapeuti,
perché i fumatori non si impongono come un gruppo ideologicamente omogeneo, e
tanto meno come gruppo vittimista. Essendo solo persone che fumano, accettano i
costi “gonfiati” delle sigarette, le diciture e le immagini sui pacchetti e i
divieti.
Attualmente
moltissime persone soffrono di allergie e intolleranze alimentari che quando
ero giovane erano praticamente sconosciute e che certamente non dipendono dal
consumo del tabacco, ma la cultura del controllo proprio perché tende a creare
l’illusione di un intervento più che ad intervenire sui problemi più gravi non
ha creato il terrore delle ciminiere o dei filtri antiparticolato, ma il
terrore delle sigarette che danneggiano solo i fumatori (i quali, come gli
sportivi e i poliziotti hanno il diritto di rischiare la loro vita per ciò che
trovano piacevole o giusto). Tutti giurano che il fumo “uccide”, ma sta di
fatto che nessun gruppo terrorista ha mandato un manipolo di audaci a fumare in
un aeroporto. Certe abitudini sono dannose, ma fanno parte della dimensione
personale. In un mondo di persone tolleranti, non si sarebbe sviluppata
l’angoscia sociale nei confronti di chi fuma, di chi beve ed anche di chi
consuma droghe, ma si sarebbero prese misure ragionevoli ed efficaci.
Anche
sul disagio (percepito persino fisicamente) dei non fumatori in presenza di
fumatori, psicologi e psicoterapeuti avrebbero molto da insegnare se non si
dedicassero soprattutto a confermare i miti e i riti della società “data”, di
cui vogliono essere parte integrante e riconosciuta. Tale disagio è un sintomo
e, infatti, sintomi simili si manifestano in ambiti che col fumo non hanno
nulla a che fare: ciò che facciamo “con la testa” è più di quanto crediamo di
fare. Le persone non si chiedono come mai i soldati riescano a dormire in
trincea, mentre molte persone “non riescono a dormire” quando i vicini di casa
fanno una festa o non regolano bene il volume della TV. Farebbero bene a
chiederselo perché così smetterebbero di infastidire gli altri con le loro
lamentele. Tali forme di “insonnia” non dipendono dal rumore oggettivamente
“esistente”, ma proprio dai pensieri generati dalle persone: i soldati pensano
che forse moriranno e forse torneranno a casa e, non pensando al rumore degli
spari, quando sono stanchi, cadono in un sonno profondo, mentre le persone nei
loro appartamenti pensano “ma quando la smetteranno di fare rumore quei
maleducati insopportabili?!”. I “brutti pensieri”, in pratica, disturbano il
sonno più delle mitragliatrici. Anche i pensieri ossessivi sulla salute
attivano eccessivamente il sistema nervoso simpatico e danneggiano la salute.
L’intrusione
della società nelle abitudini, nelle preferenze, nelle modalità di
strutturazione del tempo e negli stili di vita è una cosa grave, e lo è
indipendentemente dal fatto che le persone si esprimano o attuino delle difese
vivendo in certi modi. Pur considerando il proselitismo religioso ben più
dannoso (sia per la salute, sia per la pace nel mondo) del consumo di
sigarette, sarei contrario a qualsiasi “ateismo di Stato”, perché le singole
persone collocano anche le loro convinzioni irrazionali nella loro vita vissuta
e non possono essere “liberate da loro stesse” senza venir calpestate. La
tolleranza, quindi, nella società non è un optional
e ogni tipo di intolleranza socialmente strutturata costituisce una grave forma
di violenza sociale. Il filosofo Giulio Giorello ha stigmatizzato “i salutisti
odierni che vorrebbero tagliarci la sigaretta tra le labbra, se non addirittura
cancellare, con uno stile degno del 1984
di Orwell, qualunque immagine di fumatori in vecchi film, fumetti, eccetera”
(2015, p. 88). Egli, ovviamente, tratta questi inquietanti sintomi come aspetti
di un più generale oltraggio alla libertà umana: “la libertà che mi preme non è
la libertà dal mondo, ma nel mondo. Tale libertà può essere
ragionevolmente definita come consapevole riduzione dei vincoli esterni al
nostro agire” (2015, p. 41). Anche il costituzionalista Michele Ainis critica
il “ruolo pedagogico dei pubblici poteri” che sostituisce una “cultura statale”
a quella sociale. Egli esemplifica la sua tesi riferendosi non al consumo di
tabacco, ma a quello di marijuana e fa presente che “In Europa la marijuana
venne introdotta oltre 3 mila anni fa dagli Sciti; oggi i suoi consumatori sono
147 milioni in ogni angolo del mondo; in Italia la fumano 580 mila adolescenti,
ma un adulto su tre ne ha fatto esperienza almeno una volta nella vita. Tutti
criminali?” (2015, p. 8). Sicuramente non sono tutti criminali e non sono
nemmeno affetti da “patologie psichiche”, ma, a mio parere sono persone
interessate a provare stati d’animo che non corrispondono alla loro vita reale.
Resto quindi decisamente contrario all’uso della marijuana, ma questo non mi
impedisce di essere contrario al proibizionismo che ha effetti ben più gravi.
L’abitudine
di fumare per alcune persone ha una valenza espressiva e per altre ha una
valenza difensiva. Ci sono fumatori che fumano in modo “nervoso” o fumano
“voracemente” manifestando stati d’animo difensivi. Nei casi più gravi le
persone fumano sentendosi in colpa per la loro “incapacità” di smettere di
fumare. Tali persone possono facilmente risultare “insopportabili” per il loro
modo di vivere e quindi anche per il loro modo di fumare, ma non possono vivere
in altri modi. Ci sono però anche fumatori per i quali il fumo è un modo di
“coccolarsi” ed anche un modo di interagire sottolineando una complicità con
gli altri sul piano del piacere. L’offerta di una sigaretta, in questi casi è
paragonabile all’offerta di un dolce ad un bambino o di una mela ad un cavallo:
è un rituale di avvicinamento non intellettuale ma “sensoriale”. Per la società
dovrebbe essere irrilevante la valenza auto-repressiva o espressiva delle
abitudini personali come il fumare, il bere, il consumo di droghe, le
preferenze alimentari, musicali, letterarie. La società interviene
paternalisticamente (e quindi violentemente) con le sue versioni sanitarie
della cultura del controllo anche quando impone l’uso delle cinture di
sicurezza o del casco: con tali norme nega alle persone il diritto di rischiare
la vita pur di guidare senza sentirsi incatenate o pur di sentire il vento nei
capelli usando la moto. Posto che ognuno vive a modo proprio più o meno
costruttivamente o distruttivamente, l’organizzazione sociale serve a favorire
la civile convivenza e non a regolare la convivenza sulla base di un modello
ideologico o religioso o sanitario. Nel passaggio dal controllo dei crimini al
controllo delle convinzioni e delle preferenze personali, l’esercizio
dell’autorità diventa autoritarismo e il fatto che viviamo in una società formalmente
democratica non cambia la situazione perché la democrazia serve a poco se la
gente ha perso l’abitudine di pensare e di sentire.
Nei
treni, le carrozze per fumatori sono scomparse e ciò è stato in fondo
giustificato con l’idea che le persone non dovrebbero fumare e quindi i
fumatori non dovrebbero esistere.
Ora, è comprensibile che la società non riservi certi spazi ai pedofili o ai
terroristi, ma è meno comprensibile che ignori (o svaluti) l’esistenza del
venti per cento della popolazione. Se un bar esponesse un cartello per
escludere marocchini o cinesi (o anche donne o omosessuali) verrebbe preso
d’assalto da folle infiammate da ideali di tolleranza, ma il fatto che
d’inverno le persone fumino al freddo fuori dai bar (persino i baristi!) è ritenuto
un semplice “dato di fatto” e sollecita normalmente pensieri del tipo “beh! se
quelli proprio vogliono fumare che se ne stiano là fuori!”. Solo in un mondo
tanto irrazionale da apparire stupido capita che nei film più recenti solo “i
cattivi” fumino. Prima o poi, come teme Giorello, i vecchi capolavori del
cinema saranno vietati o “restaurati”: John Wayne offrirà una caramella al suo
vice-sceriffo e qualche mente sanitaria suggerirà di intervenire anche sulla
ristampa dei capolavori della letteratura mondiale.
Nell’irrazionalità
sociale la negazione delle responsabilità
personali si intreccia con la negazione
delle casualità: per strani motivi molte decisioni non sembrano prese da
nessuno e molti fatti casuali sembrano dovuti ad un colpevole. Le guerre
“scoppiano” (come alcune bottiglie di vino in cantina) e il terrorismo è un
semplice “dato di fatto”, come se tali fatti non fossero l’esito di
un’intenzionalità umana politicamente definita. In pratica, i più gravi
fenomeni che si verificano in seguito a scelte di cui persone, gruppi e ampi
settori della popolazione sono responsabili, vengono concepiti come fenomeni
casuali. La cultura del controllo favorisce invece una
iper-responsabilizzazione che sollecita l’incremento delle risposte di
controllo: se si mette il piede in una buca non si ammette la casualità del
fatto (o la distrazione di chi cammina senza guardare), ma si avvia una
battaglia legale nei confronti dell’amministrazione comunale che non ha coperto
la buca e che dovrebbe controllare meglio ogni angolo della zona. In pratica,
normalmente il dolore intenzionalmente causato dagli uomini ai loro simili è interpretato
come fatalità storica, mentre il dolore inevitabile è trasformato in
indignazione verso presunti colpevoli. Anche i medici devono continuamente
proteggersi da eventuali “aggressioni” legali dei pazienti. Se fossero
incriminabili solo i medici realmente negligenti e non quelli che non riescono
a fare miracoli, normalmente i medici prescriverebbero ai loro pazienti gli
esami strettamente necessari e non tutti quelli adatti a prevenire eventuali denunce
di trascuratezza professionale. In pratica, si eliminerebbe quella che è stata
definita “medicina difensiva”.
Ora,
cosa accomuna il paternalismo proibizionistico statale, l’invenzione di diritti
immaginari e la deresponsabilizzazione delle persone? Ciò che lega queste
assurdità è il bisogno di non ammettere che nella vita capitano incidenti, sono
inevitabili delle distrazioni (proprie o altrui), si presentano eventualità
spiacevoli. Questo bisogno di “non capire” che il dolore fa parte della vita è
solo un’estensione delle più comuni difese psicologiche individuali, anche se
si traduce in rituali legali giustificati da tutte le autorità. La lotta per la
giustizia diventa facilmente lotta per i risarcimenti: se davvero una persona
muore per un’azione compiuta da qualcuno, si capisce che si avvii un procedimento
penale e si giunga ad una sentenza, affinché
la società non diventi complice di comportamenti criminali. Non si capisce
però la “cultura dei risarcimenti” alimentata da giuristi, avvocati e Società
di assicurazioni, perché in certi casi i risarcimenti sono giustificati solo da
leggi difficili da capire. Cadere da una scala pulendo le finestre dipende
dalla scarsa attenzione di chi cade, ma scivolare nel cortile ghiacciato di un
ufficio dipende “ufficialmente” da chi non ha sparso abbastanza sale a terra. A
volte, il riconoscimento dei diritti crea addirittura dei pericoli.
Normalmente, quando guido, sono impegnato a salvare la vita a pedoni che
attraversano sulle strisce pedonali senza nemmeno guardare, dato che si sentono
“protetti dalla legge”. Alcuni pedoni “si tuffano” sulle strisce sbucando da un
portico. Tutto il “mondo” delle assicurazioni è imperniato su diritti
incomprensibili, ma tali da alimentare “litigi giustificati per legge”.
Anche
sulla questione delle “droghe”, la cultura del controllo tende a rassicurare
sul fatto che “si sta facendo qualcosa”, mentre tale “qualcosa” è una finzione.
La questione è normalmente confusa con il problema (mal posto) delle
“dipendenze”. La dipendenza, in sé non è un problema, ma un fatto: non solo gli
eroinomani dipendono dall’eroina, ma anche i figli dipendono dai genitori e i
malati dai medici. La dipendenza da certe sostanze è irrazionale solo perché presuppone un’ostinazione a
provare sensazioni “artificiali”, cioè non risultanti da esperienze reali.
I bambini dipendono dai genitori perché con la loro presenza stanno realmente bene e tutti dipendiamo
dall’aria perché solo respirando restiamo vivi. La cosa terribile non è, quindi,
la dipendenza, ma l’ostinazione a sperimentare buone sensazioni anche quando
non si sta bene e non si fa nulla per migliorare l’esistenza personale. Proprio
in questo senso, il “bere per dimenticare” e il farsi “una sniffata” per non
sentire ciò che si sente, costituiscono scelte irrazionali. La ormai frequente
assimilazione del “tabagismo” all’uso dei derivati dell’oppio è quindi basata
su un equivoco: chi fuma cerca il piacere reale provocato dall’inalazione del
fumo e può farlo per motivi espressivi o difensivi, ma non lo fa per alterare
il proprio stato di consapevolezza. Io dipendo dal fumo, dalle persone che amo,
dai libri che mi hanno aiutato a vivere e non voglio diventare “indipendente”. Le
droghe prima di creare dipendenza
sono cercate da persone che non gestiscono il dolore e non cercano di costruire
una reale felicità. Il “problema delle droghe” è un problema personale e famigliare
che può anche tradursi in dipendenze, ma in quanto problema personale e
famigliare non viene nemmeno sfiorato dagli interventi basati sul controllo. Le
misure di prevenzione, repressione e controllo non incidono sul vero problema,
procurano lauti guadagni alla criminalità organizzata e causano la morte di
tante persone: persone uccise “dalla droga”, poliziotti e magistrati uccisi da mafiosi,
mafiosi uccisi da altri mafiosi. L’intervento “magico” della cultura del
controllo si riduce fondamentalmente al proibizionismo, cioè ad una risposta
burocratica e poliziesca alle tragedie personali.
La
cultura del controllo è così radicata che persino gli studiosi più autorevoli e
influenti che hanno condotto, in ambiti circoscritti, ma significativi, una
contestazione dei suoi assunti, sono riusciti soltanto a immaginare (e
realizzare) cambiamenti caratterizzati dalla stessa logica. L’esempio più istruttivo è offerto dalla piccola rivoluzione avviata
in vari paesi e anche in Italia, sull’onda della contestazione “del sistema”
esplosa negli anni ’60, per l’abolizione dei manicomi. L’idea di partenza, per
quanto concepita tardivamente, era giusta: i malati mentali sono persone e non
vengono né curate né trattate come persone se vengono rinchiuse, maltrattate e
abbandonate. Intellettuali prestigiosi (Szasz, 1961; Cooper, 1967; Laing, 1967)
hanno sia contestato le tradizionali pratiche psichiatriche, sia formulato
concezioni “antipsichiatriche” non molto convincenti relative alla normalità e alla
follia.
In
Italia Franco Basaglia (1968) e i suoi colleghi di Psichiatria Democratica hanno avviato un processo di cambiamento
che è risultato vincente, nel senso che ha portato allo smantellamento degli
ospedali psichiatrici. Purtroppo, con questa svolta, non si è realizzata una
gestione umana anziché disumana dei pazienti psichiatrici da parte del sistema
sanitario, ma solo un passaggio dal controllo pubblico (autoritario e violento)
della vita di tali pazienti all’imposizione (autoritaria e, in fondo, violenta)
di gravi responsabilità alle loro famiglie. Infatti, tutte le falle
dell’assistenza pubblica sono state colmate dai famigliari. Adulti e bambini,
sicuramente felici che i parenti psicotici non fossero più maltrattati in circoscritti
ambiti istituzionali, ben difficilmente sono stati felici di fare i turni per
evitare che il nonno o la zia o il fratello scappassero di casa, non
prendessero i farmaci o si tagliassero le vene. In questo modo, purtroppo, la
contestazione razionale di una delle più gravi manifestazioni
dell’autoritarismo e del controllo sociale, essendo stata settoriale e non
radicalmente alternativa, non ha prodotto cambiamenti davvero profondi nel
rapporto fra persone e società.
In
un certo senso l’analisi della cultura del controllo è più difficile
dell’analisi dell’autoritarismo. In entrambi i casi è tutt’altro che facile
ricondurre fenomeni sociali tanto complessi alle difese psicologiche costruite
nell’infanzia, ma almeno è certo che se si parla dei campi di concentramento o
dei linciaggi dei neri o delle donne, le persone capiscono che si sta parlando
di questioni gravi; quando si parla della cultura del controllo, invece, anche
persone colte e sensibili faticano a rendersi conto della gravità dei problemi La
normale tendenza delle persone a vivere “poco” ostacola la comprensione della
gravità delle quotidiane manifestazioni dell’irrazionalità sociale. Le persone
rinunciano all’intimità per non entrare il contatto con il dolore della loro esistenza
e, quindi, gestiscono superficialmente anche le altre relazioni interpersonali
e concepiscono in termini riduttivi il loro rapporto con la società. In una
relazione di coppia, se non ci sono tradimenti o violenze fisiche, “tutto va
bene”. Nell’amicizia, se ci si limita a chiacchierare e a condividere dei
passatempi, “tutto va bene”. Nella convivenza sociale, se si devono compilare
montagne di moduli, ma non si viene torturati e fucilati, “tutto va bene”.
Purtroppo, normalmente le persone sopportano una convivenza sociale
insopportabile proprio perché non arrivano a desiderare una convivenza sociale
armoniosa e rispettosa dei bisogni di tutti. Le persone normalmente non riescono nemmeno ad immaginare una
convivenza sociale diversa da quella “data” e tollerano senza troppa fatica
l’irrazionalità sociale e le varie manifestazioni della cultura del controllo.
L’irrazionalità
sociale sembra procedere al di là della vita reale delle persone, in un ambito
“a parte”, ma, in realtà, costituisce una semplice estensione della normale
irrazionalità individuale. Se ciò è vero, abbiamo bisogno di mettere in
discussione molte convinzioni e atteggiamenti tanto comuni da sembrare
indiscutibili. Infatti, le persone fanno
politica e contribuiscono alla guerra, al terrorismo e alla trasformazione
della convivenza sociale in un mosaico di rituali inutili e dannosi proprio
progettando le loro esistenze individuali in modi “apolitici”. Fanno politica
quando svalutano i figli, festeggiano i matrimoni, attuano piccole guerre legali
nelle cause di divorzio, tollerano spot pubblicitari idioti mentre guardano la
TV e incitano i figli ad “inserirsi” nella società anziché a capire la società
in cui vivono. L’autoritarismo sociale, attuato con il pugno di ferro o con la
regolamentazione dei dettagli della quotidianità, è possibile solo perché le
persone “accettano tutto” pur di vivere “poco”.