venerdì 20 luglio 2018

38. Autoritarismo e controllo







L’autoritarismo non caratterizza solo i regimi politici totalitari, perché si possono riscontrare forme di autoritarismo anche in società formalmente democratiche e in particolari organizzazioni, associazioni o gruppi; anche gli atteggiamenti di alcune persone possono essere definiti autoritari. Nel capitolo precedente ho sottolineato che nei sistemi sociali autoritari è presente un intreccio strettissimo fra l’autorità costituita, le persone che detengono il potere economico e le persone che sentono il bisogno di far parte di una società rigidamente organizzata e ideologicamente compatta. Ora vorrei fare alcune considerazioni su un’altra forma di autoritarismo sociale che fa leva su bisogni difensivi di autocontrollo e di controllo, cioè su difese psicologiche che non motivano ad ottenere potere o a manifestare sottomissione, ma a regolamentare in modo rigido ed eccessivo i rapporti fra le persone e fra i cittadini e la società. Anche questo autoritarismo “minimalista” è irrazionale perché mira sia a contrastare comportamenti che andrebbero rispettati, sia ad affrontare in modi inutilmente frustranti e soprattutto inefficaci i comportamenti oggettivamente dannosi. Mentre l’autoritarismo radicato nell’avidità e nel bisogno di appartenenza può produrre cariche della polizia sui manifestanti, può attuare persecuzioni, scatenare guerre e alimentare ideologie violente, l’autoritarismo radicato nel bisogno di controllo produce un numero più contenuto di decessi o di danni alle persone, ma produce soprattutto stati cronici di frustrazione e di tensione e favorisce e consolida schemi mentali semplicistici, dicotomici e, in fondo, stupidi. Mi riferirò a questo “piccolo” autoritarismo usando l’espressione “cultura del controllo” che può indicare sia schemi mentali individuali, sia leggi applicate in una società, sia aspetti consolidati della convivenza sociale.
Prima di delineare la logica ( o meglio, la “non logica”) e le conseguenze della cultura del controllo voglio accennare a due semplici fatti che possono essere considerati esperimenti sociali particolarmente illuminanti.
a) Se si cerca in rete qualche notizia su Hans Monderman si scopre che questo ingegnere olandese esperto di problemi del traffico ha drasticamente ridotto gli incidenti stradali in alcuni distretti della rete stradale in cui le sue idee (molto “scomode” per la cultura del controllo) sono state messe in pratica. Nelle aree dedicate alla sperimentazione è stata eliminata la segnaletica a terra e sono stati tolti i cartelli e i semafori. E’ stata mantenuta solo la regola della precedenza a destra. L’obbligo di “fare attenzione” non è stato “imposto”, ma è stato automaticamente generato dalle persone stesse, una volta private di tutte le (false) certezze offerte dalla consueta segnaletica.
b) Negli Stati Uniti, tra il 1919 e il 1933, la lotta al consumo degli alcolici è stata condotta in modo molto severo dalle autorità. Il proibizionismo non ha però avuto gli effetti auspicati, perché ha prodotto soprattutto il commercio illegale degli alcolici, ha rafforzato la criminalità organizzata e non ha ridotto il consumo degli alcolici.
Questi due esperimenti sociali fanno pensare che molte questioni gravi e delicate e molte difficoltà nella convivenza sociale siano normalmente affrontate da politici, intellettuali, giuristi, tutori dell’ordine e persone comuni in modi del tutto irrazionali. La cultura del controllo è una mentalità, ma è una mentalità tanto diffusa che si traduce in leggi e irrigidimenti normativi della convivenza sociale e genera malattie, disturbi psicologici e anche decessi. In vari modi causa dolore non necessario proprio per offrire rassicurazioni illusorie che limitano la consapevolezza degli aspetti necessariamente dolorosi della vita e della convivenza sociale. L’irrazionalità distruttiva della cultura del controllo è negata anche da persone intelligenti, colte e animate da buone intenzioni perché è talmente radicata da non essere notata. Tale incubo ha radici antiche, ma nell’ultimo secolo è stato esasperato dall’accresciuta complessità della società e da vari risvolti negativi di tali cambiamenti (isolamento degli individui dalla comunità, traffico, inquinamento, ecc.). Tali risvolti negativi sono stati affrontati in modi non realistici e con una (irrazionale) determinazione al controllo di fenomeni incontrollabili. Infatti, il controllo non è, di per sé, irrazionale: chiudere a chiave la porta di casa è ragionevole perché scoraggia (almeno in qualche misura) le intrusioni, ma l’abitudine di aprirla e chiuderla tre volte (dato che il 3 è il numero perfetto) sicuramente non migliora l’efficacia delle serrature. La cultura del controllo funziona così e ha molto a che fare con i sintomi ossessivi; riflette il bisogno di negare una situazione dolorosa e di “mettere tutto a posto” con un gesto “magico”.
Nella cultura del controllo si finge di fare qualcosa per rassicurarsi sul fatto che si sta facendo qualcosa, mentre non si fa nulla di rilevante per il problema in questione. Se un genitore osserva che un figlio maltratta il fratello più piccolo, “da qualche parte” si rende conto che la sua famiglia non funziona, ma, se teme di affrontare il (vero) problema, punisce il figlio e impone un comportamento amorevole. Con tale intervento (consistente in un tentativo di controllare una situazione senza comprenderla) si illude di aver “fatto qualcosa”. In realtà ha davvero fatto qualcosa: ha aggravato il senso di frustrazione e di solitudine del figlio maggiore che probabilmente finirà per odiare più di prima (difensivamente) il fratellino e questi si sentirà ancor più odiato e quindi non protetto. I tipici interventi “educativi” focalizzati sul controllo sono paragonabili alle danze della pioggia nei periodi di siccità con cui certi popoli non cambiavano la situazione meteorologica, ma si illudevano di star facendo qualcosa di utile. Ovviamente viene da chiedersi se gli esseri umani siano stupidi, dato che continuano ad aggrapparsi alla cultura del controllo, ma gli esseri umani sono “stupidi” solo nei casi in cui le loro paure infantili non superate (e nemmeno comprese) riaffiorano in nuove circostanze e vengono gestite in modi difensivi.
Mentre l’autoritarismo “forte” ha le sue radici nella competizione rabbiosa e nella paura dell’esclusione, quello “debole” ha le sue radici nell’obbedienza a regole, tradizioni, rituali famigliari e sociali e nel timore di non agire nel modo migliore. Il nucleo della cultura del controllo sta a) nell’autocontrollo, b) nell’insofferenza per le altrui mancanze di autocontrollo c) nella determinazione a controllare gli altri anche quando ciò è irrispettoso o inutile o impossibile. La cultura del controllo non ha molto a che fare con la ragionevole propensione a prevenire o reprimere le azioni distruttive o pericolose, perché costituisce soprattutto una “fede” secondo cui l’imposizione di un ordine eliminerà ogni sofferenza temuta.
L’alcolismo non è causato dal libero commercio degli alcolici e i clienti migliori di Al Capone hanno continuato a bere negli anni del proibizionismo, dato che bevevano perché non sapevano che fare della loro vita. Capita a volte che un ragazzo muoia “impasticcato” in una discoteca ed è difficile capire come venga in mente ai politici, ai tutori dell’ordine e agli “specialisti” di “intervenire” modificando gli orari di apertura delle discoteche. Purtroppo certe idee “affiorano” solo perché il dolore non ha spazio nella cultura condivisa. Il dolore è gestito in modi difensivi dai bambini rifiutati e lasciati soli e quei bambini, divenuti adulti, si trovano a loro agio in un ambiente culturale in cui i fenomeni dolorosi non vengono accettati, capiti, affrontati realisticamente. Si trovano a loro agio in un ambiente culturale e sociale in cui il controllo non è un intervento pratico necessario in alcuni casi, ma è una sorta di magia a cui ricorrere appena l’ansia supera una certa soglia.
Prima di evidenziare alcune particolari espressioni della cultura del controllo voglio fare alcune osservazioni sui danni, normalmente sottovalutati, che causa. L’autoritarismo sociale è visibilmente distruttivo quando si traduce in fatti concreti come un plotone d’esecuzione o un genocidio. La cultura del controllo non prevede interventi distruttivi di questo tipo, ma genera danni meno evidenti, anche se oggettivamente accertabili. A tale proposito voglio riconsiderare la questione degli eventi “stressanti” normalmente fraintesa. Lo stress di cui parlano gli psicoterapeuti non esiste, come non esiste la pulsione di morte. Questi concetti non spiegano nulla, ma indicano in modi non corretti dei fatti reali: anche se non è data alcuna pulsione di morte, la distruttività delle persone è un fatto indiscutibile e, anche se non esistono eventi stressanti ed effetti dello stress, sicuramente molti eventi sono frustranti e moltissime persone reagiscono difensivamente alle frustrazioni manifestando tensione, nervosismo, ansia e rabbia. Manifestando tali reazioni irrazionali ragionano in modo rigido, provano emozioni inappropriate alla realtà e si irrigidiscono muscolarmente. L’ipertonia muscolare incide sulla respirazione, sulla circolazione del sangue, sul funzionamento degli organi. Non uccide come una pallottola, ma indebolisce e avvelena lentamente l’organismo.
Per queste ragioni affermo che i “sintomi da stress” sono creati dalle persone e non causati da particolari circostanze, ma affermo pure che in una società in cui le persone sono normalmente dissociate dal dolore, la sistematica creazione di frustrazioni inutili attiva normalmente reazioni difensive molto pericolose. Buttare un cerino acceso sull’asfalto non crea danni, ma buttarlo nel bosco in un periodo di siccità può causare danni gravissimi. Un governo può far morire mille soldati mandandoli in un paese lontano a combattere una guerra assurda, ma può accorciare la vita di milioni di persone imponendo regole che costringono i cittadini a sprecare ore preziose in uffici pubblici, aggiungendo alla vita quotidiana il timore costante di subire multe o la preoccupazione costante di fare o non fare ciò che è stato inserito in qualche normativa. La gravità degli omicidi “a rate” compiuti dalla società è sottovalutata e anche tale sottovalutazione è irrazionale. La cultura del controllo, come le fabbriche più inquinanti, avvelena “un pochino”, giorno dopo giorno, le persone.
Poiché l’esercizio dell’autorità è razionale nella misura in tutela i cittadini, qualsiasi esercizio dell’autorità volto a contrastare non solo i crimini, ma le abitudini, le preferenze, i modi di trascorrere il tempo libero, di pensare e di sentire costituisce un abuso e una forma di autoritarismo, anche se viene “giustificato” da preoccupazioni riguardanti la sicurezza di tutti, la lotta all’evasione fiscale, la tutela della privacy, la tutela della salute, ecc. La cieca obbedienza all’autorità (Milgram, 1974), la “fuga dalla libertà” (Fromm, 1941), la convivenza sociale ridotta ad una sola “dimensione” (Marcuse, 1964) e il conformismo (Packard, 1957) costituiscono drammi del tutto incomprensibili se non si considera il fatto che le persone interagiscono con altre persone e con l’intera comunità di cui fanno parte senza provare alcun desiderio di creare armonia e bellezza: non vogliono creare nulla perché vivono soprattutto per sentire poco il dolore che fin dall’infanzia hanno etichettato come “ingestibile”.
L’ingerenza della società nella vita privata delle persone ha come condizioni di possibilità anche la diffusa passione per le contese e per i vittimismi. Poiché le persone sono interessate a far causa ad un vicino per la “proprietà” di un albero cresciuto su un confine, o a far causa al Comune perché sono scivolate su una strada ghiacciata, la cultura del controllo risponde a queste esigenze sentite da tante persone già inclini a controllarsi e a pretendere che la società dia importanza alle loro pretese. In questa logica tutto viene regolamentato in modo ossessivo con due gravi conseguenze: i tribunali sono paralizzati da innumerevoli cause che non meriterebbero nemmeno di essere avviate e moltissime persone devono spendere tempo, denaro ed energie per prevenire denunce da parte di persone sempre pronte a pretendere risarcimenti. La cultura del controllo da un lato schiaccia i cittadini, ma da un altro lato recepisce le esigenze di molti cittadini che vogliono essere controllati pur di poter controllare la vita delle altre persone. Purtroppo manca una corrente di pensieri, sentimenti e azioni capace di suggerire un’alternativa a questa “dittatura del nulla”.
La burocrazia, non è solo una seccatura, come risulta dalle lamentele delle persone che chiacchierano al bar e non è solo un problema marginale, ma è un’espressione tangibile della cultura del controllo. Tutti gli aspetti non indispensabili della regolamentazione della convivenza sociale rientrano in una concezione secondo la quale i cittadini sono oggetti da controllare anziché soggetti da tutelare. In altre parole, non si comprende la burocratizzazione della società se non come un sintomo generalizzato. Il fatto che molti aspetti della burocrazia siano davvero “stupidi”, che non avvantaggino nessuno e che non siano nemmeno percepiti come aggressioni dai cittadini non cambia le cose: tali aspetti danneggiano il tempo “vissuto” delle persone e accorciano anche le vite delle persone.
Sia in un villaggio, sia in uno Stato moderno, le persone possono convivere in armonia e in sicurezza solo delegando ad alcune autorità alcuni compiti (e attribuendo ad esse alcuni poteri). L’autorità è razionale se è al servizio della comunità, ma diventa irrazionale appena crea disarmonia e insicurezza. L’autoritarismo può seminare morte e generare terribili sofferenze in particolari congiunture storiche, ma è distruttivo anche quando in condizioni normali peggiora la qualità della vita dei cittadini, riduce inutilmente il tempo libero, spreca risorse e calpesta la dignità delle persone. L’autorità, in quanto tale, è una risorsa, non un problema, ma l’autoritarismo è sempre un disastro istituzionalizzato.
Il diritto si manifesta originariamente in consuetudini ragionevoli e accettate in una comunità, ma, come sottolinea Paolo Grossi, “con l’inserimento –avvenuto nel corso della modernità- del diritto nell’apparato di potere più perfezionato, ossia nello Stato, dietro l’incubo parossistico dell’ordine pubblico, il diritto si è visto sostanzialmente stravolto nella sua natura e funzione originaria e chiamato a svolgere il ruolo di apparecchio ortopedico del potere politico, di controllo sociale. (…) Il controllo sociale, infatti, esige il primato della legge e un rigorosissimo principio di legalità, accompagnati dal contenimento drastico di forme spontanee di organizzazione giuridica qual è appunto il fenomeno consuetudinario” (2003, pp. 31-32). Questo ingombrante “apparecchio ortopedico” complica qualsiasi interazione fra le persone generando una rete normativa fittissima. In genere non si pensa al fatto che qualsiasi legge comporta notevoli “danni collaterali”. Anche la più banale normativa comporta che moltissime persone si organizzino in modo da non essere soggette a sanzioni, che moltissimi uffici aggiornino qualcosa, che moltissime persone siano incaricate di accertare eventuali infrazioni, che moltissime persone siano sottoposte a controlli. Non solo: comporta il fatto che molte persone finiranno per contestare gli esiti degli accertamenti a cui sono stati sottoposti e che altre persone dovranno intervenire per stabilire la legittimità delle contestazioni o degli accertamenti contestati. La burocrazia, in linea di principio, serve a dare un ordine razionale alla vita sociale, ma viene trasformata dalla cultura del controllo in una calamità che colpisce la vita sociale.
L’esercizio irrazionale dell’autorità non solo incide negativamente sulla qualità della vita dei cittadini, ma sulla stessa partecipazione alla vita sociale: determina una diffusa consapevolezza del fatto che l’autorità costituita ha un certo potere, ma non ha alcuna autorevolezza. Anche questo danno non va sottovalutato, perché l’autorità, in quanto tale, è fondamentale nella convivenza civile ed ogni crollo dell'autorevolezza minaccia la coesione sociale. Si deve considerare che nell’ambito sociale, come nell’educazione dei bambini e nell’addestramento degli animali, è assolutamente indispensabile la presenza di pochissime norme e la determinazione a farle rispettare. I bambini vivono psicologicamente nel “loro” mondo, ma vivono realmente nel mondo degli adulti, nel quale esistono automobili, virus, pedofili e così via. I genitori abitualmente impongono migliaia di regole inutili ai bambini, non possono farle rispettare e quindi i bambini imparano solo che gli adulti sono capricciosi e inaffidabili. Nella società si riscontrano le stesse conseguenze di una proliferazione di norme inutili e della mancata imposizione di certi obblighi basilari. Tale stato di cose produce solo un senso di sfiducia nei confronti dello Stato e delle sue leggi e tale sfiducia mina il rapporto fra individuo e società.
Dopo queste brevi considerazioni sulle caratteristiche di fondo della cultura del controllo credo sia opportuno esaminare alcune questioni in merito alle quali il bisogno di “intervenire senza capire” ha generato una crescente intrusione dello Stato nella vita privata e molte gravi conseguenze.
Se esaminiamo le misure adottate per ridurre gli incidenti stradali, dobbiamo non solo notare che gli interventi prospettati da Monderman non sono stati presi in considerazione, ma che tutte le azioni preventive e repressive sono state dedicate agli automobilisti, non alle case automobilistiche. Eppure, se proprio si vuole attuare una strategia di prevenzione, repressione e controllo è più facile controllare un centinaio di case automobilistiche di quanto lo sia controllare milioni di automobilisti. C’è qualcosa di bizzarro nel fatto che vengono prodotte auto sempre più potenti e veloci mentre il codice stradale continua ad imporre riduzioni della velocità consentita. Sembra che l’impegno dedicato al controllo della velocità abbia prodotto una diminuzione degli incidenti, ma per una valutazione corretta di questi risultati dovremmo valutare quante malattie e quante morti abbia prodotto la cultura del controllo. Quando si guida si può in qualsiasi momento compiere un’infrazione, pur avendo guidato con prudenza. Ciò significa che gli automobilisti più consapevoli dei loro sentimenti convivono con il dolore di non poter guidare tranquillamente e di dover temere più le multe (sempre possibili) degli incidenti (improbabili e in qualche misura evitabili). Vi sono anche automobilisti che “non ci pensano”, ma per “non pensarci” devono dissociarsi e per dissociarsi devono irrigidirsi mentalmente ed anche muscolarmente e quindi, in qualche modo, peggiorano la loro salute e accorciano la loro vita. Non solo: le persone “nervose”, oltre a guidare rabbiosamente, una volta giunte a casa o in ufficio sentono il bisogno di “scaricare la tensione” e creano circoli viziosi distruttivi nelle loro relazioni interpersonali.
Forse ad alcuni il mio punto di vista può sembrare fazioso ed “estremista”. Non è così e tale fatto può essere dimostrato applicando fino alle estreme conseguenze il “pensiero controllante”. Supponiamo che il mondo possa davvero essere liberato dagli incidenti stradali grazie al controllo della velocità degli automobilisti: in tal caso sarebbe ragionevole collocare degli autovelox su tutte le strade. La cosa sarebbe fattibile e senza costi, dato che gli autovelox “si pagano da soli”. Ora, la domanda interessante è proprio questa: perché i fautori della cultura del controllo non hanno ancora deciso di collocare su tutte le strade le “macchinette che salvano le vite”? Forse vogliono salvare qualche vita ma non tutte? Non credo. Il motivo è un altro: una distribuzione “a pioggia” degli autovelox produrrebbe un disagio socialmente ingestibile. Ciò dimostra che tutta la prevenzione degli incidenti stradali è l’effetto di una mentalità del controllo e non deriva da alcuna progettualità razionale. L’idea di controllare “almeno un pochino” (e soprattutto “simbolicamente”) dei fenomeni ritenuti  inaccettabili è fondamentalmente un sintomo spacciato per un ideale di sicurezza.
La cultura del controllo non è solo dannosa e incoerente, ma in molti casi si manifesta come prescrizione di comportamenti impossibili. Anche in questo caso le conoscenze a disposizione di psicologi e psicoterapeuti potrebbero essere utilizzate per mettere in discussione la cultura del controllo, ma ciò purtroppo non accade. E’ noto (agli psicologi e agli psicoterapeuti) un fenomeno che, non a caso, è definito “trance del guidatore”: quando si svolge un’attività ripetitiva non si focalizza l’attenzione sui dettagli del processo. In pratica, quando si guida, ma anche quando si lavora alla catena di montaggio o si vernicia una parete, non si fa attenzione ad ogni metro di strada, ad ogni congegno da avvitare o ad ogni pennellata, ma si procede “in automatico” mentre i pensieri vanno “altrove”. Chi guida, quindi, può pensare alla fidanzata o al mutuo e può reagire prontamente se deve dare la precedenza o se un daino attraversa una strada di montagna, ma non può fare attenzione al colore delle auto che incrocia, alle nuvole e ad ogni segnale stradale. Anche se si propone di farlo non può. Inevitabilmente, il timore di ricevere una multa per una disattenzione inevitabile crea uno stato di tensione molto accentuato anche se non sempre percepito.
Se il controllo ossessivo anziché pragmatico degli incidenti stradali è più un sintomo che un progetto razionale, il controllo del “vizio” del fumo costituisce un altro sintomo non diagnosticato, ma grave. Da giovane ho vissuto in diverse città e viaggiato molto in treno: ricordo con tenerezza le tante ore trascorse con altre persone, ma anche le tante ore trascorse da solo nei viaggi in treno e nei bar più belli di Firenze, Milano, Napoli e altre città in cui pagando un caffè con un piccolo sovrapprezzo per il servizio al tavolo potevo stare anche più di un’ora con il libro che mi accompagnava, la mia stilografica, i miei appunti e le mie sigarette. Un mondo di gentilezza, in cui potevo accarezzare i pensieri con una nuvola di fumo, dato che ogni tavolino era ricoperto da una tovaglia di cotone e abbellito da un posacenere. Nei bar ho preparato degli esami e ho scritto i miei primi articoli, ho trascorso momenti piacevoli con le ragazze e con gli amici. Infatti, in quegli anni era possibile incontrare tranquillamente “gli altri” nei locali pubblici, mentre oggi si può fumare una sigaretta in compagnia solo passeggiando al freddo o con un caldo insopportabile. Un colpo di stato è stato attuato da igienisti ossessivi, naturisti integralisti e cultori della sopravvivenza biologica della specie. Non parlo da fumatore, ma da persona rispettosa di sé e degli altri, dato che ho iniziato a fumare a ventiquattro anni e anche prima trovavo piacevole incontrare amici o “compagni” o fidanzate in luoghi pubblici: persone che anche con le loro abitudini si esprimevano: l’amico che fumava nervosamente o la ragazza che assaporava la sigaretta sorridendo. Quando non fumavo ero contento di stare con persone che potevano manifestare liberamente le loro abitudini. Personalmente trovo detestabile l’uso di qualsiasi sostanza adatta ad alterare le sensazioni e gli stati d’animo (quindi sia le “droghe pesanti”, sia quelle “leggere”), ma se incontrassi amici e conoscenti in luoghi pubblici, vorrei che i miei interlocutori potessero fumare con me, masticare senza garbo chewing gum, bere superalcolici e anche farsi “una canna”. Apprezzerei tale libertà come apprezzo il fatto che le persone possano vestirsi con eleganza o con sciattezza, curarsi i capelli o tagliarli in modi bizzarri, usare profumi (che detesto) o non usarli, parlare correttamente o sbagliare qualche congiuntivo.
Le abitudini, come i pregi e i difetti, sono parte della vita delle persone e l’intrusione della società nel mondo delle abitudini personali è una forma di imperialismo culturale e psicologico. Negli anni della mia gioventù si fumava in biblioteca, negli ambulatori dei medici e nelle sale d’attesa degli ospedali; solo le persone anziane, parlavano del “vizio” del fumo e nemmeno le persone colte insultavano la memoria di Einstein o di Freud o di Marx o di Toro Seduto definendoli “tabagisti”. In quegli anni non ho conosciuto una sola persona che tossisse o avesse attacchi di panico se qualcuno accendeva una sigaretta, mentre oggi, moltissime persone soffrono davvero se qualcuno fuma nel raggio di qualche metro perché, conformandosi al panico ideologizzato, hanno sensibilizzato i loro organismi. Certe persone si agitano persino se vedono una sigaretta accesa all’aperto, come facevano le militanti dell’esercito della salvezza quando vedevano un ubriaco o una prostituta.
Oggi tutti sono informati sui danni causati ai polmoni dal fumo, ma ben pochi hanno un’idea precisa di quanto i loro polmoni siano stati danneggiati da polveri sottili mentre venivano condotti a passeggio dalle loro madri premurose. Alcune ricerche hanno dimostrato che i filtri antiparticolato (FAP) applicati ai tubi di scarico dei motori a ciclo Diesel, creano problemi più gravi di quelli che dovrebbero risolvere: “In quegli apparati le polveri grossolane che escono dagli scarichi vengono frantumate in particelle infinitamente più piccole che, nel loro complesso, mantengono la massa iniziale ma, proprio a causa delle loro dimensioni diventate così ridotte, sono capaci d’insinuarsi in profondità nell’organismo, innescando potenzialmente una lunga serie di malattie chiamate nanopatologie” (Montanari, 2009, p. 1). L’argomento, ovviamente, non attira la curiosità morbosa di chi adora l’igiene e odia i vizi, perché tali filtri sono in molti paese obbligatori per legge. Anche gli studi (cfr. Molimard, 2008) che hanno evidenziato gli errori di metodo di note ricerche sui danni (gonfiati) dovuti al “fumo passivo” (quello delle sigarette), non fanno notizia. Tuttavia chiunque capisce (se riflette) che, in ogni caso, i danni causati dalle sigarette si aggiungono a quelli causati dall’inquinamento “normale”. Mia madre, fumatrice convinta, aveva frequentato solo i primi tre anni delle scuole elementari, ma capiva benissimo che l’aria che si respirava a Ravenna da quando erano entrati in funzione gli stabilimenti dell’ANIC era “velenosa”. In alcuni decenni, politici, studiosi e medici non hanno fatto molto per impedire la diffusione di veleni di quel tipo, ma sono riusciti a creare una diffusa angoscia nei confronti del fumo. Il panico “ideologizzato” nei confronti del fumo è irrazionale come quello che è stato indirizzato nei confronti degli ebrei, delle persone di colore o delle persone omosessuali, ma non viene compreso né “dalla gente”, né dagli intellettuali, né dagli psicoterapeuti, perché i fumatori non si impongono come un gruppo ideologicamente omogeneo, e tanto meno come gruppo vittimista. Essendo solo persone che fumano, accettano i costi “gonfiati” delle sigarette, le diciture e le immagini sui pacchetti e i divieti.
Attualmente moltissime persone soffrono di allergie e intolleranze alimentari che quando ero giovane erano praticamente sconosciute e che certamente non dipendono dal consumo del tabacco, ma la cultura del controllo proprio perché tende a creare l’illusione di un intervento più che ad intervenire sui problemi più gravi non ha creato il terrore delle ciminiere o dei filtri antiparticolato, ma il terrore delle sigarette che danneggiano solo i fumatori (i quali, come gli sportivi e i poliziotti hanno il diritto di rischiare la loro vita per ciò che trovano piacevole o giusto). Tutti giurano che il fumo “uccide”, ma sta di fatto che nessun gruppo terrorista ha mandato un manipolo di audaci a fumare in un aeroporto. Certe abitudini sono dannose, ma fanno parte della dimensione personale. In un mondo di persone tolleranti, non si sarebbe sviluppata l’angoscia sociale nei confronti di chi fuma, di chi beve ed anche di chi consuma droghe, ma si sarebbero prese misure ragionevoli ed efficaci.
Anche sul disagio (percepito persino fisicamente) dei non fumatori in presenza di fumatori, psicologi e psicoterapeuti avrebbero molto da insegnare se non si dedicassero soprattutto a confermare i miti e i riti della società “data”, di cui vogliono essere parte integrante e riconosciuta. Tale disagio è un sintomo e, infatti, sintomi simili si manifestano in ambiti che col fumo non hanno nulla a che fare: ciò che facciamo “con la testa” è più di quanto crediamo di fare. Le persone non si chiedono come mai i soldati riescano a dormire in trincea, mentre molte persone “non riescono a dormire” quando i vicini di casa fanno una festa o non regolano bene il volume della TV. Farebbero bene a chiederselo perché così smetterebbero di infastidire gli altri con le loro lamentele. Tali forme di “insonnia” non dipendono dal rumore oggettivamente “esistente”, ma proprio dai pensieri generati dalle persone: i soldati pensano che forse moriranno e forse torneranno a casa e, non pensando al rumore degli spari, quando sono stanchi, cadono in un sonno profondo, mentre le persone nei loro appartamenti pensano “ma quando la smetteranno di fare rumore quei maleducati insopportabili?!”. I “brutti pensieri”, in pratica, disturbano il sonno più delle mitragliatrici. Anche i pensieri ossessivi sulla salute attivano eccessivamente il sistema nervoso simpatico e danneggiano la salute.
L’intrusione della società nelle abitudini, nelle preferenze, nelle modalità di strutturazione del tempo e negli stili di vita è una cosa grave, e lo è indipendentemente dal fatto che le persone si esprimano o attuino delle difese vivendo in certi modi. Pur considerando il proselitismo religioso ben più dannoso (sia per la salute, sia per la pace nel mondo) del consumo di sigarette, sarei contrario a qualsiasi “ateismo di Stato”, perché le singole persone collocano anche le loro convinzioni irrazionali nella loro vita vissuta e non possono essere “liberate da loro stesse” senza venir calpestate. La tolleranza, quindi, nella società non è un optional e ogni tipo di intolleranza socialmente strutturata costituisce una grave forma di violenza sociale. Il filosofo Giulio Giorello ha stigmatizzato “i salutisti odierni che vorrebbero tagliarci la sigaretta tra le labbra, se non addirittura cancellare, con uno stile degno del 1984 di Orwell, qualunque immagine di fumatori in vecchi film, fumetti, eccetera” (2015, p. 88). Egli, ovviamente, tratta questi inquietanti sintomi come aspetti di un più generale oltraggio alla libertà umana: “la libertà che mi preme non è la libertà dal mondo, ma nel mondo. Tale libertà può essere ragionevolmente definita come consapevole riduzione dei vincoli esterni al nostro agire” (2015, p. 41). Anche il costituzionalista Michele Ainis critica il “ruolo pedagogico dei pubblici poteri” che sostituisce una “cultura statale” a quella sociale. Egli esemplifica la sua tesi riferendosi non al consumo di tabacco, ma a quello di marijuana e fa presente che “In Europa la marijuana venne introdotta oltre 3 mila anni fa dagli Sciti; oggi i suoi consumatori sono 147 milioni in ogni angolo del mondo; in Italia la fumano 580 mila adolescenti, ma un adulto su tre ne ha fatto esperienza almeno una volta nella vita. Tutti criminali?” (2015, p. 8). Sicuramente non sono tutti criminali e non sono nemmeno affetti da “patologie psichiche”, ma, a mio parere sono persone interessate a provare stati d’animo che non corrispondono alla loro vita reale. Resto quindi decisamente contrario all’uso della marijuana, ma questo non mi impedisce di essere contrario al proibizionismo che ha effetti ben più gravi.
L’abitudine di fumare per alcune persone ha una valenza espressiva e per altre ha una valenza difensiva. Ci sono fumatori che fumano in modo “nervoso” o fumano “voracemente” manifestando stati d’animo difensivi. Nei casi più gravi le persone fumano sentendosi in colpa per la loro “incapacità” di smettere di fumare. Tali persone possono facilmente risultare “insopportabili” per il loro modo di vivere e quindi anche per il loro modo di fumare, ma non possono vivere in altri modi. Ci sono però anche fumatori per i quali il fumo è un modo di “coccolarsi” ed anche un modo di interagire sottolineando una complicità con gli altri sul piano del piacere. L’offerta di una sigaretta, in questi casi è paragonabile all’offerta di un dolce ad un bambino o di una mela ad un cavallo: è un rituale di avvicinamento non intellettuale ma “sensoriale”. Per la società dovrebbe essere irrilevante la valenza auto-repressiva o espressiva delle abitudini personali come il fumare, il bere, il consumo di droghe, le preferenze alimentari, musicali, letterarie. La società interviene paternalisticamente (e quindi violentemente) con le sue versioni sanitarie della cultura del controllo anche quando impone l’uso delle cinture di sicurezza o del casco: con tali norme nega alle persone il diritto di rischiare la vita pur di guidare senza sentirsi incatenate o pur di sentire il vento nei capelli usando la moto. Posto che ognuno vive a modo proprio più o meno costruttivamente o distruttivamente, l’organizzazione sociale serve a favorire la civile convivenza e non a regolare la convivenza sulla base di un modello ideologico o religioso o sanitario. Nel passaggio dal controllo dei crimini al controllo delle convinzioni e delle preferenze personali, l’esercizio dell’autorità diventa autoritarismo e il fatto che viviamo in una società formalmente democratica non cambia la situazione perché la democrazia serve a poco se la gente ha perso l’abitudine di pensare e di sentire.
Nei treni, le carrozze per fumatori sono scomparse e ciò è stato in fondo giustificato con l’idea che le persone non dovrebbero fumare e quindi i fumatori non dovrebbero esistere. Ora, è comprensibile che la società non riservi certi spazi ai pedofili o ai terroristi, ma è meno comprensibile che ignori (o svaluti) l’esistenza del venti per cento della popolazione. Se un bar esponesse un cartello per escludere marocchini o cinesi (o anche donne o omosessuali) verrebbe preso d’assalto da folle infiammate da ideali di tolleranza, ma il fatto che d’inverno le persone fumino al freddo fuori dai bar (persino i baristi!) è ritenuto un semplice “dato di fatto” e sollecita normalmente pensieri del tipo “beh! se quelli proprio vogliono fumare che se ne stiano là fuori!”. Solo in un mondo tanto irrazionale da apparire stupido capita che nei film più recenti solo “i cattivi” fumino. Prima o poi, come teme Giorello, i vecchi capolavori del cinema saranno vietati o “restaurati”: John Wayne offrirà una caramella al suo vice-sceriffo e qualche mente sanitaria suggerirà di intervenire anche sulla ristampa dei capolavori della letteratura mondiale.
Nell’irrazionalità sociale la negazione delle responsabilità personali si intreccia con la negazione delle casualità: per strani motivi molte decisioni non sembrano prese da nessuno e molti fatti casuali sembrano dovuti ad un colpevole. Le guerre “scoppiano” (come alcune bottiglie di vino in cantina) e il terrorismo è un semplice “dato di fatto”, come se tali fatti non fossero l’esito di un’intenzionalità umana politicamente definita. In pratica, i più gravi fenomeni che si verificano in seguito a scelte di cui persone, gruppi e ampi settori della popolazione sono responsabili, vengono concepiti come fenomeni casuali. La cultura del controllo favorisce invece una iper-responsabilizzazione che sollecita l’incremento delle risposte di controllo: se si mette il piede in una buca non si ammette la casualità del fatto (o la distrazione di chi cammina senza guardare), ma si avvia una battaglia legale nei confronti dell’amministrazione comunale che non ha coperto la buca e che dovrebbe controllare meglio ogni angolo della zona. In pratica, normalmente il dolore intenzionalmente causato dagli uomini ai loro simili è interpretato come fatalità storica, mentre il dolore inevitabile è trasformato in indignazione verso presunti colpevoli. Anche i medici devono continuamente proteggersi da eventuali “aggressioni” legali dei pazienti. Se fossero incriminabili solo i medici realmente negligenti e non quelli che non riescono a fare miracoli, normalmente i medici prescriverebbero ai loro pazienti gli esami strettamente necessari e non tutti quelli adatti a prevenire eventuali denunce di trascuratezza professionale. In pratica, si eliminerebbe quella che è stata definita “medicina difensiva”.
Ora, cosa accomuna il paternalismo proibizionistico statale, l’invenzione di diritti immaginari e la deresponsabilizzazione delle persone? Ciò che lega queste assurdità è il bisogno di non ammettere che nella vita capitano incidenti, sono inevitabili delle distrazioni (proprie o altrui), si presentano eventualità spiacevoli. Questo bisogno di “non capire” che il dolore fa parte della vita è solo un’estensione delle più comuni difese psicologiche individuali, anche se si traduce in rituali legali giustificati da tutte le autorità. La lotta per la giustizia diventa facilmente lotta per i risarcimenti: se davvero una persona muore per un’azione compiuta da qualcuno, si capisce che si avvii un procedimento penale e si giunga ad una sentenza, affinché la società non diventi complice di comportamenti criminali. Non si capisce però la “cultura dei risarcimenti” alimentata da giuristi, avvocati e Società di assicurazioni, perché in certi casi i risarcimenti sono giustificati solo da leggi difficili da capire. Cadere da una scala pulendo le finestre dipende dalla scarsa attenzione di chi cade, ma scivolare nel cortile ghiacciato di un ufficio dipende “ufficialmente” da chi non ha sparso abbastanza sale a terra. A volte, il riconoscimento dei diritti crea addirittura dei pericoli. Normalmente, quando guido, sono impegnato a salvare la vita a pedoni che attraversano sulle strisce pedonali senza nemmeno guardare, dato che si sentono “protetti dalla legge”. Alcuni pedoni “si tuffano” sulle strisce sbucando da un portico. Tutto il “mondo” delle assicurazioni è imperniato su diritti incomprensibili, ma tali da alimentare “litigi giustificati per legge”.
Anche sulla questione delle “droghe”, la cultura del controllo tende a rassicurare sul fatto che “si sta facendo qualcosa”, mentre tale “qualcosa” è una finzione. La questione è normalmente confusa con il problema (mal posto) delle “dipendenze”. La dipendenza, in sé non è un problema, ma un fatto: non solo gli eroinomani dipendono dall’eroina, ma anche i figli dipendono dai genitori e i malati dai medici. La dipendenza da certe sostanze è irrazionale solo perché presuppone un’ostinazione a provare sensazioni “artificiali”, cioè non risultanti da esperienze reali. I bambini dipendono dai genitori perché con la loro presenza stanno realmente bene e tutti dipendiamo dall’aria perché solo respirando restiamo vivi. La cosa terribile non è, quindi, la dipendenza, ma l’ostinazione a sperimentare buone sensazioni anche quando non si sta bene e non si fa nulla per migliorare l’esistenza personale. Proprio in questo senso, il “bere per dimenticare” e il farsi “una sniffata” per non sentire ciò che si sente, costituiscono scelte irrazionali. La ormai frequente assimilazione del “tabagismo” all’uso dei derivati dell’oppio è quindi basata su un equivoco: chi fuma cerca il piacere reale provocato dall’inalazione del fumo e può farlo per motivi espressivi o difensivi, ma non lo fa per alterare il proprio stato di consapevolezza. Io dipendo dal fumo, dalle persone che amo, dai libri che mi hanno aiutato a vivere e non voglio diventare “indipendente”. Le droghe prima di creare dipendenza sono cercate da persone che non gestiscono il dolore e non cercano di costruire una reale felicità. Il “problema delle droghe” è un problema personale e famigliare che può anche tradursi in dipendenze, ma in quanto problema personale e famigliare non viene nemmeno sfiorato dagli interventi basati sul controllo. Le misure di prevenzione, repressione e controllo non incidono sul vero problema, procurano lauti guadagni alla criminalità organizzata e causano la morte di tante persone: persone uccise “dalla droga”, poliziotti e magistrati uccisi da mafiosi, mafiosi uccisi da altri mafiosi. L’intervento “magico” della cultura del controllo si riduce fondamentalmente al proibizionismo, cioè ad una risposta burocratica e poliziesca alle tragedie personali.
La cultura del controllo è così radicata che persino gli studiosi più autorevoli e influenti che hanno condotto, in ambiti circoscritti, ma significativi, una contestazione dei suoi assunti, sono riusciti soltanto a immaginare (e realizzare) cambiamenti caratterizzati dalla stessa logica. L’esempio più istruttivo è offerto dalla piccola rivoluzione avviata in vari paesi e anche in Italia, sull’onda della contestazione “del sistema” esplosa negli anni ’60, per l’abolizione dei manicomi. L’idea di partenza, per quanto concepita tardivamente, era giusta: i malati mentali sono persone e non vengono né curate né trattate come persone se vengono rinchiuse, maltrattate e abbandonate. Intellettuali prestigiosi (Szasz, 1961; Cooper, 1967; Laing, 1967) hanno sia contestato le tradizionali pratiche psichiatriche, sia formulato concezioni “antipsichiatriche” non molto convincenti relative alla normalità e alla follia.
In Italia Franco Basaglia (1968) e i suoi colleghi di Psichiatria Democratica hanno avviato un processo di cambiamento che è risultato vincente, nel senso che ha portato allo smantellamento degli ospedali psichiatrici. Purtroppo, con questa svolta, non si è realizzata una gestione umana anziché disumana dei pazienti psichiatrici da parte del sistema sanitario, ma solo un passaggio dal controllo pubblico (autoritario e violento) della vita di tali pazienti all’imposizione (autoritaria e, in fondo, violenta) di gravi responsabilità alle loro famiglie. Infatti, tutte le falle dell’assistenza pubblica sono state colmate dai famigliari. Adulti e bambini, sicuramente felici che i parenti psicotici non fossero più maltrattati in circoscritti ambiti istituzionali, ben difficilmente sono stati felici di fare i turni per evitare che il nonno o la zia o il fratello scappassero di casa, non prendessero i farmaci o si tagliassero le vene. In questo modo, purtroppo, la contestazione razionale di una delle più gravi manifestazioni dell’autoritarismo e del controllo sociale, essendo stata settoriale e non radicalmente alternativa, non ha prodotto cambiamenti davvero profondi nel rapporto fra persone e società.
In un certo senso l’analisi della cultura del controllo è più difficile dell’analisi dell’autoritarismo. In entrambi i casi è tutt’altro che facile ricondurre fenomeni sociali tanto complessi alle difese psicologiche costruite nell’infanzia, ma almeno è certo che se si parla dei campi di concentramento o dei linciaggi dei neri o delle donne, le persone capiscono che si sta parlando di questioni gravi; quando si parla della cultura del controllo, invece, anche persone colte e sensibili faticano a rendersi conto della gravità dei problemi La normale tendenza delle persone a vivere “poco” ostacola la comprensione della gravità delle quotidiane manifestazioni dell’irrazionalità sociale. Le persone rinunciano all’intimità per non entrare il contatto con il dolore della loro esistenza e, quindi, gestiscono superficialmente anche le altre relazioni interpersonali e concepiscono in termini riduttivi il loro rapporto con la società. In una relazione di coppia, se non ci sono tradimenti o violenze fisiche, “tutto va bene”. Nell’amicizia, se ci si limita a chiacchierare e a condividere dei passatempi, “tutto va bene”. Nella convivenza sociale, se si devono compilare montagne di moduli, ma non si viene torturati e fucilati, “tutto va bene”. Purtroppo, normalmente le persone sopportano una convivenza sociale insopportabile proprio perché non arrivano a desiderare una convivenza sociale armoniosa e rispettosa dei bisogni di tutti. Le persone normalmente non riescono nemmeno ad immaginare una convivenza sociale diversa da quella “data” e tollerano senza troppa fatica l’irrazionalità sociale e le varie manifestazioni della cultura del controllo.
L’irrazionalità sociale sembra procedere al di là della vita reale delle persone, in un ambito “a parte”, ma, in realtà, costituisce una semplice estensione della normale irrazionalità individuale. Se ciò è vero, abbiamo bisogno di mettere in discussione molte convinzioni e atteggiamenti tanto comuni da sembrare indiscutibili. Infatti, le persone fanno politica e contribuiscono alla guerra, al terrorismo e alla trasformazione della convivenza sociale in un mosaico di rituali inutili e dannosi proprio progettando le loro esistenze individuali in modi “apolitici”. Fanno politica quando svalutano i figli, festeggiano i matrimoni, attuano piccole guerre legali nelle cause di divorzio, tollerano spot pubblicitari idioti mentre guardano la TV e incitano i figli ad “inserirsi” nella società anziché a capire la società in cui vivono. L’autoritarismo sociale, attuato con il pugno di ferro o con la regolamentazione dei dettagli della quotidianità, è possibile solo perché le persone “accettano tutto” pur di vivere “poco”.