Le
difese psicologiche vengono attivate dai bambini nella famiglia, vengono
consolidate nell’ambito scolastico e nei vari ambiti in cui la cultura è
trasmessa, spesso si traducono in concetti giuridici e leggi che regolano i
rapporti tra le persone e le classi sociali, vengono riordinate e filtrate nel
linguaggio. Attraversando tali snodi istituzionali le difese psicologiche
individuali diventano realtà impersonali. Se una persona uccide un’altra
persona definiamo il fatto un omicidio, ma quando gli omicidi sono programmati
da un gruppo di parlamentari e siglati dal Capo di uno Stato diventano “tragici
aspetti” di una guerra di cui nessuno è responsabile. I politici possono essere
riconosciuti responsabili delle convinzioni espresse, ma non dei morti raccolti
in una città rasa al suolo. Nelle guerre anche i soldati, “ufficialmente” non
uccidono nessuno, ma “fanno il loro dovere” e gli industriali e i commercianti
che riforniscono le truppe non fanno “traffico d’armi”, ma “svolgono la loro
attività economica”. Nel passaggio dal livello personale a quello sociale si
realizza una scomparsa della responsabilità personale e le difese psicologiche
diventano aspetti della “realtà” apparentemente “ovvie” e “indiscutibili”.
La
cancellazione della responsabilità personale nel passaggio dalla vita privata
alla realtà sociale è forse in certi casi inevitabile, e non mi sento di
valutare la questione nei suoi termini generali, ma voglio sottolineare che i
fatti terribili restano tali anche se etichettati in modi eleganti e il
disconoscimento delle responsabilità non corrisponde ad una reale assenza di
responsabilità personali. Anche se “ufficialmente” solo i disertori sono
responsabili della loro scelta e ne pagano le conseguenze, di fatto, i militari
compiono delle azioni che hanno personalmente deciso di compiere: “se sono
mobilitato in guerra, questa guerra è la mia,
essa è a mia immagine e la merito. La merito dapprima perché potevo sempre
sottrarmici col suicidio o la diserzione: queste possibilità estreme devono
sempre esserci presenti allorché si tratta di considerare una situazione”
(Sartre, 1943, p. 615). A mio parere, anche nella convivenza sociale nulla si
crea e nulla si distrugge e, soprattutto, non si distrugge la responsabilità
delle persone. Il livello d’analisi sociologico va quindi distinto da quello
psicologico, perché alcuni fenomeni si verificano per delle ragioni che a
livello psicologico non sono nemmeno percepite, ma ciò non deve far dimenticare
che i fenomeni sociali irrazionali costituiscono il riflesso delle scelte di
molti cittadini e permangono grazie all’obbedienza o all’indifferenza di
moltissimi cittadini. Una volta “calati in un ruolo pubblicamente riconosciuto”
(quello di genitori o di deputati o di insegnanti) i singoli non compiono mai
azioni incompatibili con il loro progetto esistenziale, con la loro idea di sé
e con la loro mentalità, perché in certi casi i funzionari statali rassegnano
le dimissioni e i politici lasciano il loro partito per non essere complici di scelte
che non condividono. In tali casi è lampante il fatto che gli eventi ritenuti
“impersonali” o “sovra-personali” sono, di fatto, un semplice mosaico
costituito da precise scelte personali.
Quando nel 2011 Muammar Gheddafi ordinò di sparare sulla folla, alcuni
ufficiali guidati dal generale al-Mahdi al-Arabi rifiutarono di eseguire gli
ordini, ma le cose andarono diversamente quando i moti di Milano del Maggio
1898 furono soffocati dalle truppe comandate dal generale Fiorenzo Bava
Beccaris: il generale ricevette un telegramma dal Governo (concepito, scritto e
spedito, quindi, da persone reali) e ottenne l’obbedienza dai suoi ufficiali e dai
soldati, che pure erano persone reali. Ottenne anche l’encomio del Re “in
persona”.
In
tutti gli ambiti in cui le scelte personali possono confermare o contrastare
ciò che la società si aspetta dalle persone, è attiva ed efficace sia una tradizione consolidata, sia una responsabilità personale. Il
nucleo profondo dell’irrazionalità sociale sta nel fatto che, in genere, le
persone non cercano di condividere il dolore inevitabile e non cercano di
creare la felicità che potrebbero condividere con gli altri. Normalmente le persone si sforzano di
pensare, sentire e fare ciò che pensano, sentono e fanno gli altri, oppure
cercano di “non pensare” per non sentire “troppo”. Film molto diversi fra
loro, come ad esempio Il buio oltre la
siepe di Robert Mulligan, Grido di
libertà di Richard Attenborough e La
lunga strada verso casa di Richard Pearce, La parola ai giurati di Sidney Lumet, The Majestic di Frank Darabont, Reds
di Warren Beatty, Pleasantville di
Gary Ross, Il grande paese di William
Wyler, L’invasione degli ultracorpi
di Don Siegel, Farenheit 451 di
Francois Truffaut, mostrano come sia difficile per i singoli rifiutare la
descrizione della realtà condivisa da tutti, ma mostrano anche la capacità e
l’esigenza delle persone di rispettare e manifestare ciò che sentono e ciò che
capiscono. In altre parole, non esiste
alcuna “sfera sociale” sganciata dalla reale esistenza delle persone. I
vari ambiti istituzionali in cui la società si manifesta e si riproduce, sono
certamente realtà sociali, ma sono in atto proprio perché delle persone reali fanno
qualcosa per delle ragioni che non dipendono dalla società, ma dal loro modo di
collocarsi nella società.
Dopo
queste osservazioni, voglio almeno accennare ai principali snodi attraverso i
quali l’irrazionalità individuale e l'irrazionalità sociale si sovrappongono e attraverso cui
le scelte di qualcuno diventano scelte “di tutti e di nessuno”. Farò quindi
alcuni cenni alla famiglia (in cui i
bambini strutturano le loro difese psicologiche), alla scuola (che trasmette la cultura della società), alle leggi (che a volte tutelano, ma spesso
calpestano le libertà dei cittadini) e al linguaggio
che spesso limita e incanala la capacità di pensare.
A
mio parere, gli aspetti strutturali della famiglia sono meno importanti del
modo di pensare, sentire e vivere degli adulti che formano una famiglia. Nella
società trobriandese studiata da
Bronislaw Malinowski (1927), l’alto “tasso di felicità” dei bambini e degli
adulti dipendeva più dall’accudimento offerto ai bambini che dalla struttura
famigliare (matrilineare): i bambini e le bambine ottenevano amore e sicurezza
finché erano psicologicamente dipendenti dai genitori e, crescendo, ottenevano
la piena libertà di esprimersi nel gioco e nella sessualità. Diventavano quindi
genitori affidabili perché nell’infanzia non si erano impegnati a dissociarsi
dal dolore.
Nelle
varie società solo alcuni aspetti strutturali della famiglia sono o sono stati in quanto tali repressivi (come ad
esempio l’indissolubilità del vincolo matrimoniale), ma gli aspetti
determinanti della famiglia sono quelli affettivi e, quindi, poco conta se la
famiglia è nucleare o estesa, matrilineare o patrilineare, collocata in una
società capitalista o comunista. Ovunque si verifica un fatto inquietante: più
gli adulti sono incapaci di accudire i figli o indisponibili ad accudirli, più
fanno figli. Inoltre, normalmente, l’accudimento dei bambini è associato
all’imposizione di valori e doveri. Il bisogno dei bambini di nascere in una
famiglia capace di accoglierli e di aiutarli a diventare se stessi è raramente
una priorità per i genitori, non lo è per la società e non lo è nemmeno per gli
psicoterapeuti che non denunciano la normale
sofferenza dei bambini, perché per fare ciò dovrebbero mettere in discussione
l’irrazionalità dell’intero tessuto culturale della società di cui vogliono
essere parte riconosciuta. La felicità dei bambini costituisce l’unico motore
di qualsiasi profondo cambiamento sociale. Un motore che non sarà mai avviato
perché potrebbe essere avviato solo dai genitori, ma i genitori sono
“ex-bambini” ben decisi a non essere felici e a non creare felicità. Resta il
fatto che, nonostante l’impossibilità di una rivoluzione di questo tipo, ogni
sorriso donato ad un bambino rende possibile tutta la felicità che, grazie a
quell’esperienza, quel bambino porterà con sé e donerà agli altri.
Paradossalmente,
l’indifferenza della società nei confronti dei bambini si accompagna ad
un’esasperata valorizzazione sociale della famiglia. Le leggi ad esempio
riconoscono almeno alcuni diritti ai bambini e impongono alcuni doveri ai
genitori, ma gli adulti non hanno alcun bisogno di un riconoscimento pubblico
(matrimonio) delle loro relazioni sessuali-affettive e i bambini non hanno alcun
bisogno di essere collocati in una famiglia “riconosciuta”. La società ha il
compito di regolamentare le relazioni fra
persone, non fra persone in quanto “appartenenti ad una famiglia” o ad un
circolo culturale o ad un’associazione ricreativa. La società, quindi,
svolgerebbe un compito razionale se rinunciasse a “riconoscere” qualsiasi tipo
di famiglia e tutelasse davvero tutti i cittadini e, soprattutto, garantisse ai
bambini il miglior accudimento possibile, da parte dei genitori biologici o di
persone comunque disponibili nei loro confronti. Per questi motivi credo che le
varie concezioni sociologiche che hanno attribuito alle varie strutture famigliari un ruolo
particolare nel mantenimento dell’autoritarismo sociale siano state poco utili
ad una comprensione dell’irrazionalità sociale. Tra tali concezioni ha avuto un
peso notevole quella femminista “anti-patriarcale” e “anti-maschilista” di cui
ho già parlato, ma anche quella della “Scuola di Francoforte” in cui le
speculazioni sul “potere” (inteso in senso generale e, in realtà, generico) non
hanno chiarito in modo convincente gli aspetti essenziali dell’irrazionalità
individuale e sociale. Max Horkheimer ha scritto: “Non è decisivo, a questo
proposito, se nell’educazione prevale la costrizione o la dolcezza; infatti, il
carattere infantile è formato molto più dalla struttura della famiglia che
dalle intenzioni coscienti e dai metodi del padre” (in Horkheimer e AA. VV.
1936, p. 58). Sottovalutando il peso delle intenzioni e dei "metodi" delle madri,
Horkheimer aggiunge che la famiglia si colloca nella società anche in un “rapporto antagonistico”, perché
in essa i sentimenti fra i coniugi e soprattutto le cure materne contraddicono
la logica della società fondata sulla proprietà e sul potere: “la famiglia,
sotto questo aspetto, non porta all’autorità borghese, ma al presentimento di
un assetto umano migliore” (in op. cit., pp. 60-61). L’autore, in pratica,
sottovaluta sia il ruolo protettivo o repressivo di entrambi genitori, sia il
fatto che i sentimenti fra i coniugi possono manifestarsi in modi espressivi o
difensivi e quindi sviluppa tutta la sua concezione della famiglia in termini
speculativi, trascurando proprio l’essenziale.
La
cosiddetta “famiglia nucleare” è una delle tante strutture famigliari e oggi è
già in piena decadenza, perché molti bambini vivono con genitori separati che
hanno ricostituito altri nuclei famigliari. In ogni caso, credo che le
speculazioni sui “ruoli” e sulle “strutture” servano a poco perché se i
bambini vengono accuditi con amore possono crescere esprimendosi anziché
dissociandosi e possono, quindi, crescere rispettando ciò che sentono e
rispettando le altre persone. Una società basata sul “valore” della famiglia è
semplicemente basata sulla negazione irrazionale di un fatto evidente: solo i
rapporti interpersonali hanno un “peso” reale nello sviluppo psicologico dei
bambini. Finché gli adulti vorranno “avere” dei figli e affermeranno tale
“diritto” saranno portati a “plasmare” i figli tenendo conto più dei propri “bisogni” difensivi che dei reali
bisogni dei figli. La famiglia è così assente da affascinare, con la sua
apparente presenza, le persone religiose, le femministe (che vogliono
conservarla con più “parità”), le persone omosessuali (che pretendono il
riconoscimento dei “diritti” a cui le persone eterosessuali farebbero bene a
rinunciare), i reazionari e i progressisti.
L’istituzione
famigliare completa la sua opera di “formazione” (o “de-formazione”) dei
bambini integrandosi con l’istituzione scolastica. Sia la famiglia, sia le
strutture educative favoriscono o contrastano l’espressione compiuta delle
potenzialità espressive dei bambini grazie alle tutele che offrono e alle
regole che impongono. La scuola materna non mira principalmente a favorire la
libera espressione dei bambini in un contesto di sicurezza psicologica, sia
perché accoglie anche bambini molto piccoli che hanno ancora bisogno della
madre, sia perché offre (come la famiglia, purtroppo) gratificazioni e
frustrazioni non commisurate alle esigenze e alle capacità dei bambini. Nella
scuola elementare ciò risulta più evidente perché i bambini vengono apertamente
sollecitati ad essere “buoni”, ad adattarsi a molte regole e ad apprendere
alcune nozioni in un clima di competizione. Nelle scuole superiori la
competizione diventa esasperata e l’apprendimento viene subordinato
all’acquisizione di abilità professionali. In pratica, la scuola non aiuta i
bambini ad esprimere le loro potenzialità, a sviluppare la curiosità e ad
esercitare la riflessione critica, ma favorisce l’obbedienza, il passivo
assorbimento di idee e nozioni, la competizione e l’inserimento nella società
“data”. Lo studio delle “materie classiche” serve quindi a poco se anche la
cultura umanistica è ridotta ad un insieme di concezioni astratte da
apprendere.
Sia
le consuetudini di un villaggio, sia le leggi di uno Stato moderno rendono davvero
“reali” la famiglia e la scuola o piuttosto le illusioni condensate nella
famiglia e nella scuola. Ciò chiarisce l’importanza delle norme socialmente fissate e imposte in tutti gli ambiti della
società. “Il diritto non è necessariamente collegato ad una entità socialmente
e politicamente autorevole, non ha per referente necessario quel formidabile
apparato di potere che è lo Stato moderno, anche se la realtà storica che ci ha
fino ad oggi circondato ostenta il monopolio del diritto operato dagli Stati” (Grossi,
2003, p.15). Il diritto sorge appena una comunità, anche piccola, si dà un ordinamento e tale ordinamento viene osservato.
I
due aspetti più irrazionali del modo in cui la società sottopone a regole la
convivenza fra i cittadini riguardano l’estensione
della regolamentazione e la concezione
delle pene previste per chi trasgredisce le regole. Ho già accennato
all’irrazionalità della proliferazione delle norme e della conseguente
impossibilità di impedire le trasgressioni, ma è il caso di ricordare che anche
le sanzioni o le pene inflitte a chi non rispetta le leggi vengono spesso
concepite non come opportuni espedienti volti a scoraggiare certi comportamenti
o come necessarie misure volte ad isolare chi potrebbe continuare ad agire
distruttivamente, ma come modi per esercitare una sorta di vendetta
“socialmente giustificata”. L’indignazione di chi vuole mettere “in galera” i
corrotti o di chi vuole punire chi ha commesso crimini (o semplici errori) riflette
il rifiuto di accettare che certi fatti, purtroppo, si verificano e avvengono
per delle ragioni più complesse di ciò che viene ricapitolato nel concetto di
“egoismo” o in quello di “malvagità”. Non sto suggerendo letture “buoniste” dei
comportamenti umani, perché la comprensione delle ragioni per cui le persone
agiscono non esclude che la società reagisca con fermezza alle violenze
individuali, ma sto precisando che, come il chirurgo non interviene “contro il
tumore che non dovrebbe esserci”, ma “per la salute del paziente”, anche la
società funzionerebbe meglio se rinunciasse al manicheismo etico che spesso
diventa una concezione distorta della giustizia. Da un lato l’esasperazione
della mentalità normativa trasforma la vita quotidiana in un’interminabile
sequenza di rituali di controllo e, dall’altro lato, la cultura punitiva crea
l’illusione di un’armonia sociale ottenibile con la repressione. Le cose però
stanno come stanno e continuano a stare come stanno anche se le persone non
accettano la realtà.
C’è
un nesso fra l’insofferenza nei confronti della spontaneità, l’ossessione del
controllo e la rabbia nei confronti di chi trasgredisce le leggi o le
consuetudini. La svalutazione, la rabbia e la voglia di vendetta non sono
indirizzate solo nei confronti delle persone che realmente fanno del male, ma anche
nei confronti delle persone che violano delle leggi stupide o che non violano
delle leggi, ma delle semplici consuetudini. In Italia, la prostituzione non è
(almeno per ora) un reato, ma moralisti e femministe pretendono che non sia
“visibile” o che venga “arginata”. Le idee cambiano, ma resta intatto il
rifiuto della logica: le persone omosessuali sono diventate “rispettabili fino
a prova contraria” (fino a quando non commettono reati), mentre le prostitute
restano “solo puttane”. Poiché il controllo ha spesso una connotazione morale e
non una semplice funzione pratica, la legalità è normalmente intesa come lo
strumento per “colpire” sia chi agisce distruttivamente, sia chi non danneggi
nessuno, ma “crea disturbo” alle persone normalmente ansiose e rabbiose.
Inoltre, i colpevoli devono essere puniti, secondo la mentalità corrente, sia
che le punizioni migliorino le cose, sia che le peggiorino. Solo per questo
motivo il carcere continua ad essere concepito come necessario, anche se genera
un aumento e non una diminuzione della criminalità. A mio parere è scontato che
chi ha commesso dei gravi reati venga isolato, ma è tutt’altro che scontato che
si infliggano punizioni carcerarie che “cronicizzano” la criminalità anche se
solo delle altre misure riducono le
tendenze a commettere reati (cfr. L.
Manconi e AA. VV., 2015). Per motivi davvero difficili da comprendere, il
carcere non sembra adatto a chi compie truffe o non paga i debiti, anche se
basterebbe un giorno di carcere per indurre tali criminali a “trovare” le
risorse adatte a risarcire le vittime dei loro imbrogli. In tali casi, si
avviano cause interminabili e con esiti incerti. D’altra parte i responsabili
di reati che rientrano nella microcriminalità, vengono messi in carcere dove
hanno molte possibilità di diventare recidivi. Inoltre, per motivi difficili da
comprendere, le carceri non sono concepite come ambiti di isolamento dalla
società volti ad impedire nuovi crimini, ma come luoghi in cui la permanenza è inutilmente
penosa e anche pericolosa. Chiunque può capire che se le pene detentive
venissero scontate in ambienti realmente vivibili sarebbero egualmente temute e
che, se venissero scontate quando sono davvero necessarie, costituirebbero una
reale protezione per la società.
La
comprensione dell’intenzionalità difensiva rende discutibili molti aspetti del
diritto, compresa la distinzione abituale fra crimini commessi da persone
capaci o incapaci “di intendere e di volere”. Il lavoro analitico mostra che le
persone distruttive, anche quando sono consapevoli di fare del male ad altri, non sono consapevoli delle ragioni per
cui organizzano la loro vita in un certo modo: fare del male non è mai
realmente soddisfacente, anche quando frutta denaro o potere e quindi chi fa
del male non ha alcuna consapevolezza delle ragioni per cui cerca (inutilmente)
denaro e potere. L’avidità, come la voglia di prevalere sugli altri e di
attuare violenze sono sintomi, non “debolezze” della “coscienza morale”. Il
diritto non coincide con l’etica, ma è tuttora troppo legato (soprattutto nelle
concezioni “popolari” della giustizia) all’etica. Con ciò non sto ovviamente
negando la necessità di interventi repressivi nei confronti di chi fa del male
agli altri, ma sto affermando che se gli psicologi e gli psicoterapeuti non si
limitassero ad operare nella realtà “data” e mettessero in discussione le
difese psicologiche divenute cultura condivisa, la giustizia potrebbe essere
esercitata con maggiore efficacia e meno persone sceglierebbero di intraprendere
attività criminali.
I
giuristi più lucidi hanno sempre orientato le loro concezioni in termini
pragmatici più che etici. A tale proposito, meritano di essere ricordate le
idee espresse da Cesare Beccaria, sicuramente molto “avanzate” per i suoi
tempi. Pur ragionando nel quadro di una giustizia retributiva, Beccaria ha
sottolineato il ruolo rieducativo delle pene, ha affermato che lo scopo delle
stesse è quello di scoraggiare i crimini e ha sottolineato che a questo
proposito non è la severità, ma la certezza della pena, ad avere una funzione
deterrente. Inoltre ha scritto: “Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi
permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona, e diventi cosa” (1764, p. 70). Dopo più di
un secolo, però, moltissime persone ritengono che alcuni carcerati “se la
passino troppo bene” e davvero poche persone sono turbate dal fatto che, nella
maggior parte dei casi, l’esperienza del carcere è semplicemente disumana. Una
volta che un mafioso o un serial killer è stato isolato e reso incapace di
nuocere, la società non ha alcuna esigenza razionale di negare a tali persone
la possibilità di vivere “da persone”, lavorando per rimborsare i costi della
detenzione, leggendo e sperimentando qualche svago. Nei casi in cui, invece, la
criminalità riflette soprattutto il radicamento in situazioni ambientali
umanamente povere, la società non ha bisogno di isolare i criminali, ma di
offrire a loro la possibilità di “conoscere” quella parte della società che non
li ha mai accolti.
Comprendo
la complessità di tali situazioni e non pretendo di essere un esperto, ma
sicuramente il comune concetto punitivo della giustizia rientra fra le difese
psicologiche ideologizzate e non dovrebbe ispirare chi amministra la giustizia
in una società moderna. Federico Stella sottolinea che sul piano del diritto
civile è possibile applicare una giustizia riparativa, ma quando si entra
nell’ambito del diritto penale la giustizia non può “riparare” alcun danno: chi
ha perso una persona cara non può “recuperare” nulla se l’assassino riceve l’ergastolo.
Chi ha subito delle violenze non ha più la vita che aveva prima e tale fatto
resta immodificabile, sia che i colpevoli vengano maltrattati, sia che vengano
trattati con umanità: “a nulla serve l’inferno per i carnefici, quando il martirio è già avvenuto”
(2006, pp. 222). Stella si aggancia alle riflessioni di Klaus Luderssen (2005) che,
ovviamente, non propugna l’idea di un’impunità per legge, ma esamina vari modi
in cui lo Stato può intervenire senza l’intento di “punire”. A tale proposito,
risultano particolarmente illuminanti le ricerche e le analisi svolte da Luigi
Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta (2015) sulle
pene detentive.
Le
reali comunità umane sono complesse e ciò vale per un nucleo famigliare, per
un villaggio e per uno Stato moderno. Tutte le realtà istituzionali riflettono
in qualche misura sia la razionalità, sia l’irrazionalità delle persone. Tale
ambiguità si presenta anche nel linguaggio, che è una sorta di “istituzione
informale”: non ha alcuna “consistenza materiale”, ma “aleggia” fra le persone
e nei dialoghi interni delle persone. Il linguaggio condiviso da una comunità
trascende, pur includendoli, i comportamenti linguistici individuali. Cambia
nel tempo, ma è una realtà oggettiva
dalla quale non si può prescindere. Ad esempio, chi non crede all’esistenza
di una divinità non dispone di un termine adatto a definire la propria convinzione,
ma deve definirsi ateo o non credente e quindi deve contrapporsi ad un teismo comunque presupposto. Il linguaggio ci consente
di “essere qualcosa” (cioè di essere scapoli o single) se non siamo sposati, ma
non ci consente di “essere qualcosa” se non siamo credenti. Il linguaggio, non
include nemmeno alcun termine adatto ad indicare “l’aver cura di sé” (cioè l’egoismo
amorevole) e nemmeno alcun termine riguardante il fare azioni benefiche per
moralismo o per esibizionismo, ma senza benevolenza (cioè l’altruismo non
amorevole); così ostacola qualsiasi esame razionale delle ragioni per cui le
persone fanno ciò che fanno. Il linguaggio veicola, quindi, un certo ordine
mentale perché, anche includendo o non includendo
delle parole, incanala il pensiero in particolari direzioni.
Sul
rapporto fra pensiero e linguaggio, da sempre, filosofi, linguisti e sociologi
hanno detto molte cose, ma merita una nota particolare la concezione espressa
nella prima metà del secolo scorso da Benjamin Lee Whorf, secondo cui il linguaggio utilizzato forma in qualche
modo il mondo che le persone vedono. In altre parole, il linguaggio non è
solo un mezzo con cui comunichiamo ciò che abbiamo già pensato, ma delimita e condiziona la nostra capacità di
pensare. Anche se è ragionevole concepire una reciproca influenza fra il pensiero e il linguaggio, credo vada
sottolineato il fatto che molti comuni modi di descrivere la realtà funzionano
come delle catene che rendono molto difficile alle persone l’esercizio della
riflessione critica. In pratica, le persone, oltre ad avere delle ragioni
personali per pensare in modi irrazionali, quando cercano sinceramente di
comprendere la loro vita e quella degli altri, sono vincolate da parole ed
espressioni linguistiche che ostacolano l’esame dei fenomeni più semplici.
Nel
lavoro analitico riscontro sempre tali difficoltà e cerco, quindi, di far
notare ai clienti che, al di là dei problemi di cui sono consapevoli,
concettualizzando in modi scorretti ciò che pensano, perdono la capacità di farsi
domande e di darsi risposte sulle ragioni per cui fanno ciò che fanno. Ad
esempio, i danni prodotti dall’idea che le persone siano “razionali oppure
emotive” sono davvero notevoli: questa falsa dicotomia nasconde il fatto che le
persone pensano sempre quando sentono qualcosa e che le persone possono pensare
e sentire razionalmente oppure in
modi difensivi. Chi dà per scontata la contrapposizione
fra razionalità ed emotività può affermare, ad esempio (in buona fede) di
aver capito molte cose, ma di non riuscire a sentire abbastanza, e quindi si
aspetta qualche intervento “terapeutico” adatto ad intensificare la scarsa
“capacità” emozionale. Io faccio notare a tali persone che quando “non riescono
a sentire” ciò che consapevolmente vorrebbero sentire, sono impegnate a fare pensieri irrazionali
proprio per sentire poco e, soprattutto per non entrare in contatto con il loro
dolore. Ad esempio quando credono di “non riuscire a perdonare” il/la partner
continuano a dare per scontato che tale persona abbia delle colpe e si stanno
precludendo la possibilità di comprendere le ragioni per cui tale persona ha agito
in certi modi. Mentre si ostinano a pensare in termini svalutativi, si
propongono di “perdonare” e così riescono
a non capire e a non sentire. Appena capiscono la loro situazione
interpersonale, diventano consapevoli del fatto che non c’è nulla da perdonare
e si trovano a sperimentare la (dolorosa) “mancanza di qualcosa”. In pratica,
non acquisiscono “capacità emotive” grazie ad una “terapia”, ma capiscono la
realtà e provano il dolore che evitavano di sentire proprio comprimendo i loro
pensieri in un linguaggio moralistico. La parola “perdono”, in pratica, è
ipnotica perché implica una colpa:
non si perdonano le capacità e nemmeno gli errori, ma solo le azioni non
spiegate e svalutate. Tale parola crea una sorta di offuscamento mentale che
ostacola i sentimenti corrispondenti alla realtà.
Anche molti irrigidimenti del linguaggio
indipendenti dall’etica ostacolano la capacità di pensare. Il semplice
“nominare qualcosa” implica (almeno sul piano psicologico) l’esistenza di
qualcosa, anche se esiste solo una teoria (spesso infondata) relativa
all’esistenza di qualcosa. Quando si parla dell’efficacia della psicoterapia si
implica che la psicoterapia esista, anche se esistono solo delle persone che
affermano di curare delle patologie la cui “esistenza” non è affatto scontata.
Ciò crea discorsi strani: molti parlano della psicoterapia come di una realtà
dimostrata dal fatto che tanti ne parlano, mentre altri dichiarano di “non
credere” alla psicoterapia, come se la psicoterapia fosse una fede. Non
esistono nemmeno fatti come l’omofobia, il femminicidio o l’omicidio stradale,
ma proprio il fatto (linguistico) di nominare una cosa ostacola l’esame della
eventualità che “si parli di niente” o si parli in modi scorretti di ben altri fatti. Purtroppo l’uso improprio e
ripetuto del linguaggio, associato all’assenza di critiche autorevoli facilita
la convinzione che certi fatti esistano. Tra l’altro, alcuni fatti inesistenti
sono anche concettualmente incoerenti, dato che, ad esempio, gli “omofobi” sono
concepiti come persone “affette” da una
patologia, ma anche colpevoli di tale patologia. Se la polizia arrestasse
chi è colpevole di essere affetto dalla polmonite, i giornalisti esprimerebbero
tutta la loro indignazione, ma se migliaia di persone protestano in piazza contro
i malati di “omofobia” ben pochi si stupiscono di tale avvenimento.
Come
sono presenti termini che indicano fatti inesistenti, purtroppo, mancano dei termini adatti a designare
fatti esistenti. In queste pagine ho dovuto coniare il neologismo “contro-pregiudizio”
per riferirmi a vecchi pregiudizi meccanicamente capovolti da persone
“progressiste”, ma ostinate a non mettere a fuoco le ragioni profonde dei
pregiudizi. Ho dovuto usare tale neologismo perché “ufficialmente” esistono
solo certi atteggiamenti e certi gruppi. Ho però evitato di utilizzare
neologismi svalutativi e ho parlato, quindi, di intolleranza nei confronti dei
fumatori e non di “fumo-fobia” perché l’intolleranza è una mentalità e non una
patologia: chi tossisce appena vede una sigaretta accesa ha un pessimo rapporto
con il piacere, la spontaneità, il gioco, le norme e solo in certi casi anche con i fumatori. Quindi la
pseudo-diagnosi di “fumo-fobia” sarebbe stata, da parte mia, un insulto
gratuito e non avrebbe contribuito alla comprensione della realtà.
Nelle sedute
ricostruisco minuziosamente con i clienti il loro dialogo interno, che in
genere è così veloce e pieno di implicazioni da non sembrare una costruzione
intenzionale volta a distrarre dal dolore dell’esistenza. Una persona
viene poco “considerata” in un incontro fra amici o in ufficio e mi racconta in
seduta di essersi sentita “agitata”. Solo in seguito a domande precise, scomode
ed insistenti ammette di essersi in realtà arrabbiata per una disattenzione
percepita come un maltrattamento e ammette di provare un costante ed intenso
bisogno di “considerazione”. A fatica riconosce di sentirsi “inadeguata” e di
cercare con la considerazione degli altri un sollievo. Ancor più a fatica
riconosce che le persone non possono essere “adeguate” o “inadeguate” in generale, ma possono esserlo solo rispetto
a specifici compiti. Solo a quel punto la persona riesce a collegare quella
strana idea all’esperienza di costante rifiuto fatta con i genitori. I bambini
preferiscono considerarsi “poco importanti” (o “inadeguati”) pur di non sentirsi
poco importanti per i genitori.
Condividendo la svalutazione di sé si sentono “capiti” dai genitori. Dopo
decenni continuano a cercare un’approvazione che fraintendono come amore e
“sicurezza”, perché non hanno mai accettato che l’approvazione riguarda ciò che
si fa e l’amore riguarda ciò che si è (se si è visti davvero). Non hanno mai
accettato che l’approvazione si può controllare e “meritare”, mentre l’amore
degli altri non dipende dalle nostre “qualità”.
Il
linguaggio è utilizzato in modi razionali o irrazionali non solo nella
comunicazione quotidiana, ma anche nell’ambito della cultura. Un concetto
importante come quello di “autoregolazione infantile”, chiarito da Wilhelm
Reich e da Alexander Neill, dopo quasi un secolo, continua a “non circolare”,
mentre concetti scorretti come “autostima” e “stress” dilagano negli scritti e
nelle conversazioni degli psicoterapeuti. Inoltre, molti concetti importanti
come “amore” “dolore psicologico”, libertà sessuale, disturbi psicologici sono
usati in modi talmente confusi da ostacolare la comunicazione dei fatti più
significativi. Tali confusioni non dipendono da un difetto di intelligenza o di
cultura, ma dall’intenzionalità difensiva: se la specie umana include delle
menti capaci di distinguere un neutrone da un neutrino non usa sicuramente il
termine amore “a casaccio” per mancanza di intelligenza o di conoscenze. Non
solo il linguaggio viene “addomesticato” proprio per far sembrare meno violente
le forme più distruttive di autoritarismo economico o sociale (come quando si
parla di “mercato” e di “ordine pubblico”), ma viene addomesticato in tutti i
casi in cui le parole potrebbero far pensare a situazioni dolorose personali o
al dolore della condizione umana.
La
psicoterapia ha contribuito in modo decisivo al mantenimento ed al
perfezionamento di molte “perversioni linguistiche” patologizzando le scelte di
vita e giustificando la diffusa esigenza delle persone di non prendersi la
responsabilità di ciò che pensano e sentono. Per la psicoterapia “sorgono” dei
pensieri intrusivi e le persone sono “colpite” dal panico o sono “incapaci” di
controllarsi nei casi in cui proprio con i sintomi controllano il dolore che
non vogliono riconoscere. La patologizzazione della “vita psichica” viene
teorizzata e le persone sono ben contente di recepire le “nuove scoperte” degli
specialisti: ora possono dire “scusami se ti ho trattato/a così, ma avevo
accumulato dello stress in ufficio”.
La semplice e comprensibile realtà dei desideri e delle risposte soddisfacenti
o dolorose ai desideri è, quindi, sostituita da una realtà immaginaria fatta di
patologie, incapacità ed emozioni che “colpiscono le persone”. Gli “altri” sono
sempre stati etichettati come cattivi o pazzi e poco cambia se oggi il concetto
di pazzia è “scomposto” nelle categorie diagnostiche che riempiono le centinaia
di pagine del DSM. Ciò che permane, intatto nel tempo, è il fatto (normalmente
trascurato) che il dolore attraversa l’esistenza umana e che l’unica felicità
degli adulti consiste non già nell’essere resi felici dagli altri (dai
“grandi”, dai “gruppi” o da dio), ma nel condividere con se stessi e con chi è
disponibile le tante gioie e le tante sofferenze della vita.
La
determinazione a non pensare genera distorsioni inconsapevoli (ma intenzionali)
del linguaggio, ma anche distorsioni
consapevoli. Chi contribuisce attivamente a rendere il linguaggio un’offesa
all’intelligenza umana, ovviamente sa cosa si propone di ottenere, ma non sa
per quale motivo si proponga cose tanto assurde; purtroppo, produce dei
risultati semplicemente tragici e a volte anche tragicomici. In tali casi i
ciechi diventano “ipovedenti” perché tale “rivoluzione” sembra una manifestazione di compassione e perché il dolore di una
grave limitazione “fa un’impressione diversa” appena tale limitazione viene
definita in modi “eleganti”. Le comuni stranezze linguistiche non sono il
risultato, come nel mondo orwelliano, di un complotto pianificato a tavolino da
funzionari stipendiati da un’autorità dispotica, ma “emergono” dai pensieri e
dagli atteggiamenti di molte persone dedite a vivere “poco”. La paura
di sentire diventa paura di capire. Per questo tanto spesso utilizziamo il
linguaggio proprio per non pensare e per non rischiare di capire e di sentire.
“E molto prima di aprire gli
occhi aveva imparato, toccandola, annusandola e assaporandone il latte, a
conoscere sua madre, fonte di calore, di cibo e di tenerezza. La lupa infatti
possedeva una lingua dolce e carezzevole che lo calmava quando percorreva il
suo corpicino morbido e lo costringeva a rannicchiarsi vicino a lei e ad
assopirsi fino ad addormentarsi”. Queste parole di Jack London (1906, p. 57)
ricapitolano in modo toccante quel tipo di esperienza basilare necessaria ad
ogni cucciolo. La vita dei cuccioli, compresi i cuccioli umani, inizia così,
con un punto fermo rispetto al quale ogni passo nella vita è “ulteriore”. Negli
esseri umani, purtroppo, quel punto di partenza raramente è una “base sicura” e
spesso si riduce ad una sicurezza traballante o ad un incubo. Un incubo
individuale che presto viene coperto da difese psicologiche ben strutturate che
si dilatano, si collegano ad altre e diventano un normalissimo incubo sociale.