sabato 21 luglio 2018

39. Educazione, norme e linguaggio







Le difese psicologiche vengono attivate dai bambini nella famiglia, vengono consolidate nell’ambito scolastico e nei vari ambiti in cui la cultura è trasmessa, spesso si traducono in concetti giuridici e leggi che regolano i rapporti tra le persone e le classi sociali, vengono riordinate e filtrate nel linguaggio. Attraversando tali snodi istituzionali le difese psicologiche individuali diventano realtà impersonali. Se una persona uccide un’altra persona definiamo il fatto un omicidio, ma quando gli omicidi sono programmati da un gruppo di parlamentari e siglati dal Capo di uno Stato diventano “tragici aspetti” di una guerra di cui nessuno è responsabile. I politici possono essere riconosciuti responsabili delle convinzioni espresse, ma non dei morti raccolti in una città rasa al suolo. Nelle guerre anche i soldati, “ufficialmente” non uccidono nessuno, ma “fanno il loro dovere” e gli industriali e i commercianti che riforniscono le truppe non fanno “traffico d’armi”, ma “svolgono la loro attività economica”. Nel passaggio dal livello personale a quello sociale si realizza una scomparsa della responsabilità personale e le difese psicologiche diventano aspetti della “realtà” apparentemente “ovvie” e “indiscutibili”.
La cancellazione della responsabilità personale nel passaggio dalla vita privata alla realtà sociale è forse in certi casi inevitabile, e non mi sento di valutare la questione nei suoi termini generali, ma voglio sottolineare che i fatti terribili restano tali anche se etichettati in modi eleganti e il disconoscimento delle responsabilità non corrisponde ad una reale assenza di responsabilità personali. Anche se “ufficialmente” solo i disertori sono responsabili della loro scelta e ne pagano le conseguenze, di fatto, i militari compiono delle azioni che hanno personalmente deciso di compiere: “se sono mobilitato in guerra, questa guerra è la mia, essa è a mia immagine e la merito. La merito dapprima perché potevo sempre sottrarmici col suicidio o la diserzione: queste possibilità estreme devono sempre esserci presenti allorché si tratta di considerare una situazione” (Sartre, 1943, p. 615). A mio parere, anche nella convivenza sociale nulla si crea e nulla si distrugge e, soprattutto, non si distrugge la responsabilità delle persone. Il livello d’analisi sociologico va quindi distinto da quello psicologico, perché alcuni fenomeni si verificano per delle ragioni che a livello psicologico non sono nemmeno percepite, ma ciò non deve far dimenticare che i fenomeni sociali irrazionali costituiscono il riflesso delle scelte di molti cittadini e permangono grazie all’obbedienza o all’indifferenza di moltissimi cittadini. Una volta “calati in un ruolo pubblicamente riconosciuto” (quello di genitori o di deputati o di insegnanti) i singoli non compiono mai azioni incompatibili con il loro progetto esistenziale, con la loro idea di sé e con la loro mentalità, perché in certi casi i funzionari statali rassegnano le dimissioni e i politici lasciano il loro partito per non essere complici di scelte che non condividono. In tali casi è lampante il fatto che gli eventi ritenuti “impersonali” o “sovra-personali” sono, di fatto, un semplice mosaico costituito da precise scelte personali. Quando nel 2011 Muammar Gheddafi ordinò di sparare sulla folla, alcuni ufficiali guidati dal generale al-Mahdi al-Arabi rifiutarono di eseguire gli ordini, ma le cose andarono diversamente quando i moti di Milano del Maggio 1898 furono soffocati dalle truppe comandate dal generale Fiorenzo Bava Beccaris: il generale ricevette un telegramma dal Governo (concepito, scritto e spedito, quindi, da persone reali) e ottenne l’obbedienza dai suoi ufficiali e dai soldati, che pure erano persone reali. Ottenne anche l’encomio del Re “in persona”.
In tutti gli ambiti in cui le scelte personali possono confermare o contrastare ciò che la società si aspetta dalle persone, è attiva ed efficace sia una tradizione consolidata, sia una responsabilità personale. Il nucleo profondo dell’irrazionalità sociale sta nel fatto che, in genere, le persone non cercano di condividere il dolore inevitabile e non cercano di creare la felicità che potrebbero condividere con gli altri. Normalmente le persone si sforzano di pensare, sentire e fare ciò che pensano, sentono e fanno gli altri, oppure cercano di “non pensare” per non sentire “troppo”. Film molto diversi fra loro, come ad esempio Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan, Grido di libertà di Richard Attenborough e La lunga strada verso casa di Richard Pearce, La parola ai giurati di Sidney Lumet, The Majestic di Frank Darabont, Reds di Warren Beatty, Pleasantville di Gary Ross, Il grande paese di William Wyler, L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, Farenheit 451 di Francois Truffaut, mostrano come sia difficile per i singoli rifiutare la descrizione della realtà condivisa da tutti, ma mostrano anche la capacità e l’esigenza delle persone di rispettare e manifestare ciò che sentono e ciò che capiscono. In altre parole, non esiste alcuna “sfera sociale” sganciata dalla reale esistenza delle persone. I vari ambiti istituzionali in cui la società si manifesta e si riproduce, sono certamente realtà sociali, ma sono in atto proprio perché delle persone reali fanno qualcosa per delle ragioni che non dipendono dalla società, ma dal loro modo di collocarsi nella società.
Dopo queste osservazioni, voglio almeno accennare ai principali snodi attraverso i quali l’irrazionalità individuale e l'irrazionalità sociale si sovrappongono e attraverso cui le scelte di qualcuno diventano scelte “di tutti e di nessuno”. Farò quindi alcuni cenni alla famiglia (in cui i bambini strutturano le loro difese psicologiche), alla scuola (che trasmette la cultura della società), alle leggi (che a volte tutelano, ma spesso calpestano le libertà dei cittadini) e al linguaggio che spesso limita e incanala la capacità di pensare.
A mio parere, gli aspetti strutturali della famiglia sono meno importanti del modo di pensare, sentire e vivere degli adulti che formano una famiglia. Nella società  trobriandese studiata da Bronislaw Malinowski (1927), l’alto “tasso di felicità” dei bambini e degli adulti dipendeva più dall’accudimento offerto ai bambini che dalla struttura famigliare (matrilineare): i bambini e le bambine ottenevano amore e sicurezza finché erano psicologicamente dipendenti dai genitori e, crescendo, ottenevano la piena libertà di esprimersi nel gioco e nella sessualità. Diventavano quindi genitori affidabili perché nell’infanzia non si erano impegnati a dissociarsi dal dolore.
Nelle varie società solo alcuni aspetti strutturali della famiglia sono o sono stati in quanto tali repressivi (come ad esempio l’indissolubilità del vincolo matrimoniale), ma gli aspetti determinanti della famiglia sono quelli affettivi e, quindi, poco conta se la famiglia è nucleare o estesa, matrilineare o patrilineare, collocata in una società capitalista o comunista. Ovunque si verifica un fatto inquietante: più gli adulti sono incapaci di accudire i figli o indisponibili ad accudirli, più fanno figli. Inoltre, normalmente, l’accudimento dei bambini è associato all’imposizione di valori e doveri. Il bisogno dei bambini di nascere in una famiglia capace di accoglierli e di aiutarli a diventare se stessi è raramente una priorità per i genitori, non lo è per la società e non lo è nemmeno per gli psicoterapeuti che non denunciano la normale sofferenza dei bambini, perché per fare ciò dovrebbero mettere in discussione l’irrazionalità dell’intero tessuto culturale della società di cui vogliono essere parte riconosciuta. La felicità dei bambini costituisce l’unico motore di qualsiasi profondo cambiamento sociale. Un motore che non sarà mai avviato perché potrebbe essere avviato solo dai genitori, ma i genitori sono “ex-bambini” ben decisi a non essere felici e a non creare felicità. Resta il fatto che, nonostante l’impossibilità di una rivoluzione di questo tipo, ogni sorriso donato ad un bambino rende possibile tutta la felicità che, grazie a quell’esperienza, quel bambino porterà con sé e donerà agli altri.
Paradossalmente, l’indifferenza della società nei confronti dei bambini si accompagna ad un’esasperata valorizzazione sociale della famiglia. Le leggi ad esempio riconoscono almeno alcuni diritti ai bambini e impongono alcuni doveri ai genitori, ma gli adulti non hanno alcun bisogno di un riconoscimento pubblico (matrimonio) delle loro relazioni sessuali-affettive e i bambini non hanno alcun bisogno di essere collocati in una famiglia “riconosciuta”. La società ha il compito di regolamentare le relazioni fra persone, non fra persone in quanto “appartenenti ad una famiglia” o ad un circolo culturale o ad un’associazione ricreativa. La società, quindi, svolgerebbe un compito razionale se rinunciasse a “riconoscere” qualsiasi tipo di famiglia e tutelasse davvero tutti i cittadini e, soprattutto, garantisse ai bambini il miglior accudimento possibile, da parte dei genitori biologici o di persone comunque disponibili nei loro confronti. Per questi motivi credo che le varie concezioni sociologiche che hanno attribuito alle varie strutture famigliari un ruolo particolare nel mantenimento dell’autoritarismo sociale siano state poco utili ad una comprensione dell’irrazionalità sociale. Tra tali concezioni ha avuto un peso notevole quella femminista “anti-patriarcale” e “anti-maschilista” di cui ho già parlato, ma anche quella della “Scuola di Francoforte” in cui le speculazioni sul “potere” (inteso in senso generale e, in realtà, generico) non hanno chiarito in modo convincente gli aspetti essenziali dell’irrazionalità individuale e sociale. Max Horkheimer ha scritto: “Non è decisivo, a questo proposito, se nell’educazione prevale la costrizione o la dolcezza; infatti, il carattere infantile è formato molto più dalla struttura della famiglia che dalle intenzioni coscienti e dai metodi del padre” (in Horkheimer e AA. VV. 1936, p. 58). Sottovalutando il peso delle intenzioni e dei "metodi" delle madri, Horkheimer aggiunge che la famiglia si colloca nella società anche in un “rapporto antagonistico”, perché in essa i sentimenti fra i coniugi e soprattutto le cure materne contraddicono la logica della società fondata sulla proprietà e sul potere: “la famiglia, sotto questo aspetto, non porta all’autorità borghese, ma al presentimento di un assetto umano migliore” (in op. cit., pp. 60-61). L’autore, in pratica, sottovaluta sia il ruolo protettivo o repressivo di entrambi genitori, sia il fatto che i sentimenti fra i coniugi possono manifestarsi in modi espressivi o difensivi e quindi sviluppa tutta la sua concezione della famiglia in termini speculativi, trascurando proprio l’essenziale.
La cosiddetta “famiglia nucleare” è una delle tante strutture famigliari e oggi è già in piena decadenza, perché molti bambini vivono con genitori separati che hanno ricostituito altri nuclei famigliari. In ogni caso, credo che le speculazioni sui “ruoli” e sulle “strutture” servano a poco perché se i bambini vengono accuditi con amore possono crescere esprimendosi anziché dissociandosi e possono, quindi, crescere rispettando ciò che sentono e rispettando le altre persone. Una società basata sul “valore” della famiglia è semplicemente basata sulla negazione irrazionale di un fatto evidente: solo i rapporti interpersonali hanno un “peso” reale nello sviluppo psicologico dei bambini. Finché gli adulti vorranno “avere” dei figli e affermeranno tale “diritto” saranno portati a “plasmare” i figli tenendo conto più dei propri “bisogni” difensivi che dei reali bisogni dei figli. La famiglia è così assente da affascinare, con la sua apparente presenza, le persone religiose, le femministe (che vogliono conservarla con più “parità”), le persone omosessuali (che pretendono il riconoscimento dei “diritti” a cui le persone eterosessuali farebbero bene a rinunciare), i reazionari e i progressisti.
L’istituzione famigliare completa la sua opera di “formazione” (o “de-formazione”) dei bambini integrandosi con l’istituzione scolastica. Sia la famiglia, sia le strutture educative favoriscono o contrastano l’espressione compiuta delle potenzialità espressive dei bambini grazie alle tutele che offrono e alle regole che impongono. La scuola materna non mira principalmente a favorire la libera espressione dei bambini in un contesto di sicurezza psicologica, sia perché accoglie anche bambini molto piccoli che hanno ancora bisogno della madre, sia perché offre (come la famiglia, purtroppo) gratificazioni e frustrazioni non commisurate alle esigenze e alle capacità dei bambini. Nella scuola elementare ciò risulta più evidente perché i bambini vengono apertamente sollecitati ad essere “buoni”, ad adattarsi a molte regole e ad apprendere alcune nozioni in un clima di competizione. Nelle scuole superiori la competizione diventa esasperata e l’apprendimento viene subordinato all’acquisizione di abilità professionali. In pratica, la scuola non aiuta i bambini ad esprimere le loro potenzialità, a sviluppare la curiosità e ad esercitare la riflessione critica, ma favorisce l’obbedienza, il passivo assorbimento di idee e nozioni, la competizione e l’inserimento nella società “data”. Lo studio delle “materie classiche” serve quindi a poco se anche la cultura umanistica è ridotta ad un insieme di concezioni astratte da apprendere.
Sia le consuetudini di un villaggio, sia le leggi di uno Stato moderno rendono davvero “reali” la famiglia e la scuola o piuttosto le illusioni condensate nella famiglia e nella scuola. Ciò chiarisce l’importanza delle norme socialmente fissate e imposte in tutti gli ambiti della società. “Il diritto non è necessariamente collegato ad una entità socialmente e politicamente autorevole, non ha per referente necessario quel formidabile apparato di potere che è lo Stato moderno, anche se la realtà storica che ci ha fino ad oggi circondato ostenta il monopolio del diritto operato dagli Stati” (Grossi, 2003, p.15). Il diritto sorge appena una comunità, anche piccola, si dà un ordinamento e tale ordinamento viene osservato.
I due aspetti più irrazionali del modo in cui la società sottopone a regole la convivenza fra i cittadini riguardano l’estensione della regolamentazione e la concezione delle pene previste per chi trasgredisce le regole. Ho già accennato all’irrazionalità della proliferazione delle norme e della conseguente impossibilità di impedire le trasgressioni, ma è il caso di ricordare che anche le sanzioni o le pene inflitte a chi non rispetta le leggi vengono spesso concepite non come opportuni espedienti volti a scoraggiare certi comportamenti o come necessarie misure volte ad isolare chi potrebbe continuare ad agire distruttivamente, ma come modi per esercitare una sorta di vendetta “socialmente giustificata”. L’indignazione di chi vuole mettere “in galera” i corrotti o di chi vuole punire chi ha commesso crimini (o semplici errori) riflette il rifiuto di accettare che certi fatti, purtroppo, si verificano e avvengono per delle ragioni più complesse di ciò che viene ricapitolato nel concetto di “egoismo” o in quello di “malvagità”. Non sto suggerendo letture “buoniste” dei comportamenti umani, perché la comprensione delle ragioni per cui le persone agiscono non esclude che la società reagisca con fermezza alle violenze individuali, ma sto precisando che, come il chirurgo non interviene “contro il tumore che non dovrebbe esserci”, ma “per la salute del paziente”, anche la società funzionerebbe meglio se rinunciasse al manicheismo etico che spesso diventa una concezione distorta della giustizia. Da un lato l’esasperazione della mentalità normativa trasforma la vita quotidiana in un’interminabile sequenza di rituali di controllo e, dall’altro lato, la cultura punitiva crea l’illusione di un’armonia sociale ottenibile con la repressione. Le cose però stanno come stanno e continuano a stare come stanno anche se le persone non accettano la realtà.
C’è un nesso fra l’insofferenza nei confronti della spontaneità, l’ossessione del controllo e la rabbia nei confronti di chi trasgredisce le leggi o le consuetudini. La svalutazione, la rabbia e la voglia di vendetta non sono indirizzate solo nei confronti delle persone che realmente fanno del male, ma anche nei confronti delle persone che violano delle leggi stupide o che non violano delle leggi, ma delle semplici consuetudini. In Italia, la prostituzione non è (almeno per ora) un reato, ma moralisti e femministe pretendono che non sia “visibile” o che venga “arginata”. Le idee cambiano, ma resta intatto il rifiuto della logica: le persone omosessuali sono diventate “rispettabili fino a prova contraria” (fino a quando non commettono reati), mentre le prostitute restano “solo puttane”. Poiché il controllo ha spesso una connotazione morale e non una semplice funzione pratica, la legalità è normalmente intesa come lo strumento per “colpire” sia chi agisce distruttivamente, sia chi non danneggi nessuno, ma “crea disturbo” alle persone normalmente ansiose e rabbiose. Inoltre, i colpevoli devono essere puniti, secondo la mentalità corrente, sia che le punizioni migliorino le cose, sia che le peggiorino. Solo per questo motivo il carcere continua ad essere concepito come necessario, anche se genera un aumento e non una diminuzione della criminalità. A mio parere è scontato che chi ha commesso dei gravi reati venga isolato, ma è tutt’altro che scontato che si infliggano punizioni carcerarie che “cronicizzano” la criminalità anche se solo delle altre misure riducono le tendenze a commettere reati (cfr. L. Manconi e AA. VV., 2015). Per motivi davvero difficili da comprendere, il carcere non sembra adatto a chi compie truffe o non paga i debiti, anche se basterebbe un giorno di carcere per indurre tali criminali a “trovare” le risorse adatte a risarcire le vittime dei loro imbrogli. In tali casi, si avviano cause interminabili e con esiti incerti. D’altra parte i responsabili di reati che rientrano nella microcriminalità, vengono messi in carcere dove hanno molte possibilità di diventare recidivi. Inoltre, per motivi difficili da comprendere, le carceri non sono concepite come ambiti di isolamento dalla società volti ad impedire nuovi crimini, ma come luoghi in cui la permanenza è inutilmente penosa e anche pericolosa. Chiunque può capire che se le pene detentive venissero scontate in ambienti realmente vivibili sarebbero egualmente temute e che, se venissero scontate quando sono davvero necessarie, costituirebbero una reale protezione per la società.
La comprensione dell’intenzionalità difensiva rende discutibili molti aspetti del diritto, compresa la distinzione abituale fra crimini commessi da persone capaci o incapaci “di intendere e di volere”. Il lavoro analitico mostra che le persone distruttive, anche quando sono consapevoli di fare del male ad altri, non sono consapevoli delle ragioni per cui organizzano la loro vita in un certo modo: fare del male non è mai realmente soddisfacente, anche quando frutta denaro o potere e quindi chi fa del male non ha alcuna consapevolezza delle ragioni per cui cerca (inutilmente) denaro e potere. L’avidità, come la voglia di prevalere sugli altri e di attuare violenze sono sintomi, non “debolezze” della “coscienza morale”. Il diritto non coincide con l’etica, ma è tuttora troppo legato (soprattutto nelle concezioni “popolari” della giustizia) all’etica. Con ciò non sto ovviamente negando la necessità di interventi repressivi nei confronti di chi fa del male agli altri, ma sto affermando che se gli psicologi e gli psicoterapeuti non si limitassero ad operare nella realtà “data” e mettessero in discussione le difese psicologiche divenute cultura condivisa, la giustizia potrebbe essere esercitata con maggiore efficacia e meno persone sceglierebbero di intraprendere attività criminali.
I giuristi più lucidi hanno sempre orientato le loro concezioni in termini pragmatici più che etici. A tale proposito, meritano di essere ricordate le idee espresse da Cesare Beccaria, sicuramente molto “avanzate” per i suoi tempi. Pur ragionando nel quadro di una giustizia retributiva, Beccaria ha sottolineato il ruolo rieducativo delle pene, ha affermato che lo scopo delle stesse è quello di scoraggiare i crimini e ha sottolineato che a questo proposito non è la severità, ma la certezza della pena, ad avere una funzione deterrente. Inoltre ha scritto: “Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona, e diventi cosa” (1764, p. 70). Dopo più di un secolo, però, moltissime persone ritengono che alcuni carcerati “se la passino troppo bene” e davvero poche persone sono turbate dal fatto che, nella maggior parte dei casi, l’esperienza del carcere è semplicemente disumana. Una volta che un mafioso o un serial killer è stato isolato e reso incapace di nuocere, la società non ha alcuna esigenza razionale di negare a tali persone la possibilità di vivere “da persone”, lavorando per rimborsare i costi della detenzione, leggendo e sperimentando qualche svago. Nei casi in cui, invece, la criminalità riflette soprattutto il radicamento in situazioni ambientali umanamente povere, la società non ha bisogno di isolare i criminali, ma di offrire a loro la possibilità di “conoscere” quella parte della società che non li ha mai accolti.
Comprendo la complessità di tali situazioni e non pretendo di essere un esperto, ma sicuramente il comune concetto punitivo della giustizia rientra fra le difese psicologiche ideologizzate e non dovrebbe ispirare chi amministra la giustizia in una società moderna. Federico Stella sottolinea che sul piano del diritto civile è possibile applicare una giustizia riparativa, ma quando si entra nell’ambito del diritto penale la giustizia non può “riparare” alcun danno: chi ha perso una persona cara non può “recuperare” nulla se l’assassino riceve l’ergastolo. Chi ha subito delle violenze non ha più la vita che aveva prima e tale fatto resta immodificabile, sia che i colpevoli vengano maltrattati, sia che vengano trattati con umanità: “a nulla serve l’inferno per i carnefici, quando il martirio è già avvenuto” (2006, pp. 222). Stella si aggancia alle riflessioni di Klaus Luderssen (2005) che, ovviamente, non propugna l’idea di un’impunità per legge, ma esamina vari modi in cui lo Stato può intervenire senza l’intento di “punire”. A tale proposito, risultano particolarmente illuminanti le ricerche e le analisi svolte da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta (2015) sulle pene detentive.
Le reali comunità umane sono complesse e ciò vale per un nucleo famigliare, per un villaggio e per uno Stato moderno. Tutte le realtà istituzionali riflettono in qualche misura sia la razionalità, sia l’irrazionalità delle persone. Tale ambiguità si presenta anche nel linguaggio, che è una sorta di “istituzione informale”: non ha alcuna “consistenza materiale”, ma “aleggia” fra le persone e nei dialoghi interni delle persone. Il linguaggio condiviso da una comunità trascende, pur includendoli, i comportamenti linguistici individuali. Cambia nel tempo, ma è una realtà oggettiva dalla quale non si può prescindere. Ad esempio, chi non crede all’esistenza di una divinità non dispone di un termine adatto a definire la propria convinzione, ma deve definirsi ateo o non credente e quindi deve contrapporsi ad un teismo comunque presupposto. Il linguaggio ci consente di “essere qualcosa” (cioè di essere scapoli o single) se non siamo sposati, ma non ci consente di “essere qualcosa” se non siamo credenti. Il linguaggio, non include nemmeno alcun termine adatto ad indicare “l’aver cura di sé” (cioè l’egoismo amorevole) e nemmeno alcun termine riguardante il fare azioni benefiche per moralismo o per esibizionismo, ma senza benevolenza (cioè l’altruismo non amorevole); così ostacola qualsiasi esame razionale delle ragioni per cui le persone fanno ciò che fanno. Il linguaggio veicola, quindi, un certo ordine mentale perché, anche includendo o non includendo delle parole, incanala il pensiero in particolari direzioni.
Sul rapporto fra pensiero e linguaggio, da sempre, filosofi, linguisti e sociologi hanno detto molte cose, ma merita una nota particolare la concezione espressa nella prima metà del secolo scorso da Benjamin Lee Whorf, secondo cui il linguaggio utilizzato forma in qualche modo il mondo che le persone vedono. In altre parole, il linguaggio non è solo un mezzo con cui comunichiamo ciò che abbiamo già pensato, ma delimita e condiziona la nostra capacità di pensare. Anche se è ragionevole concepire una reciproca influenza fra il pensiero e il linguaggio, credo vada sottolineato il fatto che molti comuni modi di descrivere la realtà funzionano come delle catene che rendono molto difficile alle persone l’esercizio della riflessione critica. In pratica, le persone, oltre ad avere delle ragioni personali per pensare in modi irrazionali, quando cercano sinceramente di comprendere la loro vita e quella degli altri, sono vincolate da parole ed espressioni linguistiche che ostacolano l’esame dei fenomeni più semplici.
Nel lavoro analitico riscontro sempre tali difficoltà e cerco, quindi, di far notare ai clienti che, al di là dei problemi di cui sono consapevoli, concettualizzando in modi scorretti ciò che pensano, perdono la capacità di farsi domande e di darsi risposte sulle ragioni per cui fanno ciò che fanno. Ad esempio, i danni prodotti dall’idea che le persone siano “razionali oppure emotive” sono davvero notevoli: questa falsa dicotomia nasconde il fatto che le persone pensano sempre quando sentono qualcosa e che le persone possono pensare e sentire razionalmente oppure in modi difensivi. Chi dà per scontata la contrapposizione fra razionalità ed emotività può affermare, ad esempio (in buona fede) di aver capito molte cose, ma di non riuscire a sentire abbastanza, e quindi si aspetta qualche intervento “terapeutico” adatto ad intensificare la scarsa “capacità” emozionale. Io faccio notare a tali persone che quando “non riescono a sentire” ciò che consapevolmente vorrebbero sentire, sono impegnate a fare pensieri irrazionali proprio per sentire poco e, soprattutto per non entrare in contatto con il loro dolore. Ad esempio quando credono di “non riuscire a perdonare” il/la partner continuano a dare per scontato che tale persona abbia delle colpe e si stanno precludendo la possibilità di comprendere le ragioni per cui tale persona ha agito in certi modi. Mentre si ostinano a pensare in termini svalutativi, si propongono di “perdonare” e così riescono a non capire e a non sentire. Appena capiscono la loro situazione interpersonale, diventano consapevoli del fatto che non c’è nulla da perdonare e si trovano a sperimentare la (dolorosa) “mancanza di qualcosa”. In pratica, non acquisiscono “capacità emotive” grazie ad una “terapia”, ma capiscono la realtà e provano il dolore che evitavano di sentire proprio comprimendo i loro pensieri in un linguaggio moralistico. La parola “perdono”, in pratica, è ipnotica perché implica una colpa: non si perdonano le capacità e nemmeno gli errori, ma solo le azioni non spiegate e svalutate. Tale parola crea una sorta di offuscamento mentale che ostacola i sentimenti corrispondenti alla realtà.
Anche molti irrigidimenti del linguaggio indipendenti dall’etica ostacolano la capacità di pensare. Il semplice “nominare qualcosa” implica (almeno sul piano psicologico) l’esistenza di qualcosa, anche se esiste solo una teoria (spesso infondata) relativa all’esistenza di qualcosa. Quando si parla dell’efficacia della psicoterapia si implica che la psicoterapia esista, anche se esistono solo delle persone che affermano di curare delle patologie la cui “esistenza” non è affatto scontata. Ciò crea discorsi strani: molti parlano della psicoterapia come di una realtà dimostrata dal fatto che tanti ne parlano, mentre altri dichiarano di “non credere” alla psicoterapia, come se la psicoterapia fosse una fede. Non esistono nemmeno fatti come l’omofobia, il femminicidio o l’omicidio stradale, ma proprio il fatto (linguistico) di nominare una cosa ostacola l’esame della eventualità che “si parli di niente” o si parli in modi scorretti di ben altri fatti. Purtroppo l’uso improprio e ripetuto del linguaggio, associato all’assenza di critiche autorevoli facilita la convinzione che certi fatti esistano. Tra l’altro, alcuni fatti inesistenti sono anche concettualmente incoerenti, dato che, ad esempio, gli “omofobi” sono concepiti come persone “affette” da una patologia, ma anche colpevoli di tale patologia. Se la polizia arrestasse chi è colpevole di essere affetto dalla polmonite, i giornalisti esprimerebbero tutta la loro indignazione, ma se migliaia di persone protestano in piazza contro i malati di “omofobia” ben pochi si stupiscono di tale avvenimento.
Come sono presenti termini che indicano fatti inesistenti, purtroppo, mancano dei termini adatti a designare fatti esistenti. In queste pagine ho dovuto coniare il neologismo “contro-pregiudizio” per riferirmi a vecchi pregiudizi meccanicamente capovolti da persone “progressiste”, ma ostinate a non mettere a fuoco le ragioni profonde dei pregiudizi. Ho dovuto usare tale neologismo perché “ufficialmente” esistono solo certi atteggiamenti e certi gruppi. Ho però evitato di utilizzare neologismi svalutativi e ho parlato, quindi, di intolleranza nei confronti dei fumatori e non di “fumo-fobia” perché l’intolleranza è una mentalità e non una patologia: chi tossisce appena vede una sigaretta accesa ha un pessimo rapporto con il piacere, la spontaneità, il gioco, le norme e solo in certi casi anche con i fumatori. Quindi la pseudo-diagnosi di “fumo-fobia” sarebbe stata, da parte mia, un insulto gratuito e non avrebbe contribuito alla comprensione della realtà.
Nelle sedute ricostruisco minuziosamente con i clienti il loro dialogo interno, che in genere è così veloce e pieno di implicazioni da non sembrare una costruzione intenzionale volta a distrarre dal dolore dell’esistenza. Una persona viene poco “considerata” in un incontro fra amici o in ufficio e mi racconta in seduta di essersi sentita “agitata”. Solo in seguito a domande precise, scomode ed insistenti ammette di essersi in realtà arrabbiata per una disattenzione percepita come un maltrattamento e ammette di provare un costante ed intenso bisogno di “considerazione”. A fatica riconosce di sentirsi “inadeguata” e di cercare con la considerazione degli altri un sollievo. Ancor più a fatica riconosce che le persone non possono essere “adeguate” o “inadeguate” in generale, ma possono esserlo solo rispetto a specifici compiti. Solo a quel punto la persona riesce a collegare quella strana idea all’esperienza di costante rifiuto fatta con i genitori. I bambini preferiscono considerarsi “poco importanti” (o “inadeguati”) pur di non sentirsi poco importanti per i genitori. Condividendo la svalutazione di sé si sentono “capiti” dai genitori. Dopo decenni continuano a cercare un’approvazione che fraintendono come amore e “sicurezza”, perché non hanno mai accettato che l’approvazione riguarda ciò che si fa e l’amore riguarda ciò che si è (se si è visti davvero). Non hanno mai accettato che l’approvazione si può controllare e “meritare”, mentre l’amore degli altri non dipende dalle nostre “qualità”.
Il linguaggio è utilizzato in modi razionali o irrazionali non solo nella comunicazione quotidiana, ma anche nell’ambito della cultura. Un concetto importante come quello di “autoregolazione infantile”, chiarito da Wilhelm Reich e da Alexander Neill, dopo quasi un secolo, continua a “non circolare”, mentre concetti scorretti come “autostima” e “stress” dilagano negli scritti e nelle conversazioni degli psicoterapeuti. Inoltre, molti concetti importanti come “amore” “dolore psicologico”, libertà sessuale, disturbi psicologici sono usati in modi talmente confusi da ostacolare la comunicazione dei fatti più significativi. Tali confusioni non dipendono da un difetto di intelligenza o di cultura, ma dall’intenzionalità difensiva: se la specie umana include delle menti capaci di distinguere un neutrone da un neutrino non usa sicuramente il termine amore “a casaccio” per mancanza di intelligenza o di conoscenze. Non solo il linguaggio viene “addomesticato” proprio per far sembrare meno violente le forme più distruttive di autoritarismo economico o sociale (come quando si parla di “mercato” e di “ordine pubblico”), ma viene addomesticato in tutti i casi in cui le parole potrebbero far pensare a situazioni dolorose personali o al dolore della condizione umana.
La psicoterapia ha contribuito in modo decisivo al mantenimento ed al perfezionamento di molte “perversioni linguistiche” patologizzando le scelte di vita e giustificando la diffusa esigenza delle persone di non prendersi la responsabilità di ciò che pensano e sentono. Per la psicoterapia “sorgono” dei pensieri intrusivi e le persone sono “colpite” dal panico o sono “incapaci” di controllarsi nei casi in cui proprio con i sintomi controllano il dolore che non vogliono riconoscere. La patologizzazione della “vita psichica” viene teorizzata e le persone sono ben contente di recepire le “nuove scoperte” degli specialisti: ora possono dire “scusami se ti ho trattato/a così, ma avevo accumulato dello stress in ufficio”. La semplice e comprensibile realtà dei desideri e delle risposte soddisfacenti o dolorose ai desideri è, quindi, sostituita da una realtà immaginaria fatta di patologie, incapacità ed emozioni che “colpiscono le persone”. Gli “altri” sono sempre stati etichettati come cattivi o pazzi e poco cambia se oggi il concetto di pazzia è “scomposto” nelle categorie diagnostiche che riempiono le centinaia di pagine del DSM. Ciò che permane, intatto nel tempo, è il fatto (normalmente trascurato) che il dolore attraversa l’esistenza umana e che l’unica felicità degli adulti consiste non già nell’essere resi felici dagli altri (dai “grandi”, dai “gruppi” o da dio), ma nel condividere con se stessi e con chi è disponibile le tante gioie e le tante sofferenze della vita.
La determinazione a non pensare genera distorsioni inconsapevoli (ma intenzionali) del linguaggio, ma anche distorsioni consapevoli. Chi contribuisce attivamente a rendere il linguaggio un’offesa all’intelligenza umana, ovviamente sa cosa si propone di ottenere, ma non sa per quale motivo si proponga cose tanto assurde; purtroppo, produce dei risultati semplicemente tragici e a volte anche tragicomici. In tali casi i ciechi diventano “ipovedenti” perché tale “rivoluzione” sembra una manifestazione di compassione e perché il dolore di una grave limitazione “fa un’impressione diversa” appena tale limitazione viene definita in modi “eleganti”. Le comuni stranezze linguistiche non sono il risultato, come nel mondo orwelliano, di un complotto pianificato a tavolino da funzionari stipendiati da un’autorità dispotica, ma “emergono” dai pensieri e dagli atteggiamenti di molte persone dedite a vivere “poco”. La paura di sentire diventa paura di capire. Per questo tanto spesso utilizziamo il linguaggio proprio per non pensare e per non rischiare di capire e di sentire.
“E molto prima di aprire gli occhi aveva imparato, toccandola, annusandola e assaporandone il latte, a conoscere sua madre, fonte di calore, di cibo e di tenerezza. La lupa infatti possedeva una lingua dolce e carezzevole che lo calmava quando percorreva il suo corpicino morbido e lo costringeva a rannicchiarsi vicino a lei e ad assopirsi fino ad addormentarsi”. Queste parole di Jack London (1906, p. 57) ricapitolano in modo toccante quel tipo di esperienza basilare necessaria ad ogni cucciolo. La vita dei cuccioli, compresi i cuccioli umani, inizia così, con un punto fermo rispetto al quale ogni passo nella vita è “ulteriore”. Negli esseri umani, purtroppo, quel punto di partenza raramente è una “base sicura” e spesso si riduce ad una sicurezza traballante o ad un incubo. Un incubo individuale che presto viene coperto da difese psicologiche ben strutturate che si dilatano, si collegano ad altre e diventano un normalissimo incubo sociale.