sabato 21 luglio 2018

40. Solitudine e indifferenza







Pur facendo tesoro delle ricerche di alcuni autorevoli filosofi e psicologi, sono arrivato a mettere in discussione le più comuni convinzioni etiche, religiose, psicologiche e politiche che attraversano la cultura e giustificano l’organizzazione sociale. In certi momenti, quindi, mi chiedo se le potenzialità psicologiche di cui parlo siano solo un’idea “poetica” a cui mi sono aggrappato nel corso di una sorta di prolungata crisi mistica. Cosa c’è di “umano” nella passiva adesione di tante persone ad ideologie razziste, moraliste e violente, a mode stupide e a religioni non plausibili? Mi chiedo, quindi, se non sia il caso di buttare nella spazzatura l’idea del potenziale espressivo, delle difese psicologiche e della ricerca della felicità. L’umanità forse cerca solo di sopravvivere anche se in modi più complicati di quelli delle zanzare e degli squali. Cosa c’è di bello nella gente che si sente tanto “buona” a Natale o che sposandosi prende impegni che poi cerca, con l’aiuto degli avvocati, di annullare nelle cause di divorzio? Forse le persone fanno sesso solo “spinte” dalla chimica e non “trascendono” proprio un bel niente; forse non cercano né evitano l’intimità, dato che l’intimità potrebbe essere solo una parola vuota. Forse; quindi, le persone non sono né razionali, né irrazionali o almeno non lo sono come sembra a me. Forse, a maggior ragione, non costruiscono nemmeno società irrazionali, ma costruiscono società “fatte così”. Quindi, può anche diventare superfluo qualsiasi discorso sui bisogni dei bambini, sullo sviluppo emotivo e sulla felicità: se i bambini devono diventare produttori, consumatori e, all’occorrenza, soldati è meglio che vengano educati alla competizione, alla realizzazione nel lavoro e all’accettazione delle tradizioni, delle consuetudini e delle mode. E’ meglio che diventino “normalmente strani” e che solo nei casi più gravi vengano affidati a psicoterapeuti intenzionati a farli tornare normalmente strani. Può quindi essere utile che imparino a “controllarsi” e ad accettare i controlli sociali per sentirsi normali in una società normale.
Quando mi affiorano questi dubbi, che riguardano la mia intera vita e non solo le pagine che scrivo, cerco di riesaminare i fatti che conosco e proprio grazie a tale riesame torno a confermare le mie convinzioni sulle potenzialità personali. Quale che sia la nostra “storia antica” o la nostra provenienza dal regno animale o da Marte o da “altre vite”, noi trascorriamo il tempo fra la nostra nascita e la nostra morte sapendo di essere le stesse persone che eravamo ieri e che saremo domani e sapendo di essere persone autonome, ma desiderose di interagire con altre persone e di poter anche essere felici in particolari tipi di interazione con particolari persone. Sappiamo anche di essere vulnerabili e mortali e quindi sentiamo compassione per noi stessi e per le persone care (e, in qualche misura, nei confronti di tutti i nostri simili e anche nei confronti dei nostri nemici, dei nostri animali e degli animali di cui abbiamo solo visto foto o filmati). Sappiamo, quindi, di essere unici, diversi da tutti, ma “fratelli di tutti” nell’attesa della morte. Questo ambito di possibilità è “reale” e non è un mio ideale. Questi pensieri e stati d’animo apparterrebbero facilmente a tutti se non fossero attive quelle difese dal dolore che nel mio studio alcune persone cercano di analizzare, ma che i moralisti e gli psicoterapeuti non vogliono analizzare. Ancorandomi a questi fatti, torno a considerare irrazionali il capitalismo globalizzato, i fanatismi religiosi, nazionalistici e consumistici, le droghe, la burocrazia, le ideologie, l’etica, la psicoterapia, le discoteche e la Formula Uno.
Se queste considerazioni mi calmano, alcuni fatti mi liberano completamente dai dubbi. Un cliente inizia la seduta dicendomi “le solite cose” con un sorriso che sarebbe adatto ad un suo gemello scemo (o “diversamente intelligente”); lavoriamo sulle colpe che non ha, sull’indifferenza della sua compagna e sul fatto che non prova alcun reale desiderio di sorridere. Si commuove, combatte con il pianto, poi si lascia andare solo un po’, ma quanto gli basta per sentirsi più solo e meno colpevole. Poi mi saluta con un sorriso bellissimo. Un altro cliente, incallito donnaiolo e sempre in ansia per la carriera, un giorno mi dice: “Mi è capitata una cosa strana: credo di aver fatto l’amore con una ragazza. Prima di vederla avevo ascoltato in macchina un blues dolcissimo e mi ero sentito solo. Sai che per me è difficile piangere, ma un po’ ho pianto e dopo non ho voluto mettere da parte quella cosa. A letto con quella ragazza ho sentito che con lei avrei anche potuto piangere e che mi avrebbe capito. Non ho pianto con lei, ma non ho fatto ‘solo’ sesso. Alla fine mi sono sentito strano. Forse quello è fare l’amore”. Una cliente mi dice di aver finalmente “osato”. Le chiedo cosa abbia osato fare e mi risponde: “Ho fatto il “compito” che mi avevi dato da molto tempo e che da allora rinviavo: sentendo le prime avvisaglie di un attacco di panico ho evitato di chiedermi se sarei riuscita a calmarmi e mi sono fatta la domanda che mi suggerisci: “cosa vorrei ora, che non posso avere?”. Partendo da lì, mi sono chiesta se fossi pronta a morire in quel momento. Ho sentito che prima di morire avrei voluto stare almeno un minuto fra le braccia di mia madre e sono scoppiata in un pianto profondo. Ho anche avuto il coraggio di non spezzare quel pianto e alla fine il cuore batteva calmo, le mani non erano sudate e ho pensato che sarebbe stato inutile andare da mia madre. Hai ragione, sono troppo vecchia per riempire quel vuoto e ho bisogno di accettarlo. Hai ragione anche sul fatto che è stupido che io cerchi di calmarmi se sono io a farmi venire gli attacchi di panico per non accettare tutte le ondate del mio lungo pianto”.
Sono proprio questi i fatti che mi fanno ritenere di non aver proiettato delle idee personali stravaganti sull’esistenza degli esseri umani o sulla convivenza sociale. Ogni volta che supero una “crisi” di questo tipo riprendo a scrivere sulle cose che riesco a capire e torno a pensare che conta davvero poco che le conoscenze siano sottoscritte da tante persone, se spiegano realmente i fatti. La terra era più o meno sferica anche quando le “conoscenze condivise” stabilivano che fosse piatta e i neri in Sudafrica erano esseri umani anche quando erano trattati come esseri “inferiori”. E’ difficile dubitare delle certezze condivise perché quel dubbio crea un senso di solitudine che fa paura. Eppure non siamo costretti a negare la conoscenza e possiamo accettare la solitudine. Possiamo scegliere una consapevole solitudine che rinsalda il rapporto con noi stessi e che ci consente una reale intimità con le persone disponibili ad un contatto autentico. E possiamo rinunciare ad un’illusoria appartenenza ad una società che nega il dolore e offre “qualcosa” che non c’è. La felicità possibile ha un costo: la consapevolezza e l’accettazione della solitudine.
L’analisi dell’irrazionalità conduce sempre alla solitudine dei bambini, cioè al dolore che i bambini non riescono ad affrontare. Purtroppo, anche gli adulti sperimentano una profonda solitudine. In genere non se ne rendono conto perché sono impegnati a restare dissociati dal dolore della loro infanzia, ma se interrompono le loro inutili battaglie difensive scoprono di desiderare relazioni sincere e intense. Se riconoscono questo desiderio si sentono soli percependo che i loro simili troppo spesso usano l’intimità, le relazioni e la convivenza sociale per attuare le loro strategie difensive. La solitudine degli adulti, a differenza di quella dei bambini, è tollerabile, ma è comunque dolorosa. Ci si sente terribilmente soli con una persona che è presente ma ci tratta come se fossimo qualcun altro (un “punto di riferimento” o un oppressore). Lawrence ha espresso questa consapevolezza con parole semplici e terribili: “negli occhi di chi mi amava ho visto solo l’immagine di altri scambiati per me” (in 2008-selection, p. 167). Questa solitudine non si sperimenta solo nei rapporti personali in cui si fa un gesto e dall’altra parte “scatta la reazione” (vittimistica, adorante o svalutante), ma si sperimenta anche nella partecipazione alla vita sociale.
Noi non desideriamo solo rapporti intimi, ma desideriamo vivere in una comunità, non in un formicaio. Eppure nella comunità le “formiche umane” occupano moltissimi spazi. Non so se considerare più devastanti le “formiche indifferenti” o quelle “divoranti”, ma so che il desiderio reale e ragionevole di far parte di una comunità cozza con le difese psicologiche dei singoli e con quelle divenute cultura e organizzazione sociale. Le mandrie spaventate possono darsi ad una fuga priva di scopo e centinaia di animali possono anche cadere nel vuoto se nella direzione della fuga trovano un precipizio. Milioni di cani addomesticati che regolarmente trovano il cibo in una ciotola continuano inutilmente ad annusare tutte le tracce presenti in un parco come se vivessero ancora di caccia e dovessero raccogliere informazioni sulle prede e sui predatori. Tali comportamenti non sono umani, ma altri comportamenti “umani” hanno le stesse caratteristiche. Milioni di persone con la coscienza annebbiata si ammucchiano nelle autostrade quando scatta il segnale sociale delle vacanze e lo fanno con la stessa precisione con cui gli uccelli migratori si trasferiscono da un luogo all’altro (ma in genere con “ragioni” meno realistiche di quelle degli uccelli). “Quelli di Milano vanno ad Amburgo, quelli di Amburgo vanno a Barcellona, quelli di Barcellona vanno ad Oslo, quelli di Oslo vanno a Milano. Il ciclo si chiude. E’ un gioco che diventa frenetico durante l’estate. Sembra allora di vedere una di quelle scene di film in cui l’azione è accelerata ad arte; tutti corrono a scatti di qua e di là. Dove vanno? Che cercano? (…) Una volta accolta l’idea sbagliata che la cultura debba essere accumulo, anziché digestione di alcune cose ben scelte, era inevitabile che ci si rivolgesse sempre più massicciamente a quei beni culturali che sono di più facile acquisizione, quelli che non richiedono sforzo o che, meglio ancora, procurano svago: romanzi, spettacoli (oltre ai viaggi naturalmente)” (Toraldo di Francia, 1978, pp. 89-92).
Queste osservazioni sono corrette, ma non credo sia solo la pigrizia a renderci più simili alle mandrie che ai membri di una comunità. La paura di sentire è più forte della "pigrizia". Le persone che risiedono in Sardegna e vanno a trascorrere le vacanze alle Baleari perché “amano il mare”, non sono pigre e aggrappate ad un bisogno di accumulare, ma vanno (in coppia o in famiglia) a litigare alle Baleari per non accettare che anche nei loro litigi quotidiani non c’era nulla su cui litigare. Non c’era proprio nulla. Lo spostamento costituisce solo la prova (fasulla) dell’esistenza di qualcosa che manca. La “fame di esperienze” interrompe la consapevolezza del dolore di una solitudine reale e attuale determinata proprio dalla presenza dei nostri simili. Le fughe da una solitudine antica, mai accettata e superata, si traducono in una frenetica adesione a tutte le sciocchezze divenute moda o ideologia o frenesia collettiva e generano una nuova solitudine in chi desidera qui ed ora incontrare altre persone per fare cose realmente divertenti, intelligenti, utili e creative.
In fondo, gli studiosi, i politici, i giornalisti sono persone come le altre e attivano nella vita pubblica le stesse dissociazioni che attivano nella vita privata. In questo modo anche la cultura (o almeno la parte irrazionale della cultura) genera solitudine negli adulti perché, sia in quanto cultura intellettuale, sia in quanto cultura popolare, limita o distorce la conoscenza degli “spazi” in cui l’incontro fra le persone è possibile. Molte persone che impazzirebbero se i figli fossero privati del cibo per un solo giorno, vivono tranquillamente sapendo che milioni di loro simili guardano ora dopo ora e giorno dopo giorno i loro figli deperire, per poi vederli morire. E non sono persone disinteressate a ciò perché disinformate, e nemmeno perché disinteressate alla società in generale: sono molto interessate alla società, ma trovano particolarmente intriganti i problemi di cui parlano tutti. E’ decisamente bizzarro il fatto che economisti, statisti e “masse” di tutto il mondo minimizzino un problema come la coesistenza di miseria e spreco. Sorge quindi una domanda terribile: con i nostri simili condividiamo davvero qualcosa?
Si può obiettare che le persone non possono occuparsi di tutti i problemi e questo è verissimo, ma tra il semplice “non occuparsi” direttamente di un problema e l’indifferenza al problema esiste un salto notevole. E poi, non è vero che le persone non si occupano dello sfruttamento economico nella società, dell'infelicità nelle relazioni di coppia o della normale infelicità dei bambini perché non hanno il tempo o la capacità o l’energia per farlo. Di fatto si occupano di moltissime cose: esibire le proprie capacità per ottenere ammirazione o le proprie incapacità per ottenere accudimento, litigare con i famigliari, seguire nei dettagli i programmi politici che ignorano le questioni più gravi, seguire la moda, seguire le mode intellettuali senza interrogarsi sui motivi per cui sono cambiate, seguire le diete religiose e le norme religiose per indurre una divinità permalosa a dispensare premi anziché punizioni, seguire altre norme alimentari per campare il più a lungo possibile senza "vivere davvero", ecc. Le persone normalmente non si occupano dei problemi che riguardano la loro vita reale e quella dei loro simili per motivi che non hanno nulla a che fare con i loro limiti: non se ne occupano perché si occupano di normali assurdità.
Gli esseri umani hanno la capacità e quindi la possibilità di vivere una vita non riducibile agli schemi dell’etologia. La vita sociale delle formiche è un monumento alla noia, ma anche quella degli animali più complessi è molto noiosa. Sicuramente la vita degli animali che vivono in branco è più piacevole e interessante della vita di una sanguisuga, ma anche i rituali del branco hanno una notevole ripetitività: i maschi che combattono per la dominanza, le femmine che inevitabilmente seguono il più forte, tutti i membri del gruppi inchiodati al loro ruolo. In fondo una mandria di bisonti è “stupida” come uno sciame di zanzare. Noi umani non siamo obbligati a vivere quel tipo di socialità: possiamo conoscerci, incontrarci e inventare il nostro futuro. Abbiamo la possibilità di progettare la nostra esistenza individuale, sperimentare relazioni intime e costruire una comunità. Abbiamo questa possibilità, almeno in linea di principio, ma, di fatto, che ne è di questo incredibile potenziale?
Ricordo una notte di molti anni fa in cui stavo tornando a casa in auto e mi trovai imbottigliato in un traffico inspiegabile a quell’ora. Io non ero nemmeno al corrente del campionato di calcio, ma la squadra italiana aveva vinto la partita “decisiva”. Il frastuono dei fischietti, dei clacson, le persone che si sporgevano dai finestrini, le bandiere. Mi sentii risucchiare in un vortice in cui nulla aveva senso: il fatto puramente casuale e oggettivamente “amministrativo-burocratico” della cittadinanza italiana di tante persone era stato trasformato nel fatto del tutto immaginario di una “appartenenza” all’Italia e, quindi, ad una nazione divenuta "speciale" perché undici ragazzi pieni di quattrini avevano infilato una palla in una rete. Che ne è della bellezza del pensiero che libera dalle tenebre, del contatto che cancella l’isolamento, dell’azione che trasforma la realtà? Che ne è di tutta questa bellezza quando il pensiero diventa ottusità interpretata come “appartenenza” o come “adesione a valori condivisi”? La solitudine degli adulti non è intollerabile come quella dei bambini, ma è immensa. Ci sono molte cose che sembrano umane, ma, se guardate con attenzione, rientrano negli schemi prevedibili di un termitaio o della risalita di un fiume attuata da salmoni del tutto incapaci di chiedersi perché si trovino lì’ a fare tanta fatica. Quando tutti si uniscono nel negare un’evidenza, la forza che unisce tali estranei in una menzogna condivisa è sicuramente potente, ma impersonale, oggettiva, come quella che determina la cooperazione in un alveare.
Gli animali in fondo sono soli. Hanno a volte sensazioni (autentiche) di contatto con i loro simili e persino con noi umani, ma fondamentalmente eseguono schemi rigidamente prestabiliti dal loro patrimonio genetico. Il nostro patrimonio genetico non ci impone di fare nulla in particolare, ma ci consente di fare moltissime cose fra quelle possibili. Se, come le termiti o i salmoni, ripetiamo dei rituali, spesso assurdi, non siamo vittime del passato remoto o della cieca selezione naturale, ma siamo inchiodati ad un passato prossimo (la nostra infanzia) in cui abbiamo preso decisioni inconsce che continuiamo diligentemente a tradurre in azioni. Per un irrigidimento della nostra raffinatissima coscienza finiamo troppo spesso per fare meccanicamente molte cose prevedibili come quelle che altri animali fanno per via della loro mancanza di coscienza. Siamo sicuramente animali capaci di autocoscienza e di razionalità, ma anche capaci di pensare, sentire ed agire bloccando la nostra coscienza e la nostra razionalità. In questo modo creiamo esperienze non necessarie di solitudine.
La solitudine attuale, reale, di noi adulti può essere attenuata solo dalla nostra scelta di farci compagnia e di rinunciare alle sicurezze illusorie. Può, quindi, essere attenuata dalla nostra determinazione ad incontrare davvero, se ne abbiamo l’occasione, le persone che sono realmente disposte (in qualche modo e in qualche misura) ad incontrarci. Le persone sono “mondi” perché ogni attimo della loro vita rinvia a tutti gli altri attimi che hanno vissuto e ai modi in cui li hanno compresi (o fraintesi). Purtroppo gli attimi delle storie dei mondi personali sono spesso fraintesi e diventano attimi “vuoti”. Normalmente il livello di indifferenza delle persone è elevato e determina anche una “indifferenza all’indifferenza”: in una società di persone indifferenti si resta scossi solo se qualcuno supera certi limiti e si considerano “particolarmente sensibili” le persone semplicemente umane. Nonostante ciò, le persone restano persone al di là della loro paura.
Una cliente, che chiamerò Carla, mi descrisse nel suo primo colloquio il marito come una persona che era “presa” da molte cose, ma non dalla relazione di coppia. Non la tradiva con altre donne, ma “la tradiva” con amici, colleghi, impegni lavorativi ed extralavorativi. Portava a casa i resoconti della propria vita sociale che era la sua “vera vita”. Una vita che includeva l’impegno politico, la dedizione alla professione, la passione per lo sport. La famiglia era il luogo del “riposo del guerriero”, non la prima estensione della propria interiorità. Comprese nelle sedute successive che il marito temeva di ammettere il bisogno di una forte intimità e iniziò a dargli dei segnali di accoglienza incondizionata rinunciando a sentirsi vittima del suo "egoismo". Piangendo per ciò che non era un’ingiustizia, ma una mancanza, aveva liberato energia per migliorare la situazione. Il marito accettò il miglioramento del clima domestico, ma continuò a “vivere fuori”. Una volta lei gli parlò di ciò che sentiva, dei propri desideri e di ciò che le mancava e lui la guardò perplesso, dicendole “Io non so se riesco a capire davvero ciò che mi dici”.
C. Ho fissato i suoi occhi e ho visto che era spaventato. Hai presente i film del terrore, quando sta per uscire l’assassino o il mostro dalla penombra? Aveva quello sguardo, ma non c’erano assassini o mostri. C’ero io con il mio amore e con il mio desidero di vivere davvero con lui. Quando in passato lo accusavo, non mostrava quello sguardo perché io evitavo il vero problema e lui era sempre sicuro di gestire il conflitto. Ora, invece, era spiazzato.
GF. Cosa hai sentito?
C. Tenerezza per lui. E anche una grande solitudine mia. Ho cercato di non piangere in quel momento perché avrei peggiorato la situazione, almeno per lui. Abbracciandolo gli ho detto solo che gli volevo bene e che avremmo fatto ciò che era possibile. Ho pianto dopo, per lui e per me.
I rapporti di coppia o fra genitori e figli o fra persone legate da amicizia, se sono insoddisfacenti o sbilanciati, non possono essere migliorati con trattative o lotte di "liberazione" perché ci si può liberare dai nemici e si può rivendicare qualcosa di materiale, ma non si può ottenere con una battaglia ciò che manca in una relazione affettivamente significativa. O si cambia assieme o ci si allontana con dolore. Solo un dialogo interno sincero e incondizionato ci permette di cercare altre persone in un clima di rispetto e di disponibilità. Un dialogo interno scadente limita la nostra sensibilità e, se sentiamo poco, non possiamo incontrare davvero gli altri. Quando i genitori temono di “sentire troppo”, cioè di provare emozioni dolorose, interrompono il contatto emotivo con i figli e diventano indifferenti. A volte definiscono “capricci” i bisogni dei bambini per giustificare la propria indisponibilità, oppure sopportano dei veri capricci pur di non affrontare i reali problemi nascosti da sciocche pretese. Altre volte inventano dei doveri pur di ottenere accondiscendenza dai figli oppure inventano colpe per stroncare la loro “eccessiva” vivacità. Anche nelle relazioni di coppia o di amicizia, quando sfiorano la paura di “sentire troppo”, le persone diventano indifferenti ai sentimenti degli altri. Nella vita politica, paradossalmente, proprio l’indifferenza diventa passione condivisa.
L’indifferenza non è una “inclinazione naturale” a cui si “cede” per “malvagità” o per “mancanza di autocontrollo” e non è l’effetto di una “carenza” nello sviluppo psicologico. Si prova poca compassione per gli altri semplicemente perché si prova poca compassione per sé. Entrambe le pseudo-spiegazioni dell’indifferenza, quella svalutante dei moralisti e quella “carenziale” di molti psicoterapeuti, sono in realtà tentativi di evitare le domande scomode che portano a risposte scomode, cioè dolorose. In altre parole, le pseudo-spiegazioni dell’indifferenza sono, in fondo, una forma di indifferenza espressa su un piano intellettuale. Le persone si dissociano dal proprio dolore e così diventano indifferenti al dolore delle altre persone ed al dolore che esse stesse provocano. Sia il “sentire poco”, sia l’emotività deformata inondano l’arte, la letteratura, le religioni, la filosofia, la politica, la cultura. Il dolore è assente dalla comunicazione “colta” come dalla comunicazione “di massa”. L’indifferenza regna in tutti i regimi, a tutte le latitudini, in tutte le famiglie. Regna in modi non identici, ma simili. In un paese si è indifferenti ad una lapidazione, in un altro ad una missione militare “necessaria”, ma in tutti gli angoli del mondo gli adulti sono indifferenti al dolore dei bambini e tollerano con indifferenza di essere trattati con indifferenza (e quindi sfruttati, controllati, oppressi) dai loro simili e dalle autorità costituite.
Sarebbe in fondo bello se fossimo vittime di un potere violento e spietato. Un potere che ci programma la vita sociale e che ci manipola la mente. Una situazione di questo tipo sarebbe preferibile perché qualche scintilla di libertà, di passione e di razionalità comunque sfuggirebbe al controllo e prima o poi il dissenso irromperebbe nell’ordine insensato della società, provocherebbe una benefica rivoluzione e trasformerebbe il presente. Prima o poi, come nel film di Francois Truffaut (Fahrenheit 451) troveremmo un libro da imparare a memoria e ricostituiremmo nel bosco una società di "saggi" destinata ad espandersi. Purtroppo la saggezza non dipende principalmente dai libri, ma dalla possibilità di trascorrere i primi anni in una famiglia accogliente. Il potere esterno ci condiziona, ma superficialmente e solo l’indifferenza che noi stessi creiamo è determinante. C’è un terrore “originario” che genera mostri prima che il potere costituito si adoperi per perfezionare tali mostruosità in una direzione socialmente definita. Il terrore originario è quello dei bambini trattati con indifferenza. Non ascoltati, non accarezzati, non confermati nei loro entusiasmi, non compresi nelle loro sofferenze, considerati come “oggetti da far crescere” e non come soggetti in formazione.
La tragicità costitutiva dell’esistenza umana si è in questo modo complicata. L’avventura umana “originaria” consistente nel costruire felicità in una realtà limitata e a volte molto dolorosa si è trasformata in una routine di distrazioni, pregiudizi, illusioni, sintomi psicologici, conflitti personali, interpersonali e sociali. Proprio tale trasformazione rende particolarmente importante l’analisi delle ragioni dell’irrazionalità, perché possiamo “tornare” alla nostra avventura di vivere nella gioia e nel dolore solo disattivando la normale irrazionalità e la normale indifferenza.