Pur
facendo tesoro delle ricerche di alcuni autorevoli filosofi e psicologi, sono
arrivato a mettere in discussione le più comuni convinzioni etiche, religiose,
psicologiche e politiche che attraversano la cultura e giustificano
l’organizzazione sociale. In certi momenti, quindi, mi chiedo se le potenzialità
psicologiche di cui parlo siano solo un’idea “poetica” a cui mi sono aggrappato
nel corso di una sorta di prolungata crisi mistica. Cosa c’è di “umano” nella
passiva adesione di tante persone ad ideologie razziste, moraliste e violente,
a mode stupide e a religioni non plausibili? Mi chiedo, quindi, se non sia il
caso di buttare nella spazzatura l’idea del potenziale espressivo, delle difese
psicologiche e della ricerca della felicità. L’umanità forse cerca solo di
sopravvivere anche se in modi più complicati di quelli delle zanzare e degli
squali. Cosa c’è di bello nella gente che si sente tanto “buona” a Natale o che
sposandosi prende impegni che poi cerca, con l’aiuto degli avvocati, di
annullare nelle cause di divorzio? Forse le persone fanno sesso solo “spinte” dalla chimica e non “trascendono”
proprio un bel niente; forse non cercano né evitano l’intimità, dato che
l’intimità potrebbe essere solo una parola vuota. Forse; quindi, le persone non
sono né razionali, né irrazionali o almeno non lo sono come sembra a me. Forse,
a maggior ragione, non costruiscono nemmeno società irrazionali, ma costruiscono società “fatte così”. Quindi, può
anche diventare superfluo qualsiasi discorso sui bisogni dei bambini, sullo
sviluppo emotivo e sulla felicità: se i bambini devono diventare produttori,
consumatori e, all’occorrenza, soldati è meglio che vengano educati alla
competizione, alla realizzazione nel lavoro e all’accettazione delle
tradizioni, delle consuetudini e delle mode. E’ meglio che diventino “normalmente
strani” e che solo nei casi più gravi vengano affidati a psicoterapeuti intenzionati
a farli tornare normalmente strani. Può quindi essere utile che imparino a
“controllarsi” e ad accettare i controlli sociali per sentirsi normali in una
società normale.
Quando mi affiorano questi dubbi, che riguardano la
mia intera vita e non solo le pagine che scrivo, cerco di riesaminare i fatti
che conosco e proprio grazie a tale riesame torno a confermare le
mie convinzioni sulle potenzialità personali. Quale che sia la nostra “storia
antica” o la nostra provenienza dal regno animale o da Marte o da “altre vite”,
noi trascorriamo il tempo fra la nostra nascita
e la nostra morte sapendo di essere
le stesse persone che eravamo ieri e che saremo domani e sapendo di essere
persone autonome, ma desiderose di interagire con altre persone e di poter
anche essere felici in particolari tipi di interazione con particolari persone.
Sappiamo anche di essere vulnerabili e mortali e quindi sentiamo compassione
per noi stessi e per le persone care (e, in qualche misura, nei confronti di
tutti i nostri simili e anche nei confronti dei nostri nemici, dei nostri
animali e degli animali di cui abbiamo solo visto foto o filmati). Sappiamo,
quindi, di essere unici, diversi da tutti, ma “fratelli di tutti” nell’attesa
della morte. Questo ambito di possibilità è “reale” e non è un mio ideale.
Questi pensieri e stati d’animo apparterrebbero facilmente a tutti se non
fossero attive quelle difese dal dolore che nel mio studio alcune persone cercano
di analizzare, ma che i moralisti e gli psicoterapeuti non vogliono analizzare.
Ancorandomi a questi fatti, torno a considerare irrazionali il capitalismo
globalizzato, i fanatismi religiosi, nazionalistici e consumistici, le droghe,
la burocrazia, le ideologie, l’etica, la psicoterapia, le discoteche e la Formula
Uno.
Se queste considerazioni mi calmano, alcuni fatti mi
liberano completamente dai dubbi. Un cliente inizia la seduta dicendomi “le
solite cose” con un sorriso che sarebbe adatto ad un suo gemello scemo (o
“diversamente intelligente”); lavoriamo sulle colpe che non ha,
sull’indifferenza della sua compagna e sul fatto che non prova alcun reale
desiderio di sorridere. Si commuove, combatte con il pianto, poi si lascia
andare solo un po’, ma quanto gli basta per sentirsi più solo e meno colpevole.
Poi mi saluta con un sorriso bellissimo. Un altro cliente, incallito donnaiolo e
sempre in ansia per la carriera, un giorno mi dice: “Mi è capitata una cosa
strana: credo di aver fatto l’amore con una ragazza. Prima di vederla avevo
ascoltato in macchina un blues dolcissimo e mi ero sentito solo. Sai che per me
è difficile piangere, ma un po’ ho pianto e dopo non ho voluto mettere da parte
quella cosa. A letto con quella ragazza ho sentito che con lei avrei anche
potuto piangere e che mi avrebbe capito. Non ho pianto con lei, ma non ho fatto
‘solo’ sesso. Alla fine mi sono sentito strano. Forse quello è fare l’amore”.
Una cliente mi dice di aver finalmente “osato”. Le chiedo cosa abbia osato fare
e mi risponde: “Ho fatto il “compito” che mi avevi dato da molto tempo e che da
allora rinviavo: sentendo le prime avvisaglie di un attacco di panico ho evitato di chiedermi se sarei
riuscita a calmarmi e mi sono fatta la
domanda che mi suggerisci: “cosa vorrei ora, che non posso avere?”.
Partendo da lì, mi sono chiesta se fossi pronta a morire in quel momento. Ho
sentito che prima di morire avrei voluto stare almeno un minuto fra le braccia
di mia madre e sono scoppiata in un pianto profondo. Ho anche avuto il coraggio
di non spezzare quel pianto e alla fine il cuore batteva calmo, le mani non
erano sudate e ho pensato che sarebbe stato inutile andare da mia madre. Hai
ragione, sono troppo vecchia per riempire quel vuoto e ho bisogno di
accettarlo. Hai ragione anche sul fatto che è stupido che io cerchi di calmarmi
se sono io a farmi venire gli attacchi di panico per non accettare tutte le
ondate del mio lungo pianto”.
Sono proprio questi i fatti che mi fanno ritenere di
non aver proiettato delle idee personali stravaganti sull’esistenza degli
esseri umani o sulla convivenza sociale. Ogni volta che supero una “crisi” di
questo tipo riprendo a scrivere sulle cose che riesco a capire e torno a
pensare che conta davvero poco che le conoscenze siano sottoscritte da tante
persone, se spiegano realmente i fatti. La terra era più o meno sferica anche
quando le “conoscenze condivise” stabilivano che fosse piatta e i neri in
Sudafrica erano esseri umani anche quando erano trattati come esseri
“inferiori”. E’ difficile dubitare delle certezze condivise perché quel dubbio
crea un senso di solitudine che fa paura. Eppure non siamo costretti a negare
la conoscenza e possiamo accettare la solitudine. Possiamo scegliere una consapevole solitudine che rinsalda
il rapporto con noi stessi e che ci consente una reale intimità con le persone
disponibili ad un contatto autentico. E possiamo rinunciare ad un’illusoria appartenenza ad una
società che nega il dolore e offre “qualcosa” che non c’è. La felicità
possibile ha un costo: la consapevolezza e l’accettazione della solitudine.
L’analisi dell’irrazionalità
conduce sempre alla solitudine dei bambini, cioè al dolore che i bambini non
riescono ad affrontare. Purtroppo, anche gli adulti sperimentano una profonda
solitudine. In genere non se ne rendono conto perché sono impegnati a restare
dissociati dal dolore della loro infanzia, ma se interrompono le loro inutili
battaglie difensive scoprono di desiderare relazioni sincere e intense. Se
riconoscono questo desiderio si sentono soli percependo che i loro simili
troppo spesso usano l’intimità, le relazioni e la convivenza sociale per attuare
le loro strategie difensive. La solitudine degli adulti, a differenza di quella
dei bambini, è tollerabile, ma è comunque dolorosa. Ci si sente terribilmente
soli con una persona che è presente ma ci tratta come se fossimo qualcun
altro (un “punto di riferimento” o un oppressore). Lawrence ha espresso questa consapevolezza con
parole semplici e terribili: “negli occhi di chi mi amava ho visto solo
l’immagine di altri scambiati per me” (in 2008-selection, p. 167). Questa
solitudine non si sperimenta solo nei rapporti personali in cui si fa un gesto
e dall’altra parte “scatta la reazione” (vittimistica, adorante o svalutante),
ma si sperimenta anche nella partecipazione alla vita sociale.
Noi non desideriamo solo
rapporti intimi, ma desideriamo vivere in una comunità, non in un formicaio.
Eppure nella comunità le “formiche umane” occupano moltissimi spazi. Non so se
considerare più devastanti le “formiche indifferenti” o quelle “divoranti”, ma
so che il desiderio reale e ragionevole
di far parte di una comunità cozza con le difese psicologiche dei singoli e con
quelle divenute cultura e organizzazione sociale. Le mandrie spaventate possono
darsi ad una fuga priva di scopo e centinaia di animali possono anche cadere
nel vuoto se nella direzione della fuga trovano un precipizio. Milioni di cani
addomesticati che regolarmente trovano il cibo in una ciotola continuano inutilmente
ad annusare tutte le tracce presenti in un parco come se vivessero ancora di
caccia e dovessero raccogliere informazioni sulle prede e sui predatori. Tali
comportamenti non sono umani, ma altri comportamenti “umani” hanno le stesse
caratteristiche. Milioni di persone con la coscienza annebbiata si ammucchiano
nelle autostrade quando scatta il segnale sociale delle vacanze e lo fanno con
la stessa precisione con cui gli uccelli migratori si trasferiscono da un luogo
all’altro (ma in genere con “ragioni” meno realistiche di quelle degli
uccelli). “Quelli di Milano vanno ad Amburgo, quelli di Amburgo vanno a
Barcellona, quelli di Barcellona vanno ad Oslo, quelli di Oslo vanno a Milano.
Il ciclo si chiude. E’ un gioco che diventa frenetico durante l’estate. Sembra
allora di vedere una di quelle scene di film in cui l’azione è accelerata ad
arte; tutti corrono a scatti di qua e di là. Dove vanno? Che cercano? (…) Una
volta accolta l’idea sbagliata che la cultura debba essere accumulo,
anziché digestione di alcune cose ben scelte, era inevitabile che ci si
rivolgesse sempre più massicciamente a quei beni culturali che sono di più
facile acquisizione, quelli che non richiedono sforzo o che, meglio ancora,
procurano svago: romanzi, spettacoli (oltre ai viaggi naturalmente)” (Toraldo
di Francia, 1978, pp. 89-92).
Queste osservazioni sono
corrette, ma non credo sia solo la pigrizia a renderci più simili alle mandrie
che ai membri di una comunità. La paura di sentire è più forte della
"pigrizia". Le persone che
risiedono in Sardegna e vanno a trascorrere le vacanze alle Baleari perché
“amano il mare”, non sono pigre e aggrappate ad un bisogno di accumulare, ma vanno (in coppia o in famiglia) a
litigare alle Baleari per non accettare che anche nei loro litigi quotidiani non
c’era nulla su cui litigare. Non c’era proprio nulla. Lo spostamento
costituisce solo la prova (fasulla) dell’esistenza di qualcosa che manca. La
“fame di esperienze” interrompe la consapevolezza del dolore di una solitudine
reale e attuale determinata proprio dalla presenza dei nostri simili.
Le fughe da una solitudine antica, mai accettata e superata, si traducono in
una frenetica adesione a tutte le sciocchezze divenute moda o ideologia o
frenesia collettiva e generano una nuova solitudine in chi desidera qui ed
ora incontrare altre persone per fare cose realmente divertenti,
intelligenti, utili e creative.
In fondo, gli studiosi, i politici,
i giornalisti sono persone come le altre e attivano nella vita pubblica le
stesse dissociazioni che attivano nella vita privata. In questo modo anche la
cultura (o almeno la parte irrazionale della cultura) genera solitudine negli
adulti perché, sia in quanto cultura intellettuale, sia in quanto cultura
popolare, limita o distorce la conoscenza degli “spazi” in cui l’incontro fra
le persone è possibile. Molte persone che impazzirebbero se i figli fossero
privati del cibo per un solo giorno, vivono tranquillamente sapendo che milioni
di loro simili guardano ora dopo ora e giorno dopo giorno i loro figli deperire,
per poi vederli morire. E non sono persone disinteressate a ciò perché
disinformate, e nemmeno perché disinteressate alla società in generale: sono
molto interessate alla società, ma trovano particolarmente intriganti i
problemi di cui parlano tutti. E’ decisamente bizzarro il fatto che economisti,
statisti e “masse” di tutto il mondo minimizzino un problema come la
coesistenza di miseria e spreco. Sorge quindi una domanda terribile: con i
nostri simili condividiamo davvero qualcosa?
Si può obiettare che le persone
non possono occuparsi di tutti i problemi e questo è verissimo, ma tra il
semplice “non occuparsi” direttamente di un problema e l’indifferenza al
problema esiste un salto notevole. E poi, non è vero che le persone non si
occupano dello sfruttamento economico nella società, dell'infelicità nelle
relazioni di coppia o della normale infelicità dei bambini perché non hanno il
tempo o la capacità o l’energia per farlo. Di fatto si occupano di moltissime
cose: esibire le proprie capacità per ottenere ammirazione o le proprie
incapacità per ottenere accudimento, litigare con i famigliari, seguire nei
dettagli i programmi politici che ignorano le questioni più gravi, seguire la
moda, seguire le mode intellettuali senza interrogarsi sui motivi per cui sono
cambiate, seguire le diete religiose e le norme religiose per indurre una
divinità permalosa a dispensare premi anziché punizioni, seguire altre norme
alimentari per campare il più a lungo possibile senza "vivere
davvero", ecc. Le persone normalmente non si occupano dei problemi che riguardano la loro vita reale e
quella dei loro simili per motivi che non hanno nulla a che fare con i loro
limiti: non se ne occupano perché si
occupano di normali assurdità.
Gli esseri umani hanno la capacità e quindi la possibilità di
vivere una vita non riducibile agli schemi dell’etologia. La vita sociale delle
formiche è un monumento alla noia, ma anche quella degli animali più complessi
è molto noiosa. Sicuramente la vita degli animali che vivono in branco è più
piacevole e interessante della vita di una sanguisuga, ma anche i rituali del
branco hanno una notevole ripetitività: i maschi che combattono per la
dominanza, le femmine che inevitabilmente seguono il più forte, tutti i membri
del gruppi inchiodati al loro ruolo. In fondo una mandria di bisonti è
“stupida” come uno sciame di zanzare. Noi umani non siamo obbligati a vivere
quel tipo di socialità: possiamo conoscerci, incontrarci e inventare il nostro
futuro. Abbiamo la possibilità di progettare la nostra esistenza individuale,
sperimentare relazioni intime e costruire una comunità. Abbiamo questa
possibilità, almeno in linea di principio, ma, di fatto, che ne è di questo
incredibile potenziale?
Ricordo una notte di molti anni
fa in cui stavo tornando a casa in auto e mi trovai imbottigliato in un
traffico inspiegabile a quell’ora. Io non ero nemmeno al corrente del
campionato di calcio, ma la squadra italiana aveva vinto la partita “decisiva”.
Il frastuono dei fischietti, dei clacson, le persone che si sporgevano dai
finestrini, le bandiere. Mi sentii risucchiare in un vortice in cui nulla aveva
senso: il fatto puramente casuale e oggettivamente “amministrativo-burocratico”
della cittadinanza italiana di tante persone era stato trasformato nel fatto
del tutto immaginario di una “appartenenza” all’Italia e, quindi, ad una
nazione divenuta "speciale" perché undici ragazzi pieni di quattrini
avevano infilato una palla in una rete. Che ne è della bellezza del pensiero
che libera dalle tenebre, del contatto che cancella l’isolamento, dell’azione
che trasforma la realtà? Che ne è di tutta questa bellezza quando il pensiero
diventa ottusità interpretata come “appartenenza” o come “adesione a valori
condivisi”? La solitudine degli adulti non è intollerabile come quella dei
bambini, ma è immensa. Ci sono molte cose che sembrano umane, ma, se guardate
con attenzione, rientrano negli schemi prevedibili di un termitaio o della
risalita di un fiume attuata da salmoni del tutto incapaci di chiedersi perché
si trovino lì’ a fare tanta fatica. Quando tutti si uniscono nel negare
un’evidenza, la forza che unisce tali estranei in una menzogna condivisa è
sicuramente potente, ma impersonale, oggettiva, come quella che determina la
cooperazione in un alveare.
Gli animali in fondo sono soli.
Hanno a volte sensazioni (autentiche) di contatto con i loro simili e persino
con noi umani, ma fondamentalmente eseguono schemi rigidamente prestabiliti dal
loro patrimonio genetico. Il nostro patrimonio genetico non ci impone di fare
nulla in particolare, ma ci consente di fare moltissime cose fra quelle
possibili. Se, come le termiti o i salmoni, ripetiamo dei rituali, spesso
assurdi, non siamo vittime del passato remoto o della cieca selezione naturale,
ma siamo inchiodati ad un passato prossimo (la nostra infanzia) in cui abbiamo
preso decisioni inconsce che continuiamo diligentemente a tradurre in azioni.
Per un irrigidimento della nostra raffinatissima coscienza finiamo troppo
spesso per fare meccanicamente molte cose prevedibili come quelle che altri
animali fanno per via della loro mancanza di coscienza. Siamo sicuramente
animali capaci di autocoscienza e di razionalità, ma anche capaci di pensare, sentire
ed agire bloccando la nostra coscienza e la nostra razionalità. In questo modo creiamo
esperienze non necessarie di solitudine.
La solitudine attuale, reale, di
noi adulti può essere attenuata solo dalla nostra scelta di farci compagnia e
di rinunciare alle sicurezze illusorie. Può, quindi, essere attenuata dalla
nostra determinazione ad incontrare davvero, se ne abbiamo l’occasione, le
persone che sono realmente disposte (in qualche modo e in qualche misura) ad
incontrarci. Le persone sono “mondi” perché ogni attimo della loro vita
rinvia a tutti gli altri attimi che hanno vissuto e ai modi in cui li hanno
compresi (o fraintesi). Purtroppo gli attimi delle storie dei mondi personali
sono spesso fraintesi e diventano attimi “vuoti”. Normalmente il livello di
indifferenza delle persone è elevato e determina anche una “indifferenza
all’indifferenza”: in una società di persone indifferenti si resta scossi solo
se qualcuno supera certi limiti e si considerano “particolarmente sensibili” le
persone semplicemente umane. Nonostante ciò, le persone restano persone al di
là della loro paura.
Una cliente, che chiamerò Carla,
mi descrisse nel suo primo colloquio il marito come una persona che era “presa”
da molte cose, ma non dalla relazione di coppia. Non la tradiva con altre
donne, ma “la tradiva” con amici, colleghi, impegni lavorativi ed
extralavorativi. Portava a casa i resoconti della propria vita sociale che era
la sua “vera vita”. Una vita che includeva l’impegno politico, la dedizione
alla professione, la passione per lo sport. La famiglia era il luogo del
“riposo del guerriero”, non la prima estensione della propria interiorità.
Comprese nelle sedute successive che il marito temeva di ammettere il bisogno
di una forte intimità e iniziò a dargli dei segnali di accoglienza
incondizionata rinunciando a sentirsi vittima del suo "egoismo".
Piangendo per ciò che non era un’ingiustizia, ma una mancanza, aveva liberato
energia per migliorare la situazione. Il marito accettò il miglioramento del
clima domestico, ma continuò a “vivere fuori”. Una volta lei gli parlò di ciò che
sentiva, dei propri desideri e di ciò che le mancava e lui la guardò perplesso,
dicendole “Io non so se riesco a capire davvero ciò che mi dici”.
C. Ho fissato i suoi occhi e ho
visto che era spaventato. Hai presente i film del terrore, quando sta per
uscire l’assassino o il mostro dalla penombra? Aveva quello sguardo, ma non
c’erano assassini o mostri. C’ero io con il mio amore e con il mio desidero di
vivere davvero con lui. Quando in passato lo accusavo, non mostrava quello
sguardo perché io evitavo il vero problema e lui era sempre sicuro di gestire
il conflitto. Ora, invece, era spiazzato.
GF. Cosa hai sentito?
C. Tenerezza per lui. E anche
una grande solitudine mia. Ho cercato di non piangere in quel momento perché
avrei peggiorato la situazione, almeno per lui. Abbracciandolo gli ho detto
solo che gli volevo bene e che avremmo fatto ciò che era possibile. Ho pianto
dopo, per lui e per me.
I rapporti di coppia o fra
genitori e figli o fra persone legate da amicizia, se sono insoddisfacenti o
sbilanciati, non possono essere migliorati con trattative o lotte di
"liberazione" perché ci si può liberare dai nemici e si può
rivendicare qualcosa di materiale, ma non si può ottenere con una battaglia ciò
che manca in una relazione affettivamente significativa. O si cambia assieme o
ci si allontana con dolore. Solo un dialogo interno sincero e incondizionato ci
permette di cercare altre persone in un clima di rispetto e di disponibilità.
Un dialogo interno scadente limita la nostra sensibilità e, se sentiamo poco,
non possiamo incontrare davvero gli altri. Quando i genitori temono di “sentire
troppo”, cioè di provare emozioni dolorose, interrompono il contatto emotivo
con i figli e diventano indifferenti. A volte definiscono “capricci” i bisogni
dei bambini per giustificare la propria indisponibilità, oppure sopportano dei veri
capricci pur di non affrontare i reali problemi nascosti da sciocche pretese.
Altre volte inventano dei doveri pur di ottenere accondiscendenza dai figli
oppure inventano colpe per stroncare la loro “eccessiva” vivacità. Anche nelle
relazioni di coppia o di amicizia, quando sfiorano la paura di “sentire troppo”,
le persone diventano indifferenti ai sentimenti degli altri. Nella vita
politica, paradossalmente, proprio l’indifferenza diventa passione condivisa.
L’indifferenza non è una
“inclinazione naturale” a cui si “cede” per “malvagità” o per “mancanza di
autocontrollo” e non è l’effetto di una “carenza” nello sviluppo psicologico.
Si prova poca compassione per gli altri semplicemente perché si prova poca
compassione per sé. Entrambe le pseudo-spiegazioni dell’indifferenza, quella
svalutante dei moralisti e quella “carenziale” di molti psicoterapeuti, sono in
realtà tentativi di evitare le domande scomode che portano a risposte scomode,
cioè dolorose. In altre parole, le pseudo-spiegazioni dell’indifferenza sono,
in fondo, una forma di indifferenza espressa su un piano intellettuale. Le
persone si dissociano dal proprio dolore e così diventano indifferenti al
dolore delle altre persone ed al dolore che esse stesse provocano. Sia il “sentire
poco”, sia l’emotività deformata inondano l’arte, la letteratura, le religioni,
la filosofia, la politica, la cultura. Il dolore è assente dalla comunicazione
“colta” come dalla comunicazione “di massa”. L’indifferenza regna in tutti i
regimi, a tutte le latitudini, in tutte le famiglie. Regna in modi non
identici, ma simili. In un paese si è indifferenti ad una lapidazione, in un
altro ad una missione militare “necessaria”, ma in tutti gli angoli del mondo
gli adulti sono indifferenti al dolore dei bambini e tollerano con indifferenza
di essere trattati con indifferenza (e quindi sfruttati, controllati, oppressi) dai loro simili e dalle autorità costituite.
Sarebbe in fondo bello se
fossimo vittime di un potere violento e spietato. Un potere che ci programma la
vita sociale e che ci manipola la mente. Una situazione di questo tipo sarebbe preferibile
perché qualche scintilla di libertà, di passione e di razionalità comunque
sfuggirebbe al controllo e prima o poi il dissenso irromperebbe nell’ordine
insensato della società, provocherebbe una benefica rivoluzione e
trasformerebbe il presente. Prima o poi, come nel film di Francois Truffaut (Fahrenheit
451) troveremmo un libro da imparare a memoria e ricostituiremmo nel bosco
una società di "saggi" destinata ad espandersi. Purtroppo la saggezza
non dipende principalmente dai libri, ma dalla possibilità di trascorrere i
primi anni in una famiglia accogliente. Il potere esterno ci condiziona, ma
superficialmente e solo l’indifferenza che noi stessi creiamo è
determinante. C’è un terrore “originario” che genera mostri prima che il potere
costituito si adoperi per perfezionare tali mostruosità in una direzione
socialmente definita. Il terrore originario è quello dei bambini trattati
con indifferenza. Non ascoltati, non accarezzati, non confermati nei loro
entusiasmi, non compresi nelle loro sofferenze, considerati come “oggetti da far
crescere” e non come soggetti in formazione.
La
tragicità costitutiva dell’esistenza
umana si è in questo modo complicata. L’avventura umana “originaria”
consistente nel costruire felicità in una realtà limitata e a volte molto
dolorosa si è trasformata in una routine di distrazioni, pregiudizi, illusioni,
sintomi psicologici, conflitti personali, interpersonali e sociali. Proprio
tale trasformazione rende particolarmente importante l’analisi delle ragioni
dell’irrazionalità, perché possiamo “tornare” alla nostra avventura di vivere nella
gioia e nel dolore solo disattivando la normale irrazionalità e la normale
indifferenza.